sabato 25 aprile 2015

selvaggi occidentali

colonialismo

Abolizione e conservazione dell'uomo bianco
- Una retrospettiva sul colonialismo e l'anti-colonialismo alla soglia del XXI secolo -
di Robert Kurz

1.
Quando tutti concordano all'unanimità circa il carattere discutibile di un fenomeno sociale, quando questo diventa perfino oggetto anche della critica ufficiale, allora vuol dire che generalmente ha smesso di essere una presenza effettiva ed è diventato un oggetto della storia. Quale politico, oggi, può ancora essere chiamato "colonialista"? Quale paese può ancora acquisire delle colonie? Il mercato mondiale ha superato un simile problema già da vari decenni, sebbene vi siano ancora delle piccole controversie in proposito, nella retroguardia. Pertanto, sarebbe inutile continuare a dare calci ad un cane morto, anche se, da vivo, è stato incredibilmente brutto ed intollerabile. Nonostante ciò, tuttavia, siamo ancora ben lontani dall'aver finito di fare i conti con la storia passata, che continua ad influenzare noi ed il nostro futuro. Forse perfino oggi è possibile solo cominciare a comprenderla, dando uno sguardo retrospettivo su un'epoca che non può più essere cambiata e che rimarrà per sempre al di fuori del nostro campo di azione.
L'umanità europea, a tutt'oggi, non ha prodotto alcuna critica definitiva riguardo all'avvenimento cui diamo il nome di "scoperta dell'America". Le missioni gesuite avevano già legittimato in anticipo il mondo europeo in quanto l'unico vero mondo. Una tale elevata autostima, con l'essere secolarizzata, ha guadagnato una vigorosa continuità con le idee dell'illuminismo, fino ad oggi determinanti sia per l'ideologia borghese ufficiale che per la teoria critica della sua intellighenzia. Durante la sua alba, la modernità occidentale doveva esporre la sua verità ultima, finalmente scoperta, dello spirito e della società. Il pensiero borghese, con il suo razionalismo astratto, e la civiltà dei liberi ed uguali proprietari di merci, andarono ad incarnare l'idea stessa di ragione e di civiltà. In contrapposizione a questo, sia i popoli naturali del Pacifico e delle foreste tropicali che le culture avanzate dell'Asia, dell'Africa e delle Americhe potevano essere sempre squalificati in quanto "barbari", seguendo la vecchia e consumata tradizione europea.
Questo punto di vista acquistò un nuovo rinforzo teorico a partire dalla fine del XVIII secolo, con il sorgere delle teorie evoluzioniste. Così come Hegel aveva ridotto tutto il mondo antico e medievale ad un mero stadio preliminare, per l'esattezza della monarchia illuminata prussiana - che aveva definito, senza batter ciglio, come l'ultimo stadio evolutivo della cultura umana - anche le culture che si trovavano fuori dall'universo europeo, vennero definite dalle nascenti teorie storico-genetiche - all'interno di una sorta di scala delle civiltà - come gradi distinti e preliminari di uno stadio evolutivo pre-europeo. Augusto Comte, il fondatore della sociologia e del positivismo, formulò, a metà del XIX secolo, una teoria evolutivo-filosofica degli Stati, che si estendeva da in fittizio stato di natura fino ad un livello non ancora raggiunto, che aveva chiamato "Stato positivo", in cui la scienza finalmente avrebbe dovuto trionfare. Comte non aveva dubbi che questa scala, allo stesso tempo, mostrasse anche un giudizio di valore, nella misura in cui designava espressamente la "razza bianca" e le "nazioni europee" come "prescelte" e come "avanguardia dell'umanità".
E' quindi il progresso, quel concetto creato allora e che oggi si trova in disgrazia, ciò che porta al dominio dell'uomo bianco, il quale, con la sua razionalità, non solo incorona la storia umana, ma si suppone anche che porti a termine l'edificazione dello "Stato positivo". Senz'ombra di dubbio, una simile interpretazione della storia facilita di molto l'equiparazione dei popoli e delle culture sconosciute alle cose ed agli oggetti naturali, passibili in quanto tali di essere "scoperti", ad esempio le specie animali o vegetali. Ora, se i popoli che si incontravano fuori dall'Europa erano dei meri rappresentanti degli stadi evolutivi inferiori, che ormai l'uomo bianco si era lasciato alle spalle, allora di fatto essi non erano esseri umani nell'esatto senso del termine, e potevano essere trattati, nel migliore dei casi, come una particolare specie "infantile", e come bestie, nel peggiore dei casi. Con la medesima indifferenza che viene dispensata oggi, in generale, nei confronti dei bovini e dei suini - cosa che a volte suscita l'indignazione delle generazioni future - nel corso di tutta la storia coloniale, i cosiddetti "nativi" sono stati definiti per principio come esseri distinti dagli umani, come animali utili, come strumento, o perfino come prede.
Questa rivoltante crudeltà, però, non deve essere solo semplicemente condannata da un punto di vista morale e superficiale, ma, soprattutto, va compresa nella sua storicità. Essa indica, innanzitutto, che lo stesso uomo bianco si trova ancora ad uno stadio grezzo di sviluppo, a dispetto del suo immaginarsi al top del genere umano. E' noto che il colonialismo fa parte di quello che Marx chiama "forza propulsiva del capitale". L'oro che è stato rapinato nel XVI e nel XVII secolo, in quantità massicce, soprattutto alle culture indigene dell'America centrale, prontamente distrutte, ha contribuito enormemente a stimolare la circolazione monetaria in Europa e, conseguentemente, all'espansione della sua produzione di merci. A poco a poco, le colonie fecero aumentare il commercio mondiale e, nei trattati con i nuclei della colonizzazione d'oltremare, nacquero i primi embrioni di un mercato mondiale. Nuove droghe e condimenti cominciarono ad essere consumati in massa, come nel caso proverbiale del tè inglese, che ovviamente proveniva dall'India, e come nel caso del pepe, che cominciò ad essere disponibile in grande quantità, mentre nel Medioevo veniva venduto a peso d'oro ed era riservato solo alla crema della società. Se le materie prime, importate a prezzi modici, stimolarono il modo di produzione industriale, il traffico degli schiavi nelle grandi proprietà industriali coloniali diede impulso al capitalismo agrario.
Così, dall'inizio del XVI secolo fino al fine del XIX secolo, il colonialismo ha contribuito ad innescare il modo di produzione capitalista. Vennero liberate le Furie dell'interesse monetario astratto e, per la prima volta, la moltiplicazione del denaro in funzione di sé stesso divenne principio universale della produzione e della vita sociale. Non c'è da meravigliarsi che gli europei, all'inizio ancora appartati ed immersi nell'universo medievale, in virtù delle loro conquiste coloniali, trincerati nelle strutture feudali, si siano comportati nel nuovo mondo in una maniera che corrispondeva al loro stesso sradicamento e alla loro incertezza. L'orizzonte diventava troppo vasto per la visione feudale del mondo, ma la nuova libertà, che cominciava ad essere promessa dal pensiero illuminista, aveva come base sociale reale la pressione lavorativa del denaro ed il calcolo astratto della redditività. Sballottato da una tale cieca coercizione, per molto tempo l'uomo bianco ha guidato il suo impero mondiale con la crudeltà inerente alle relazioni coercitive incoscienti.
Ora, se il capitalismo è venuto al mondo nella storia coloniale, per usare un espressione di Marx, "sporco ed insanguinato", ed ha legittimato con l'illuminismo la sua propria superiorità civilizzatrice, è chiaro che le contraddizioni generate da un tale processo non potevano passare inosservate. Una delle prime testimonianze dell'insensata crudeltà della colonizzazione, è il famoso manifesto del Vescovo Bartolomé de Las Casas, pubblicato per la prima volta nel 1552, che porta l'arido titolo di "Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie Occidentali". Descrive il massacro compiuto dai conquistadores e documenta una quantità soffocante di atrocità, estorsioni, furti e omicidi. Si vede in questo racconto che, nella ricerca dell'oro, gli indigeni vennero torturati e bruciati vivi, vennero tagliate mani, strappati occhi e recisi nasi, mentre ai bambini veniva schiacciato il cranio.
Si stima che solo nel corso della colonizzazione spagnola siano stati massacrati e mutilati in questo modo più di 20 milioni di persone: Di certo, il saccheggio ed il massacro, in quanto origine più crudele della capitalizzazione, erano in evidente contraddizione non solo con le idee astratte della religione cristiana e dell'illuminismo, ma anche con lo stesso calcolo di redditività del capitale. Le sanguinarie campagne di sterminio e la brutale schiavizzazione, a lungo termine riducevano la forza produttiva del materiale umano e, quindi, dovevano essere superate in nome della pretesa continuità dello sfruttamento europeo. Lo stesso Las Casas non si oppone in alcun modo alla colonizzazione in sé, essendo un suddito fedele della corona spagnola e leale dignitario della Chiesa Cattolica. Anche i critici posteriori, che censuravano la colonizzazione, evocando il progresso e i diritti umani, partivano dall'allora indiscusso presupposto che le nazioni europee erano state destinate a civilizzare il mondo.
Anche Marx ed Engels parlavano, non senza qualche imbarazzo, di "popoli semi-civilizzati", dal momenti che il nascente movimento operaio socialdemocratico europeo non avrebbe guadagnato alcun consenso dalla condanna del colonialismo. Nei congressi socialisti internazionali anteriori alla seconda guerra mondiale, venivano recepiti, senza alcuna stranezza, proposte come quella formulata nel 1907 dal socialdemocratico tedesco David, che vedeva in una politica coloniale riformata e purificata una "componente indispensabile delle aspirazioni culturali universali della socialdemocrazia". Per iniziativa della delegazione britannica, una risoluzione ufficiale del 1904 arrivava al punto di rivendicare espressamente "il diritto degli abitanti dei paesi civilizzati a stabilirsi nei paesi in cui la popolazione si trova ad stadio meno avanzato di sviluppo".

2.
La critica isolata delle atrocità coloniali, che prende come punto di partenza proprio la visione europea dell'essere umano, mentre si attiene allo stesso tempo all'ideologia di una civiltà europa superiore, ha dato origine ad un curioso fenomeno che un critico dalla lingua tagliente ha definito "singhiozzare ipocrita dell'uomo bianco". Quando i colonizzatori europei andavano a devastare una civiltà, le sue rovine venivano messe sotto protezione, come monumenti, e si piangevano le sue bellezze perdute. Già nel XVIII secolo, in questo modo, sorgeva sotto l'influenza della glorificazione operata da Rousseau, il mito del "buon selvaggio". Ai popoli naturali e alle culture avanzate al di fuori del perimetro europeo venivano conferite attitudini e fatti morali, da cui l'uomo bianco poteva trarre la sua parte.
Con una notevole inversione dell'ideologia di superiorità europea, i soggiogati e martirizzati, che prima erano stati abbassati ad esseri infantili o animaleschi, ora appaiono improvvisamente come esseri umani migliori, proprio per essersi così gentilmente sviluppati meno. E quanto più distante diventa l'epoca coloniale, quanto più silenziose si fanno le innumerevoli vittime del passato, tanto più si diffonde nella coscienza europea il romanticismo alla Karl May. Oggigiorno, si arriva a dire che l'insieme di saggezze dei popoli indigeni sterminati potrebbe impedire il collasso ecologico del nostro mondo monetarizzato e mettere fine alla macchina di utilizzo astratto degli esseri umani e della natura, mossa dagli astratti calcoli della redditività. Oppure, anche, che il misticismo delle culture orientali distrutte da molto tempo, potrebbe suscitare nuove pulsioni, dare incoraggiamento e sostegno spirituale all'uomo bianco dormiente. Questo prostrarsi davanti agli oggetti della propria furia distruttrice non è mai stato motivato da una effettiva autocritica dell'Occidente. Al contrario, tali sfere sconosciute della vita, per molto tempo saccheggiate dall'uomo bianco, sono ora oggetto di una secondo, e francamente necrofilo, sfruttamento, nella categoria dei mondi ideali, passibili, in realtà, di un sistematico inserimento nel mercato.
Tuttavia, la rappresentazione dei popoli pre-coloniali, fatta dall'Europa, come abitanti di terre idilliache e bucoliche, e portatori di una saggezza umana primordiale, comune a tutti gli uomini, non solo mente, con voce ingannevole, al fine di convertire il malessere nei confronti del potenziale distruttivo della propria civiltà in qualcosa di facoltativo ed affermativo, che, in quanto tale, potrebbe essere comparabile alle note filosofie popolari che parlano della pretesa innocenza dell'infanzia perduta, o dei giorni migliori dell'epoca dorata. Essa mente, soprattutto, al fine di fare di queste culture un prodotto kitsch e ameno, ricoperto di zucchero a velo, rendendo così tali culture grottescamente inoffensive. In realtà, la grande maggioranza di queste società aveva tratti distruttivi. Le ideologie della legittimazione del colonizzatori non sono nate per caso.
Anche i popoli storici naturali erano tutto meno che benevoli e spensierati figli dell'amore, liberati dalle relazioni sessualmente coercitive. Da tempo, è stato comprovato che l'entusiasta esposizione delle culture dei Mari del Sud, fatta dall'antropologa Margaret Mead nei decenni 1930 e 1940, e frequentemente citata, poggia su discutibili metodi scientifici e corrisponde assai più alle proprie proiezioni che alla realtà delle società polinesiane. "Hanno trovato quello che conosciamo" - questa sentenza critica circa la moderna interpretazione delle scoperte archeologiche casca a fagiolo per l'interpretazione dei popoli primitivi e le loro relazioni sociali. Solo negli ultimi decenni, soprattutto a partire dalla discussione sollevata dai lavori di  Claude Lévi-Strauss, l'etnologia è arrivata, alla fine, a sviluppare un apparato critico riguardo alla riflessione intorno al proprio modo di approssimazione e di approccio alle culture sconosciute.
I presunti figli della natura erano, in realtà, governati da relazioni coercitive estremamente rigide, e le loro guerre ed i loro rituali - ivi inclusi i "buoni costumi patriarcali", quali il sacrificio umano, oppure lo scotennamento, la vendetta a morte ed il cannibalismo - sotto molti aspetti non erano lontani dalle atrocità dei colonizzatori. Le saggezze indigene, che da vicino somigliano ai segreti della nonna, non hanno impedito loro di massacrarsi reciprocamente nel peggior modo possibile. Non c'è stato bisogno dell'arrivo degli europei perché venisse introdotta la pratica di mutilare naso e orecchie, ed i colonizzatori avevano ancora molto da imparare dai rappresentati della saggezza naturale, sull'arte di scotennare. Le culture azteca ed inca, distrutte dai colonizzatori, erano esse stesse potenze coloniali sanguinarie che avevano già seviziato e sfruttato popoli interi. E lungi dal vivere in armonia con la natura, la cultura maya, molto prima dell'arrivo degli europei, era riuscita a provocare una catastrofe ecologica, probabilmente attraverso l'esaurimento del suolo, mediante la coltivazione dissennata, suggellando così la propria fine.
Anche il cristianesimo dei missionari, a dispetto del suo carattere risibile, non era soltanto un atto condotto dai nemici dichiarati della sessualità contro dei costumi suppostamente liberi, ma era anche, allo stesso tempo, una liberazione dagli obblighi familiari imposti dalle religioni naturali e dai sistemi totemici. La religione europea non avrebbe mai potuto essere implementata soltanto sulla base della violenza coloniale poliziesca. Come ha appropriatamente osservato Nietzsche, in questo processo ha avuto luogo un inversione nel modo di vedere il mondo. Per i popoli primitivi e le civiltà recenti, i poteri della natura erano un mondo dispotico, che comprendeva tutto, e nel quale l'essere umano poteva affermarsi soltanto attraverso un rigido sistema di regole che, per così dire, dovevano determinare tutti i suoi passi. Per il pensiero europeo che la domina, al contrario, la natura stessa è un sistema di regole di leggi conoscibili, al quale l'essere umano può ricorrere coscientemente per mezzo del suo proprio arbitrio. Il dio astratto de cristianesimo ha allargato i limiti del sistema obbligatorio di regole - in maniera non inopportuna - aprendo, in tal modo, uno spazio attraverso il quale l'essere umano respirasse.
Anche di fronte alle culture orientali, asiatiche e africane, il colonialismo era una spada a doppio taglio. Il modo di produzione asiatico ed il suo impero teocratico, ad esempio, poggiava su una tirannia inimagginabile e su un despotismo certamente molto sentito e sofferto, che non poteva solo essere integrato senza lasciare tracce nella cultura. La cortesia proverbiale dei cinesi nasce dal timore di un dominio onnipresente e totale che indugiava, quasi come una routine, in pratiche di atrocità di dimensioni olocaustiche. E assai prima degli europei, gli arabi, essi stessi poi colonizzati, si erano lanciati sui regni africani e li avevano distrutti. Questi regni, a loro volta, promuovevano al loro interni, e nella guerra contro popoli meno potenti, le più sanguinose carneficine. In tal senso, le ampie annessioni del colonialismo europeo, a dispetto della sua estrema violenza, hanno portato in molte regioni una certa pacificazione interna. In questi casi, la struttura coloniale può aver avuto una funzione simile a quella dell'assolutismo europeo, che per mezzo del suo potere centralizzato riuscì a placare i poteri feudali particolari, in eterno conflitto fra loro: cosa che era la condizione previa all'effettivo sorgere delle nazioni moderne.
Ora, questa perfida ambiguità di uno sviluppo che significava allo stesso tempo distruzione, massacro e sfruttamento dove produrre da ambo i lati profonde deformazioni della coscienza. Gli uomini bianchi, armati del loro cristianesimo e dei loro ideali illuministi, non avevano alcuna chiarezza su loro stessi e, nella loro superiorità bruta, non potevano pervenire a nessuna comprensione che riconoscesse il valore proprio alle culture che erano loro estranee. In fondo, in questo modo quello che si confrontava erano due diversi stadi di selvaggismo, incapaci di qualsiasi interscambio cosciente. Solo a partire dall'incontro con le relazioni feticistiche e coercitive non-europee, gli europei - pure loro selvaggi in quanto il denaro ed il suo movimento chiuso su sé stesso era diventato un feticcio -hanno potuto mettere in marcia un processo di sviluppo patologico.

3.
L'indice più chiaro della patologia europea è forse il fatto che l'uomo bianco ha avuto bisogno di colonizzare anche sé stesso nel corso del processo di colonizzazione. Lo scatenamento della moderna economia di mercato e la redditività compulsiva incominciò a soggiogare anche i supposti signori di questo modo di produzione. I loro stessi corpi ed i sensi hanno dovuto essere confinati all'interno di una corazza di astrazione, al fine di astrarre sé stessi. E' nata così la triste figura di una natura mascherata, mossa da un'ambizione cieca alle emozioni; ad immagine del guardiano della somma di denaro, che ha come obiettivo quello di moltiplicare sé stessa, soggiogato dal suo proprio calcolo astratto. Il vincitore ed il conquistatore ha pure, egli stesso, distorto e distrutto la sua capacità sensibile di fruizione.
Quanto più andava avanti nella colonizzazione del mondo esterno, tanto più l'uomo bianco doveva adattare sé stesso, e quanto più si adattava, tanto più aveva bisogno di colonizzare il mondo. I signori dell'auto-dominio, che avevano versato sangue nel mondo nuovo, ora gettavano il loro sguardo astratto ed utilitaristico sul continente europeo. La colonizzazione esterna delle culture non-europee si invertiva direttamente in colonizzazione interna del proprio mondo. Nella stessa misura in cui promuoveva la capitalizzazione della produzione e l'industrializzazione, il colonialismo distruggeva anche il modo di produzione agrario della vecchia Europa ed esortava la parte impoverita della popolazione ad andare nelle fabbriche, allora con giornate di lavoro di 14 ore e con il barbaro lavoro infantile. La minoranza degli uomini bianchi, che si era convertita in organo di esecuzione politica ed economica del principio di redditività, aveva trasformato la massa degli uomini bianchi in una nuova specie di nativi senza nome, nuove monadi della forza lavoro astratta.
Ma così come anche la razza bianca dei signori, nel suo stato altamente astrattivo di selvaggeria, non poteva rimanere senza accesso al mondo della sensualità e dei sensi, la colonizzazione interna doveva essere portata al suo punto più estremo: la degradazione della donna bianca e della sua corporeità. Poiché aveva degradato sé stesso in quanto macchina sociale insensibile, l'uomo bianco colonizzava la donna in quanto animale ipersensibile. Essa doveva rispondere di tutto ciò che egli non poteva più sentire o gustare: dei sentimenti e della dedizione affettiva, dell'estetica quotidiana e della mobilitazione della sensualità, rinchiusa nella prigione di massima sicurezza della cellula familiare modernizzata nella sua privacy astratta. In questo modo, vennero attribuite alla donna le stesse caratteristiche riservate ai selvaggi, alle persone dal colore della pelle diverso, ai bambini ed a quelli culturalmente subordinati: l'imprevedibilità ed il capriccio, l'assenza di concentrazione e di autocontrollo, la coltivazione della voluttà e il possesso di una sessualità sfrenata dovevano essere gli elementi costitutivi del suo essere.
Da una parte, l'uomo bianco ambiva alle qualità sensibili della donna adattata a tali norme sociali, pensando di tenerla con sé come "ente naturale addomesticato". Dall'altra parte, tuttavia, temeva queste qualità, che erano ormai diventate qualcosa di estraneo e che aveva bisogno di respingere, anche con violenza eccessiva, come un potere del quale viene messa in discussione la corazza di astrazione. Questo processo di colonizzazione interna della moglie si estende, dai roghi delle streghe, che non a caso coincidono con l'inizio della storia coloniale, fino al XX secolo, ed in materia di atrocità non ha niente da invidiare alla guerra coloniale esterna. Non di rado, entrambe le forme hanno camminato a braccetto. Nella sua analisi del sistema coloniale francese, Frantz Fanon descrive, ad esempio, il caso di un ufficiale di polizia, in Algeria, che dev'essere rinchiuso in una clinica psichiatrica perché ha iniziato a torturare i figli e la moglie.
Ma a dispetto del suo carattere patologico, la colonizzazione interna non è stata meno ambigua di quella esterna. Il processo di infermità interna della società europea ha sempre significato, allo stesso tempo, anche il superamento delle barriere di povertà ed indigenza vigenti mondo agrario feudale. La trasformazione dei contadini servi in lavoratori salariati si è dimostrata incompatibile con uno status di dipendenza personale. Occorreva far saltare per aria le vecchie relazioni fra signore e schiavo. Anche la degradazione sociale e sessuale della donna, convertita in un corpo femminile per il sesso, paradossalmente è andata di pari passo con i momenti della sua equiparazione giuridica-formale. Così, se il processo che Jürgen Habermas ha chiamato "colonizzazione del mondo della vita" è stato sempre, simultaneamente, un mezzo passo in direzione dell'emancipazione, questo significa che, per molto tempo, l'emancipazione ha potuto essere pensata solamente sullo stesso orizzonte del processo di colonizzazione esterna ed interna. E' per questo che tutti i movimenti emancipatori degli ultimi due secoli non hanno mai semplicemente rivendicato il ritorno alla situazione pre-coloniale, ma hanno reclamato per sé le astrazioni sociali dell'illuminismo occidentale.
In tal senso, l'esempio più chiaro e meno contraddittorio è stato il movimento operaio storico d'Occidente. I lavoratori maschi, che erano stati sottomessi dall'incipiente capitalismo alle forme più brutali di sfruttamento e di mancanza di diritti, esigevano soltanto il loro "diritto" proprio in quanto uomini bianchi. E, sotto una tale luce, potevano essere ampliamente accontentati per mezzo delle riforme sociali ed attraverso il loro riconoscimento come soggetti liberi davanti alla legge ed allo Stato. Il movimento anti-colonialista dei popoli non-europei, al contrario, era diviso da una profonda contraddizione interna. Già durante la Rivoluzione francese, i lavoratori schiavi delle piantagioni haitiane si erano ribellati i nome delle bandiere importate della "libertà" e della "uguaglianza" ed era stata proclamata una repubblica autonoma. Ma, la contraddizione non risiedeva in alcun modo soltanto nel fatto che venissero mitragliati dai per niente fraterni cannoni francesi, in quanto, alla fine dei conti, la Rivoluzione francese era stata concepita solamente per l'uomo bianco. In realtà, la stessa esigenza emancipatrice dei negri, nella misura in cui poteva essere formulata solo attraverso le categorie dell'uomo bianco, doveva produrre una profonda crisi di identità.
La sofferenza causata da questa crisi, fino ad oggi non ha potuto essere lenita. Ogni tentativo dei popoli colonizzati di riscoprire, almeno culturalmente, sé stessi ha inevitabilmente cozzato contro il muro concreto dell'inevitabile occidentalizzazione. La cultura della negritudine africana, per esempio, così come creata dal poeta e presidente senegalese Leopold Sedar Senghor, è rimasta sempre esterna al reale processo di sviluppo sociale, e corre il rischio di degrado, degenerando in mero ornamento. Anche il fervente predicatore del potere della liberazione anti-colonialista, Frantz Fnon, nonostante la sua critica militante della cultura europea, scivola involontariamente in concetti genuinamente europei quando ricorre alla "nazione" e alla "democrazia".
Nei movimenti di emancipazione femminili, la contraddizione affiora forse in maniera ancora più palese. Anche le donne per molto tempo hanno potuto combattere la loro situazione coloniale soltanto nel nome di quei principi che l'uomo bianco aveva forgiato per sé, e per mezzo dei quali aveva generato la propria identità. Tuttavia, la questione centrale della relazione fra i sessi praticamente non appare sul piano di questi principi. La sessualità, bandita dal processo globalizzato del lavoro astratto, non può essere risolta per mezzo della completa equiparazione giuridica della donna, in quanto continuano ad essere necessarie, oggi, riforme immanenti alle relazioni fra i sessi - dalla revoca del paragrafo 218 (N.d.T.: paragrafo del Codice Penale tedesco che proibiva la pratica dell'aborto) fino alla regolamentazione delle quote rosa per le donne. Tuttavia, nell'attuale crisi dello status femminile, ci sono in gioco più cose della mera distribuzione di ruoli e di poteri tra i sessi all'interno delle forme sociali occidentali o occidentalizzate. Questa crisi indica, innanzitutto, la fine della colonizzazione stessa, sia esterna che interna e, con essa, anche la fine di quel processo contraddittorio di modernizzazione che è stato finora lo strumento dell'uomo bianco.
Ora, la possibilità di un uso astratto degli esseri umani e della natura, conforme alla legge della redditività, aveva come condizione di base la colonizzazione interna della donna. La sua addomesticata e colonizzata responsabilità compulsiva per il mondo sensibile, era il presupposto attraverso il quale l'uomo bianco poteva dominare sé stesso e, per mezzo di questo, a sua volta, il mondo. Tuttavia, l'intero costrutto crolla se le donne cominciano ad emanciparsi in maniera cosciente, secondo gli astratti principi illuministi dell'uomo bianco. Non appena le donne divengono esse stesse succedanee dell'uomo bianco, viene alla luce il deficit fondamentale di questo modo di produzione e di vita. Le donne carrieriste, alla Margaret Thatcher, smentiscono sé stesse in maniera duplice. In primo luogo, perché involontariamente mimano la base familiare del sistema di mercato, dal momento che anche con tutta la buona volontà, donne professionalmente attive, o anche imprenditrici e politiche, non sono più in grado di rispondere, come donne-di-casa, di un nido accogliente capace di porre rimedio al deficit sensitivo del lavoro maschile astratto. In secondo luogo perché tali donne sentono sulla propria pelle quello che significa dover dominare sé stesse in quanto macchine astratte di lavoro. Quando non c'è più nessuno responsabile della sensibilità deviata, questa irrompe violentemente nell'universo delle relazioni e dei sentimenti sotto forma di crisi. E non è affatto casuale che, allo stesso tempo, la natura esterna cominci a ribellarsi, mandando all'aria, sotto forma di processo di crisi e di catastrofe ecologica, il calcolo astratto della redditività. Le forze produttive, fuoriuscite dallo stesso sistema di mercato, intervengono in maniera così profonda sulla natura interna delle necessità umane e sulla natura esterna del mondo vegetale e animale - sul suolo, sull'acqua, sull'aria - che questi contenuti sensibili non possono più essere repressi e violati a lungo.
In questo modo, tuttavia, i movimenti di emancipazione dei lavoratori salariati e degli ex popoli colonizzati si scontrano con i propri limiti. Non andranno molto lontano se continueranno ad adottare la forma sociale dell'uomo bianco. In quanto liberi soggetti monetari del calcolo astratto, rimane loro soltanto da tagliare la propria carne. Le stesse forze produttive che hanno prodotto, nella forma del sistema di mercato, la crisi ecologica e la crisi delle relazioni fra i sessi, sono responsabili di una disoccupazione di massa, crescente e globale. Non ha più senso cercare di ottenere guadagni, in quanto uomo bianco, a spese della propria forza astratta di lavoro. Anche perché queste stesse forze produttive generano il mercato mondiale totalizzato, intrappolando globalmente l'umanità. Il vecchio nazionalismo liberatore del movimento anti-colonialista gira a vuoto. E' evidentemente una follia, di incalcolabili conseguenze ecologiche, esaurire tutte le riserve d'acqua del Sahara per installare una produzione indipendente di alimenti, come vuol fare il leader Gheddafi, mentre la vicina Comunità Europea affoga in un mare di latte ed è soffocata dalla sua eccedenza di carni e cereali. Tuttavia, questa follia non è la stessa follia dell'uomo bianco che, in un mondo fatto a sua immagine e somiglianza, retroagisce su sé stesso su tutti i piani possibili.
Gli stessi criteri di successo del sistema occidentale portano all'assurdo, sia nella relazione fra i sessi che nelle relazioni fra i gruppi sociali e le nazioni. La guerra dei sessi, le catastrofi sociali ed ecologiche, il fondamentalismo pseudo-religioso e la guerra civile etnica mostrano come il mondo occidentalizzato sia andato fuori di sesto. Oggi, dopo mezzo millennio di sviluppo ambiguo e contraddittorio, il processo di colonizzazione interna ed esterna comincia a strangolare sé stesso. Le forme sociali occidentali, formatesi nell'era delle scoperte. non sono sufficientemente avanzate per poter incorporare il mondo unico che è il suo stesso prodotto. Se, al più alto grado pensabile, tutti gli esseri umano diventano uomo bianco, allora non può più esserlo nessuno. Nessuna emancipazione è più possibile nella forma patologica fino ad ora vigente.
In questo modo, per la prima volta, la stessa identità occidentale va in pensione, anche se l'Occidente non ne vuole sapere della sua propria fine e preferisce sempre definire la crisi come "crisi dell'altro". Tuttavia, all'umanità, globalmente intrappolata, non rimane altro da fare se non superare la forma europea del feticismo delle merce e del denaro, convertita in forma totalizzata ed universale. I selvaggi occidentali, così come quelli occidentalizzati, devono fare implodere la corazza dell'astrazione del sistema di mercato, se non vogliono soccombere insieme ad essa. Voler continuare a soggiogare sé stessi, agli ordini di un principio di redditività, è diventato qualcosa di insensato e una minaccia per la vita stessa, sia per gli europei che per i non-europei, sia per gli imprenditori che per il lavoratori, sia per gli uomini che per le donne. Non è possibile ritornare ad una situazione precedente al mercato mondiale, alla democrazia occidentale ed all'illuminismo, ma deve esistere una prospettiva capace di superarli. Le donne e i vecchi popoli coloniali possono risolvere le loro patologiche dissociazioni di identità soltanto quando sarà stata spezzata la patologia dell'auto-dominio virile ed astratto, quando la ragione e la sensibilità si riconcilieranno nuovamente dopo una lunga storia di dissenso. In questa misura, la fine effettiva della colonizzazione esterna ed interna si trova ancora davanti a noi e, in quanto meta del XXI secolo, può essere riassunta in una breve formula: abolizione e conservazione dell'uomo bianco.

- Robert Kurz - (Originariamente letto come saggio radiofonico, alla radio statale NDR, nel gennaio del 1992)

fonte: EXIT!

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