martedì 27 dicembre 2016

Nella crisi

20130615-102049

La traduzione e la pubblicazione delle "Sette tesi sulla crisi attuale" di João Bernardo vuole essere un contributo al dibattito critico, e non presuppone affatto una totale condivisione di tale tesi nella loro interezza, e della premessa che viene fatta. Tuttavia, l'analisi svolta contiene indubbi punti di interesse - in particolare la settima tesi, relativa al "capitalismo sindacale" o "sindacalcapitalismo" - che devono essere affrontati e discussi. Nella crisi.

Sette tesi sulla crisi attuale
- di João Bernardo -

Contrariamente a quello che sono soliti affermare gli economisti e gli storici della sinistra marxista, io sostengo, ormai da molti anni, l'idea che sia impossibile concepire una teoria delle crisi sotto il capitalismo. Ciascuna crisi è specifica ed è il risultato del fatto che il sistema economico, con l'aggravarsi di alcune delle sue contraddizioni, non è più riuscito ad aggirare degli ostacoli che, in altre circostanze, avrebbero potuto essere facilmente superati. Bisogna quindi individuare quali sono le contraddizioni che si aggravano, ed una simile analisi cambia da una crisi all'altra. Su questa base, sviluppare una teoria delle crisi significa cadere nel formalismo e sostituire un'analisi delle strutture con la descrizione di alcuni episodi.
   Da un altro lato, le crisi settoriali sono state spesso confuse con le crisi mondiali. Quando un dato ramo di attività declina, si trova sempre qualcuno che predice che questa situazione potrebbe generalizzarsi in maniera catastrofica all'insieme dell'economia, dimenticando che - e questa è sia una causa che il suo effetto - il declino di un ramo comporta la crescita, o perfino l'emergere, di altri rami. Peggio ancora, il funzionamento ciclico dell'economia viene frequentemente scambiato per una crisi.
   In una sua frase spesso citata, Galbraith ha scritto che gli economisti hanno predetto molte più crisi di quelle che hanno avuto realmente luogo; in tal caso, si riferiva chiaramente ai suoi colleghi e non agli autori della sinistra marxista che amano scrivere di economia, in quanto, per quest'ultimi, una nuova crisi si può innescare in qualsiasi momento. Queste elucubrazioni comportano una grande quota di magia, come se il semplice fatto di discutere della crisi potesse indebolire il capitalismo. Ed i marxisti che credono che la base del capitalismo continui ad essere molto solida e che non sono state colpite le sue capacità di crescere ampiamente, vengono considerati con odio da parte di altri nemici del capitalismo, come se un'analisi che giudicano erronea potesse infondere nuova vita al sistema.
   In realtà, la sinistra anticapitalista rivela, in simili occasioni, la propria fondamentale debolezza, nella misura in cui spera di raggiungere, grazie alla crisi del capitale, ciò che la forza della classe operaia non è riuscita ad ottenere. I "grandi pensatori" della rivoluzione non hanno ancora deciso se il capitale si autodistruggerà, o se saranno i lavoratori ad eseguire la sentenza. E fino a quando essi esiteranno e resteranno indecisi su questo punto, i militanti di estrema sinistra non definiranno delle strategie autonome, vale a dire, non raggiungeranno mai la maturità. A mio avviso, l'attuale crisi finanziaria - perché è di questo che ora si tratta - è il risultato di più processi collegati fra di loro.

1) Uno degli elementi della crisi attuale è il lungo declino degli Stati Uniti in quanto potenza economica. Questo declino negli ultimi tempi si è aggravato e si manifesta in maniere flagrante in Iraq, dove i meccanismi strettamente economici dell'imperialismo sono stati sostituiti da dei meccanismi bellici. Una delle lezioni più istruttive, benché la meno compresa, di questa guerra funesta consiste nel fatto che l'amministrazione nordamericana, che obbedisce agli interessi delle grande società petrolifere, anziché assumere il controllo della produzione irachena utilizzando gli strumenti del mercato e gli investimenti di capitale, ha preferito tentare di raggiungere quest'obiettivo scatenando una guerra che ha provocato la distruzione di una gran parte delle capacità di estrazione e di trasporto di questa materia prima. Subendo dei costi incomparabilmente più elevati, per non parlare delle perdite in vite umane, il capitalismo nordamericano beneficia assai meno del petrolio iracheno rispetto a quanto sarebbe avvenuto se gli Stati Uniti non avessero invaso e distrutto quel paese.
   Questo paradosso dev'essere paragonato al comportamento dei capitalisti cinesi, sia che appartengano al settore privato che a quello statale, i quali, in questi ultimi anni hanno assicurato una presenza assai forte ma discreta in Africa, utilizzando semplicemente delle armi economiche. Il fatto che gli Stati Uniti non siano riusciti a imporre i loro piani in Iraq è il sintomo di una decadenza assai profonda. Coloro che sono stati finora considerati come i padroni dell'economia internazionale sono adesso ridotti ad essere una sorta di forza di polizia mondiale.
   Nel breve quadro di queste note, non intendo esporre, nemmeno sinteticamente, gli aspetti principali del declino dell'economia americana. Ma c'è una cifra che mi sembra sia sufficientemente eloquente: in percentuale, rispetto al PIL, gli investimenti nordamericani in infrastrutture materiali di comunicazione e di trasporto rappresentano la metà (2,4%) di quelli dell'Unione Europea (5%). Vediamo in questo il deterioramento di una condizione generale della produzione che colpisce tutti i settori economici. Gli Stati Uniti non stanno attraversando solamente una crisi finanziaria; durante gli ultimi decenni si sono accumulati dei problemi che interessano il cuore stesso del processo produttivo.

2) Un secondo fattore della crisi è strettamente legato a quel che ho sottolineato nella tesi precedente: il riequilibrio delle potenze mondiali. In generale, fra i 2/3 ed i 3/4 degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) - che definirei qui, in maniera semplificata, come quelli realizzati dalle imprese transnazionali - circolano in tre aeree: l'Europa, l'insieme formato da Stati Uniti e Canada, ed infine il Giappone. Nel corso della prima metà degli anni 1980, i paesi in via di sviluppo hanno ricevuto il 25% di tale IDE, totale che si è ridotto al 17% nella seconda metà degli anni 1980. Negli anni successivi, si è potuto osservare un aumento di questo IDE: ciò ha spinto alcuni economisti a trarre delle conclusioni affrettate, dato che nel 1991, il 26%, e nel 1992 il 35% degli IDE sono andati ai paesi in via di sviluppo. Ma un tale aumento è stato dovuto al fatto che una trentina di paesi in via di sviluppo, compresi la Cina e l'India, che si erano opposti fino ad allora agli investimenti transnazionali, avevano aperto le loro frontiere. Allo stesso tempo, l'ondata di privatizzazioni delle imprese pubbliche nei paesi in via di sviluppo aumentava le opportunità offerte agli investimenti stranieri. Nel 1995, questo gruppo di paesi otteneva ancora il 32% degli IDE, ma nel 1999 questa percentuale è scesa al 25%.
   Contrariamente ad una convinzione radicata nelle popolazioni dei paesi più poveri, le imprese transnazionali non danno la priorità al lavoro a basso costo; preferiscono sfruttare la manodopera qualificata, dal momento che è più produttiva. Non è ad Haiti o in Congo che il capitalismo prospera, ma in Svezia ed in Germania. Gli investitori transnazionali cercano le regioni più produttive dove l'economia è sviluppata e dove la forza lavoro è sofisticata. Certo, se due forze lavoro hanno lo stesso livello du qualificazione, ed una è meno remunerata dell'altra, gli investitori transnazionali preferiscono la prima. Ma, anche in questo caso, sono più interessati alle infrastrutture materiali del paese o della regione in questione, dal momento che la mancanza di infrastrutture rischia di non compensare i vantaggi che offrono dei costi salariali inferiori.
   Questo stesso criterio governa la ripartizione degli IDE in seno ai paesi in via di sviluppo. Le grandi imprese transnazionali cercano degli Stati che offrano la manodopera più qualificata e delle infrastrutture materiali che siano in grado di garantire un maggior potenziale di crescita. Per tale ragione, al di fuori dei tre grandi poli (Unione Europea, America del Nord e Giappone), il resto degli IDE si dirige di preferenza verso la Cina, l'India ed il Brasile. In tal modo, se da un lato, assistiamo al declino degli Stati Uniti, dall'altro, osserviamo una riorganizzazione che ha già trasformato la Cina in una nuova potenza economica e politica, e ha dato all'India ed al Brasile i mezzi per divenire delle potenze economiche. Contrariamente a quanto è avvenuto negli anni 1930, la crisi economica e finanziaria che colpisce gli Stati Uniti non corrisponde ad una crisi mondiale, ma piuttosto ad un rafforzamento delle possibilità di vaste regioni del globo.

3) Questo quadro globale viene ulteriormente complicato dal fatto che, nel corso degli ultimi decenni, i paesi hanno smesso di costituire delle reali entità economiche e che quindi gli Stati nazionali ed i loro rispettivi governi hanno perso la loro supremazia. Ho scritto molto su questo argomento, e molti altri autori hanno fatto lo stesso, ciascuno con il proprio punto di vista, ma partendo dagli stessi fatti. Ciò che caratterizza la circolazione transnazionale del capitale è la capacità di eludere ogni barriera doganale, cosa che priva i governi delle loro armi.
   Per comprendere i pro e i contro di questa faccenda, si può partire da un semplice esempio. Nella prima metà degli anni 1980, quando l'amministrazione Reagan era preoccupata a causa del vantaggio competitivo delle esportazioni giapponesi di automobili, di camion e di motociclette, impose delle tariffe doganali più alte. Ma le imprese giapponesi reagirono puramente e semplicemente investendo negli Stati Uniti, dove cominciarono a fabbricare i loro veicoli, accelerando in questo modo ancora di più il declino dell'industria automobilistica nordamericana. Infatti, fu sufficiente che le grandi imprese giapponesi avessero paura per l'aumento delle tariffe doganali perché anticipassero questa misura e cominciassero a fabbricare i loro prodotti negli Stati Uniti, come poi è accaduto. E lo stesso fenomeno si è verificato nella seconda metà degli anni 1980 con la produzione di computer. Secondo Dennis Encarnation, professore alla Harvard Business School, all'inizio degli anni 1990, la vendita alle fabbriche situate negli Stati Uniti, di impianti di assemblaggio ed impianti di stoccaggio situati sul territorio americano ma di proprietà del capitale giapponese era due volte il totale delle esportazioni dal Giappone verso gli Stati Uniti.
   Lo stesso fenomeno si è prodotto in senso inverso, a metà degli anni 1980, quando numerose imprese occidentali, al fine di evitare le misure protezionistiche attuate dal Giappone, hanno aperto delle fabbriche sul posto, anziché esportare i loro prodotti verso quel paese.
   Oggi, quello che la maggior parte delle statistiche continua a descrivere come flussi commerciali fra economie nazionali è in realtà un fenomeno che si svolge fra imprese transnazionali. Secondo uno studio fondamentale condotto alla fine degli anni 1980 da De Anne Julius, gli scambi fra le imprese e le loro succursali all'estero rappresentano più della metà del totale degli scambi in seno ai paesi dell'OCSE. Nel corso degli stessi anni, circa un terzo delle esportazioni nordamericane è stato inviato a delle imprese straniere di proprietà di società che avevano sede negli Stati Uniti, ed un altro terzo era costituito di merci che le imprese di proprietà straniera aveva delle succursali negli Stati Uniti che esportavano verso i paesi dove avevano la loro sede. In senso opposto, nel 1986, quasi 1/5 delle importazioni verso gli Stati Uniti proveniva da imprese americane situate all'estero, e quasi un terzo era costituito da merci che imprese straniere con succursali negli Stati Uniti avevano importato dai paesi dove avevano la loro sede.
   Se cerchiamo di avere una visione globale, alla fine degli anni 1980, i calcoli di De Anne Julius mostrano che il totale delle vendite realizzate dalle imprese di proprietà nordamericana, sia che si tratti delle loro sedi che delle loro succursali, alle imprese di proprietà estera è stato cinque volta maggiore rispetto alla stima totale delle esportazioni americane. Allo stesso tempo, le imprese straniere hanno comprato tre volte il volume delle importazioni americane. A quel tempo, fra i 12 principali paesi dell'OCSE,erano 11 gli stati che avevano venduto maggiormente negli Stati Uniti, attraverso filiali nordamericane di società che avevano la loro sede in quei paesi, piuttosto che attraverso l'esportazione diretta.
   In una situazione in cui vengono resi pubblici solo i dati nazionali, e dove le statistiche delle imprese rimangono confidenziali, questi calcoli sono molto difficili e pochi economisti osano addentrarsi su questo terreno, ma tutto indica che i valori calcolati per la seconda metà degli anni 1980 oggi sono ancora più elevati.
   Di conseguenza, quando si menziona la natura concorrenziale dei prodotti cinesi, sarebbe meglio non dimenticare che la maggior parte della crescita delle esportazioni cinesi è dovuta a delle succursali cinesi di imprese transnazionali. Questo non dovrebbe sorprenderci affatto, in quanto alla fine degli anni 1980 e all'inizio dei 90, le succursali giapponesi con sede negli Stati Uniti rappresentava la quota maggiore delle esportazioni da questo paese verso il Giappone.
   Infatti, dal momento che le statistiche sono unicamente nazionali viene alimentata una visione nazionalista anacronistica dell'economia. Invece di considerare l'esistenza di un piano strutturale di produzione e di distribuzione in seno alle grandi imprese transnazionali, gli specialisti preferiscono immaginare una concorrenza disordinata fra entità nazionali.

4) Un'economia mondiale, nella quale gli Stati-nazione ed i loro rispettivi governi hanno perso il loro primato e le imprese transnazionali sono gestite da una rete di poli interconnessi, sempre cangianti, una tale economia globale non si basa più su delle monete nazionali.
   Nel 1970, quando le istituzioni nordamericane ufficiali possedevano quasi 24 miliardi di dollari dislocati all'esteri, i privati e le imprese ne possedevano circa 22 miliardi. Questo squilibrio non ha fatto che crescere da allora. Ciò significa che, a forza di fabbricare biglietti verdi che circolano su scala mondiale, l'amministrazione nordamericana ne ha perso il controllo. È stato questo il motivo fondamentale che ha portato allo smantellamento degli accordi di Bretton Woods, smantellamento sancito dagli accordi di Washington (o Accordo Smithsoniano) del 17 e 18 dicembre 1971, una delle date più importanti di questo lungo processo di riorganizzazione economica, che non è stato ancora completato.
   Ma oggi non è il corso del dollaro ad essere in discussione, né un confronto fra i depositi ufficiali e quelli privati [di quella o di quell'altra moneta]- L'attuale volume delle transazioni finanziarie è di gran lunga superiore a tutte le riserve bancarie, per le banche centrali è impossibile controllare le monete nazionali senza tener conto delle posizioni delle grandi imprese transnazionali. Ci devono essere degli accordi, espliciti o impliciti. Nessuna banca centrale è in grado di sostenere la sua moneta, se si dispiegano dei movimenti sistematici contro questo strumento.

5) È in questa prospettiva che va compreso il rimodellamento del credito e dei meccanismi finanziari che hanno avuto luogo nel corso degli ultimi anni. Da parte di molti si denuncia ora il ruolo del «capitalismo speculativo», ignorando (o dimenticando) che è stato uno dei concetti tipici dell'estrema destra fascista o fascisteggiante durante gli anni 1920 e 1930. Il nazionalsocialismo di Hitler ha dato al «capitalismo speculativo» una connotazione biologica, identificandolo con gli Ebrei, cosicché le camere a gas nel Terzo Reich e le Einsatzgruppen (commandos di sterminio) nei territori occupati dell'Est sono stati la conseguenza finale di questa concezione di «capitalismo speculativo».
   Oggi ci sono numerosi marxisti di sinistra, che del tutto candidamente riproducono questa terminologia e, peggio ancora, queste idee. Il capitalismo non conosce alcuna opposizione fra produzione e credito; infatti, una tale opposizione non esisteva nemmeno ai tempi del mercantilismo, almeno per quel che riguarda il credito ottenuto attraverso meccanismi fiduciari. La funzione del credito è quella di permettere alla produzione di funzionare in maniera fluida e, quando si raggiunge la complessità attuale, i meccanismi finanziari diventano assai complessi e allo stesso tempo molto diversificati. Inoltre, in un periodo in cui il quadro nazionale delle economie è stato superato e in cui, in ogni caso, l'emissione di moneta nazionale non basta più a soddisfare del tutto i bisogni, le banche e le altre istituzioni finanziarie sono esse stesse obbligate a creare costantemente altre forme di moneta bancaria, e lo fanno direttamente nel quadro transnazionale in cui operano.
   Evidentemente, ci sono degli speculatori nell'ambito finanziario, ma sono sempre esistiti così come si sono sempre trovati degli individui nell'industria che si dedicano alla contraffazione ed esistono dei borseggiatori nei centri commerciali. Non è in questo modo che potremo comprendere i meccanismi dell'economia. Sarebbe auspicabile che, di tanto in tanto, i marxisti seguissero l'approccio di Marx che, ne Il Capitale, criticava il capitalismo non evocando le sue anomalie, ma osservando il suo funzionamento normale.

6) Oggi, esiste quindi un nuovo quadro economico, di risorse, di strumenti, ma ciò che manca è il coordinamento. I meccanismi di regolazione son chiaramente insufficienti per i bisogni attuali. Col declino delle nazioni in quanto quadro economico e quindi col declino dei ruoli dei governi nazionali, le istituzioni e i meccanismi interstatali sono stati anch'essi rimessi in discussione. Alcuni di essi sopravvivono così come erano stati concepiti negli Accordi di Bretton Woods, altri hanno subito delle modificazioni che non hanno influito sulla loro sostanza, mentre il grande capitale transnazionale nel corso del tempo ha già superato tutto ciò. Da un altro lato, tuttavia le grandi imprese transnazionali, mentre si erano mostrate più o meno in grado di autoregolarsi, non sembrano essere capaci di regolare il sistema nel suo insieme.
   In realtà, queste grandi società finora hanno cercato di approfittare del meglio di entrambi i mondi, essendo, in pratica, delle istituzioni pubbliche che da un punto di vista giuridico continuano a presentarsi come istituzioni private. Così, nel 1992, la Banca mondiale ha adottato delle Linee guida sul trattamento degli investimenti diretti esteri: questo documento è stato accettato dagli amministratori della Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale dopo che avevano consultato i governi interessati, dalle altre organizzazioni internazionali, da gruppi di uomini d'affari e da associazioni giuridiche internazionali. Ma benché questo testo abbia formulato delle raccomandazioni volontarie, aveva come oggetto solamente quello di regolare le azioni degli Stati, non le azioni transnazionali. In quest'occasione, la Banca mondiale ha affermato chiaramente che le Linee guida
propongono dei «principi generali destinati ad orientare i comportamenti dei governi nei confronti degli investitori stranieri ma che non includono delle regole di buona condotta concernenti gli investitori stranieri». Questa seconda dimensione è stata negoziata per un lungo periodo nel quadro di un Codice di condotta delle Nazioni Unite delle imprese transnazionali, ma, dopo le consultazioni ufficiose del luglio 1992, le delegazioni hanno deciso che era impossibile arrivare ad un consenso e hanno messo fine a tutti i negoziati che andavano avanti da quindici anni. Così, si è deliberatamente venuto a creare un vuoto giuridico intorno alle imprese transnazionali, al punto che uno dei loro principali organi ideologici, la rivista The Economist, ha insistito a più riprese sul fatto che non esistono imprese transnazionali, ma solamente somme di imprese nazionali.
   La crisi attuale non sembra condannare questa falsa idea. Le istituzioni che si limitano alla sfera nazionale sono superate, cosa che mina le basi della sopravvivenza delle organizzazioni internazionali strutturale sul modello di un'assemblea delle nazioni. La soluzione alternativa più praticabile sembra risiedere in una nuova alleanza fra le grandi imprese transnazionali e i nuovi organi sovranazionali che emergono dalle istituzioni internazionali esistenti. Ma il fatto che le grandi imprese transnazionali agiscono come degli organi sovrani su scala mondiale senza che questa sovranità sia ufficialmente riconosciuta, costituisce uno dei principali ostacoli che rende difficile, e perfino impedisce, la riorganizzazione urgente delle istituzioni incaricate della regolazione economica.
   Infine, rimane da fare, su scala mondiale, quello che la Cina è riuscita a fare sulla scala della sua economia, vale a dire gestire congiuntamente il capitalismo di Stato e le grandi imprese private nel quadro di un unico organo di decisione, consacrati dall'ammissione dei capitalisti privati in seno ad un partito che continua - evidentemente - a chiamarsi comunista. Di conseguenza, sembra che, anche in questo campo, il capitalismo cinese indichi la via da seguire.

7) La grande differenza fra questo ipotetico sistema di regolazione che ho appena evocato, o qualsiasi altro sistema simile, ed il keynesismo che è stato promosso dopo la seconda guerra mondiale, risiede nell'integrazione dei lavoratori. Nel modello keynesiano, così com'è stato applicato dai socialdemocratici e dai cristiano-democratici, il tasso di crescita economica, l'aumento della massa monetaria e il tasso di crescita dei salari risultavano da accordi tripartitici fra le confederazioni padronali, lo Stato e le centrali sindacali. Tuttavia, perché i sindacati possano contribuire a regolare il mercato del lavoro, bisogna che essi raggruppino una percentuale significativa di lavoratori. Ora, oggi giorno, i sindacati non possono più essere considerati come i rappresentanti dei lavoratori in quanto il tasso di sindacalizzazione è crollato in maniera spettacolare.
   In Australia, dove nel 1970 era sindacalizzata più del 50% della popolazione attiva, tale percentuale nel 2001 è crollata al 25%. L'evoluzione è stata praticamente identica nel Regno Unito, passando da quasi il 50% della seconda metà degli anni 1970 a circa il 30% del 2006. Lo stesso in Italia, dove nel 1980 era sindacalizzato intorno al 50%, ed ora il tasso attuale è inferiore al 40%. Negli Stati Uniti, il 34% della popolazione attiva sindacalizzata del 1965 è ora, nel 2006, solamente il 12%. In Germania si è passati dal 30% degli anni 1990 al 20% del 2003. E infine in Francia, dove i sindacati organizzavano negli anni 1970 il 20% della popolazione, questa proporzione nel 2006 è scesa a meno del 9%. Pochissimi paesi sono sfuggiti a questa tendenza.
   Oggi, i sindacati non contribuiscono più ad organizzare il mercato del lavoro, in quanto sono diventati incapaci di farlo. Sopravvivono principalmente in quanto detentori di capitale. I meccanismi che hanno permesso ai sindacati di appropriarsi, di diritto o di fatto, di importanti pacchetti di azioni sono complesse e varie. Non posso affrontare la questione in queste note, come invece ho potuto fare in un libro scritto in collaborazione con Luciano Pereira [*1]. Per mostrare l'ampiezza del problema, basta menzionare il fatto che nel 2003, su 17 miliardi di dollari che rappresentano i fondi pensione ed i fondi comuni di investimento in tutto il mondo, circa 12 miliardi sono direttamente collegati a dei sindacati, o sono gestiti da dei rappresentanti dei lavoratori salariati.
   In simili circostanze, i capitalisti possono controllare i lavoratori solo per mezzo della disciplina che instaurano in seno alle imprese e attraverso l'enorme sistema di controllo elettronico messo in atto al di fuori del luogo di lavoro? Oggi il credito è certamente diventato uno dei mezzi più potenti per controllare i lavoratori. Nei paesi più sviluppati, la generalizzazione del credito individuale e della moneta elettronica ha portato alla completa scomparsa di qualsiasi chiara delimitazione fra il totale del salario ed il totale delle spese; mettendo la maggior parte dei lavoratori in una situazione simile a quella che esisteva in un'epoca precedente, quando si indebitavano con il negozio di proprietà del loro padrone. 
Diventavano prigionieri del debito, come avviene oggi per tutti i lavoratori salariati nei paesi sviluppati. In realtà, il fatto che la crisi attuale si svolga a livello di credito potrebbe diventare un fattore molto grave che contribuisce all'addomesticamento dei lavoratori. E i capitalisti non esitano ad utilizzare tutto il potenziale di una tale arma.
   Malgrado ciò, gli attuali meccanismi di controllo saranno sufficienti? Dopo aver distrutto o marginalizzato gli organi burocratici della rappresentazione e dell'integrazione dei lavoratori, riusciranno i padroni, di loro propria iniziativa, a creare dei nuovi mezzi di regolazione del sistema economico, ivi compreso il mercato del lavoro? Oggi, i giornalisti (e gli accademici che accettano di abbassarsi al livello di pennivendoli) cantano ad ogni occasione le virtù del libero mercato e lo fanno proprio nel momento in cui l'influenza sul mercato degli oligopoli e gli oligopsoni ha raggiunto un livello senza precedenti. Ma, malgrado tutta la demagogia di questi discorsi, i cittadini ordinari si rendono conto, grazie alla loro esperienza pratica, che esiste un solo libero mercato concorrenziale, quello che organizza la concorrenza fra i lavoratori. Fino ad oggi, è stato questo, in termini economici, il fattore che ha contribuito maggiormente alla supremazia incontestata dei padroni durante gli ultimi venti o trent'anni. Il mercato si basa sulla libera concorrenza solo per quanto riguarda i lavoratori che entrano in competizione con gli altri salariati. Ma tale frazionamento e questa frammentazione dei lavoratori non costituisce forse un grave problema per il capitalismo, visto che si vuole regolamentare globalmente il sistema? È questa la domanda cruciale alla quale le lotte sociali dovranno rispondere nei prossimi anni. E da tale risposta dipenderà l'evoluzione della crisi ed il modo in cui essa verrà risolta.

- João Bernardo - Pubblicato su Revista de Economia, vol.11, n°2 del 2008 -

[*1] - O capitalismo sindical [Il capitalismo sindacale] de João Bernardo e Luciano Pereira, Xama Editora, Sao Paulo, 2008.

fonte: Mondialisme.org

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