Anticapilatismo per il 21° secolo
- Un breve panorama della nuova critica del valore -
di Joelton Nascimento
INTRODUZIONE
In questo articolo si cerca di presentare, per linee generali, alcune delle tesi sostenute dalla Nuova Critica del Valore (NCV), oltre a dei riferimenti circa i suoi precursori. Per NCV si vuole intendere un fronte di lotta delle idee anticapitaliste, che sono nate e si sono sviluppate intorno a dei collettivi teorici che sono oggi pubblicamente presenti, soprattutto attraverso pubblicazioni aperte come, in particolare, le riviste tedesche "Krisis" ed "Exit!".
Cominciamo con lo spiegare che cosa intendiamo per "anticapitalismo". Come ogni "anti", l'anticapitalismo si definisce per mezzo di ciò a cui si oppone. Pertanto, una teoria anticapitalista può essere considerata tale quando rende possibile una definizione elementare di qual è la realtà sociale che si trova sotto la denominazione di capitalismo.
La parola "capitalista" comincia ad essere utilizzata per la prima volta dagli economisti nel 18° secolo, per designare la figura del detentore di beni e valori, i quali vengono da lui impiegati al fine di ottenere profitti. Ad esempio, viene utilizzata in tal senso da Adam Smith (1723-1790) e da Anne Turgot (1727-1781). Se ci limitassimo alla definizione data da questi autori, intenderemmo per capitalismo il sistema economico che ha al suo centro la figura del capitalista.
In tale contesto, anticapitalismo sarebbe soltanto la pratica che combatte la figura del capitalista. Questa definizione, tuttavia, sarebbe estremamente problematica, dal momento che per molti autori di questo periodo, come François Quesnay (1694-1774) e la stessa Turgot, il rappresentante più esemplare di capitalista è il proprietario terriero, e non l'imprenditore industriale (Jessua, 2001). Occorre avere un'idea coerente circa cosa sia il capitalismo, per poter formulare una sua critica intellettuale e pratica.
E' in tal senso che affermiamo che la teoria anticapitalista coerente nasce con il lavoro e con la prassi di Karl Marx (1818-1883) e dei suoi collaboratori. E questo per il semplice motivo che prima non era possibile vedere chiaramente i contorni di quello che sarebbe stato il "capitalismo". Dal punto di vista descrittivo, potremmo considerare il capitalismo come la grande industria, mossa dall'economia monetaria del lavoro salariato, e regolata dallo Stato-nazione.
Si potrebbe anche dire che, ben prima di Marx, c'erano idee comuniste che si aggiravano per la modernità, come quelle del pubblicista francese François Noël Babeuf. E' perfettamente possibile considerare Babeuf un comunista (seppure un comunista "primitivo", o "proto-comunista", dal momento che è con lui che, per la prima volta, si rende esplicito un programma politico e sociale di un egualitarismo di tipo comunista (Vovelle, 2000); si tratta di un politico e di un intellettuale che si unisce alla lunga corrente di tutti coloro che hanno fatto della propria vita una battaglia per la giustizia e per l'equità. Tuttavia, difficilmente potremmo definirlo anticapitalista, dal momento che l'ordine sociale costruito dalla grande industria, mossa dall'economia monetaria del lavoro salariato e regolata dagli Stati-nazione, non si era ancora sviluppata al punto da delineare le sue caratteristiche di base.
Potrebbe forse venire considerato anticapitalista, nel senso che aveva per Quesnay la parola "capitalista; cioè, nel senso di un sistema economico centrato sulla figura del capitalista individuale, il cui esemplare più tipico è il proprietario terriero. E infatti, la più forte delle tesi di Babeuf è contro la proprietà privata della terra, che, secondo lui, dovrebbe essere completamente nazionalizzata e ridistribuita equamente, imposta soltanto come proprietà collettiva.
Tuttavia, la proprietà privata non è un principio in grado di abbracciare nessuno dei principali pilastri del capitalismo menzionati nella nostra descrizione del capitalismo data all'inizio.
Con Marx nasce una teoria anticapitalista come delineamento di una pratica comunista concreta, al di là delle obiezioni morali e delle idealizzazioni intorno ad una società avveniristica.
1. ELEMENTI CENTRALI DEL MARXISMO TRADIZIONALE
Aiutato da una prospettiva storica, Ingo Elbe (2013) ha riassunto in maniera formidabile le letture centrali della teoria marxiana realizzate finora. A suo avviso, come conseguenza degli scritti di Marx, abbiamo nel nostro bagaglio critico il marxismo, ovvero il marxismo tradizionale, cioè le interpretazioni degli scritti di Marx legati soprattutto ai partiti politici e rappresentativi dei lavoratori. Abbiamo, inoltre, i marxismi, ovvero i modi dissidenti di lettura dei testi di Marx.
Fondamentalmente, il marxismo tradizionale è quello canonizzato nelle opere di Engels e di Kautstky, e che sono serviti da base per il cosiddetto marxismo-leninismo. Questa lettura si è abituata e si è adattata interamente agli schemi canonici di lettura rivolti al piano "essoterico"(*Nota*: secondo Marcel Van der Linden, il primo a parlare di un Marx "essoterico" e di un Marx "esoterico" è stato Stefan Breur, nel 1977. Una distinzione, questa, che ha esercitato un ruolo cruciale per Robert Kurz e per gli altri autori della NCV) delle opere di Marx, cioè, ai testi del filosofo e del leader operaio che servivano soprattutto ai fini della divulgazione e dell'agitazione politica. I marxismi dissidenti, specialmente il cosiddetto marxismo occidentale e la Nuova Lettura di Marx (neue Marx-Lektüre) si sono dedicati ad una lettura del Marx "esoterico", cioè, a quei testi marxiani che avevano una densità maggiore e maggior sforzo analitico e critico.
Inoltre, i marxismi dissidenti si sono spesso sviluppati al di fuori dei partiti e anche al di fuori dei grandi istituti di ricerca (ad eccezione della Scuola di Francoforte), nelle condizioni di una sorta di marxismo sotterraneo.
Sempre secondo Elbe, il marxismo tradizionale ha avuto come uno dei suoi canoni più importanti lo "Anti-Dühring "[1877] di Engels. Kautstky non ha mai nascosto il fatto per cui tutti gli intellettuali leggessero Il Capitale di Marx attraverso le lenti di questo libro di Engels; in larga misura, si può dire che il marxismo tradizionale è un "engelsianesimo".
Secondo Elbe, i pilastri del marxismo tradizionale sono tre: 1) la tendenza al determinismo ontologico; 2) l'interpretazione storicistica del metodo formale-genetico; 3) la critica dello Stato limitata al contenuto. Vedremo di seguito, rapidamente, ciascuno di questi pilastri.
1.1 La tendenza al determinismo ontologico
La tendenza al determinismo ontologico è la conseguenza abbastanza diretta del tentativo engelsiano di forgiare la dialettica in quanto metodo di comprensione, anche nei termini della determinazione di causa ed effetto, sia per i fenomeni della natura che per i fenomeno di ordine sociale e storico. La dialettica viene drasticamente suddivisa in "due insiemi di leggi", a partire dalle quali si può concludere che il pensiero o la coscienza può essere inteso come un'immagine mentale passiva del mondo esterno. Vi sono almeno tre deviazioni - si può dire, distorsioni - che vengono realizzate dall'engelsianesimo, rispetto alla concezione marxiana della prassi, e che sono fondanti del marxismo tradizionale.
Secondo Marx, non solo l'oggetto, ma anche l'osservatore dell'oggetto, è mediato storicamente e praticamente, e quindi non è esterno al modo di produzione. Engels, da parte sua, enfatizza il fatto che l'osservazione della natura in sé costituisca una osservazione "materialista".
"Il realismo ingenuo della teoria del riflesso sistematizzata da Lenin e da altri - che rimane prigioniera dell'apparenza cosificata dell'immediatezza di quello che è socialmente mediato, dal feticismo di un in-sé di quello che esiste solamente in una struttura di attività umana storicamente determinata - trova i suoi fondamenti negli scritti di Engels" (Elbe, 2013, p.2/13).
In questo modo, una visione pseudo-materialista mette in relazione, grossolanamente e non-mediatamente, il pensiero e l'essere, la coscienza e la realtà materiale.
Ne "L'Ideologia Tedesca" (1845-1846), insieme a Marx, Engels aveva espresso il concetto di derivazione naturale [Naturwüchsigkeit] come qualcosa di negativo, cioè, avevano enunciato l'idea del superamento delle nozioni e delle leggi sociali, che rimanevano occulte nell'inconscio degli agenti collettivi, come se fossero naturali. Già nel Engels di "Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca" (1886), questo carattere negativo scompare; per lui ora è necessario soltanto applicare coscientemente al mondo sociale, le "leggi generali del movimento" del mondo esterno.
Se nelle "Tesi su Feuerbach" (1845), Marx scriveva che: "Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica" (Marx), Engels riduce la prassi all'attività sperimentale delle scienzw naturali. In generale, "Engels ha mischiato insieme [al marxismo] lo scientismo della sua epoca, lastricando la strada per mezzo della concezione meccanicistica e fatalista del materialismo storico, scambiando il nucleo della teoria sociale della prassi per una dottrina, per una teoria-riflessione contemplativa dello sviluppo" (Elbe, ivi). Ridotta altresì alle "tre leggi della dialettica" ed ai "cinque modi di produzione", la dottrina engelsiana dello sviluppo è stata innalzata dallo stalinismo a categoria della dottrina ufficiale dello Stato. La potenza dello Stato sovietico veniva costantemente proclamata come derivante dalla capacità dei suoi dirigenti di "applicare coscientemente", e di "accelerare", i movimenti della storia in base alla conoscenza delle sue "leggi", in un miscuglio paradossale di volontarismo e di determinismo: la volontà può tutto nella misura in cui sa ed applica la conoscenza alle leggi del movimento della realtà oggettiva indipendente dagli agenti in essa coinvolti.
1.2 L'interpretazione storicistica del metodo formale-genetico
Secondo Ingo Elbe, rispetto a quest'argomento, il marxismo-leninismo è ancora più esplicitamente engelsianesimo. L'interpretazione di Engels della simultaneità storica e logica del libro I del Capitale, è quella dominante nei cento anni che seguiranno alla prima pubblicazione di questo libro.
"Sullo sfondo della concezione di riflessione, Engels interpreta il primo capitolo dl Capitale come una presentazione, simultaneamente logica e storica, della 'produzione semplice di merci', la quale si sviluppa nel senso delle relazioni di lavoro salariato capitalista, 'soltanto spogliata dalla sua forma storica e sviata dagli avvenimenti casuali'. Il termine 'logico' di questo contesto non significa praticamente nulla, se non una 'semplificazione'" (Elbe, ivi).
L'interpretazione engelsiana della critica marxiana dell'economia politica, vista come un'opera fondamentalmente storica, che riflette solo "logicamente" sullo sviluppo storico, è alla base della tesi di Hilferding per cui "secondo il metodo dialettico, l'evoluzione concettuale procede parallelamente all'evoluzione storica". Anche uno dei marxismi dissidenti, il cosiddetto marxismo occidentale, ha in gran parte seguito questa tesi di Engels-Hilferding.
La principale conseguenza di questa tesi è quella una visione del passato secondo categorie e concetti propri delle società capitaliste. Tutta la storia umana diventa, indifferentemente, una storia di appropriazione di lavoro altrui. Tuttavia, la specificità delle categorie valore e denaro viene completamente sottostimata e la distinzione marxiana fra valore e forma valore viene del tutto oscurata.
"Fino agli anni 60, i teoremi di Engels continuano ad essere trasmessi senza che vi siano controversie. Insieme alla sua formula (ancora una volta, tratta da Hegel) della libertà come coscienza della necessità, ed ai paralleli fra leggi naturali e processi sociali, sono serviti a dare sostegno ad un 'concetto di emancipazione' socio-tecnologico conforme alla seguente premessa: la necessità sociale (soprattutto la legge del valore), la quale opera anarchicamente e selvaggiamente nel capitalismo, sarà, per mezzo del marxismo inteso come scienza delle leggi oggettive della natura e della società, gestita e verrà soddisfatta mediante un piano. Non è la scomparsa delle determinazioni delle forme capitaliste, ma è, piuttosto, il loro uso alternativo a caratterizzare questo 'socialismo degli aggettivi' (Kurz) e questa 'economia politica socialista'" (Elbe, ivi).
Osservazioni engelsiane sullo Stato si trovano anche nel " Anti-Dühring", in "Ludwig Feuerbach" e nella "Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" (1884). Queste opere sono i canoni del marxismo tradizionale riguardo al tema, dal momento che vengono usate come chiavi di lettura dei testi di Marx, oppure, indifferentemente, amalgamati a quei testi (Nota: vedi Norman LEVINE "Tragic Deception: Marx contra Engels". Pennsylvania: Clio Books, 1975).
"Nel 'Ludwig Feuerbach', Engels afferma che il fatto per cui tutte le necessità, nelle società di classe, si articolano per mezzo della volontà dello Stato è 'l'aspetto formale del tema - ciò che è auto-evidente'. La questione principale per una teoria materialista dello Stato, tuttavia, è 'qual è il contenuto di questa volontà meramente formale?' La risposta a questa domanda, basata puramente sul contenuto e concernente la volontà dello Stato, è per Engels il riconoscimento del fatto 'che nella storia moderna la volontà dello Stato è determinata, come un tutto, dalle necessità mutevoli della società civile, a fronte della supremazia di questa o di quella classe, ed in ultima analisi dallo sviluppo delle forze produttive e dalle relazioni di scambio’". (Elbe, ivi).
Gert Schäfer (1990, p. 99) aveva ben compreso i limiti di questa concezione engelsiana:
"Più tardi [riferito al 1886] Engels asserì che 'noi tutti' poniamo e dobbiamo porre 'l'accento principale sul calcolo delle idee politiche, giuridiche e simili, così come sulle azioni mediate attraverso tali idee, a partire dalle relazioni economiche di base'. 'E nel fare questo discutiamo del lato formale a beneficio del contenuto: come queste idee, queste rappresentazioni, ecc., nascono'. Engels considerava questa mancanza di mediazione fra contenuto e forma ('ho sempre trovato essere post festum questa mancanza') come uno degli 'aspetti della cosa, che... tutti noi discutiamo, assai più di quanto essa meriti'" (Engels a Franz Mehring, 14/07/1893).
Riprendendo le osservazioni di Schäfer, Elbe si rende conto che, per Engels, lo Stato ed i suoi aspetti politici e giuridici vengono spiegati quasi interamente attraverso il suo potere e la sua appartenenza di classe. "A partire da questo modo di considerare lo Stato come fissato storicamente-universalmente nel suo contenuto, si può dedurre che Engels perde di vista la questione realmente interessante, soprattutto, riguardo al perché il contenuto di classe nel capitalismo assume la forma specifica di pubblica autorità" (Elbe, ivi).
La conseguenza più importante di questa visione ristretta del marxismo tradizionale è che esso concepisce la pianificazione economica statale e la socializzazione diretta come equivalenti. Il compito del movimento operaio diverrebbe quello di "comandare" il potere centralizzatore, pianificatore e monopolizzatore derivante dallo sviluppo stesso del capitalismo, alterandone soltanto il contenuto classista, cosa che, oltretutto, sarebbe una conseguenza naturale della "obsolescenza" della classe borghese. E qui, di nuovo, seve una lunga ma fondamentale osservazione di Gert Schäfer:
"Engels (anche Hilferding e Lenin) confonde la socialità specifica della produzione capitalista delle merci ed il suo modo caratteristico di pianificazione con la produzione immediatamente sociale. La 'produzione' capitalista 'privata' non scompare con il semplice fatto di essere un capitale della società, 'produzione per mezzo dell'associazione di molti' capitalisti. Non si elimina la 'inesistenza della pianificazione' nel capitalismo con il fatto che i trust e le altre forme simili di organizzazione del capitale passano a concepire piani su larga scala. Di fatto, Engels aveva adottato un concetto di produzione privata che era riferita a quello che oggi chiamiamo capitalismo dell'imprenditore, e la 'mancanza di pianificazione' era da lui intesa in sensoi limitato; nel suo intendimento, la fine della 'mancanza di pianificazione' doveva avvenire attraverso il controllo del mercato così come vien esercitato nei trust, il quale permette una pianificazione delle vendite, delle quantità e dei prezzi; cosa che mette in discussione l'idea per cui la libera concorrenza costituirebbe la forma unica ed assoluta del movimento del capitale. Tuttavia, Engels non affronta il problema decisivo, che è quello della relazione della legge del valore con le nuove forme assunte dalla monopolizzazione e dall'intervento statale; e successivamente Lenin identificherà falsamente la 'anarchia' del modo capitalista di produzione con l'efficacia selvaggia della 'anarchia del mercato', con il cosiddetto capitalismo della concorrenza" (SCHÄFER, 1990, p. 132- 133).
Lo Stato, concepito solamente come un insieme di contenuti, passa ad essere determinato interamente dalla classe sociale che domina i suoi apparati, essendo la classe, a sua volta, determinata soprattutto dalla proprietà privata dei mezzi di produzione; nonostante il fatto che quest'ultima determinazione sia essa stessa ineluttabilmente giuridica.
Lenin scriveva con estrema chiarezza, nel 1917, che per lui la "transizione socialista" significava che "tutti i cittadini si convertono in impiegati ed in operai di una sola amministrazione universale di Stato", e così, la società intera non sarà altro che un grande ufficio o una grande fabbrica, con uguaglianza di lavoro ed uguaglianza di salario" (Lenin). Questo può essere visto come uno sviluppo politico-pratico della "critica" engelsiana dello Stato.
2. ELEMENTI CENTRALI DEI MARXISMI DISSIDENTI
Negli anni 20 del XX secolo abbiamo assistito ad una forte ripresa creativa della critica anticapitalista e, nel suo insieme, delle letture più attente dei testi di Marx, che hanno aperto nuove chiavi di lettura. Quattro opere si evidenziano come rappresentative: Storia e coscienza di classe (1923) di Geog Lukács, Marxismo e Filosofia (1923) di Karl Korsch, La Teoria Generale del Diritto ed il Marxismo (1924) di Evgeny Pasukanis e la Teoria Marxista del Valore (1924) di Isaak Rubin.
Le due prime opere, del giovane Lukács e di Korsch, sono state fondanti di quello che Merleau-Ponty ha definito il "marxismo occidentale". La riscoperta delle due ultime opere, negli anni 60, ha dato impulso ad un altro aspetto del marxismo dissidente, la Nuova Lettura di Marx, la quale, a sua volta, ha ricevuto una forte influenza da parte del marxismo occidentale.
Intellettuali come Georg Lukács (1895-1971), Ernst Bloch (1885-1977), Karl Korsch (1886-1961), Antonio Gramsci (1891-1937), Max Horkheimer (1895-1973), Theodor Adorno (1901-1969), Herbert Marcuse (1889-1979), Alfred Sohn-Rethel (1899- 1990), Lucio Coletti (1924-2001), Henri Lefebvre (1901-1991), Galvano Della Volpe (1895-1968) e Louis Althusser (1918-1990) hanno in comune il fatto di aver dato impulso a nuove letture e nuove frontiere per il pensiero anticapitalista che andava oltre i canoni del marxismo-leninismo.
"Gramsci, per esempio, criticava l'uso della rivoluzione russa di ottobre, come paradigma della rivoluzione, per l'occidente. Lukàcs ha spiegato in larga misura la reale posizione teorico-critica di Marx riguardo alla dialettica ed al materialismo, così come alcune delle distorsioni e riduzioni dell'engelsianismo, compito svolto anche da Korsch. Alcuni importanti aspetti del marxismo-leninismo, però, rimangono, nel marxismo occidentale, come per esempio, in Lukàcs e in Gramsci, la centralità del ruolo rivoluzionario del proletariato di fabbrica" (Elbe, ivi).
Per Elbe, tuttavia, il marxismo occidentale può essere caratterizzato anche a partire da quello su cui ha taciuto.
La caratteristica generale di questa formazione marxista - la sua sensibilità per l'eredità hegeliana e per il potenziale critico-umanista della teoria di Marx, l'incorporazione di approcci "borghesi" contemporanei al fine di spiegare la grande crisi dei movimenti operai, l'orientamento alla metodologia, la sensibilizzazione nei confronti dei fenomeni psicosociali e culturali in collegamento con la questione che si riferisce alle ragioni della mancanza della rivoluzione "in occidente" - fornisce la struttura per un nuovo genere di esegesi ristretta di Marx. Questa si caratterizza essenzialmente per la sua negligenza relativamente ai problemi della politica e della teoria dello Stato, per la ricezione selettiva della teoria del valore di Marx, e per la predominanza di una "ortodossia silenziosa" riguardo alla critica dell'economia politica. (...) Fino alla metà degli anni 60, sembra che nessun marxista occidentale abbia esteso il suo dibattito con le interpretazioni tradizionali di Marx al dominio della teoria del valore.
Secondo l'esauriente studio panoramico, realizzato dalla rivista/collettivo Endnotes, sulla ripresa della lettura di Marx, soprattutto del Capitale, negli anni 60, si evidenzia quella realizzata dalla Nuova Lettura di Marx, in Germania. Per Endnotes, la ragione principale di questo primato è che:
"... la grande risorsa culturale usata da Marx nella critica dell'economia politica - l'idealismo classico tedesco - non era soggetta a quegli stessi problemi di ricezione che aveva negli altri paesi, e che aveva avuto anche la ricezione del pensiero hegeliano. Così, mentre in Italia ed in Francia le nuove letture di Marx tendevano verso un preconcetto anti-hegeliano, come reazione alle precedenti mode hegeliane, e contro il "marxismo hegeliano", il dibattito tedesco riuscì a sfociare in un quadro più diversificato e più informato riguardo al vincolo Marx-Hegel. Un fatto cruciale fu quello che videro che, nel descrivere la struttura logica della totalità reale delle relazioni capitaliste, Marx, nel Capitale, era in debito, non tanto con la concezione hegeliana della storia dialettica, ma con la dialettica sistematica della Logica. Quindi, il nuovo marxismo critico, qualche volta denominato in maniera dispregiativa Kapitallogik, aveva meno in comune con il marxismo critico precedente di Lukàcs e di Korsch, di quanto avesse in comune con Rubin e Pasukanis. La Nuova Lettura di Marx non era una scuola omogenea, ma un approccio critico che sviluppava argomenti seri e disaccordi che nonostante tutto condividevano una certa direzione" (Endnotes, 2010).
Sono tre gli autori più significativi di questo primo momento della Nuova Lettura di Marx: Hans-Jürgen Krahl (1943-1970), i cui più importanti scritti sono stati raccolti in "Costituzione e lotta di classe"; Hans-Georg Backhaus, la cui opera principale è "Dialettica della forma valore"; ed Helmut Reichelt, il più noto dei tre, il cui libro, "Sulla struttura logica del concetto di capitale in Karl Marx", può essere considerato come il più importante della prima "ondata" di dibattiti della Nuova Lettura di Marx. Krahl, Backhaus e Reichelt significano sia una rottura che uno sviluppo della riflessione filosofico-critica della Scuola di Francoforte. Ma ancora: la Nuova Lettura di Marx ha rotto definitivamente con i limiti engelsiani che opprimevano la lettura dei testi di Marx e le critiche del capitalismo da essi derivate.
"Nei dibattiti tedeschi, e susseguentemente internazionali, l'autorità di Engels - così come quella del marxismo tradizionale che da essa dipendeva - è stata apiamente rifiutata. La Nuova Lettura di Marx sosteneva che né l'interpretazione engelsiana, né alcuna delle modifiche da egli proposte, rendeva giustizia al movimento che stava dietro l'ordine e lo sviluppo delle categore ne Il Capitale. Anziché da un procedimento che partiva da uno stadio non-capitalistico, o da un modello, ipoteticamente semplificato, della produzione mercantile semplive per arrivare poi ad una tappa successiva, o da un modello più complesso di produzione capitalista di merci, bisognava captare il movimento de "Il Capitale" come una rappresentazione della totalità capitalista fin dal principio, che si muoveva dall'astratto al concreto. In "Sulla struttura logica del concetto di capitale in Karl Marx", Helmut Reichelt ha sviluppato una concezione che ora, in un modo o nell'altro, è fondamentale per i teorici della dialettica sistematica: che la "logica del concetto di capitale" come processo autodeterminato corrisponde a superare il concetto della Logica di Hegel. Seconbdo questo punto di vista, il mondo del capitale può essere considerato come oggettivamente idealista: ad esempio, la merce come una cosa "soprasensibile seppur sensibile". La dialettica della forma valore mostra come, partendo dalla forma merce più semplice, gli aspetti materiali e concreti del processo di vita sociale sono dominati dalle forme sociali astratte ed ideali del valore" (Endnotes, 2010).
Partendo direttamente dal dibattito aperto da La Nuova Lettura di Marx, il cosiddetto "dibattito derivazionista" ha rimesso in questione il problema dello Stato, in maniera profondamente divergente dal modo engelsiano-leninista. E' stato riscoperto il modo conforme a quello in cui Pasukanis pose il problema. Ricordiamo la proposizione di Pasukanis:
"Il concetto di diritto viene qui [in Plekhanov] considerato esclusivamente dal punto di vista del suo contenuto: la questione della forma giuridica in quanto tale non viene posta. Tuttavia non vi è dubbio che la teoria marxista non debba solo esaminare il contenuto concreto degli ordinamenti giuridici nelle differenti epoche storiche, ma deve fornire anche una spiegazione materialista dell'ordinamento giuridico in quanto forma storica determinata. Se rinunciamo all'analisi dei concetti giuridici fondamentali, otterremo solamente una teoria giuridica esplicativa dell'origine dell'ordinamento giuridico a partire dalle necessità materiali della società e, di conseguenza, del fatto che le norme giuridiche corrispondono agli interessi di questa o di quella classe sociale. Ma l'ordinamento giuridico stesso rimane non analizzato in quanto forma, nonostante la ricchezza del contenuto storico che abbiamo introdotto in questo concetto" (Pasukanis).
Sebbene non se ne mostri consapevole, Pasukanis mette in discussione, in maniera molto simile a quella di Isaak Rubin, le premesse engelsiane al trattamento dei problemi della critica dell'economia politica. E' su questa strada che avanzano gli autori del dibattito derivazionista, nel quale si evidenzia Joachim Hirsch.
"Basandosi sul lavoro pionieristico di Pasukanis, i partecipanti al dibattito sulla derivazione dello Stato hanno captato la separazione fra lo 'economico' ed il 'politico' come elemento proprio del dominio capitalista. Questo implicava che, lungi dall'essere considerata come l'installazione di un'economia socialista e di uno Stato operaio, come auspicava il marxismo tradizionale, la rivoluzione doveva essere intesa come distruzione, tanto della 'economia' quanto dello 'Stato'. Nonostante il carattere astratto (e a volte accademico) di questo dibattito, ora cominciamo a vedere come in Germania il ritorno critico a Marx, sulla base delle lotte della fine degli anni 60, abbia avuto conseguenze concrete (e molto radicali) per la forma in cui viene concepito il superamento del modo di produzione capitalista" (Endnotes, 2010).
Il dibattito aperto dalla Nuova Lettura di Marx, che può essere visto come caratterizzato dal ricorso alla dialettica sistematica della forma valore, si è allargato a diversi paesi, senza che si possa necessariamente vedere in questo una relazione di influenza diretta, bensì una simultaneità. Diversi autori, più o meno legati ai movimenti sociali e più o meno accademici, si sono inseriti nelle questioni poste dalla critica marxiana delle forme sociali del valore. Questi autori possono essere messi in relazione con i seguenti (in modo non esaustivo): Roman Rosdolsky, Cristopher Arthur, Alfredo Saad-Filho, Werner Bonefel , Michael Eldred, Michael Heinrich, Patrick Murray, Geert Reuten, Fred Moseley, Felton Shortall, Ruy Fausto, Tony Smith, Claudio Napoleoni, Jean-Marie Vincent, Ingo Elbe, Massimo De Angelis (2007), Slavoj Žižek, Moishe Postone, John Holloway, e Kojin Karatani.
3. LA NUOVA CRITICA DEL VALORE
L'espressione "Nuova Critica del Valore" è apparsa per la prima volta nel libro del saggista e critico sociale Anselm Jappe, "Le avventure della merce", originariamente pubblicato nel 2003. Con quest'espressione, Jappe designava un aspetto della teoria critica anticapitalista di cui il suo libro rimane la più potente sintesi.
Inizialmente, la NCV può essere definita come una doppia rilettura: essa è sia una rilettura dell'opera di Karl Marx che una rilettura del capitalismo, e si basa sulle recenti trasformazioni causate dal processo del suo sviluppo. Tuttavia, queste due riletture si definiscono a vicenda ed in maniera complessa: la rilettura di Marx è la base per una nuova critica del capitalismo, e questa nuova teoria critica del capitalismo è la base per una nuova lettura di Marx. La NCV, in questo modo, è un tentativo di andare "con Marx, oltre Marx" sulla base di un'interpretazione dello sviluppo del capitalismo a partire dagli anni 1970.
Non possiamo, tuttavia, non notare che questa dimensione teorico-critica è, allo stesso temo, una rottura ed uno sviluppo della Nuova Lettura di Marx tedesca. Essa si delinea in maniera specifica a partire dalla fine degli anni 1980 insieme all'attività dei collettivi e degli intellettuali indipendenti intorno alla rivista Krisis. Questo sforzo si moltiplica e si ramifica in diverse altre pubblicazioni, fra cui la rivista austriaca Streifzüge (1996) e, a nostro giudizio la più importante, la rivista tedesca Exit! (2004). Sia Krisis che Exit!, tuttavia, sono pubblicazioni rivolte agli studiosi, con articoli teoricamente densi.
Questa dimensione della critica del capitalismo ha cominciato a guadagnare una certa attenzione in Brasile, quando è stato pubblicato il libro di Robert Kurz (1943-2012), "Il collasso della modernizzazione" (1993), che è stato molto dibattuto da parte di intellettuali della sinistra brasiliana e che ha rivelato una diversa visione della crisi economica degli anni 90. In seguito, sono state tradotte e pubblicate altre opere di Kurz; inoltre, è stata fondamentale l'apertura di portale elettronico in Portogallo, con testi della Nuova Critica del Valore, per la divulgazione dei lavori di autori come Robert Kurz, Roswitha Scholz, Norbert Trenkle, Ernst Lohoff, Franz Schandl, Claus Peter Ortlieb, Anselm Jappe ed altri.
3.1 - La critica del lavoro
A nostro giudizio, uno dei primi e più importanti punti di rottura/sviluppo della NCV nei confronti della Nuova Lettura di Marx avviene nel 1995 con la pubblicazione di un articolo di Kurz sul n°15 di Krisis, dal titolo "Il post-marxismo ed il feticcio del lavoro". Si tratta di un passaggio importante nella costruzione teorico-critica che porterà al Manifesto contro il Lavoro (1999), che verrà pubblicato 4 anni dopo.
Nei Grundrisse, definiti il "laboratorio degli studi" (Bellofiore) marxiani dai quai sarebbe uscito Il Capitale, Marx si trovò ad affrontare i due concetti categoriali di "lavoro", la cui definizione e distinzione saranno cruciali per la sua critica matura dell'economia politica. Nella sua spiegazione metodologica - che nella dialettica marxiana è inseparabile dall'oggetto stesso - Marx fa un esempio della categoria del lavoro nei seguenti termini illustrativi:
"Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità - come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, «lavoro» è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. (...) L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune a un gran numero, ad una totalità di elementi. Allora, essa cessa di poter essere pensata soltanto in una forma particolare. D’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, come determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna. (...) L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni." (Marx, Grundrisse)
Il lavoro, come categoria astratta, potrebbe essere pensato fuori dal tempo storico capitalista? Se è così, la critica del capitalismo può essere assunta come una critica "dal punto di vista del lavoro", essendo quest'ultimo concepito come un contro-principio trans-storico rispetto al capitale. Ma se non è così, allora la critica del capitalismo è anche una critica della società del lavoro sans phrase; del lavoro come categoria sociale formata e formante la "economia" e la "politica" proprie della società produttrice di merci.
Il Marx dei Grundrisse non scioglie la questione, oscilla fra le due cose.
Ne Il Capitale, Marx affronta il problema elaborando i concetti di lavoro astratto e di lavoro concreto. Questi corrisponderebbero, rispetto alla natura bifida della merce, a valore e ad utilità. Essendo il primo, il lavoro astratto, il concetto che definisce l'attività umana nella dimensione in cui questa trasmette valore alla merce, ed il secondo, il lavoro concreto, il concetto che definisce l'attività umana che trasmette alla merce valore d'uso, nella sua dimensione materiale e simbolica. Non si tratta di due fenomeni distinti, ma delle due dimensioni di un unico fenomeno. La caratterizzazione bifida del lavoro nei concetti di lavoro concreto e lavoro astratto è il modo trovato da Marx per risolvere il problema dell'astrazione sociale-reale che esiste nel lavoro delle società produttrici di merci; per risolvere la sua precedente oscillazione fra una caratterizzazione "ontologica" sovrastorica del lavoro ed allo stesso tempo la sua critica del modo storico in cui il lavoro si presenta, nella sua sussunzione al capitale. Tuttavia, l'oscillazione rimane latente.
Nei seguenti passaggi de Il Capitale, riappare:
"Innanzitutto, il lavoro è un processo fra l'uomo e la natura, un processo in cui l'uomo, per mezzo della sua azione, media, regola e controlla il suo metabolismo con la natura". (Marx, Il Capitale)
"Il processo lavorativo, come si presenta nei suoi elementi semplici ed astratti, è attività orientata ad un fine per produrre valore d'uso, appropriazione naturale per soddisfare le necessità umane, condizione universale del metabolismo fra l'uomo e la natura, condizione eterna della vita umana e, pertanto, indipendente da qualsiasi forma di questa vita, essendo anche ugualmente comune a tutte le forme sociali".(ivi)
Quindi, il processo lavorativo può essere concepito soltanto come processo che "regola, controlla e media il metabolismo dell'uomo con la natura", e pertanto come condizione eterna indipendente da qualsiasi forma storica di vita quando viene pensato nella sua forma "semplice e astratta"!
Il lavoro concreto, creatore di valore d'uso, può essere pensato soltanto trans-storicamente quando viene sottoposto ad una maniera "semplice e astratta" di raziocinio, che rimanda al modo storico della sua sussunzione al capitale - come si è visto nel precedente passaggio dai Grundrisse.
In molti passaggi come questo, l'oscillazione marxiana è sorprendente.
In un articolo pubblicato sulla rivista Krisis, nel 1985, Robert Kurz criticava questa "doppiezza" del concetto di lavoro, affermando che, con esso, Marx aveva solo "squartato in due" l'astrazione reale che si trova nel lavoro produttore di merci. Secondo la stessa argomentazione marxiana - la "dialettica della forma valore" - la conclusione più coerente cui si dovrebbe arrivare è che, così come la merce presenta natura bifida, anche il lavoro che la fa esistere possiede una tale natura. Tuttavia, Marx fa dell'aspetto materiale, sensibile, una presunta "ancora antologica", dove una dimensione del lavoro può apparire come indipendente dalla sua determinazione attraverso la forma. Così, nella caratterizzazione della natura bifida del lavoro produttore di merci, che troviamo nei concetti di lavoro astratto e lavoro concreto, Marx persegue solo il lavoro determinato dalla forma, trascurando l'aspetto sociale-reale dell'astrazione contenuta nel concetto stesso di "lavoro".
"Il famoso concetto di lavoro astratto che qui emerge è in realtà un'espressione strana, una duplicazione retorica, come se parlassimo di un "verde astratto", dal momento che la definizione di qualcosa come verde è già di per sé un'astrazione. Marx, per così dire, squarta in due l'astrazione reale: la sua forma sarebbe storicamente limitata, la sua sostanza o il suo contenuto sarebbe ontologico. Pertanto, abbiamo così il "lavoro" come eterna necessità naturale, e il "lavoro astratto" come determinazione storica del sistema produttore di merci. Marx, da un lato prolunga fino all'ontologico l'astrazione reale modellata nella forma attuale e, dall'altro lato intende salvarne il carattere storico e, in questo modo, il suo superamento."
Secondo l'interpretazione di Kurz, questo squartamento in due dell'astrazione del lavoro è stato il tributo pagato da Marz alla "immagine necessaria ed immanente che il movimento operaio costruisce di sé stesso" e che, secondo lui, pesa in diversi momenti dell'elaborazione teorica di Marx, facendolo oscillare. Tuttavia, osserva: "Il marxismo del movimento operaio ha avuto poco che fare con il concetto di lavoro astratto e non lo ha mobilitato criticamente; ha preferito invece attenersi al concetto ontologico del lavoro (nobilitato come conforme al valore d'uso), al fine di legittimarsi in forma storico-filosofica".
E che cos'è allora l'astrazione reale del lavoro, come essenza e contenuto?
"Tale bipartizione si ritrova ancora una volta nella determinazione di ciò che è alla fime realmente astratto nel lavoro astratto. Marx lo sviluppa principalmente in un'unica direzione - la direzione della forma: come astrazione reale "del" contenuto materiale, come indifferenza al momento sensibile, rappresentata dalla forma del valore e nel suo disaccoppiamento nel denaro, la cosa "realmente astratta". Non c'è dubbio che questo abbia grande rilevanza. Ma il "lavoro" produttore di merci è "realmente astratto" anche in un secondo senso, che Marx non ha sviluppato sistematicamente: nella sua esistenza in quanto sfera differenziata, separata dalle altre sfere, quali la cultura, la politica, la religione, la sessualità, ecc., oppure, su un altro piano, ugualmente separata dal tempo libero..." (Kurz)
Per la NCV è impossibile limitarsi alla critica del lavoro astratto senza affrontare la critica del lavoro. E le implicazioni della critica rivolta non solo al lavoro astratto, ma all'astrazione-reale del lavoro, sono molte e varie, e non si possono affrontare, neanche in maniera preliminare, nello spazio di questo articolo.
Comincia da questo punto, a nostro avviso, la separazione fra "post-marxismo" e NCV. La rottura su un concetto importante e basilare della lettura di Marx, nel suo spirito, ossia, quello della dialettica della forma valore. Nel 1999, con la pubblicazione del Manifesto contro il Lavoro, tali riflessioni critiche irrompono con forza polemica.
3.2 - Forme sociali di feticcio e lotta di classe
Un altro punto controverso nei dibattiti accesi dalla Nuova Critica del Valore - e che perfino un esame superficiale è in grado di mettere in relazione con la critica del lavoro - riguarda l'obsolescenza della lotta di classe, così come è stata pensata dal marxismo tradizionale, e anche dal marxismo occidentale. Nello stile caustico che lo contraddistingueva, Kurz ha scritto che quando si tratta del tema delle "classi" e della "lotta di classe", è facile veder scorrere le lacrime dagli occhi dei marxisti del movimento operaio.
L'idea, tanto propagandata ed accettata, per cui l'unico anticapitalismo efficace è quello che si pone "dal punto di vista del lavoro" e che, di conseguenza, come contro-principio sempiterno rispetto al capitale, è alla base della visione di una classe lavoratrice considerata come demiurgo della storia del superamento del capitalismo. Nelle parole di Kurz:
"L'apparato concettuale della critica radicale necessita di una spolverata. La 'classe rivoluzionaria' di Marx è stato chiaramente il proletariato industriale del XIX secolo. Unito ed organizzato dal capitale stesso, di cui doveva diventare il becchino. I gruppi sociali costituiti dai salariati dei settori derivati (servizi pubblici e commerciali, infrastrutture, ecc.) non potevano essere connessi al proletariato se non come forze di appoggio, e questo solamente perché quest'ultimo, come nucleo della massa della vita sociale, dominava le fabbriche produttrici del capitale. Questo schema tradizionale delle classi e della rivoluzione non poteva sopravvivere al capovolgimento del rapporto numerico che cominciò a diventare percettibile fin dall'inizio del XX secolo (e che venne affrontato solo in maniera superficiale dal vecchio marxismo, per esempio nella discussione a proposito delle tesi di Bernstein)." (Kurz, 2003)
Nel marxismo-leninismo, come abbiamo visto, volontarismo e determinismo si fondono insieme in un amalgama che si è prestato assai bene ad essere uno dottrina dello Stato autoritario. Qualcosa di questo amalgama è stato contrabbandato come teoria anticapitalista, quando si trattava di concepire la "lotta di classe" come una narrazione demiurgica della storia. Più viene invocata come ragione teorica, meno riesce a spiegare cosa potrebbe significare attualmente. A fronte dei molti cambiamenti recenti, fra i quali, specialmente, la rivoluzione industriale microelettronica:
"La lotta delle classi è diventata parte integrante di questo sistema di concorrenza universale e si è rivelata essere in sé solo un caso particolare di questo sistema, del tutto incapace di trascendere il capitalismo. Al contrario, ad un basso livello di sviluppo, quando si trattava ancora di riconoscere gli operai come soggetti civili di questo sistema, essa è stata la sua forma di movimento immanente.Per essere in concorrenza, competitivi, bisogna darsi delle forme comuni. Fondamentalmente, il capitale ed il lavoro sono solo delle concrezioni differenti di una sola, e medesima, sostanza sociale. Il lavoro è costituito da capitale vivente, ed il capitale è costituito da lavoro morto. Ma la nuova crisi è caratterizzata dal fatto che lo sviluppo stesso del capitalismo scioglie la sostanza del "lavoro astratto" contenuto nella base produttiva del capitale" (Kurz, 2003).
Le forme sociali costitutive della società produttrice di merci (valore, capitale, Stato) appaiono come naturalizzazioni e, di conseguenza, come "natura" secondaria della socializzazione. La lotta per gli interessi socio-economici immanenti a queste categorie, come ad esempio le lotte per il diritto al lavoro e ad un "giusto" salario. sono state importanti spinte propulsive della modernizzazione capitalista. Non si può negare questo fatto. Ma nelle condizioni attuali di sviluppo, esse hanno perduto la capacità di spingere alla transizione oltre il capitale.
Nelle parole di Kurz:
In tal modo, l'idea di "lotta di classe" perde la sua aura metafisica, pseudo-trascendente. I nuovi movimenti non possono più definirsi in modo "oggettivo" e formale per mezzo di un'ontologia del "lavoro astratto" e per il loro "ruolo nel processo di produzione". Oramai, possono definirsi solo nel merito, per quello che vogliono. Cioè a dire per quello che vogliono impedire: la distruzione della riproduzione sociale a causa della falsa oggettività degli imperativi dettati dalla forma capitalista. E per il futuro che desiderano: l'utilizzo comune e razionale delle forze produttive, a partire dai loro bisogni e non dai criteri assurdi della logica del capitale. La loro comunità non può essere che la comunità degli obiettivi di emancipazione, e non quella di una reificazione dettata dal capitale. Questa pratica oggi viene portata avanti a tentoni. La teoria deve ancora essere formulata concettualmente. Solo allora, i nuovi movimenti potranno diventare radicalmente anticapitalisti in un modo nuovo, andando oltre la vecchia lotta di classe. (Kurz, 2003).
Questo tema ha provocato degli importanti dibattiti. Alcuni, ad esempio, hanno proposto un compromesso fra il tema della lotta di classe e la critica delle forme sociali svolta dalla Nuova Critica del Valore (Cuhna, 2009).
3.3 - Il limite interno assoluto della società della merce
Fortemente legato sia alla critica del lavoro che alla critica del carattere trascendente della lotta di classe, è anche la tesi che parla del limite interno assoluto della società produttrice di merci. Anselm Jappe ha riassunto piuttosto bene questa tesi, nelle sue tre principali dimensioni.
3.3.1 La contraddizione fra la realtà materiale e la sua forma valore
Secondo Jappe, la crisi ecologica dei nostri tempi è l'esternalizzazione di una contraddizione interna:
Quella che emerge, è una crisi molto più profonda rispetto a quelle che in passato mettevano in moto sproporzioni quantitative momentanee. La contraddizione fra il contenuto materiale e la forma valore porta alla distruzione del primo. Questa contraddizione diventa particolarmente visibile nella crisi ecologica, e si presenta allora come "produttivismo", come produzione tautologica di beni d'uso - produzione questa che, tuttavia, non è altro che la conseguenza della trasformazione tautologica del lavoro astratto in denaro.
3.3.2 La contraddizione fra le necessità d'uso e la loro forma valore
Anche questa contraddizione diventa visibile attraverso i suoi effetti dannosi di disuguaglianze sociali, regionali ed internazionali; essa si manifesta, ad esempio, nella crisi alimentare globale:
"La produzione di valore e di plusvalore, l'unico scopo dei soggetti della merce, può comportare anche una diminuzione di produzione di valori d'uso, anche di quelli più importanti. E' ciò che si verifica nel caso sempre più frequente della de-industrializzazione di interi paesi, nei quali la produzione si riduce ai settori i cui prodotti sono suscettibili di essere esportati, persino se si tratta solo di noccioline. La "produzione per la produzione" significa la maggior accumulazione possibile di lavoro morto. Gli aumenti di produttività, segnatamente l'aumento della produzione di valore d'uso, non cambiano in niente il valore prodotto in ciascuna unità di tempo. Un'ora di lavoro continua ad essere un'ora di lavoro. e se in quest'ora si producono 60 sedie invece di una, questo significa che in ciascuna sedia si trova contenuta solamente la sessantesima parte di un'ora: la sedia "vale" così soltanto un minuto. L'aumento delle forze produttive, spinto dalla concorrenza, non aumenta in nessun modo il valore di ciascuna unità di tempo: questo fatto costituisce un limite insuperabile per la creazione di plusvalore, la cui crescita diventa progressivamente sempre più difficile. Per poter produrre la medesima quantità di valore, si rende necessaria una produzione sempre più allargata del valore d'uso, e conseguentemente un accresciuto consumo di risorse naturali. Per il proprietario di capitale, se non vuole essere eliminato dalla concorrenza, si rende necessario produrre le sessanta sedie nella speranza di incontrare una domanda che compensi tale produzione. Può anche tentare di creare tale domanda, a prescindere dalla relazine reale fra necessità e risorse all'interno della proprietà." (Jappe, 2006).
3.3.3 La contraddizione fra la produttività del lavoro e la sua forma valore
Le costanti innovazioni tecnologiche che, da un lato, vengono spinte dall'urgenza di aumentare la produttività del lavoro sottomesso al capitale. dall'altro lato, entrano costantemente e progressivamente in collisione con la redditività dello stesso capitale.
"... questa accresciuta produttività del lavoro - che in quanto tale potrebbe naturalmente essere un bene per tutta l'umanità - porta in maniera diretta al crollo della società basata sul valore. Paradossalmente, il capitalismo raggiunge il suo proprio limite in virtù della sua forza, ossia, a causa della liberazione delle sue forze produttive: il dispendio individuale di forza lavoro è sempre meno il fattore principale della produzione. Sono le scienze applicate, così come le conoscenze e le capacità diffuse a livello sociale, che diventano direttamente la principale forza produttiva. La necessità di calcolare il lavoro effettuato da ciascuno, e pertanto il valore che a questo lavoro compete, si trasforma in una "corazza" che soffoca le possibilità produttive, in quanto il lavoro individuale smette di essere misurabile. Il dispendio di lavoro smette di essere la condizione per cui l'individuo partecipa ai relativi frutti. (...) Oggi, però, la separazione dei produttori non ha alcuna base materiale o tecnica, e deriva esclusivamente dalla forma del valore astratto, e perde così definitivamente la sua funzione storica." (Jappe, 2006).
Nello sviluppo attuale del capitalismo, la logica del valore smette di essere un fattore storico "civilizzatore" - come ancora appariva ad Engels ed a Marx del Manifesto Comunista - per diventare una "arcaica camicia di forza", Fondamentalmente, quel che accade è il seguente:
"Abbiamo detto prima che la caduta del saggio di profitto ha accompagnato tutta l'evoluzione del capitalismo. Ma per molto tempo tale caduta è stata compensata, e perfino sovra-compensata, dall'aumento della massa di profitti. Basta che il modo di produzione si allargasse più rapidamente del caduta del tasso di profitto: se in 10 anni, grazie all'utilizzo di nuove tecnologie, la parte di capitale variabile (ossia, la parte del salario) contenuta in una merce decresce dal 20 al 10%, e pertanto il tasso di profitto (supponendo un tasso di plusvalore, ossia un tasso di sfruttamento, stabile al 50%) diminuisce dal 10 al 5%; ma se allo stesso tempo si produce tre volte di più merce, allora la massa di profitto cresce del 50% e può quindi alimentare un ciclo allargato di produzione.
Questa possibilità venne prevista da Marx, ed effettivamente si è realizzata per più di un secolo. Tuttavia è evidente che tale evoluzione debba un giorno arrivare ad un punto in cui la massa di profitto del capitale globale comincerà a diminuire fino a raggiungere un limite assoluto." (Jappe, 2006).
Quel che ci mostra Jappe è che tali contraddizioni stanno appostate come uomini armati in agguato alla forma semplice del valore e della merce. Ed in questo modo il "soffocamento progressivo della produzione di valore, per mezzo dei lavori stronzata e del lavoro improduttivo, così come attraverso la diminuzione della massa di profitto che da questo deriva, è, sul piano logico, una conseguenza ineluttabile delle contraddizioni di base della merce".
"Raggiungere tale limite, tuttavia, non porta ancora a nessun "caos di crisi". Al contrario, è la ragione per un altro salto in avanti da parte del capitale. Questo salto, però, rimanda solamente per poco tempo le conseguenze ineluttabili del limite assoluto, e le aggrava ulteriormente. Stiamo assistendo, dalla fine degli anni 70, alla finanziarizzazione e alla 'fictionalizzazione' del capitalismo." (Jappe, 2016).
Rosa Luxemburg considerava teoricamente vero questo limite interno assoluto, ma riteneva anche che la "lotta di classe" avrebbe posto fine prima al capitalismo. Questo limite interno era visto come "l'estinzione del sole". così tanto lontana a venire. Oggi, tuttavia, sembra che il "sole" si stia estinguendo sotto i nostri occhi.
CONSIDERAZIONI FINALI
La Nuova Critica del Valore è ancora una corrente marginale nel dibattito anticapitalista, e la sua produzione vive ancora sotto il segno del sotterraneo, dell'underground - sebbene alcuni dei suoi autori, soprattutto Robert Kurz, Anselm Jappe e Roswitha Scholz, siano relativamente noti. La NCV non compare nella mappatura, fatta da Göran Therborn (2008), dei marxismi e dei post-marxismi attuali; né appare nella Enciclopedia del marxismo contemporaneo, organizzata da Jacques Bidet e Stathis Kouvelakis (2009).
Tuttavia, sono quelle condizioni di crisi, definite da Foster e McChesney (2012) come "crisi senza fine", a rendere le tesi esposte dalla Nuova Critica del Valore non meno che urgenti. E, in questa situazione, dovremmo applicare all'anticapitalismo stesso il contenuto della seconda Tesi su Feuerbach di Marx:
E' nella realtà pratica ed effettiva che devono essere giudicati la forza ed il carattere terreno del pensiero.
Quale tipo di teoria anticapitalista è la più vera di fronte ad un crisi senza precedenti della società produttrice di merci?
- Joelton Nascimento -
fonte: Ensaios e textos libertários