Il 19 luglio 1870 la Francia dichiara guerra alla Prussia nel generale tripudio patriottico di un’opinione pubblica conquistata dalla stampa imperialista. Con la vera ubiquità del cronista, Edmond de Goncourt si sposta da un quartiere all’altro della capitale per essere quanto più possibile vicino agli avvenimenti, ritrarne la verità istantanea. Nonostante l’elitismo politico e sociale ostentato, egli ci ha lasciato una delle testimonianze più vaste, dettagliate e suggestive del dramma storico che ha vissuto Parigi nel tempo dell’Assedio e della Comune.
(dal risvolto di copertina di: Edmond de Goncourt: L’assedio e la Comune Parigi 1870-1871, Aragno, pp.XXXVI + 284, € 20,00)
L’implacabile azzurro di un cielo colera
- di Pasquale Di Palmo -
«I Goncourt sono dei clown che si pigliano sul serio» scrisse Tolstoj a proposito dei fratelli Goncourt, esponenti di spicco del naturalismo, universalmente conosciuti per la stesura del Journal. Nella celebre foto di Nadar che li ritrae insieme, Edmond e Jules sembra recitino una parte, con quella loro espressione corrucciata e severa, pressappoco la stessa con cui giudicavano il mondo dalle pagine caustiche del loro diario. Erano diversi in tutto, i fratelli Goncourt, a cominciare dall’aspetto: il più giovane, Jules, biondo, mentre Edmond è bruno. Secondo le definizioni di Mario Lavagetto, Jules è lo «stilista» mentre Edmond è il «costruttore». Quest’ultimo, nato a Nancy nel 1822, era più anziano di otto anni rispetto al fratello. Si dedicarono, con trasporto quasi ascetico, barricandosi nel loro appartamento parigino, a una serie infinita di lavori d’arte, di critica e storia, inseguendo vanamente il successo. Titoli che, al giorno d’oggi, sono quasi del tutto dimenticati come L’art du XVIIIe siècle (1859) cui si affianca La femme au XVIIIe siècle (1862), nonché studi sulla Rivoluzione francese, il Direttorio, biografie di Maria Antonietta (appena riproposta da Sellerio), di Madame Pompadour, di Madame du Barry. Ma composero anche pièces teatrali e romanzi, tra cui Renée Mauperin (1864), Germinie Lacerteux (’65), Manette Salomon (’67), Madame Gervaisais (’69).
Il «secolo dei lumi» li intrigava, li incantava. E non poteva che essere così, qualora si consideri che il Journal accoglie una serie impressionante di aneddoti, pettegolezzi, malignità, su tante figure conosciute e sconosciute della seconda metà dell’Ottocento, che sembrano derivare direttamente dall’epoca delle raffinatezze cromatiche dei Watteau, dei Fragonard, degli Chardin. Figure, al contempo, osservate con la medesima perizia con la quale l’entomologo cataloga i suoi insetti. Naturalismo allo stato brado: «Il realismo nasce ed esplode nel momento in cui il dagherrotipo e la fotografia mostrano quanto l’arte differisca dal vero». Memori di quest’asserzione, mettono in caricatura, come il loro amico Gavarni, gli intellettuali del tempo, coi loro tic e i loro vezzi: Sainte-Beuve «ha qualcosa di un batrace»; «Renan «una testa di bue con i rossori e le callosità del sedere di una scimmia»; Flaubert un’«allegria bovina che manca di ogni fascino»; Balzac ambisce a «scoreggiare in società», e via di questo passo. Ce n’è per tutti: da Baudelaire a Gautier, da Zola a Maupassant. Loro stessi non si salvano da quest’autodafé. Jean Borie osserverà che la loro scrittura sarà «sempre combattuta tra le drammatiche lezioni di anatomia e l’estenuante ricerca delle sfumature».
Iniziarono a lavorare al Journal nel 1851 e l’impegno si protrarrà fino alla morte di Edmond, nel 1896. Il sottotitolo di quei loro appunti, che contrassegnano un’epoca, è quanto mai indicativo: Mémoires de la vie littérarie. Non poteva essere che quello, visto che si occupano, tra una cena da Marny e la frequentazione di salotti eleganti, di Verlaine che lascia la famiglia per un adolescente, «superbo della propria abiezione», o di Huysmans impegnato ad Amburgo a frequentare prostitute ungheresi di quindici o sedici anni. Scene di fronte alle quali la bohème descritta da Murger è poco più di un orpello. Lavoravano in perfetta simbiosi, come si arguisce da un passaggio scritto nell’agosto del 1859: «Ieri ero a una delle estremità del grande tavolo. Edmond, all’altro capo, parlava con Therèse. Non sentivo nulla, ma quando sorrideva, sorridevo involontariamente, e con la stessa posa del capo… Non c’è mai stato un simile caso di due corpi e un’anima sola». In un altro sintomatico frammento si legge: «Adulavo l’amore paragonandolo al nostro affetto fraterno». Non è perciò un caso che, alla morte prematura di Jules, avvenuta nella loro casa di Auteuil nel 1870, Edmond venga tacciato, con la stessa insolenza con cui il Journal fustigava i costumi dei letterati, di esserne diventato la veuve. Vedova inconsolabile del fratello, così versato in quell’écriture artiste che, come osserva Lavagetto, faceva «concorrenza alla rappresentazione pittorica che costituirà una delle “insegne” più riconoscibili della ditta Goncourt».
Dopo un inevitabile periodo di prostrazione, Edmond riprenderà in mano il Journal, sollecitato dagli avvenimenti del conflitto franco-prussiano, anche se naturalmente la scrittura non sarà più la stessa, orientandosi verso una descrizione quasi cinematografica dei fatti. L’assedio e la Comune Parigi 1870-1871 (Aragno, pp. XXXVI + 284, € 20,00), tradotto da Vito Sorbello, rappresenta un estratto della versione integrale del Journal, curata dallo stesso Sorbello per Aragno in 7 volumi. Il libro costituisce la testimonianza di Edmond de Goncourt sull’agonia del fratello e sugli eventi storici che caratterizzarono quel biennio controverso che segnò la Francia in maniera indelebile. Come Restif de la Bretonne che fu spettatore «notturno» della Rivoluzione, Edmond si prodiga, con sfrontato piglio di voyeur, al fine di rendere pubbliche vicende che, se non altro, lo distraggono dalla perdita del congiunto (il connubio sarà rievocato nel romanzo, del 1879, Les frères Zemganno). La sua scrittura adesso ha un andamento più nervoso, da cronista che non deve necessariamente indulgere alla riflessione tout court. «Sono triste per mio fratello, triste per la sorte della Patria» confessa. È una nemesi, annunciata dalla scomparsa dell’adorato Jules.
Nonostante la sua posizione politica non brilli certo per essere troppo libertaria («Dove il canagliume danza in tempi di calma, legifera in tempi di rivoluzione»), l’atteggiamento di Edmond è quanto mai rigoroso nella descrizione di quei fatidici giorni. Si sposta, con estrema disinvoltura, da una parte all’altra della città, ansioso di novità, catapultando la propria attenzione da un episodio all’altro. «Da Auteuil a Ménilmontant – scrive Sorbello nella sua introduzione – egli percorre quasi tutti i giorni a piedi la capitale con la vera ubiquità del reporter, ma adottando il punto di vista moderno di Fabrizio a Waterloo». È costretto a nascondere le sue collezioni dedicate all’arte settecentesca e giapponese, di cui sarà un antesignano, che verranno immortalate in La Maison d’un artiste (1881), catalogo che sembra prefigurare l’estetismo di Praz. Quelle stesse collezioni saranno vendute all’incanto, su volontà di Edmond, al fine di patrocinare la fondazione che darà vita a uno dei premi letterari più prestigiosi d’Oltralpe.
Con un approccio quasi stenografico, tutto giocato sul filo dei nervi (i Goncourt stessi si autoproclamarono «i San Giovanni Battista del nervosismo moderno»), in cui non di rado si accendono i colori smaglianti di una tavolozza impressionista, Edmond segue, passo dopo passo, il caotico susseguirsi degli accadimenti: l’avanzata dei prussiani, gli assembramenti formati da militari e borghesi, lo sventramento del paesaggio (vedi il Bois de Boulogne) per creare fortificazioni e linee di difesa, i cannoneggiamenti, il panico, le «mille espressioni di ansietà, di speranza, di disinganno», la nascita della Comune. Non c’è più posto per accogliere facezie o pruderies. «Le pietre qui hanno attualmente il raccoglimento umano delle grandi catastrofi» annota.
Sia che descriva il funerale del figlio di Victor Hugo sia che rammenti i pasti frugali a base di carne di animali zoologici a causa della penuria di cibo (al ristorante Voisin lo scrittore assaggerà sanguinaccio di elefante), Edmond si avventura verso gli eventi capitali, a tratti conquistato dall’eroismo dei comunardi. Si limiterà tuttavia, durante la Settimana di sangue relativa alla repressione della Comune, a osservare il triste epilogo dalla finestra di casa. Ha capito che niente sarà più come prima, che rimarranno per sempre impresse le tracce di quell’«implacabile azzurro di un cielo di colera».
- Pasquale Di Palmo - Pubblicato su Alias del 4 giugno 2017 -
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