domenica 23 ottobre 2011

Incontrollati

disordini-roma-7

Sinceramente, all'attività dello scrivere preferisco quella di leggere, e non tanto perché non mi passino per la mente pensieri che richiederebbero di essere fissati su un foglio, anche al fine di poterli meglio considerare, i pensieri. Altrettanto sinceramente, mi viene anche da aggiungere che l'attività del leggere dipende, in larga misura, da un senso di distacco e di impotenza. Mi spiego, quando sei nel fuoco dell'azione, quando nei sei parte e motore, non vai certo ad indugiare a informarti a leggere circa quello che avviene, circa le posizioni, i modi di vedere; hai una tua idea e la persegui, anche scrivendola e scrivendolo. Preferisco le storie, alla storia. E così accade che cerco le storie, dentro a quel che leggo. E ce ne sono!
Leggo, per esempio, che Erri De Luca, intervenuto al "Bartleby" di Bologna a presentare il suo ultimo libro, dopo aver espresso considerazioni per me condivisibili circa gli ultimi avvenimenti di Roma, si è lasciato andare a raccontare una storia che parlava del servizio d'ordine di Lotta Continua che, sue testuali parole, "serviva contro le aggressioni della polizia e dei fascisti non per arrestare le persone dentro al corteo”. Tralasciando la battuta, che insorge spontanea, circa il "piccolo diverbio" avuto con le femministe, le quali non rientravano certamente in nessuna delle due categorie citate da De Luca, giova ricordare come i "servizi d'ordine" di quegli anni (esclusi quelli del p.c.i. e dei sindacati) attendessero agli stessi compiti - con altri mezzi e con altra tattica - che a Roma, giorni fa, hanno svolto gli "incontrollati" che vengono denominati dalla stampa "incappucciati" o "black bloc". Solo negli ultimi tempi della sua esistenza, il servizio d'ordine, di cui De Luca stesso fu uno dei responsabili, si provò a misurare su un terreno "poliziesco". Praticamente, cercò, senza che la fortuna gli arridesse, di mettere in pratica quel che leggo vorrebbero poter fare i signori che perseguono la "costruzione di istituzioni sociali incentrate sulla democrazia dei beni comuni" e che vorrebbero definire, a proposito del movimento, "una capacità di autodeterminarsi" e di "stabilire i suoi criteri di legittimità". Insomma, per dirlo in soldoni, si tratta di stabilire quale pratica abbia capacità di modificare lo stato di cose presenti, e quale non l'abbia. Stabilito questo - ovviamente, da parte loro - si procede a mettere in condizione di non agire chiunque non sia disposto e disponibile alla loro "democrazia dei beni comuni". Chiunque non sia disposto - e non si diverta - a restare fuori dal teatro occupato di turno per aspettare, fiducioso e in piedi, il secondo concerto fatto nella stessa sera, per dare modo a tutti di partecipare. Partecipare, già; ma a quanto pare c'è qualcuno, finalmente, che non intende più partecipare. Anche perché, alla fin fine, si tratta di partecipare sempre allo stesso gioco. Il gioco di quelli che stanno sui palchi, da una parte, e quelli che ascoltano, dall'altra. A quanto pare, il gioco, se non comincia a finire, inizia quanto meno a mostrare i suoi punti deboli. O sei parte del problema o sei parte della soluzione. Era un vecchio slogan delle Pantere Nere, oggi è una sorta di rasoio di Occam che consente di capire. Da un'altra parte leggo di un certo Pitsoulis, un professore di matematica, un greco che considera che "Dobbiamo cambiare questo sistema, ma non è possibile finché esiste. E' come un computer infestato dai virus; abbiamo bisogno di fare un reboot da un supporto esterno, poi fare una formattazione a basso live dell'hard disk, e alla fine installare un altro sistema operativo. Politicamente, non vedo una via d'uscita." Ecco, fra i virus sono da comprendere le rappresentanze, e tutto ciò che è politico. Sono parte del problema, sono parte del capitalismo. Come i sindacati, sono fatti della stessa sostanza di cui è fatto il fumo delle ciminiere. Sono parte del problema, e continuano a ripetere che fuori di loro non c'è soluzione al problema, ed esisteranno finché esisterà il problema. E' giocoforza, per il problema, asserire che sia la soluzione, il vero problema. E si impegna tanto a dimostrarlo che alla fine riesce nel compito, altrimenti difficile, di mostrarsi per quel che è. E' già accaduto, ed è sempre andata a finire male. Perché il problema è bravo a spacciarsi per qualcos'altro e ad invocare alti principi morali, come l'unità, ed un nemico comune la cui sconfitta dovrebbe essere una priorità, assolta la quale poi si potrebbe passare a scannarci fra noi (che loro di voglia di scannarci ce n'hanno sempre avuta, e ce n'hanno, tanta!). Ma forse è ora di arrivare davvero ad assumere la constatazione di Orwell a proposito del fatto che "la divisione reale non è quella fra conservatori e rivoluzionari, bensì quella fra autoritari e libertari".

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