giovedì 29 settembre 2016

L'archiviazione dello spazio

spazi o

Se si legge la sterminata saggistica che ha scandagliato da ogni parte la cultura degli Stati Uniti d'America si rischia ai diventare schizofrenici. L'America sembra essere tutto e il contrario di tutto: progressiva e reazionaria, pacifista e imperialista, libertaria e autoritaria, ottimista e paranoica. Come è possibile? La tesi di questo libro è che una simile identità si fonda sullo spazio (non sul tempo, come in Europa) e, soprattutto, su due rappresentazioni opposte di esso: la prima, derivante dalla matrice della frontiera, vive sul a continua necessità di invenzione di nuove dimensioni spaziali allo scopo di risolvere i conflitti; la seconda invece, basata sulla matrice puritana, percepisce lo spazio vuoto come fonte del male e dunque opera ossessivamente per controllarlo, catalogarlo, misurarlo. È dall'incontro-scontro di questi due mondi che si concretizza quell'inconfondibile ed eccezionale immaginario che tutti oggi sappiamo immediatamente riconoscere, solo guardando un film o una serie televisiva, sfogliando le pagine di un fumetto o giocando con un videogame. Esso permea la politica (interna ed estera), le relazioni sociali, lo sviluppo tecnologico, la strategia economica, persino i nuovi media e il mondo del web.
L’immaginario americano si fonda sullo spazio. Niente di nuovo. Sappiamo molto bene che, a differenza dell’Europa, in cui esso sembra essere quasi sempre metafora-laboratorio del tempo, il nuovo continente trasforma continuamente il tempo in spazio producendo identità apparentemente centrate sull’orizzontalità del presente, e ancora di più sulla produzione di futuro, piuttosto che sulla verticalità del passato. Così in America lo spazio dà l’impressione di essere l’unico parametro per leggere un’intera cultura e interpretarne i suoi prodotti, tutti facilmente collocabili in un processo storico che non presenta, almeno in apparenza, ambiguità.
Eppure, a leggere la sterminata saggistica dedicata alla cultura americana a cominciare proprio dal testo fondativo di Tocqueville, La democrazia in America, si rischia di diventare schizofrenici. Essa sembra essere tutto e il contrario di tutto: progressiva e reazionaria, avanguardia e retroguardia, pacifista e imperialista, qualunquista e iperpoliticizzata, libertaria e autoritaria, consumista e puritana, utopica e distopica, giustizialista e garantista, ottimista e paranoica. Il romanziere Bruce Sterling, pioniere della letteratura cyberpunk, quando una ventina di anni fa, riferendosi a Singapore, ha coniato la definizione “parco giochi con pena di morte”, probabilmente stava pensando all’America.
Il problema è che, se è vero che la cultura americana si fonda sullo spazio, in realtà si poggia su due differenti e spesso contraddittorie rappresentazioni di esso: scopo di questo libro è provare a farle interagire e capire questa contraddizione. Spiegare cioè come l’indole chiusa, quella della fondazione puritana dei Padri Pellegrini, si intrecci agli inizi dell’Ottocento, con l’identità aperta, quella degli uomini della frontiera, producendo un immaginario inconfondibile e riconoscibile da chiunque solo guardando un film o sfogliando le pagine di un fumetto. Esso permea la politica (interna ed estera), le relazioni sociali, lo sviluppo dei media, l’urbanistica, l’architettura, l’economia. Persino le nuove tecnologie, il mondo del web, soprattutto dopo la fine della frontiera storica propriamente detta, sembrano rispondere, in America, a due istanze originarie contrapposte: da una parte, la ricerca di nuovi spazi che assicurino una libertà infinita di movimento e la risoluzione di ogni tipo di conflitto; dall’altra, il controllo, la limitazione, la catalogazione ossessiva delle dimensioni spaziali esistenti e dei loro oggetti, attraverso la creazione di mega archivi e database.

(dal risvolto di copertina di "Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell'immaginario americano", a cura di Fabio Tarzia ed Emiliano Ilardi, manifestolibri)

spazi

Immaginari turbolenti della realtà
- di Antonio Tursi -

Nel volume Spazi (s)confinati (manifestolibri, 2015, pp. 413), i sociologi della cultura Fabio Tarzia ed Emiliano Ilardi sostengono la tesi della centralità dell’immaginario nella storia degli Stati uniti e in tale ottica indagano quel «grande sistema comunicativo che, attraverso una strumentazione metaforica e allegorica, e un utilizzo del più svariato ventaglio di linguaggi, dà forma (attraverso i media) alle strutture culturali profonde e funge da mediazione tra queste ultime, gli individui e le trasformazioni storiche». Lo sconfinamento reaganiano tra il cinema e la realtà, l’attore e il politico dà conto di una forza dell’immaginario altrove storicamente molto più debole ovvero sostanzialmente alternativo rispetto alla realtà (quasi una compensazione rispetto a essa). Ci pare perciò davvero apprezzabile il tentativo compiuto in Spazi (s)confinati di indagare il ruolo del fattore-chiave immaginario. E di farlo sganciandolo da quella critica tipicamente marxista che lo relega a mera sovrastruttura determinata e funzionale alle dinamiche dell’economia capitalista. L’immaginario – pur non essendo l’unico fattore del mutamento sociale così come per McLuhan non lo erano i media – gioca un suo ruolo autonomo e in forza di questa autonomia interagisce con altri fattori, tipo quelli economici, a volte indirizzandoli in determinate direzioni. Inoltre, coraggiosamente, i due autori indagano le dinamiche dell’immaginario americano nel lungo periodo, mostrandone splendori e miserie, momenti di gloria e crepe dall’arrivo dei Padri Pellegrini all’affermazione di Barack Obama.
Le parole e le azioni di Reagan ci mostrano, inoltre, come il sentimento di un «Destino Manifesto» derivato dal puritanesimo, da un lato, e la conquista dello spazio derivato dall’esperienza della frontiera, dall’altro, siano riconoscibili come le grandi matrici di sviluppo dell’immaginario yankee. Ciò dalla sua origine e sino almeno all’esaurimento della spinta propulsiva offerta dalle vittorie nelle due guerre mondiali. Poi qualcosa si è incrinato: il Vietnam ha forse rappresentato il momento in cui l’America è stata chiamata più che in altre occasioni a prendere atto delle crepe del suo edificio. Lo spazio della giungla asiatica non è stato conquistato e dunque neppure riconsacrato. Il nemico, che l’America ha sempre assolutizzato (dalle streghe ai «demoni» rossi, dai gialli vietcong ai terroristi islamici), non è stato punito. E molti figli della nazione eletta non sono più tornati alle loro case, nella loro Città sulla collina, se non dentro body bags. La nazione non è riuscita più a manifestare la sua elezione, la sua predestinazione, il suo Destino. Una crisi che continua anche nella società globale di oggi, nella quale il ruolo degli Stati uniti non è ben definito, oscillando tra interventismo eccessivo e isolazionismo, rappresentazione del grande Satana e faro di democrazia. Dopo l’11 settembre e le guerre permanenti in Afghanistan e Iraq, non siamo più stati tutti americani.
L’America non riesce più ad affermare la sua egemonia culturale prima che politica in un mondo multicentrico e turbolento. Un mondo in cui l’ibridazione con l’alterità è diventata la regola, non si riconosce più nel meccanismo di chiusura e apertura, di distinzione e conquista che l’immaginario americano ha dispiegato nel passato. Può l’America riconquistare un ruolo definito in questo mondo? Spazi (s)confinati non offre una risposta univoca; si limita a richiamare l’attenzione sulla capacità di reinventarsi che l’immaginario americano ha mostrato nel corso del tempo. Nella loro ricostruzione gli autori sostengono, tra l’altro, che in America non è mai emersa una sfera pubblica capace di mediare le diversità. Negli spazi sconfinati della frontiera al massimo si è manifestata una pubblicità senza sfera pubblica. In tal modo, però, non si avvedono di utilizzare un metro tutto «continentale» per interpretare un fenomeno che – come loro stessi mostrano – a quel metro non si può riportare. Non una sfera pubblica di tipo argomentativo o in generale costruita sulle grandi fratture ideologiche ma una sfera pubblica fatta di single issue, agitazioni emotive, filamenti di immaginario, forse effimera ma non meno significativa, ha improntato la politica negli Stati uniti. Su questa base non è escluso che gli States possono ritrovare un ruolo nell’epoca delle sfere pubbliche diasporiche che, come insegna Arjun Appadurai, sono giocate proprio sull’immaginario.

- Antonio Tursi - Pubblicato su Il Manifesto del 24 marzo 2016 -

Nessun commento: