Post-Imperialismo
- Il nuovo volto del mondo e la vecchia visione della sinistra -
di Robert Kurz
1.
Quando avvengono delle modifiche nell'oggetto della critica, anche la critica stessa deve cambiare sé stessa. Se, all'inizio del XX secolo, la trasformazione del modo di produzione capitalista ha cambiato il sistema di riferimento dei conflitti sociali, portando ad un nuovo stadio (imperialismo, economia di guerra, taylorismo, ideologizzazione di massa, ecc.), e trasformando anche, in maniera controversa, il marxismo del movimento operaio fino allora vigente, allora forse la rottura di un'epoca, alla fine del XX secolo, esigeva una trasformazione ancora più ampia. E' controproducente, perciò, volersi "aggrappare" a dei modelli teorici supposti immutabili. Sarebbe necessario, invece, prendere sul serio, una volta per tutte, il cambiamento nel sistema di riferimento politico-economico.
Solo ora, passato il periodo di incubazione degli anni 1980, le nuove forze produttive post-fordiste della microelettronica ed i loro concetti correlati di razionalizzazione (descritti nel loro insieme, secondo il riferimento teorico scelto, come seconda o terza rivoluzione industriale) mostrano il loro vero potenziale di crisi: per la prima volta, la ricchezza materiale (anche ecologicamente distruttiva) viene prodotta innanzitutto dall'utilizzo tecnologico della scienza piuttosto che dal dispendio di lavoro umano astratto. Il capitale comincia a perdere la sua capacità di valorizzazione assoluta, e raggiunge così quello stadio, estrapolato logicamente da Marx, in cui la forma di socializzazione del sistema produttore di merci - che "si basa sul valore" - va a sbattere contro i propri limiti storici.
La crisi della forma merce viene, tuttavia, filtrata dal movimento del mercato mondiale, ossia, per mezzo della lotta globale per la quota decrescente di valore "valido"; lotta che rende possibile (e domina) le stesse forze produttive che sono responsabili della svalorizzazione della forza lavoro. I capitali più produttivi massacrano concorrenzialmente quei capitali che non possono più tenere il passo con l'alto livello di produttività, mobilitando a tal fine considerevoli somme di capitale fisso. I vecchi perdenti ed i nuovi ritardatari possono continuare la gara solo per mezzo di salari sempre più bassi (o perfino facendo uso di lavoro forzato o schiavistico), come avviene in alcuni settori orientati esclusivamente all'esportazione (come nel caso dell'Europa Orientale e del Sudest Asiatico). Tuttavia, con lo stabilirsi di un quadro globale di produttività, i bassi salari non posso produrre alcuna massa addizionale "valida" di valore, ma servono soltanto ad ampliare in maniera precaria la capacità di concorrenza all'interno del processo di contrazione della sostanza valore "valida". Si istituisce così, in quasi tutti i settori - sia attraverso investimenti di capitale, sia attraverso strutture di esportazione mantenute da bassi salari - una competizione repressiva a livello globale.
A prima vista, potrebbe sembrare che il processo di crisi si svolga a scaglioni, accompagnando la situazione di ciascuna economia nazionale, e lasciando per ultime le nazioni più forti dal punto di vista del capitale, capaci di sostenere per più tempo il processo di simulazione monetaria attraverso l'indebitamento di Stato e del sistema creditizio. Per prime soccomberebbero le economie del Terzo Mondo e del socialismo di Stato, che sono diventate un esempio di "modernizzazione tardiva" destinata fin dall'inizio al fallimento dentro l'orizzonte borghese. Negli anni 1990, però, la crisi sembra avanzare a grandi passi proprio in direzione delle economie nazionali stabilizzate.
Il limite del modo di produzione si esprime nella forma di costi di produzione continuamente in ascesa, e preme sempre più, senza il filtro delle delimitazioni nazionali, sui conti delle imprese. Fornitori e forza lavoro, così come i mercati dei consumatori, devono essere ottenuti direttamente a livello globale ed essere flessibilmente variabili secondo l'offerta di mercato.
I tassi di crescita apparentemente elevati del commercio mondiale non si basano più, in queste condizioni, su un'esportazione vecchio stile di capitali e di merci nazionali, ma sono innanzitutto frutto del progressivo smantellamento globale di quello che, fino ad allora, erano le economie interne. Un prodotto venduto da un'impresa "tedesca" sul mercato tedesco può essere prodotto in Inghilterra e ad Hong-Kong, assemblato nel sud della Cina e spedito in Polonia, in conformità al suo piano di costi. La produzione di cacciaviti delle fabbriche giapponesi appare negli Stati Uniti come esportazione dal Messico, o appare in Spagna come esportazione inglese. Lo stesso processo si ripete sul piano monetario. Esportazioni tedesche verso la Cina, provenienti in realtà da un'impresa francese, possono essere fatturate in Yen; crediti in marchi possono essere assunti negli Stati Uniti da un'impresa giapponese. Tutti i componenti del processo capitalista vagano per il mondo.
2.
Come conseguenza di questo sviluppo, si sbriciolano i legami fra la sfera dello Stato - ossia, la politica - e la riproduzione capitalistica. Lo Stato e la politica, ovviamente, non spariscono, ma si staccano dai loro propri fondamenti economici (dando luogo alla crisi della sfera politica). Nel mezzo della concorrenza repressiva globalizzata nasce la figura di un capitale che non viene più prodotto essenzialmente a partire dalla massa nazionale di plusvalore (creata dall'economia interna delle nazioni), ma soprattutto dalla distribuzione del plusvalore mondiale in contrazione, per mezzo di strutture globali di perdita e di guadagno, vincolate solo indirettamente alle vecchie economie nazionali. Su queste basi, non è più possibile nemmeno una "lotta di classe" nazionale, ed ancor meno è possibile, su questo piano, la difesa o la mobilitazione di interessi capitalisti coerenti. Lo Stato non è più il capitalista ideale che aveva a cuore e curava, a tempo pieno, lo stock di capitale nazionale, e poteva concentrare e rappresentare come un tutto la volontà capitalista. Nello stesso Occidente, lo Stato comincia a perdere il controllo sui processi sociali che riguardano la sua popolazione ed il suo territorio, e diventa dipendente di una "localizzazione privilegiata". Può garantire condizioni capitaliste di base soltanto in maniera limitata, nella misura in cui marginalizza una quota della sua popolazione che non è più passibile di finanziamento. Se, da una parte, vengono smantellate le strutture di produzione, forniture e servizi che erano durate per decenni, e vengono disconnesse intere regioni, che corrono il rischio di trasformarsi in deserti, dall'altra parte, il diffondersi di baraccopoli, la disseminazione della barbarie ed il dominio delle mafie, mette in scacco le funzioni dello Stato.
In una situazione come questa, di graduale dissoluzione della sua economia interna, lo Stato eroga solo aree di influenza e dominio imperiale. Quelli che erano i vantaggi fondamentali in una posizione di supremazia mondiale, cioè a dire, l'utilizzo garantito di determinate capacità della forza lavoro, delle materie prime e dei mercati dei consumatori, ora sono svantaggi. Le strutture fise diventano un fardello, poiché quel che oggi può essere a vantaggio di una determinata regione, domani può diventare uno svantaggio, e questo anche perché possono aprirsi possibilità più attraenti in materia di costi ed in una regione del mondo completamente diversa. Gli investimenti necessitano di essere fluidi, flessibili e facilmente dislocabili e devono, inoltre, concorrere per i migliori interessi sui mercati finanziari globali. In linea di principio, tutti devono essere presenti dappertutto, ed essere capaci di sparire di nuovo al momento giusto. Sotto tali condizioni, un impero nazionale o multinazionale appare come qualcosa di antidiluviano, i suoi costi di finanziamento oltrepassano di molto i suoi rendimenti e minacciano di diventare rovinosi.
Il protezionismo statale non può fermare questo sviluppo nel suo complesso, ma, al contrario, diventa anch'esso selvaggio, in funzione di accordi definiti a livello globale (GATT), e assume l'aspetto di una fitta jungla, bilaterale e multilaterale, dove vengono gradualmente eliminati gli obblighi di protezioni per le industrie "nazionali" che ne hanno bisogno. In queste condizioni, non sembra probabile neppure la divisione del mondo in solo tre grandi blocchi di potere (l'Est asiatico sotto la guida del Giappone; le Americhe sotto la guida dell'USA; e l'Europa e l'Eurasia, sotto la guida di una coalizione centro-europea). Dal momento che le stesse strutture di potere continentale perderanno la loro efficacia a vantaggio dei grandi circuiti, a causa del deficit, dei flussi unilaterali di esportazione e degli investimenti diversificati globalmente. Tutto l'Est asiatico esporta nel resto del mondo, senza importare in maniera corrispondente, cosa che, già di per sé, impedisce la formazione di uno spazio economico autonomo. Gli investimenti giapponesi si trovano spalmati per il mondo intero e gli Stati Uniti si vedono non solo più dipendenti che mai dal mercato mondiale, ma dipendono di molto anche dai settori apparentemente autarchici della loro gigantesca economia interna, dall'acquisto dei loro titoli di Stato da parte del capitale speculativo e dai fondi pensione giapponesi. Anche la Repubblica Federale Tedesca può finanziare il suo improduttivo nutrimento della Germania Orientale solo con l'afflusso di capitale monetario americano e giapponese. La bancarotta imminente del girotondo deficitario e del sistema monetario europeo da impulso alle forze centrifughe e rende effettivamente impossibile la formazione di un blocco continentale autonomo. Le nuove crisi serviranno soltanto a rafforzare ancora di più questo potenziale di diversificazione fuggiasco e globale. I nomi nazionali del capitale finiscono per non essere altro che il manto di una riproduzione globalmente dispersa ed in fase di dissoluzione.
3.
Aggrappandosi ai suoi vecchi punti di vista, la sinistra interpreta in maniera del tutto equivocata la situazione effettiva e, con questo, classifica come dimostrazioni di forza imperialista delle nazioni i fenomeni dei blocchi economici che, in realtà, contraddistinguono le opposizioni post-imperialiste nel mezzo del processo di crisi. La politica statale di blocco contro i rifugiati della povertà, per esempio, non può in alcun modo essere elencata fra gli interessi capitalistici che, al contrario, dall'immigrazione si aspettano di poter rafforzare il dumping sociale e di attenuare la pressione dei costi d'impresa. Inversamente, la modifica dei diritti di asili non può essere spiegata come una "conquista" capitalista dei paesi dell'Est, poiché essa nasce innanzitutto dalla speranza illusoria di edificare una "fortezza europea", capace di far fronte alle economie in disgregazione. I prestiti statali della CEI, a loro volta, non rappresentano una sorta di linea di fronte del capitale occidentale per creare insediamenti commerciali, ma piuttosto ne prendono il posto (a causa del timore di evasioni incontrollate) e si perdono nelle tasche della mafia, poiché non esiste alcun progetto redditizio su larga scala, ad eccezione di alcune joint venture mantenuta al prezzo di bassi salari.
Tanto meno si può mettere nello stesso sacco il nuovo radicalismo di destra e le azioni delle forze di pace tedesche nelle regioni di guerra civile. C'è dell'ironia nel fatto che la maggioranza dei nuovi radicali di destra, ad esempio la sinistra antimperialista, sia rigidamente contro il versare "sangue tedesco" in territorio straniero. Questo corrisponde all'ideale illusorio del blocco e dell'isolamento del neonazionalismo in generale, che continua a soggiogare "l'altro", ma per tenerlo "fuori dalle proprie frontiere". Anche per l'organo di destra, "Junge Freiheit", in un futuro geopolitico, sarà difficile protestare contro il diffuso "pacifismo da fuori", e, nonostante la protesta, non potrà più riferire la sua strategia ad obiettivi ed interessi imperiali obsoleti, dovendosi accontentare di prevedere una "diga contro il caos".
Da parte sua, l'azione dei baschi azzurri (considerando o meno la partecipazione tedesca) non può nemmeno più essere vista nel quadro degli interessi di gestione di risorse specifiche, né tantomeno nella linea della "pura" dimostrazione di forza. Se la gestione di isole di produttività, bassi salari e strutture bancarie isolate e flessibilmente allargate, non implica più una delimitazione delle zone specifiche di influenza, con la crisi della funzione politica e del carattere statale, è diventato obsoleto anche il controllo da parte degli Stati "sovrani" più potenti su quelli meno potenti. Ora perché ci sia un rapporto in generale fra "sovrani", bisogna che uno di essi si mantenga come tale. Tuttavia, con il tracollo del potere statale e lo stabilirsi di un'economia recessiva, quello che si vede in Caucaso, in Somalia e in Jugoslavia è l'impero dei clan, dei signori della guerra, delle bande e delle mafie. Un tale stato di cose comincia a diffondersi dappertutto e, assieme al controllo imperiale sul dominio politico vigente altrove, porta ad una situazione assurda.
Per tale motivo, è del tutto incerta la definizione strategica delle discusse azioni dell'ONU. L'incipiente barbarie post-imperialista fa sì che le vecchie "potenze" competano non più per la responsabilità, ma per l'irresponsabilità a fronte del numero crescente di regioni "post-politiche" devastate. In tali regioni, non si promuovono più guerre rappresentative vecchio stile, e neppure una rinnovata costellazione di concorrenza imperialista, ma piuttosto si vede l'infiammazione interna mediata dal processo globale di crisi. In questo contesto, è possibile criticare con ugual diritto tanto l'intervento quanto il non intervento. Il regime di Saddam Hussein non è stato costretto alla capitolazione, così come non sono state disarmate le milizie in Somalia, né tanto meno la Bosnia verrà trasformata in un protettorato dell'ONU, come esigono i gruppo pacifisti locali contro tutti i partiti in guerra. Gli Stati post-imperialisti esitano poiché, a causa delle loro stesse crisi interne, che mettono in scacco la funzione della politica, devono non solo creare dei precedenti per la soppressione della "sovranità" statale (e non, come prima, soltanto la perdita di controllo imperiale esterni), ma devono anche istituzionalizzare una forma di responsabilità globale e non-statale nelle regioni disgregate, lasciate ai margini del mercato mondiale. E, tuttavia, come evitare un tale corso se la logica di questo stesso mercato deve d'ora in poi rimanere valida? In queste condizioni, tanto l'appoggio quanto il rifiuto senza limiti all'azione dell'ONU, diventa un'alternativa inaccettabile. Bisognerebbe innanzitutto sviluppare una pratica emancipatrice correlata alla nuova costellazione mondiale, capace di formulare una posizione propria e senza pregiudizi. Tale prospettiva non può essere ottenuta a partire da un'ottica immanente all'orizzonte politico attuale, soggetta a lasciarsi imporre nuovi obblighi decisionali - falsi e controproducenti - nel vicolo cieco della socializzazione capitalista mondiale.
4.
La vecchia sinistra antimperialista soccombe perché il suo proprio pensiero rimane legato alla forma merce e alla forma politica borghese e, quindi, non è in gradi di reagire alla barriera storica del sistema produttore di merci. Se l'ex-sinistra realista (con cui la sinistra radicale condivide la fede nell'eterna capacità di accumulazione del capitale), illusa dalla democrazia del mercato, si limita ad invertire le sue vecchie psicosi e a diffondere una sorta di colonialismo dotato di diritti umani del tutto chimerico, il vecchio antimperialismo, centrato sulla lotta di classe, si trova senza oggetto. La mobilitazione degli "interessi della classe operaia", ripetitivi ed orientati ad uno spazio di riferimento nazionale, si demoralizza priva com'è di una riflessione critica circa la forma merce, ossia, senza una riflessione sulla forma monetaria inerente a questi interessi. Di fronte all'effettiva realtà, finisce anche per ridicolizzarsi definitivamente l'illusione borghese che vede lo Stato come portatore di una volontà generale libera - propria della sinistra radicale e identica all'illusione per cui un soggetto di mercato sarebbe capace di passare sopra le leggi cieche della produzione di merci e di ottenere potere di definizione su sé stesso.
Una stessa linea può tracciare lo sviluppo dell'illusione della volontà politicista - che ha come base la riproduzione della forma merce a partire dal "primato della politica" di Lenin, e passando per la teoria del "capitalismo organizzato", formulata da Kautsky e da Hilferding, e poi per lo "statalismo integrale" della teoria critica, per lo "Stato pianificato" degli operaisti (che credevano seriamente nell'eliminazione del feticcio della merce per mezzo della "volontà di potere"), per la "teoria della legittimazione" di Habermas, fino ad arrivare al "derivazionismo di Stato" del Gruppo Marxista tedesco e alle "teorie della regolamentazione" fordiste, dei socialisti di sinistra. Ora, proprio nel bel mezzo della sua crisi, il feticcio cieco del capitale passa in rassegna tutti i falsi concetti della sinistra sulla politica, lo Stato, la "sovranità" e la volontà, e questa, in tutte le sue rimanenti fazioni, reagisce apertamente con lo slogan: "tanto peggio per la realtà".
I resti del vecchio radicalismo arrivano al punto di denunciare le previsioni di una imminente transizione verso la barbarie globale come "falsa certezza", dal momento che sono condizionati dal computo meccanico dei fenomeni di crisi del tutto contraddittori e contrapposti fra di loro - come l'unificazione tedesca, i cambiamenti nel diritto di asilo, il nuovo radicalismi di destra e le azioni dell'ONU visti come "rinascimento dell'imperialismo nazionalista tedesco". I naufraghi critici della società sono in tal modo rovinati dalla politica e rincretiniti dall'agitazione, che fa loro sembrare insano il tentativo di analizzare una rivoluzione industriale (quella della microelettronica), facendo uso di concetti teorici di crisi. Essi dichiarano superflua tanto una definizione dell'epoca, quanto una nuova storicizzazione dello sviluppo interno del capitalismo, poiché questo, concepito secondo concetti scolastici, non ha mai smesso di essere il male assoluto, immutabile (o forse perché tutto era tanto bello nel feudalesimo?). Non hanno nemmeno il coraggio di accusare di "oggettivismo", per l'appunto, l'analisi e la critica delle strutture (in realtà) oggettivate, perché da sempre hanno operato per mezzo di concetti borghesi irriflessi del soggetto e della volontà. Non sorprende, quindi, che la domanda di una soppressione della forma merce e della forma politica, allo stadio attuale di crisi del sistema mondiale pienamente sviluppato, dev'essere formulata in maniera molto diversa che nel passato - visto sia come riformismo che come fondamentalismo.
In un punto, però, la sinistra radicale è di fatto insuperabile: pur senza aver coscienza del fatto, essa stessa esprime, in maniera unica, la crisi della politica; le sue correnti si relazionano fra di loro in modo talmente isterico che i suoi leader ed i suoi divulgatori si smascherano gli uni con gli altri in quanto tedeschi nazionalisti, contro-rivoluzionari, razzisti ed antisemiti. Una forma naturale di auto-sterminio? Bene, ma questo significherebbe ricadere nel biologismo.
- Robert Kurz - [tratto dal libro di Robert Kurz - "Der Letze macht das Licht aus" (L'ultimo spenga la luce) 1993 ]
fonte: EXIT!
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