I primi filosofi
- di Stefano Petrucciani -
«Le origini della filosofia greca, e quindi dell’intero pensiero occidentale, sono misteriose».
Con questa asserzione difficilmente contestabile Giorgio Colli apriva, qualche anno fa, un suo libretto dedicato appunto a svelare il mistero della Nascita della filosofia. Un tentativo, il suo, notevole ma anche parziale, e comunque non più che un capitolo di una lunga storia di ipotesi che ha affaticato non solo gli specialisti professionali della storia della filosofia antica, ma anche intellettuali di estrazione più diversa, da Benjamin Farrington a quel singolare pensatore marxista che era Alfred Sohn Rethel.
Particolarmente cruciale la questione della nascita del pensiero filosofico è apparsa - ed è ovvio - a quelli studiosi che si sono nutriti, in modo vario e a differenti gradi di consapevolezza e approfondimento, dell’insegnamento marxiano. Quale miglior banco di prova per una concezione, il materialismo storico, che tra le sue ambizioni ha quella di comprendere idee ed elaborazioni teoriche come risultati e momenti dei più vasti processi nei quali gli uomini producono e riproducono la loro vita sociale? Da questo filone di ricerca, e forse soprattutto ai suoi margini e confini, sono emersi infatti alcuni tentativi assai pregevoli di scrutare le cause economiche e sociali della grande rivoluzione culturale che si avvia nella Ionia del VI secolo avanti Cristo, e che vede il pensiero mitico cedere lentamente il passo a quei modi di ragionare che più tardi saranno designati come scienza e filosofia.
A parte gli studi ormai classici di Rodolfo Mondolfo (alcune sue pagine centrali le ha riproposte tempo fa Walter Leszl nella sua bella antologia sui Presocratici, Il Mulino 1982), i tentativi più organici di chiarire la genesi storico-sociale delle spiegazioni razionali del cosmo (le più antiche, come tutti ricorderanno, sono quelle attribuite a Talete, Anassimandro, Anassimene) li dobbiamo all’inglese George Thomson ed al francese Jean -Pierre Vernant.
Per Thomson (I primi filosofi, Vallecchi 1973), la concezione del cosmo come unità il cui differenziarsi è regolato da leggi e governato da un unico principio generatore (l’acqua di Talete, l’illimitato di Anassimandro, il fuoco di Eraclito), è indice di una mentalità nazionale che ha i suoi natali soprattutto nello sviluppo della produzione di merci e della moneta coniata. L’occhio ispirato del filosofo lascia scorgere in trasparenza quello del mercante, che vede nell’universo solo un gigantesco processo di circolazione di merci; la sostanza unica, di cui parla il filosofo, è una specie di trasposizione cosmica del valore di scambio; non per nulla il frammento B90 di Eraclito insegna che tutte le cose si scambiano col fuoco e il fuoco con tutte le cose, come le merci con l’oro e l’oro con le merci.
A questa linea, sulla quale anche Alfred Sohn Rethel ha lavorato, a partire già dagli anni ’30, si contrappone, non senza qualche accenno polemico, quella di Vernant; lo storico francese, innanzitutto, rifiuta la sopravvalutazione dell’economia monetaria nel quadro della Grecia arcaica; e inoltre, in molti studi importantissimi e appassionanti, individua l’agente principale della razionalizzazione dell’universo mentale nello sviluppo dei rapporti tra i cittadini nella polis. La ragione discorsiva è figlia di una società dove la sovranità non appartiene più a un individuo privilegiato e sacralizzato (il re, il basileus), ma è posta in qualche modo nel mezzo, in uno spazio pubblico al quale accedono ugualmente tutti i cittadini a pieno diritto, e dove le decisioni (politiche, giudiziarie ecc.) passano per procedimenti dialogici.
Nella discussione, tuttora aperta, su questi problemi, si inserisce ora un libro di Mario Rossi su Le origini della filosofia greca (Editori Riuniti, Roma 1984); opera postuma dello studioso scomparso nel ’78, e noto soprattutto per un suo monumentale Da Hegel a Marx. Il volume è solo la primissima parte di un vasto progetto di «storia sociale della filosofia», della cui mancata realizzazione non c’è che da rammaricarsi grandemente. Infatti, anche nelle non molte pagine che ne possiamo leggere, notevoli appaiono i pregi del lavoro di Rossi, che ha innanzitutto il merito di collocare le più antiche concezioni filosofiche nel contesto di tutti gli altri aspetti dello sviluppo culturale, dalla religione alla più antica poesia lirica, alla quale Rossi dedica pagine molto istruttive.
Per quanto riguarda poi la questione che specificamente ci interessa, quella delle basi storico-sociali della rivoluzione intellettuale operata dai filosofi di Mileto, va riconosciuto al libro di Rossi il merito di presentarla in modo chiaro e originale. L’autore ci offre intanto la rapida rilettura delle opposte interpretazioni dell’economia greca arcaica che stanno alla base delle tesi di Thomson e di Vernant. Rossi ha probabilmente ragionato quando, utilizzando anche il Marx delle Forme che precedono la produzione capitalistica, invita ad andare oltre le opposte unilateralità per riconoscere lo specifico dell’economia classica proprio nella concordia del discorso sulla condizionalità reciproca di economia cittadina ed economia agraria (sul cui primato, e quindi della ricchezza fondiaria e non monetaria, aveva invece insistito Vernant polemizzando con Thomson).
Assai efficace nell’evidenziare il nesso tra sviluppo economico e sviluppo culturale è poi la rilettura che Rossi offre delle teorie cosmologiche della scuola di Mileto e del loro sostrato sociale. La teoria scientifica e filosofica compie i suoi primi passi, non a caso, in una colonia greca dell’Asia minore che è tra le prime a conoscere la moneta coniata e lo sviluppo commerciale, e che esercita una vasta rete di influenze intrattenendo rapporti economico-culturali con molte città del Mediterraneo, fondando essa stessa numerosissime colonie. Non meno significativo è un punto che di solito viene piuttosto trascurato, e al quale invece Rossi attribuisce molta importanza: lo sviluppo economico e commerciale agisce subito come potente dissolutore della stabilità del potere oligarchico, produce un’aspra contraddizione sociale tra i detentori della ricchezza agraria e commerciale da un lato, e dall’altro i contadini impoveriti e il nascente proletariato cittadino occupato nelle prime emergenze di produzione industriale e nella navigazione.
È questo il quadro sociale in cui appare per la prima volta la figura del filosofo-scienziato: un uomo dedito alla pura ricerca intellettuale che va in giro insegnando le sue spiegazioni sulla natura del cosmo e sul moto degli astri; che prende parte alla vita politica e alle discussioni della città, magari nel ruolo di sapiente consigliere; che non disdegna (molti gli esempi riportati dalla tradizione a proposito di Talete) di sviluppare possibili applicazioni pratiche del suo sapere fisico e geometrico.
Le prestazioni del filosofo (termine che forse a questo punto andrebbe ancora messo tra virgolette) rispondono - e Rossi lo evidenzia giustamente - a problemi che nascono dalla vita politica ed economica della città. Non solo egli propone risposte nazionali alle contingenze politiche (vedi l’idea attribuita a Talete di costituire una confederazione tra le città ioniche), ma le sue ricerche scientifico-naturalistiche si collegano ai bisogni della vita produttiva e commerciale e addirittura, secondo Rossi, si basano sull’utilizzazione di «quella stessa osservazione sperimentale che è servita al progresso della produzione economica, ovvero della trasformazione economica delle condizioni di vita» (p.120).
C’è tuttavia da chiedersi se una simile immagine, tutta centrata sul nesso sviluppo economico-sviluppo scientifico, non sia un po' semplificatrice e forse un po' troppo ottimistica. Le spiegazioni scientifiche dei primi pensatori naturalisti sono infatti certamente di tipo razionale argomentativo (e superano quindi, almeno la forma della narrazione mitica) ma non sembra si possano definire, senza forzatura, come scientifico-sperimentali. Di esperimenti, anche di quelli semplicissimi che sarebbero stati alla loro portata, i primi naturalisti non s’interessarono per nulla (vedi le pagine di F.M. Cornford e il commento di Leszl nell’antologia che prima citavo), e le loro rappresentazioni del cosmo potrebbero anche sembrare prodotti di una sconfinata presunzione intellettuale, oppure generalizzazioni arditissime di fenomeni osservati in campi specifici e limitati.
Più volte, ad esempio, è stata notata la massiccia presenza di modelli tratti dalla vita sociale alla base delle spiegazioni cosmologiche, dove intervengono termini come discordia, giustizia, pena, che rimandano certamente alla pratica giuridica, e più ancora alle lotte sociali ad esito alterno che scuotono le città arcaiche, e tra queste Mileto.
I primi filosofi, insomma, sembrerebbero non meno scienziati che ideologi: quando Anassimandro immagina il cosmo come retto da una legge di giustizia che si ristabilisce sempre di nuovo attraverso la sopraffazione violenta e la sua ineluttabile espiazione, forse non fa altro che fornire la più antica interpretazione del conflitto sociale, riconoscendolo come ineluttabile e al tempo stesso legittimandolo e trasponendolo a legge cosmica.
D’altra parte, quando quegli ideologi della polis che sono i primi filosofi pretendono di ridurre ad un concetto unico e semplice il principio, l’arché che governa la totalità dei fenomeni, compiono un’operazione che andrebbe vista in modo più critico e demistificante di quanto Rossi non faccia.
Certamente essi assumono almeno, all’inizio un ruolo «illuministico», fornendo ai cittadini della polis un’immagine del mondo capace di scalzare quelle mitiche e teogoniche. Ma come non vedere in tutto ciò anche un momento di vanagloriosa autoapologia dell’intelletto separato, che presentandosi come monopolista del discorso vero diventerà in qualche modo l’erede di quella sapienza sacrale di cui i re-maghi ed i veggenti si erano in precedenza arrogati il possesso?
Certo, sarebbe bello saperne di più sulle concrete condizioni sociali in cui i primi filosofi operarono (anche se non mancano utili analisi in questa direzione, come per esempio quelle di Vegetti su Parmenide). Tuttavia, dato che pur sempre tra ipotesi dobbiamo muoverci, ci piace ricordare quella di uno che specialista non era, ma cui non mancava un occhio acuto per i nessi tra fatti sociali e fenomeni intellettuali. Le «ciarlatanesche vanterie» dei filosofi presocratici, il loro presentarsi come depositari di un sapere superiore e onnicomprensivo, il loro disprezzo per la moltitudine, la loro pretesa di sovranità, sono già — sosteneva Adorno — manifestazioni della contraddittoria e incerta situazione dell’intellettuale autonomo, «sono il lamento, che tenta di soffocarsi con la positività, di colui che né contribuisce alla riproduzione reale della vita, né può partecipare veramente al dominio su di essa, bensì è soltanto una terza persona che vende e decanta ai dominatori il loro mezzo di dominio, lo spirito tradotto praticamente in metodo. Ciò che costoro non hanno, lo vogliono per lo meno nella fata morgana del loro ambito di competenza, dello spirito: l’inconfutabilità rimpiazza per loro il dominio, fusa col servizio che essi effettivamente rendono, il loro contributo al dominio sulla natura».
- Stefano Petrucciani - (1984) -
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