Nel 1995 Jeremy Rifkin annunciava, con l'omonimo libro, "la fine del lavoro". L'emblematico titolo rimandava a una visione del futuro nella quale, complice la Terza rivoluzione industriale, sarebbe stato possibile per tutti ridurre le ore di lavoro erogato. All'alba della Quarta rivoluzione industriale siamo costretti a parlare della fine del lavoro pagato, a indicare un'epoca nella quale l'innovazione tecnologica, la robotica e il digitale vengono usati principalmente per ridurre i salari, inducendo ciascuno a lavorare sempre di più per compensare un lavoro che vale sempre di meno. In questi anni, il lavoro gratuito è in rapida crescita - lo ritroviamo nei grandi eventi come Expo, in stage e tirocini sino all'alternanza scuola-lavoro - a normalizzare quello che per lungo tempo è stato un ossimoro: l'impiego di lavoro libero e non pagato. Quali sono le conseguenze della diffusione del lavoro non pagato? È possibile pensare il rifiuto del lavoro ai tempi della precarietà e della disoccupazione? Come, in ultima analisi, muovere verso un modello economico che riconosca il valore del lavoro e della riproduzione sociale?
(dal risvolto di copertina di: Francesca Coin (a cura di): Salari rubati. Economia, politica e conflitto ai tempi del salario gratuito, ombre corte)
Mappe per sfuggire all’inferno del lavoro gratuito
- di Roberto Ciccarelli -
Il lavoro non pagato è il presente, e il futuro, sia nel settore pubblico che in quello privato. In Italia prende la forma del tirocinio nell’alternanza scuola-lavoro resa obbligatoria dalla «buona Scuola» di Matteo Renzi; nel curriculum universitario, nel servizio civile e nel «volontariato» all’Expo o nei bandi del ministero dei beni culturali; nel pagare per lavorare nell’intervallo tra un contratto e l’altro. «Il lavoro gratuito – scrive Francesca Coin, curatrice di un volume collettaneo Salari rubati. Economia politica e conflitto ai tempi del lavoro gratuito (Ombre Corte, pp.133, euro 12) – è un moto di spontanea solidarietà del lavoro nei confronti del capitale, legittima la competizione al ribasso che acuisce la povertà e la diseguaglianza sociale».
Formula Paradossale – un lavoro è tale se è pagato – il lavoro gratuito è un’espressione che traduce la tendenza del capitalismo contemporaneo a estrarre da una forza lavoro impiegata 24 ore su 24 quello che Marx chiamava plusvalore assoluto. Dal punto di vista del salario, questo plusvalore assume le caratteristiche della «dis-retribuzione»: il pagamento di una prestazione in denaro è solo una delle forme della retribuzione, per di più sottodimensionata e ritardata all’inverosimile. L’altra è la promessa «di futuri guadagni e di uno status spendibile nel presente», scrive Marco Bascetta. Oggi si è pagati con la promessa di essere stabilizzati in un ufficio pubblico, o in una cattedra a scuola o all’università, nel lavoro culturale. Oppure con la promessa di ottenere «visibilità» e «contatti» utili per una commessa o un «lavoretto».
Nel lavoro autonomo e nella pubblica amministrazione il lavoro gratuito è una formula che traduce un atteggiamento neo-servile presente nella forza lavoro contemporanea: chi crede nella promessa sceglie di svolgere un lavoro con un’adesione e convinzioni superiori a quelle richieste al lavoro salariato classico. È l’applicazione dei manuali del management delle risorse umane: non obbligare i lavoratori, ma renderli partecipi al proprio auto-sfruttamento in vista di una redenzione cThe non arriverà mai: un’assunzione, un salario vero, tutele sociali e previdenziali che in tutta evidenza non esistono più.
È il «trucco» del diversity management, sostiene Alessia Acquistapace: anche gay, lesbiche, trans o eterosessuali trovano nell’azienda un riconoscimento che non hanno nella società. Per questo sono grati ai datori di lavoro, lavorano di più in condizioni da incubo per tenersi stretti uno dei pochi posti di lavoro da cui possono essere esclusi in ogni momento.
La lettura di Salari rubati permette di interrompere, per un momento, l’ipnosi in cui viviamo: quello che chiamano «amore», partecipazione o promessa è uno sfruttamento che mette al lavoro l’antropologia umana. La critica spietata che il femminismo marxista rivolgeva negli anni Settanta a Marx, oggi può essere estesa alle «buone pratiche» del «capitale umano» (Anna Curcio).
Il nuovo capitalismo ha sussunto il femminile, generalizzato le caratteristiche oblative e volontarie del suo lavoro riproduttivo al lavoro in quanto tale. Allo stesso tempo indebolisce il ruolo maschile del capofamiglia, maschio, portatore del pane in famiglia protagonista della società salariata. Per Cristina Morini il doppio processo di «femminilizzazione» del lavoro (gratuito) e «maschilizzazione dell’esclusione» è «un gioco perverso di comunicazioni paradossali che rende vittime entrambi i generi» nella medesima condizione precaria che esalta la gratuità di un lavoro che ha perso la finalità del lavoro salariato.
Chi si ritrae da questa «economia della promessa» nega la sua disponibilità a essere «occupabile» ed è condannato moralmente: non può tuttavia partecipare a un processo di individualizzazione e colpevolizzazione della condizione lavorativa, ricorda Andrea Fumagalli. Rompere l’ideologia neoliberale dell’homo oeconomicus, basata sull’imprenditorialità di sé (Silvia Federici), significa «monetizzare il lavoro gratuito» per remunerare una riproduzione del lavoro vivo sganciata dal lavoro servile (Christian Marazzi). La miseria esiste, spiega Franco Berardi (Bifo), perché «la nostra attività è ridotta a un salario» pari a zero. Per rifiutare questo lavoro è necessario un reddito di base incondizionato. Formula antica, e attualissima, questa può essere la battaglia della prossima generazione.
- Roberto Ciccarelli - Pubblicato sul Manifesto del 3 giugno 2017 -
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