Perché non possiamo non dirci comunisti
- di Slavoj Zizek -
Nella scena finale di "V for Vendetta" (2006), migliaia di londinesi disarmati mascherati da Guy Fawkes marciano verso il Parlamento; lasciato senza ordini, l'esercito permette loro di entrare nel palazzo: il popolo si impadronisce del potere. Quando Finch chiede a Evey quale sia l'identità di V, lei risponde: «Era tutti noi». D'accordo, un bel momento d'estasi, ma venderei mia madre come schiava per poter vedere "V for Vendetta, parte II": che cosa succede il giorno dopo la vittoria del popolo? Come (ri)organizzarebbero la vita di tutti i giorni?
Sulla scia delle grandi proteste popolari degli ultimi anni - assembramenti di centinaia di migliaia di persone nei luoghi pubblici, da New York, Parigi e Madrid ad Atene, Instambul e Il Cairo - l'«assemblage»[...], i suoi effetti performativi, la sua capacità di sfidare le relazioni di potere esistenti sono divenuti un argomento di moda nella riflessione teorica. E tuttavia verso di esso dovremmo mantenere una certa distanza scettica: nonostante i meriti, lascia immutato il problema fondamentale di come passare dagli assembramenti di protesta all'imposizione di un nuovo potere, e della diversità del funzionamento di questo nuovo potere dal vecchio [...]
I rifugiati
Un'idea sotterranea circola fra i delusi della sinistra radicale, ripetizione più morbida della scelta terroristica successiva al movimento del 1968 (Action Directe in Francia e la Baader-Meinhof in Germania, ad esempio): solo una catastrofe estrema (preferibilmente ecologica) può risvegliare le masse e dunque dare nuovo impeto all'emancipazione radicale. La sua versione più recente riguarda i rifugiati: l'ingresso di un ingentissimo numero di rifugiati può forse rivitalizzare l'estrema sinistra europea. Trovo questo ragionamento osceno: a parte il fatto che una simile evenienza intensificherebbe enormemente la violenza xenofoba, il suo aspetto puramente folle sta nel mirare a colmare la lacuna dovuta all'assenza di proletari importandoli dall'estero, e dunque a ottenere la rivoluzione tramite un attore rivoluzionario surrogato...
Certo, potremmo sostenere che le ripetute sconfitte della sinistra siano solo tappe in un lungo processo formativo che potrebbe condurre alla vittoria: ad esempio, Occupy Wall Street ha creato le condizioni per il movimento di Bernie Sanders, che è forse a sua volta il primo passo verso un movimento di sinistra ampio e organizzato. E però, il meno che si possa dire è che, a partire dal 1968, il sistema di potere ha dimostrato una straordinaria abilità nell'utilizzare i movimenti di contestazione come fonte del proprio rinnovamento. Ma se il quadro è così desolato, perché non rinunciamo e non ci rassegniamo a un modesto riformismo? Il problema è, semplicemente, che il capitalismo globale ci mette davanti ad una serie di antagonismi che non è possibile controllare e neppure contenere entro la cornice della democrazia capitalista globale.
Robot e lavoro
Lo slogan «i robot lavoreranno al posto vostro e lo Stato dovrà pagarvi il salario» è stato escogitato nientemeno che da Elon Musk, personaggio emblematico della Silicon Valley, fondatore di SolarCity e di Tesla: la forza lavoro del futuro parrebbero essere i computer, le macchine intelligenti e i robot. E a mano a mano che gli impieghi umani verranno svolti dalle tecnologie, le persone avranno meno da lavorare e finiranno per dovere essere mantenute da trasferimenti governativi [...] Dunque oggi l'unica vera domanda è questa: sosteniamo la predominante accettazione del capitalismo come fatto di natura (umana), o l'odierno capitalismo globale contiene antagonismo abbastanza forti da impedirne l'indefinita riproduzione?
Ci sono quattro antagonismi di questo tipo. Riguardano (1) "I beni comuni della cultura" nel suo senso più ampio di capitale "immateriale": le forme immediatamente socializzate di capitale "cognitivo", in primo luogo il linguaggio, i nostri mezzi di comunicazione e istruzione, per non parlare della sfera finanziaria, con le assurde conseguenze della circolazione incontrollata di denaro virtuale; (2) "I beni comuni della natura esterna", minacciata dall'inquinamento umano: i vari pericoli specifici - il riscaldamento globale, la morìa dei mari, ecc. - sono tutti aspetti del deragliamento del sistema complessivo di riproduzione vitale sulla terra; (3) "I beni comuni della natura interna" (l'eredità biogenetica dell'umanità): con le nuove tecnologie biogenetiche, la creazione di un Uomo Nuovo - nel senso letterale di un cambiamento della natura umana - diviene una prospettiva realistica; e da ultimo, ma non da meno, (4) "I beni comuni dell'umanità" stessa, dello spazio condiviso sociale e politico: più globale diventa il capitalismo, più sorgono muri e apartheid, che separano chi è DENTRO da chi è FUORI. La divisione globale viene accompagnata dal nascere di tensionifra nuovi blocchi geopolitici (lo «scontro di civiltà»). Questo riferimento ai beni "comuni" giustifica la rinascita della nozione di comunismo: essa ci consente di vedere le progressive «recinzioni» dei beni comuni come un processo di proletarizzazione di coloro che che vengono così esclusi dalla stessa sostanza della propria vita. Solo il quarto antagonismo, il riferimento agli esclusi, giustifica il termine «comunismo»: i primi tre riguardano di fatto la sopravvivenza economica, antropologica, persino fisica dell'umanità; il quarto, in ultima analisi, riguarda la giustizia. [...]
Il compito che ci troviamo ad affrontare è proprio la reinvenzione del comunismo, un cambiamento radicale che si spinge molto oltre una vaga nozione di solidarietà sociale. Poiché, nel corso del processo storico del mutamento, è il suo stesso scopo a dover essere ridefinito, possiamo dire che il «comunismo» va reinventato in quanto nome di ciò che emerge come scopo dopo il fallimento del socialismo.
- Slavoj Zizek - Pubblicato su La Stampa del 16 giugno 2014 -
(Estratto da: "Il coraggio della disperazione. Cronache di un anno agito pericolosamente" - Ponte alle Grazie)
Un futuro bello e impossibile
- di Benedetto Vecchi -
I paradossi scandiscono da sempre la produzione teorica di Slavoj Zizek. È in base al loro uso smodato che il filosofo sloveno occupa da anni il centro della scena pubblica. È in base ad essi che si è gettato a testa bassa contro le ipocrisie, le contraddizioni della produzione culturale mainstream. Lo ha fatto nel denunciare l’apparente ragionevolezza del politicamente corretto o la tesi sull’attuale sistema di vita come imperfetto, ma che è senza alternative. Zizek ha mostrato e dimostrato che la tolleranza, il rispetto delle minoranze, il diritto alla diversità sono spesso le sbarre che definiscono i confini di un vivere sociale dove sono stigmatizzati gli antagonismi sociali. Per far questo ha attinto a piene mani nella fantascienza, nella musica rock, nelle serie televisive, individuando nella cultura pop il contesto obbligato per decostruire il pensiero dominante. Spesso però i paradossi e le iperboli di Zizek offuscavano il lavoro teorico che vi era alla loro base. Alla fine i paradossi e le iperboli scivolavano via come sabbia. E nulla rimaneva nelle mani del lettore.
Il libro che Ponte alle Grazie, la casa editrice che ha pubblicato gran parte della torrentizia produzione di Zizek, ha mandato alle stampe Il coraggio della disperazione (pp. 412, euro 20), una raccolta di scritti a commento dell’ultimo biennio, scegliendo un registro diverso, a tratti antitetico a quello del passato. Più che fare sfoggio di brillanti paradossi e iperboli, Zizek si propone di fare i conti con i paradossi presenti nelle opere di autori conservatori (Peter Sloderdijk), liberal (Paul Krugman e Joseph Stiglitz) e della cosiddetta «sinistra radicale» che invita a declinare il populismo in senso progressista, perché solo così si riuscirebbe a parlare alla «gente» e al «popolo».
I temi dai quali prende spunto Zizek sono la crescita dei partiti xenofobi in Europa, la crisi dell’Unione europea, la Brexit, l’esperienza politica di Syriza in Grecia, quella di Podemos in Spagna, la novità politica costituita dalle figure politiche di Bernie Sanders e Jeremy Corbin, il politicamente corretto del femminismo statunitense mainstream, la politicizzazione della religione islamica e protestante, il relativismo culturale. Infine, l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Temi dunque legati alla contingenza, perché solo dalla contingenza, afferma l’autore, parafrasando una tesi di Alain Badiou, è possibile fare filosofia.
Il prologo è programmatico. Viviamo in tempi disperati, afferma Zizek, perché non possiamo immaginare nessuna credibile alternativa al capitalismo globale. Risibili sono le proposte di una dolce decrescita o sulla diffusione virale di cooperative sociali e produttive non mercantili. Velleitario è anche il richiamo a fantasmatiche fuoriuscite dal capitalismo fondate su modi di produzioni locali o autoctoni. Sono tutte esperienze che rafforzano il capitalismo, sentenzia Zizek. Giudizio impietoso. E talvolta errato quando affronta il mutuo soccorso o la cooperazione sociale autorganizzata cresciuta in questa ultima decade. I loro limiti, semmai, non vanno cercati nell’incapacità di sviluppare antagonismo, bensì nella visione semplicistica del Politico e dei rapporti sociali di produzione che veicolano.
In ogni caso, vanno proprio nella direzione auspicata da Zizek. Consentono cioè di guadagnare tempo, mantenere aperta la possibilità di sovvertire lo status quo. Sono infatti istituzioni di contropotere aperte a una sperimentazione propedeutica all’accumulo di potenza politica da usare quando le condizioni la richiedono. Più o meno, come Zizek auspicava nel 2015 alla Grecia di Syriza.
Da Slavoj Zizek ci si aspetterebbe un j’accuse contro il «tradimento» di Alexis Tsipras e del suo governo rispetto il referendum vittorioso che chiedeva di non accettare il ditkat della Troika europea. Invece nessun dito puntato, Syriza non aveva alternativa, chiosa Zizek.
L’errore che ha compiuto questo governo di sinistra sta nel non aver immaginato una politica dei due tempi: accettare l’austerity e lavorare ad allargare i margini di iniziativa politica e sociale a favore di operai, impiegati, disoccupati, pensionati. L’austerity, sostiene Zizek, doveva essere usata come leva per modernizzare la struttura statale e come ariete contro l’oligarchia. Bisognava cioè salvare il capitalismo da se stesso per poi immaginare un suo superamento, evocando un celebre passo di un saggio del «marxista irregolare» Yanis Varoufakis, in queste pagine dipinto come l’unico esponente politico lucido sulla portata del braccio di ferro tra la Grecia e l’Unione europea.
In Grecia, la posta in gioco era quella di pensare a come gestire il potere in una condizione sfavorevole, avversa, ricomponendo il nesso tra modernizzazione e lotta di classe. Non c’è rivoluzione se non c’è modernizzazione, sentenzia il filosofo sloveno. La matassa da sbrogliare è quindi sempre quella che solo la Rivoluzione di Ottobre e la vittoria dell’armata rossa in Cina nel 1949 erano riuscite a dipanare. Come governare un paese in una situazione di rapporti di forza sfavorevoli?
Il primo paradosso che va interrogato è dato quindi dal proposito di salvare il capitalismo da se stesso e al contempo immaginare un suo superamento. Ma i paradossi, oltre che interrogati vanno smontati, destrutturati per evidenziare le trappole e gli esiti conservativi dello status quo che contengono. La disperazione può, sì, dare la buona dose di adrenalina teorica, ma poi occorre passare a un più prosaico e niente affatto disperato momento costruttivo, aperto all’impossibile ma ancorato ai rapporti sociali. Ogni momento «destituente» è infatti effimero se non presente al tempo stesso il carattere costituente che l’antagonismo prefigura. Per Zizek l’antagonismo è un misteriosofico «uno che si divide in due», citando nuovamente la frase ad effetto che Alain Baidiou ha usato per immaginare una «politica comunista».
L’encomiabile tentativo di interrogare i paradossi del reale si oscura per le sue ambivalenze. Sono queste che vanno quindi interpellate, sciolte, come nel caso del populismo di sinistra. Zizek svolge una critica pungente al concetto di gente – «la gente non esiste», scrive a ragione Zizek – e al concetto di popolo, unità indistinta ed espressione di un’astrazione tesa a legittimare un sovrano o un parlamento che dovrebbero rappresentarli. Ma quando si trova vis-à-vis con i rapporti sociali di produzione e le soggettività che agiscono in essi, si ritrae per incamminarsi su strade note.
Il populismo è dunque visto, a ragione, come un dispositivo politico che risponde alla marxiana falsa coscienza. Non esiste, infatti, il popolo come unità organica, definita da un territorio e dei confini. Il populismo si costruisce a partire da un Altro da sé, da un esterno che nel capitalismo globale non è lo «straniero», bensì la casta, l’oligarchia, che parassitariamente si appropriano della ricchezza prodotta e che si fanno forti del loro essere senza patria. È il vecchio e mai tramontato «socialismo degli imbecilli», anticamera del fascismo e del nazismo.
A sinistra, invece, i balbettii sulla possibilità di usare il frame populista sono mimetici. Il popolo è un aggregato di operai, disoccupati, precari, ceto medio impoverito, espressioni di interessi sociali e culturali parziali che una sintesi superiore ricomporrà. Da qui la nostalgia della forma politica del partito che ha il potere di ricomporre al suo interno le parzialità in base proprio a una sintesi superiore esterna al popolo. Un miraggio, per Zizek.
Qui la consultazione dei paradossi però si arresta. Zizek richiama la moltitudine in quanto categoria del Politico; ne sottolinea la forza performativa, ma poi scantona perché vi vede tracce di un vitalismo – la potenza del fare, lo «strutturalismo delle passioni» – che l’antropologia filosofia «pessimista» che scandisce il libro avversa, perché considerata, chissà perché, anticamera di una adesione allo status quo. Per Zizek è infatti la disperazione il sentimento che consente di pensare l’impossibile – la rivoluzione, forse -, non la potenza del desiderio o del comune riscoperto come ripetono alcuni teorici marxisti o alcune filosofe femministe (Zizek cita Judith Butler e Frédéric Lordon). Più che la disperazione, viene il sospetto, il coraggio giunge però da quell’esercizio di un ottimismo della ragione, che scommette sull’impossibile intravisto proprio in quelle esperienze di autorganizzazione sociali senza le quali non sarebbe immaginabile pensare l’impossibile.
- Benedetto Vecchi - Pubblicato sul Manifesto del 16 giugno 2017 -
1 commento:
...Certo che oggi la parola comunismo è impronuncibile vista la controrivoluzione effettuata dal 1945 ad oggi. Dove ormai quella spinta controrivoluzionaria si è del tutto esaurita con gli annessi anticomunisti di professione finiti in rovina.
Ma resta sempre lo spettro che è onnipresente che fa paura al borghese al capitalista!
La loro paura che la crisi continui a scavare sempre di più non li fa stare tranquilli, perchè il socialismo esauritosi diventando comunismo è sempre più un bisogno sociale e materiale !
Posta un commento