La rivendicazione contro il mondo secondo Blanchot
- di Marco Dotti -
Poche figure hanno attraversano il Novecento filosofico, critico, letterario senza lasciare una sola e afferrabile immagine di sé, disseminandolo però di perduranti, ma sfuggenti, tracce. Una di queste figure è senza dubbio Maurice Blanchot. Narratore e critico letterario, saggista capace di portare la forma-saggio alle sue altezze più estreme, Blanchot è autore che tutti hanno se non letto intercettato, se non cercato incrociato, se non visto sentito nei propri percorsi di lettura o ricerca: Kafka, Derrida, Bataille, Lévinas, Hölderlin, René Char, Foucault. Tutto ciò di cui ci ha parlato, ora ci parla di lui.
Forse per questa ragione Roland Barthes vedeva in Maurice Blanchot una sorta di incarnazione di eroismo letterario, ovvero «l’attaccamento intrattabile a una pratica, cioè la rivendicazione, contro il mondo, di un’autonomia, di una solitudine». Non è un caso, allora, se di Blanchot abbiamo pochissime fotografie attorno alle quali il suo nome, e men che meno la sua pratica, potesse lasciarsi afferrare. Sempre al cuore della questione intellettuale, non si è lasciato monopolizzare. La periferia era il codice implicito di pratica che è oggi fonte di un’attenzione critica sempre crescente, fatta forse eccezione per il nostro Paese dove l’interesse, soprattutto editoriale, è scemato con gli anni o – e questo concerne il lato più strettamente letterario della sua opera – dove la scintilla non è scoccata affatto.
A rilanciare la sfida prova ora l’ultimo, bel numero di Riga (edito da Marcos y Marcos pp. 218, euro 28). È il trentasettesimo del semestrale di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, ed è dedicato proprio a Blanchot per la cura di Giuseppe Zuccarino, uno dei suoi più profondi e meticolosi conoscitori.
Il volume di Riga si apre con gli omaggi ispirati, a firma di René Char, Marco Ercolani, Enzo Campi e Benoît Vincent e prosegue con testi, per lo più incipit da romanzi e racconti (da Thomas l’obscur, Le Très-Haut e Au moment voulu), inediti in italiano e prosegue infine con una corposa silloge di saggi critici, da Lévinas a Pierre Klossowski, da Georges Bataille a Jacques Derrida, fino a Georges Didi-Huberman, Jean-Luc Nancy e Bernard Stiegler, del quale Zuccarino e Paolo Vignola hanno tradotto una lunga conferenza sulla «farmacologia dell’amicizia» risalente al 2011. A questi saggi, antologizzati in traduzione, si affiancano quelli, scritti appositamente per Riga, di studiosi italiani: Alberto Castoldi, Manlio Iofrida, Igor Pegrelfi, Bruno Moroncini, Riccardo Panattoni, Marco Della Greca.
«Se Blanchot si rivolge a tutte le grandi opere della letteratura mondiale e le intesse nel nostro linguaggio», osserva Michel Foucault, «lo fa proprio per dimostrare che queste opere non si possono mai rendere immanenti, che esse esistono al di fuori, che sono nate al di fuori e che, se esistono al di fuori di noi, noi siamo a nostra volta al di fuori di esse. E se manteniamo un certo rapporto con queste opere è a causa di una necessità che ci costringe a dimenticarle e a lasciarle cadere fuori di noi».
Nel suo intervento (Blanchot e il superamento del libro), Zuccarino richiama il giudizio di Foucault, che aveva ad oggetto il rapporto con lo spazio letterario, riportandolo a un tema, quello sull’inquietudine riguardo alla forma-libro, che attraversa tutta l’opera di Blanchot, da Le livre, testo del 1943, passando per Le livre à venir del 1957, fino agli ultimi testi, su tutti L’écriture du désastre, edito nel 1980 da Gallimard.
Se la civiltà, scriveva Blanchot nell’articolo del ‘43, si configura e si riconfigura in termini di rispetto o disprezzo del libro, tanto più che il rogo dei libri è considerato a tutt’oggi, anche in tempi «liquidi», una delle forme più radicali di violenza, la domanda che si pone e ci pone affiora in tutta la sua portata assumendo una carica che con un termine un poco scontato definiremmo «epocale». Chiede infatti Blanchot ne Le livre à venir: «dove va la letteratura?». Risposta: «la letteratura va verso se stessa, verso la sua essenza che è la sparizione».
Non potendo più rispondere a un’esigenza di assoluto, la letteratura, e con essa la forma-libro, perde la propria sovranità sul presente, presentandosi – il discorso di Blanchot poggia qui sul Coup de dés di Mallarmé – come forma futura, come forma possibile del possibile. Che ne è, allora, del libro a venire? Derrida ne trasse un lungo commento, nel 1997, pubblicandolo poi nel suo Papier à écrire (Galilée, 2001): senza supporto il libro infinito evocato da Blanchot poteva infine coincidere con la fine del libro? Fruizione senza limiti, ipertrofia dei mezzi, bulimia di messaggi: le cose spicciole e il tempo della rete sembrerebbero dare ragione al Derrida che, a sua volta, sembra dare ragione a Blanchot. Non fosse che con Blanchot le cose sono più complesse e, ci ricorda Zuccarino, ben più radicali. Ecco, allora, l’attualità di Blanchot, la sua etica in rapporto a quegli «amici lontani» che, rovesciando la formula di Jean Paul («i libri sono solo lettere agli amici lontani»), sono i libri. Il libro è per Blanchot qualcosa che sempre eccede il supporto. Lo eccede e lo precede Forse per questo Foucault parlava di una impossibile immanenza, di un fuori tanto radicalmente, totalmente altro?«Se per una prima volta il libro potesse davvero iniziare», scriveva Maurice Blanchot, «allora già da tempo, per un’ultima volta, sarebbe giunto alla fine». Per fortuna, quel tempo non è ancora giunto. Almeno per noi.
- Marco Dotti - Pubblicato sul Manifesto il 27/6/2017 -
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