«Il Medioevo del Seicento»
- di Marcello Simoni -
Se si volesse scrivere un thriller ambientato nel passato, e infondergli il giusto tocco di oscurità, sarebbe arduo scegliere l’epoca storica più adatta. A prestare ascolto a certi appassionati del Medioevo, i più spaventosi flagelli si sarebbero abbattuti sul genere umano tra la fine del mondo antico e l’inizio dell’età moderna. L’apocalisse, in sostanza, sarebbe già avvenuta intorno all’anno Mille. Scavando a fondo, però, ci si rende conto che le cose andarono diversamente. L’evo di mezzo subì la sua buona dose di barbarie, è incontestabile, ma assistette anche alla fioritura delle università, dei comuni e degli scriptoria monastici. La peste nera, per cui è spesso citato, ne segna soltanto l’autunno. Se poi fossimo in vena di fare i pignoli, potremmo scovare dei clamorosi equivoci. Basti pensare ad alcuni fenomeni di lunga durata che incisero in negativo sull’evoluzione religiosa, antropologica e sociale dell’Occidente. Fenomeni giunti a maturazione all’inizio del Seicento, in pieno Barocco. In molti, a questo punto, citeranno con sdegno il Cogito ergo sum e il teorema di Pascal, innalzando i vessilli della ragione e del progresso. E in una certa misura non avranno neppure torto. Il Secolo di Ferro apre le porte a un pensiero nuovo e a una nuova dinamica degli Stati e della politica. Tuttavia non brillò soltanto per i lumi dell’intelletto, ma anche per quelli dei roghi. I fenomeni di lunga durata a cui accennavo sono infatti l’inquisizione e la stregoneria. Spesso, a torto, releghiamo queste «macchie nere» della storia al Medioevo, dimentichi del fatto che stiamo riciclando un cliché mutuato dal Romanticismo. È da lì che proviene la formulazione dei cosiddetti «secoli bui», insieme a una fascinazione letteraria veicolata dal nascente romanzo storico, i cui più celebri esempi sono Ivanhoe e l’Adelchi manzoniano.
Ma se guardiamo oltre Notre-Dame di Victor Hugo, scopriremo che la paura delle streghe non appartiene all’epoca feudale, durante la quale si era più inclini a far
strage di eretici e di saraceni. Catari, Valdesi, Dolciniani, questi sono i nomi attribuiti al Diavolo in quei tempi. Di contro, è l’età moderna a generare le fantasie più oscene e suggestive sulle adoratrici di Diana, rielaborando i concetti della strix dell’epoca classica, del Sabba, dei conciliaboli nelle foreste e delle confraternite di donne dedite a corrompere la purezza — e la noia — dell’ordinamento sociale moderno.
Delle «femmine malefiche» ci parlano numerosi teologi, demonologi e trattatisti del Seicento. Alcuni di questi sono inquisitori, come il milanese Francesco Maria Guaccio, che scrisse il Compendium maleficarum basandosi su fonti francesi e tedesche, ma anche su una persecuzione che lui stesso compì in Renania. In alcune
illustrazioni del suo trattato compaiono donne tramutate in animali selvatici, altre intente ad arrostire bambini e apparizioni del Diavolo voltato di schiena, per farsi baciare l’ano dai suoi adepti. La lista tuttavia si prolunga all’inverosimile. Partendo dalla fine del Cinquecento con la Demonolatria di Nicolas Rémy, si continua con le disquisizioni del gesuita spagnolo Martín Del Rio, autore di un’enciclopedia di magia nera divenuta un autentico bestseller (fu ristampata una ventina di volte), e con il Tableau de l’inconstance di Pierre de Lancre, un giudice francese responsabile di un’estesa caccia alle streghe avvenuta nei paesi baschi. Si rammenti inoltre la diffusione del Formicarius del domenicano Johannes Nider, ripescato dal Quattrocento e dedicato, in parte, agli «inganni dei malefici».
Per farla breve, abbiamo superato di gran lunga le ossessioni degli inquisitori medievali Nicolas Eymerich e Bernardo Gui, e pure i delitti pseudo-apocalittici descritti da Umberto Eco nel Nome della rosa. Se il Sant’Uffizio nasce nel XIII secolo, è a cavallo del Concilio di Trento che giunge al suo massimo potere. Ed è proprio a partire da questo momento che intraprende, in modo tanto sistematico quanto spietato, una guerra intesa da un lato a uniformare la devozione cristiana e dall’altro a castrare ogni residuo folklorico (paganeggiante) sopravvissuto alle epoche precedenti.
Come effetto di ogni azione repressiva, anche in questo caso assistiamo a un rigurgito di fantasie deliranti degne della pittura tardogotica di Hieronymus Bosch.
Fantasie che sembrano perseguitare più i cacciatori delle prede, dal momento che è proprio nei loro scritti che prendono forma. Del resto, malgrado lo sfarzo del Barocco, il Seicento non si può certo definire un secolo felice. Gravato dalla Guerra dei Trent’anni, dalla carestia e da una corrente artistica intrisa di sensibilità macabra, rappresenta un terreno più che adatto a coltivare incubi.
Così si mise a punto, per la prima volta nella storia, un efficentissimo sistema burocratico e di polizia volto a sopprimere i crimini più turpi riconosciuti dalla Chiesa. Le indagini si svolsero mediante la regola del sospetto, celebrata dalla bolla Licet ab initio di Paolo III (1542) e supportata dai non valori dell’intolleranza e della paura del diverso. Le vittime però non furono le sole, presunte streghe. Una delle categorie più a rischio fu quella di scrittori e tipografi, divulgatori di un libero pensiero che sfidava i dettami delle sfere ecclesiastiche. Anche gli illustratori, i gazzettieri, gli attori e persino i compositori di musica non ebbero vita facile.
Stanchi di bruciare gli uomini, si passò quindi ai libri. La Congregazione dell’Indice, nata in clima tridentino da una costola dell’Inquisizione, avviò una tale opera di controllo, emendazione e censura da lasciar basiti molti eruditi del tempo. Non furono soltanto i testi di Calvino e di Lutero a finire tra le fiamme, ma anche quelli di Guglielmo di Occam, Erasmo da Rotterdam, Boccaccio, il De monarchia di Dante e le Satire dell’Ariosto. In uno scambio epistolare tra il segretario cardinalizio Girolamo Aleandro e l’astronomo francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, si arrivò a lamentarsi: «In queste nostre parti (Roma) non si usa stampar libri curiosi, anzi il negotio va tanto restringendosi, che credo ci ridurremo solamente a stampar i messali, e breviari».
Parlavamo però di scrivere romanzi, e a ben vedere sarebbe scortese dilungarsi sul Secolo di Ferro senza spendere una parola sulle opere letterarie che contribuirono a dargli la fama di periodo terribile. Dumas prima di tutti, con I tre moschettieri, descrive un’epoca fatta di avvelenamenti, prelati ombrosi e donne più imprevedibili di qualsiasi fattucchiera. Si tratta di un mondo più complesso e tenebroso del Medioevo. Gli eroi che lo popolano non corrispondono al profilo del cavaliere senza macchia ma, D’Artagnan docet, a quello dell’impertinente con il «genio dell’intrigo». Dell’intrigo e della lingua tagliente, se tiriamo in ballo Cyrano de Bergerac, quello della commedia teatrale di Rostand e pure l’uomo in carne e ossa.
Se infatti il Seicento è un secolo pericoloso per sognare, dà voce al più grande sognatore di tutti i tempi. Nei suoi viaggi metafisici, Cyrano inseguì la luna più di
qualsiasi alchimista o scienziato. Fu filosofo, libertino e narratore dell’immaginifico, l’unico capace di scoperchiare senza filtri il calderone visionario che risiede nel cuore dell’uomo del XVII secolo. E se incarnò l’ideale del linguaggio arguto declamato dalla poesia dell’epoca, nei momenti in cui la favella non gli bastò combatté duellando in punta di spada, o di naso, per opporsi alla grettezza del mondo.
Del resto ogni epoca ha il proprio eroe, o meglio il suo simbolo dell’eroismo. Se per il Medioevo fu il conte Orlando, «ucciso» da Cervantes, per il Secolo di Ferro serve qualcuno in grado di ribaltare la pesantezza della guerra, dell’inquisizione e della censura. In sostanza, un Perseo di calviniana leggerezza che tenderei a riconoscere proprio in Cyrano. In alternativa si dovrebbe cercare nell’ombra, regno incontrastato di un (anti)eroe nato sul chiudersi del Cinquecento per dominare le sale di teatro del secolo successivo. Mi riferisco al Faust di Marlowe, il doctor diaboli che vendette l’anima a Satana pur di accedere a una sapienza sconfinata. E con questa figura si va ben oltre il simbolo, permettendoci di accedere sia alla stregoneria sia all’alchimia, tanto amata durante tutta l’età moderna (basti pensare all’exploit dei Rosa Croce).
Non serve molta fantasia, a questo punto, per immaginarsi gabinetti alchemici celati in monasteri, cripte e palazzi cardinalizi. Anche a Roma, sotto un sole che tinge d’oro le cupole vaticane.
- Marcello Simoni - Pubblicato su Il Corriere/La Lettura del 20 Novembre 2016 -
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