Solo un blog (qualunque cosa esso possa voler dire). Niente di più, niente di meno!
mercoledì 31 dicembre 2008
un discorso attuale
Il nazismo e la svastica sul sole (1)
di Philp K. Dick
( traduzione di Maurizio Nati )
da franc'O'brain
Molte lune sono passate da quando l'uomo bianco (cioè Poul Anderson) (2) ha recensito il mio romanzo La Svastica sul Sole e molti (troppi per citarli tutti, con l'unica eccezione, però, di un certo John Boardman) hanno fatto commenti non sul mio libro o sulla recensione "in sé" ma sul nazismo... il che è giusto e corretto, perché è proprio quello il tema in discussione, più che in qualsiasi altro libro o recensione, e questo dimostra semplicemente che io ho ragione: noi tutti abbiamo ancora una gran paura, siamo ancora molto turbati e, come ha giustamente detto Harry Warner, ".....potremmo condividere il senso di colpa dei tedeschi per la guerra perché sono troppo simili a noi..."
Comunque, nonostante tutta questa discussione abbia avuto luogo in marzo, io ne sono venuto a conoscenza solo adesso, e mi piacerebbe dire la mia. John Boardman definisce il dottor Friedrich Foerster "il più grande critico moderno della Germania". Non esiste nessuno che sia "il più grande critico moderno", non importa di che cosa; è solo un modo per dire che si crede alla propria fonte, e naturalmente è giusto credere alla propria fonte... tuttavia, io voglio contestare la sua unicità, o qualsiasi pretesa che la sua perfezione platonica di tipo ideale sia la sua sola e unica fonte. Anche se, per dire la verità, condivido il passaggio che lui cita (cfr. i commenti di John Boardman su Niekas, marzo 1964). In effetti è proprio questo modo di pensare che mi preoccupa (comunque è mattina presto, ancora non ho fatto colazione, perciò mi preoccupa tutto; lasciamo perdere).
In ogni caso non possiamo affermare con certezza che esistano "due Germanie", nel senso di due tradizioni di pensiero, o che il nazismo sia il culmine assoluto, la logica conclusione di tutto ciò che è tedesco. Non lo sappiamo e, per favore, riconosciamo la nostra ignoranza. Noi sappiamo ciò che i nazisti hanno fatto, sappiamo quali erano le loro ideologie dichiarate... ma non sappiamo assolutamente quali siano stati i motivi profondi del loro comportamento. Davvero. Ho parlato con alcuni di loro. Tutto ciò che sapevano era che avevano paura... l'avevano come ne abbiamo noi, ma non delle stesse cose: avevano paura di noi, del Regno Unito, della Russia (e adesso ne abbiamo paura anche noi) e, soprattutto, degli ebrei, dei quali invece noi non abbiamo paura. E non riusciamo nemmeno a comprenderla, questa paura. Per esempio, per noi un ebreo è un bell'uomo alto con un bicchiere in mano che ci ritroviamo accanto a una festa. Per loro...be', qui cala la tela. Avevo un amico nazista, che viveva negli Stati Uniti dopo la guerra, e mentre stavamo per entrare a casa di un tizio io gli dissi: "A proposito, quello che abita qui si chiama Bob Goldstein," e il mio amico nazista impallidì visibilmente e si ritrasse; era letteralmente terrorizzato all'idea di entrare in quella casa... e per di più provava un'orribile avversione, di tipo somatico. Perché? Chiedetelo ad Hannah Arendt, che io considero "la più grande critica moderna della Germania", anche lei ebrea. Credo che nemmeno lei, cresciuta in mezzo ai tedeschi, conosca il perché. È subrazionale; è psicologico, non logico. Perché certa gente ha paura dei gatti o delle automobili o delle capre con la testa rossa? Non lo sanno nemmeno loro. Una fobia è una fobia; nasce, come hanno dimostrato Freud, Jung e H.S. Sullivan, dal profondo dell'io ignoto all'io. Ipse dixit.
Perdonatemi se sto divagando, ma vedete, risposte semplici e nette a queste domande ("Perché i nazisti hanno fatto quello che hanno fatto? Lo faremo anche noi? Siamo colpevoli anche noi") ci portano fuori strada; non esistono risposte semplici. Noi siamo colpevoli di quello che i folli programmatori" subrazionali di Washington stanno facendo adesso? Non lo so. E una qualsiasi donna tedesca di un qualsiasi paese tedesco era colpevole di una decisione presa a Berlino nell'ufficio di Eichmann?
Tuttavia esistono alcuni fatti definiti che bisogna ricordare. Primo: quando Himmler chiese e ottenne di poter assistere all'esecuzione di ebrei inermi e innocenti da parte di un plotone armato, provò un fortissimo senso di orrore; svenne, cadde a terra e rimase lì a contorcersi per l'angoscia; i suoi aiutanti lo rimisero in piedi. E in alcune occasioni successive, Himmler decretò che gli ebrei "non dovessero più essere fucilati", ma che fosse necessario escogitare "qualche sistema più pietoso, rapido e indolore". Quindi anche questa negazione dell'uomo, quest'essere reificato ai più alti livelli della gerarchia nazista, aveva dei "sentimenti" (Hitler non si sarebbe preso nemmeno la briga di assistere, e se lo avesse fatto, non avrebbe avuto nessuna reazione emotiva, o etica; ricordate anche questo). Inoltre, i Wermark Soldaten (i comuni militari tedeschi) detestavano gli Schwarzer, le SS... li consideravano degli assassini. Prendete nota. I cittadini tedeschi mettevano del pane nei vagoni piombati che trasportavano gli ebrei verso la morte attraverso il Reich; leggete e riflettete. Remarque racconta che un tedesco suonava il tema dal Fidelio di Beethoven, nel quale ci sono dei prigionieri - vittime innocenti di una tirannia - ai quali, per un attimo, viene concesso di vedere la luce, proprio mentre un gruppo di ebrei di un campo di concentramento passava nella strada sotto casa sua. Anche le prostitute tedesche si recavano nei pressi dei campi di concentramento, sperando di poter "fare qualcosa" per gli internati. In altre parole, impulsi di bontà (e non metto volutamente le virgolette) emergevano in continuazione nel tedesco medio, ogni volta che si rendeva conto di ciò che si stava compiendo ai danni degli ebrei; molti, è vero, sputavano agli ebrei, li prendevano a calci, li deridevano... ma non tutti. "Die Stille im Land", venivano definiti dai nazisti i tedeschi che non approvavano la politica razziale; quei tedeschi sapevano che se si fossero mostrati apertamente, avrebbero fatto la stessa fine degli ebrei. Prendete nota: i primi a essere inviati nei campi di concentramento furono tedeschi non ebrei. E durante la guerra qualunque cittadino tedesco che mostrasse dissenso per la politica ufficiale era destinato a morire. Per esempio, una donna tedesca venne imprigionata perché il giornale che aveva usato per rivestire il secchio dell'immondizia aveva una foto di Hitler; questo venne definito dal tribunale (il cosiddetto Reichs Gericht) "un delitto contro lo Stato". Ci andavano giù pesanti!
Eppure il popolo tedesco - o una buona parte di esso, certo più della metà - portò al potere Hitler attraverso elezioni regolari, ben conoscendo le sue convinzioni razziali. Basta leggere i primi diari di Goebbels; il Partei aveva il sostegno della classe operaia... non della borghesia. E notate anche questo: la classe operaia aveva abbandonato i comunisti e i socialisti moderati per sostenere i nazisti. Perché? Be', posso azzardare una risposta. I nazisti, come i capi politici delle grandi città, che governavano Chicago e New York e Boston, erano sempre "aperti", erano sempre lì, pronti ad ascoltare, ad aiutare, a distribuire cibo e aiuti... e i tedeschi morivano di fame e di stenti, venivano cacciati di casa perché non avevano i soldi per pagare l'affitto; insomma era un periodo di depressione, e la gente era disperata, così come lo erano anche gli americani. Uno dei nostri più noti cantanti folk di oggi, non solo allora (alla fine degli anni '30) cantava contro il nostro sostegno all'Inghilterra e contro ogni attività produttiva a scopi difensivi, ma diceva con il suo accento strascicato di essere una "spia dei giapponesi"; in altre parole questo grande cantante folk, che adesso è un liberale, "uno di noi", e le cui iniziali sono P.S., era a favore della Germania nazista a causa del patto russo-tedesco. Il comunismo mondiale e il nazismo collaborarono, per un po' di tempo; i nazisti non erano "di destra"... erano "al fianco delle sinistre", almeno finché i carri armati nazisti non invasero la parte controllata dai comunisti della ex Polonia.
Nel suo commento su Niekas, George H. Wells parla di "nazionalisti ebrei" e afferma che essi erano tenuti in poco conto. È un punto interessante anche questo: nel momento della nascita dell'ideologia antisemita tra i tedeschi non ebrei, i tedeschi ebrei cominciavano in gran parte a pensare non come tedeschi o come europei, ma come nazionalisti dello Stato di Israele che sarebbe rinato di lì a poco (Moses Mendelssohn preferiva che la gente rifiutasse quest'idea e che si sentisse invece "parte della comunità europea", ma senza grande successo).
E dunque abbiamo visto gli ebrei, in Germania, pervenire alla stessa idea dei "razzisti" pre-nazisti, come Wagner, e proprio Wagner sembra essere il capro espiatorio di tutto ciò; sarebbe stato lui a inventare l'idea che gli ebrei fossero degli esseri estranei, e ostili alla Germania. È una fesseria. Uno studio attento dell'ideologia di Wagner dimostra che alla fine lui ruppe con Nietzsche e vide la redenzione della Germania (cioè dell'uomo per sé) nell'amore cristiano, non nella retorica della guerra (vedi il Parsifal). Quindi anche fra i famosi teorici pre-nazisti non troviamo uniformità di vedute; troviamo invece gli inglesi Stuart House Chamberlain e Carl Rhodes... e naturalmente Nietzsche; ma troviamo, nel "cuore di tenebra", per così dire, dei pensatori pazzi inglesi. Che propugnano l'idea, come dice Hannah Arendt, di una ristretta élite di nordici sparsa in tutto il mondo, che alla fine comanderà su tutto e su tutti: una casta altolocata che dirà agli "scuri", cioè a tutti noi, dove devono andare... magari in bagni con docce che non sono docce, ma camere a gas.
Sì, Harry Warner, che scrive su Niekas, ha ragione: noi ci sentiamo in colpa e ricordiamo, perché non sono "loro", ma "noi" che abbiamo pensato quelle cose orribili, e quindi abbiamo istigato quelle azioni orribili; e in quel "noi" sono compresi anche i fanatici nazionalisti ebrei, alcuni dei quali vivono oggi in Israele, che invadono le scuole, e interrompono le lezioni nelle classi elementari con i loro sgherri quasi-militari (ma forse è meglio dire paramilitari) perché il
maestro non è "razzialmente" corretto. In questo caso, comunque, non sufficientemente ebreo, più che sufficientemente tedesco.
I sionisti hanno cacciato un milione di arabi da Israele, e questi arabi, sfamati dai quaccheri - quel tanto che basta perché non muoiano di fame -, costituiscono il più numeroso contingente di esuli che esista oggi sulla Terra. E non credete a chi vi dirà che quegli arabi (vale a dire non-ebrei, e dunque estranei, malgrado i loro antenati vivessero lì da duemila anni) volevano andarsene. Sono stati costretti con il terrore ad andarsene, e non possono più fare ritorno. Così le vittime della seconda guerra mondiale sono diventati gli arroganti nazionalisti pronti a entrare in guerra (vedi la crisi di Suez) contro i loro vicini, non appena sicuri di poter contare su un adeguato sostegno militare (ancora una volta l'Inghilterra, insieme alla Francia).
Tutto questo è terribile. Negli alloggiamenti dei profughi ebrei allestiti dai giapponesi ell'estremo Oriente durante la seconda guerra mondiale, molti ebrei hanno riproposto forme organizzative hitleriane, saluto nazista (o romano, se preferite) compreso. A noi piace pensare che le vittime della tirannia e della crudeltà siano innocenti (vedi Chessman). Ma spesso anche la vittima si è macchiata di sangue, cioè ha partecipato attivamente alla situazione che alla fine ha reclamato la sua vita.
Oggi molti ebrei non salirebbero mai su una Volkswagen, e alcuni non ascoltano nemmeno la musica di Beethoven; tutto ciò non è nevrotico e "malato" come lo erano le ideologie ottocentesche di sangue, razza e terra che venivano insegnate sia da tedeschi che da ebrei tedeschi? Personalmente io mi diverto a raccontare ai nazionalisti fanatici, agli amici ebrei orientati verso il sangue, un fatto che generalmente non conoscono: molti dei poeti-cavalieri del medioevo tedesco, i Minnesänger, erano ebrei. Così, caro dottor Friedrich Foerster, "il più grande critico moderno della Germania", al contrario, ci sono e ci sono sempre state almeno due, e probabilmente tre, sette, nove Germanie, ovvero visioni del mondo dei tedeschi. J.S. Bach si considerava un polacco (il suo monarca era sotto il feudo del re di Polonia). Però noi definiamo Bach tedesco perché parlava tedesco. Tony Boucher parla tedesco, e alla perfezione; è forse per questo un tedesco, e quindi un nazista? Gli ebrei tedeschi parlavano tedesco...e ricordate, un fanatico sionista spezzò la mano di un violinista ebreo con un tubo di piombo perché quel violinista aveva osato suonare un brano di Richard Strauss in un concerto in Israele... non è a suo modo un nazista anche lui?(3)
Quando un mio amico ebreo, piuttosto fanatico, mi definisce un "gentile"(4) io mi limito a dire, "Chiamami cristiano, e facciamola finita." Perché se io sono un "gentile", allora significa aver buttato via duemila anni di evoluzione del pensiero umano. E se non vuole salire sulla mia Volkswagen, che probabilmente è stata costruita a New York, e non in Germania, e di certo mi è stata venduta da un ebreo, Leon Felton di San Rafael, allora io non gli permetto di mangiare il pane azzimo in mia presenza (naturalmente sto scherzando; voglio solo cercare di dimostrare che non possiamo continuare a ritenere un popolo responsabile più di quanto possiamo ritenere responsabile qualsiasi altra entità mitica, semantica, non concreta. Il tedesco 1 non è il tedesco 2, e il tedesco 2 non è il tedesco 3, e così via dicendo. Così come, nel nostro paese, non siamo stati io e te a lanciare delle bombe contro quella scuola di bambini neri... tu lo sai benissimo che non siamo stati noi e se noi due, io e te, potessimo avere fra le mani quei bastardi bianchi - anzi solo bastardi - che lo hanno fatto, la nostra vendetta non sarebbe meno terribile di quella di una folla di neri.
Io non sono un "uomo bianco". I miei amici tedeschi non sono "tedeschi", né i miei amici ebrei sono "ebrei". Io sono un Nominalista. Per me esistono solo entità individuali, non entità collettive come razza, sangue, popolo, eccetera. Per esempio, io sono cattolico anglicano, eppure le mie vedute differiscono da quelle del mio parroco, e le sue differiscono - enormemente - da quelle del vescovo della diocesi, il vescovo Pike, con il quale invece io mi trovo perfettamente d'accordo. E così via. Non uscirei mai da una stanza in cui entra un tedesco, così come non l'ho mai fatto se entrava un ebreo. Né permetto ai miei amici ebrei di definirmi "gentile", cioè membro di una razza... Se non gli va bene, che mi colpiscano pure, dritto in faccia, come individuo; vediamo come fanno a colpire una razza, come hanno cercato di fare i nazisti, dritto in faccia. Non funzionerebbe; i nazisti non ci sono riusciti, Israele esiste ancora, gli ebrei esistono ancora. E diciamo la verità: la Germania esiste ancora.
Cerchiamo di vivere nel presente e nel futuro, senza rivangare nevroticamente gli oltraggi del passato. Ludwig van Beethoven non accese i forni di Dachau. Leonard Bernstein non colpì quel violinista ebreo sulla mano con un tubo di piombo. D'accordo? E salute a voi, come dicevano i romani. O, come diciamo noi cattolici anglicani, la pace e l'amore di Dio sia con voi. Tedeschi compresi. Ebrei anche, per favore.
Philip K. Dick, 1964
Note
1 Questo saggio apparve per la prima volta sul numero 9 della fanzine Niekas (settembre 1964). Come lo stesso Dick afferma in apertura, è chiaramente scritto in risposta alla recensione di Poul Anderson di La Svastica sul Sole apparsa in un numero precedente della fanzine e, particolarmente, alle lettere inviate dai lettori a commento dei temi sollevati da quell'intervento, e pubblicate sul numero del marzo 1964 di Niekas.
Niekas iniziò le pubblicazioni nel 1962, diretta dal fan del New Hampshire Edmund Meskys, vincendo il Premio Hugo nel 1967 nella categoria della miglior rivista amatoriale. Dopo aver sospeso le pubblicazioni dal 1968 al 1977 è tuttora attiva. Pur rivolgendo l'attenzione principalmente alla fantasy, ha ospitato una ricca varietà di contributi, spesso firmati da eminenti autori del settore: oltre a Philip K. Dick e Poul Anderson, ricordiamo Isaac Asimov, Algis
Budrys, Harry Harrison, e altri (N.d.C.).
2 Poul Anderson, nato nel 1926 in Pennsylvania da genitori scandinavi, è uno dei più importanti autori di fantascienza e fantasy del dopoguerra. Vale la pena di precisare che, nella sua autorevole biografia su Philip K. Dick, Lawrence Sutin sottolinea lo stretto rapporto di amicizia che negli anni '50 legava Dick e Anderson, i quali operavano entrambi nell'area di Berkeley; si scambiavano di frequente opinioni sul mondo della fantascienza e addirittura presero in considerazione l'ipotesi di scrivere un romanzo di fantascienza in collaborazione. Cfr. Lawrence Sutin, Divine Invasions: A Life of Philip K. Dick, New York, Harmony Books, 1989, p. 82 (N.d.C.).
3 In proposito, Lawrence Sutin precisa di non aver rintracciato alcuna prova fattuale a sostegno di queste affermazioni e che la fonte su cui Dick si è basato rimane ignota. Cfr. Lawrence Sutin, ed., The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, New York, Pantheon Books, 1995, p. 111 (N.d.C.).
4 Nel Nuovo Testamento e nella letteratura giudaico-cristiana, il termine "gentile" designa chiunque non sia ebreo (N.d.C.).
martedì 30 dicembre 2008
una breve lunga storia
Quella che segue, è una breve storia (un po' "lunga) di quello che è successo a Firenze anni fa. E' apparsa su "Gli autonomi - volume I - Le teorie, le lotte, la storia", a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, uscito per DeriveApprodi.
C'è qualche piccolo errore, venale, di data, come quando si colloca la nascita del "Collettivo Jackson" nel 1973, anziché nel 1974, come è realmente avvenuto. Ma non importa più di tanto. Per chi lo vuole leggere ...
AUTONOMI A FIRENZE (di Massimo Cervelli e Bruno Paladini)
COMINCIAVA COSÌ
Il processo di costituzione dell’area dell’autonomia fa tappa a Firenze nel gennaio 1973. L’occasione è la riunione, più o meno nazionale, che decide le modalità di convocazione e le linee di dibattito della riunione nazionale delle forme di autonomia operaia organizzata in programma a Bologna il 3/4 marzo.
Gli organismi che convocano l’appuntamento sono le assemblee autonome delle grandi fabbriche del nord e comitati operai e dei servizi. Sentono il bisogno di accelerare il confronto nazionale fra esperienze simili. Sono avanguardie interne alle situazioni di lotta che hanno concluso il rapporto che in qualche modo le legava ai gruppi della sinistra extraparlamentare: Potere Operaio a Porto Marghera, Lotta Continua a Milano, in particolare all’Alfa Romeo, Il Manifesto a Roma, tanto per dare un’idea. A Firenze non ci sono comitati operai autonomi. La sinistra extraparlamentare si è consolidata, dopo il ’68, nel tessuto studentesco ed urbano. Nonostante un massiccio intervento sulle fabbriche sono poche le avanguardie autonome presenti negli stabilimenti industriali. Il tessuto produttivo è quello della piccola e media impresa. L’industrializzazione leggera (tessile, abbigliamento, ceramiche, calzature, pelletteria, vetreria, mobilifici…) è la forma derivata dal fitto reticolo di intrecci fra inventiva tecnica, tipica della tradizione artigiana, e rapporti internazionali. Una filiera produttiva specializzata nella produzione di beni durevoli per l’esportazione e particolarmente favorita dall’aumento del dollaro sul mercato dei cambi. Fanno eccezione le partecipazioni statali: Nuovo Pignone e Galileo su tutte. Fabbriche metalmeccaniche che hanno visto tutta la storia del movimento operaio del novecento (dalle occupazioni di fabbrica del 1921, all’attività delle cellule comuniste durante la resistenza antifascista) e con un ciclo produttivo che in molte sue fasi è ancora legato alla capacità professionale degli operai. Una composizione diversa da quella delle grandi linee di montaggio, con mansioni parcellizzate e ripetitive, dove l’operaio massa rovesciava la catena di sfruttamento nel suo contrario: l’organizzazione autonoma nel reparto capace, bloccando una linea, di paralizzare l’intera fabbrica. Nelle nostre grandi fabbriche permaneva la cultura dell’operaio di mestiere, la fierezza di chi deteneva gli accorgimenti per far riuscire nel modo migliore il prodotto. Alla Pignone, soprattutto ma anche alla Galileo, stipendi e status normativo erano nettamente superiori a quelli delle fabbrichette, tanto da far coniare l’espressione aristocrazia operaia per definire questi lavoratori. In più il tessuto della piccola e media impresa esercitava il ricatto costante sulla forza lavoro: “le ordinazioni” arrivano o non arrivavano, “i pagamenti” ritardavano.
Tutti sistemi che rendevano più difficile la lotta operaia. Esisteva comunque un’area di sinistra sindacale, molto numerosa che interloquiva con la sinistra rivoluzionaria fin dall’autunno caldo. Un’area che, sotto certi aspetti, “usava” i gruppi, la loro presenza giornaliera fuori dalla fabbrica per giocarsi un equilibrio più avanzato all’interno dei consigli di fabbrica. Fra il ’69 ed il ’72 sono nati anche diversi Collettivi Operai di zona, con presenze all’Ote, alla Stice, alla Moranduzzo, all’Edison giocattoli, alla Targetti, alla Superpila, a Signa, tra gli artigiani di San Frediano.
Due le situazioni operaie fiorentine che partecipano al convegno di Bologna: la Galileo e la Carapelli. Fabbriche dove non esistono gruppi operai organizzati, ma dove sono presenti soggettività significative. Lo storico, in tutti i sensi del termine Luciano Arrighetti, operaio della Galileo cultore della scienza operaia fin dalla sua partecipazione a Classe operaia. Il Cellini, lucida avanguardia della Carapelli che si era distinto durante la lotta contrattuale dei chimici e che aveva subito un licenziamento politico dalla Carapelli stessa. Gli altri lavorano in posti troppo piccoli per azzardare la firma del documento. Tutti i gruppi extraparlamentari sono presenti a Firenze. Anzi, c’è anche qualche aggiunta locale ad una panorama che sembra ogni giorno scoprire nuove costellazioni. Quelli che non ci sono, come Avanguardia Operaia, vengono importati da Milano, complice l’ennesima scissione di una struttura locale (il Centro di documentazione) che aveva già visto uscire la sinistra studentesca con destinazione Lotta Continua. La vita dei militanti della sinistra extraparlamentare ruota attorno agli appuntamenti che il gruppo d’appartenenza si dà – i nuclei d’intervento studenteschi, territoriali o di fabbrica, le assemblee di sede, i vari organismi: esecutivi, direttivi, segreterie etc. Ciascun gruppo ha delle dinamiche specifiche e diverse situazioni di insediamento sociale. Potere Operaio, ad esempio, è stato il protagonista delle lotte universitarie più radicali che hanno portato ad un costante scontro politico e fisico con il PCI, garante delle baronie universitarie e degli equilibri politici ed economici della città. Le lotte alla facoltà di architettura sono state un modello di mobilitazioni che a partire dal tessuto universitario si proiettavano in città. Il Manifesto, reduce dalla batosta elettorale della lista Valpreda (elezioni politiche del ’72) ha abbandonato ogni velleità di innovare la sinistra rivoluzionaria, scegliendo come orizzonte la costruzione di un forza politica istituzionale a sinistra del PCI. Il Manifesto indirizza i propri militanti nell’attività sindacale interna alla CGIL, organizzazione dove il richiamo all’austerità operaia già sostituisce quello all’autonomia operaia, e sparisce progressivamente anche dalle scadenze di piazza – ad esclusione degli scioperi generali e delle grandi manifestazioni politiche. E già, perchè questo frastagliato mondo dei gruppi manifestava assieme. Non c’erano ancora i sound system e la forza delle voci misurava il consenso ricevuto dalle parole d’ordine lanciate dalle varie organizzazioni. A Firenze era da poco finita la lotta per l’egemonia di piazza: la massificazione della presenza di Lotta Continua nelle scuole aveva gioco forza messo tutti d’accordo sulla gestione della piazza. Un fenomeno estremamente contraddittorio, avvenuto nell’anno scolastico ’72-’73, ed ottenuto con la proiezione all’esterno degli studenti medi. L’organizzazione di LC nelle scuole era stata resa possibile proprio dal mutamento delle modalità che segnavano la vita dei gruppi: anziché ruotare all’interno della sede e delle proprie dinamiche, scorrazzavano per la città. Un’anomalia che LC sarà costretta a rincorrere per anni. L’antifascismo militante ne fu il terreno costitutivo. Un approfondito lavoro di controinformazione che denunciava la penetrazione neofascista nelle scuole superiori, con un apposito libretto Al bando i fascisti, completo di foto, nomi, relazioni, composizione dei nuclei di scuola. La controinformazione, contestualmente, era accompagnata dall’azione del “non farli nuocere”, impedendo ai fasci l’agibilità politica. In ogni scuola veniva organizzato un servizio d’ordine di massa. Questi erano sostenuti ed affiancati da uno strumento cittadino, mobile, che ogni mattina si riuniva alla Fortezza da Basso o in qualche altra zona centrale. Era la volante rossa pronta ad intervenire nelle scuole dove i fascisti si presentavano. Non c’erano cellulari, non c’era nessun altro modo di essere avvertiti se non di persona. Era un giro continuo di staffette, a bordo dei Ciao, che coprivano le scuole che non erano considerate in grado di difendersi da sole. Volantinaggi con catene, spranghe e coltelli: questo l’armamentario usato dai fascisti davanti alle scuole. Nel giro di un anno la militanza dei fascisti nelle scuole era costretta alla clandestinità. Una lotta militante esaltante, costellata da scontri, ma anche da provocazioni clamorose come i colpi di pistola sparati davanti al Liceo scientifico Castelnuovo. Forti di questo vissuto gli studenti medi divennero fondamentali anche nelle vertenze contrattuali, affiancando e sostenendo i picchetti operai nelle realtà più difficili. In questo modo si conquistarono un rapporto diretto, da movimento a movimento, con i consigli di fabbrica delle zone operaie vicino alle scuole, organizzando cortei congiunti di zona. Alle 4 davanti alle fabbriche tessili a Prato, alle 7.30 sulle scuole, poi l’organizzazione interna agli istituti, i coordinamenti, la partecipazione alle scadenze generali. Altro che “metà studio e metà lavoro” teorizzato dalla rivoluzione cinese...
“Le lotte degli studenti non sono più una novità [...]. Il fatto nuovo sono i protagonisti, gli obiettivi di queste lotte. I protagonisti delle lotte sono completamente cambiati, non sono più come nel ’68 gli studenti borghesi maturati sui testi sacri del marxismo-leninismo-mao tse tung pensiero [...]. Sono i giovani proletari che le contraddizioni del capitalismo non le scoprono sui libri, ma le sentono sulla propria pelle, sulla pelle delle loro famiglie. Il loro comportamento rispetto alla lotta non si misura più a partire dall’estraneità ai contenuti dello studio, ma a partire dall’estraneità, dal rifiuto politico della società borghese, conquistato nella vita sociale che egli svolge (il giovane studente non vive certo in funzione della scuola, anzi, la scuola si trova ai margini dei suoi interessi, dei suoi pensieri). La nuova avanguardia di massa è il giovane che all’interno dei quartieri proletari fin da piccolo acquista quella carica eversiva che porta con sé nella lotta, fin da quando ha a che fare con la polizia perchè gioca a calcio in piazza, o va in due su un motorino, fin da quando distingue la società in stronzi sfruttatori e in proletari sfruttati. E’ il giovane che si scontra con la polizia per non pagare il biglietto ai concerti pop. E’ il giovane che riconosce nella pratica dell’antifascismo militante (dagli scontri ai comizi fascisti, al pestaggio dei fascisti e degli aguzzini del luogo) un elemento costante della sua vita”.
Da Nasce una nuova generazione di studenti medi, Sesto Fiorentino, maggio 1973.
La scolarizzazione di massa avviene in Italia con una velocità impressionante. Nel 1951 gli iscritti alla scuola secondaria superiore, sono il 10% della popolazione tra i 14 e i 18 anni; nel 1961 salgono al 21%. Nel 1971-72 al 50%. Proporzionalmente cresce il numero degli iscritti alle Università. Sono questi dati che fanno dire agli analisti dell’epoca: “la condizione giovanile tende a definirsi sempre più come condizione studentesca”.
PAZZA IDEA...
Il ritornello che usciva da tutti i juke-box nel 1973, può essere usato anche per il tentativo che prendeva corpo. Le riunioni si fanno a Firenze non per mera equidistanza ferroviaria (316 km. da Milano, 316 km. da Roma) in un paese ancora senza direttissima e senza tratte ad alta velocità. In città ci sono più aree militanti che discutono, dentro e fuori dai gruppi, su come dare sbocco alla situazione di stallo politico-organizzativo ed uscire dalla cristallizzazione gruppuscolare. Soggetti diversi che si pongono i medesimi problemi. Stanchi dei discorsi e di una pratica che si riduce al mero propagandismo delle idee o, tutt’al più, ad amplificare i contenuti più avanzati delle lotte. C’è il Circolo comunista anarchico Durruti, stanco della testimonianza a cui paiono limitarsi i libertari; c’è il tessuto di proletariato extra legale politicizzatosi nelle rivolte carcerarie. Culture politiche radicali e differenti modalità di ribellione che non possono essere contenute nella vita dei gruppi. Sono “sinistre del fare” non imprigionabili nella verbosità agitatoria della sinistra extraparlamentare. Il 1973 è stato uno di quegli anni in cui i tratti caratteristici di un periodo storico, compaiono tutti assieme. Come i pezzi di un puzzle che si ricompone improvvisamente. La crisi petrolifera sconvolge gli equilibri internazionali, segna nuovi rapporti di forza e nuove strategie capitalistiche. Ma soprattutto sono i suoi riflessi, le domeniche senza auto, il coprifuoco energetico a rendere reale, quotidiana, la crisi prolungata e strutturale del capitalismo. L’inflazione galoppante funziona da promemoria anche per chi ha preso l’abitudine di passare le domeniche a letto. L’occupazione della Fiat Mirafiori è il punto d’arrivo dell’autonomia operaia, non c’è mediazione sindacale che tenga, non c’è compromesso al ribasso possibile, il rifiuto del lavoro non può essere ricondotto alle ragioni della produzione. E quando Mirafiori tuona, padroni, governo e sindacati non possono che aprire l’ombrello. In Cile Allende ha la ragione ma non la forza, e l’11 settembre cade per mano del golpista Pinochet, a cui aveva affidato il piano di difesa di Santiago in caso di colpo di stato. Lo stadio di Santiago viene trasformato in enorme prigione: fucilazioni, stragi, torture, desaparecidos, termine che ancora non conosciamo. Dopo l’Uruguay, e prima dell’Argentina, la Cia liquida con le dittature militari l’insorgenze del Cono Sud del continente americano. Per il PCI di Berlinguer il golpe cileno è la dimostrazione che non si può governare nemmeno ottenendo il 51% dei consensi elettorali. E’ l’ora del compromesso storico presentato come incontro con le “masse cattoliche”, che si traduce nell’abbandono della sterile politica riformista tenuta fino ad allora (“un nuovo modello di sviluppo”, “investimenti al sud”) per scegliere la subalternità alla DC e l’accordo strategico, patto tra produttori”, con Confindustria. Questi avvenimenti mettono in difficoltà l’intera sinistra extraparlamentare. Per anni si discuterà della lezione cilena, in un paese in cui fioccano i tentativi di colpo di stato militare. A fianco della resistenza cilena si svilupperà una pratica internazionalista straordinaria: dai boicottaggi nei porti, alle raccolte di soldi, fino all’ospitalità massiccia dei profughi e il sostegno ai resistenti. L’imperialismo, lo stato nazione, il lavoro salariato erano i cardini della descrizione dell’età contemporanea in ogni manuale di storia. Tra i militanti rivoluzionari erano in uso categorie, linguaggi, letture ed abitudini comuni. Le stesse teorie, ed avvenimenti, assumevano declinazioni diverse, spesso strumentali all’uso politico che il gruppo di appartenenza faceva. C’era però lo stesso humus, nonostante la difficile geografia organizzativa: la Babele dei linguaggi sarà caratteristica di altri periodi. I gruppi non avevano saputo tradurre l’enorme domanda politica che era stata loro rivolta. Hanno finito per fornire rassicuranti, e conservatrici, risposte rifugiandosi nell’ideologia, nell’utilizzo di formule rispolverate dalla tradizione terzinternazionalista. Così facendo hanno imposto settarismo fra i militanti e nei movimenti, hanno frazionato e subordinato l’interesse di classe alla ristretta visione del tornaconto organizzativo. Hanno condotto un movimento maggioritario, per le problematiche poste, a pratiche minoritarie, a continue distinzioni sui puntini delle i. Hanno allontanato dal “fare” i loro aderenti, trasformandoli in profeti del “dire”. I gruppi hanno risposto con soluzioni partitiche ed organizzative “adeguate al passato e non al presente della lotta di classe” (da Quaderni di Rassegna comunista, n. 2 maggio 1973, rivista del Gruppo Gramsci.)
I GRUPPI HANNO ESAURITO LA LORO FUNZIONE
Lo scioglimento del Gruppo Gramsci, per praticare “l’organizzazione dell’autonomia”, anticipa quello di Potere Operaio che sarà un processo lungo - a Firenze conserverà spezzoni di gruppo come Il collettivo per il potere operaio - e segna l’inizio della dissoluzione dei gruppi. La traiettoria del Gruppo Gramsci è estremamente interessante. Il gruppo ha origine da una delle tante correnti in cui si era frazionata la prima realtà nata come alternativa al revisionismo del PCI, il PCdI – che riprendeva il nome originale con cui era stato fondato il partito comunista nel 1921 a Livorno. Il Gramsci compì una vera metamorfosi, abbandonando velocemente l’ultra ideologismo proprio delle formazioni m-l e le ortodosse formule di partito. L’ingresso del Gruppo Gramsci nell’area dell’autonomia porterà, anche in una situazione dove la sua presenza era relativa come a Firenze, con sede in un fondo di via San Zanobi, importanti novità di pratica e di pensiero. La pratica femminista, innanzitutto, come autonomia dal maschile. I gruppi d’autocoscienza, la rete diretta clandestina per sostenere gli aborti, la spinta all’apertura dei primi consultori autogestiti sono i primi effetti delle iniziative femministe cominciate tra il ’70 ed il ’71. Una strada che generazioni di compagne praticheranno negli anni successivi e che si affermerà con forza impetuosa dal ’75 in avanti imponendo la contraddizione di genere, con effetti spesso laceranti, ad ogni ambito organizzato. Il Gruppo Gramsci porta nell’autonomia fiorentina una presenza studentesca, ridotta ma significativa in alcuni istituti come il III liceo e l’Agrario. Viene utilizzata la sigla collettivi politici autonomi e diffuso Rosso, non più organo del gruppo, diventato giornale dentro il movimento. Il Gramsci è stato, nella sua ultima fase, anche un terreno di sperimentazione sui linguaggi di comunicazione e sulle critiche alle forme del vivere che perpetuano la società capitalistica. La critica all’istituzione totale famiglia dà origine ad una campagna permanente ad opera del collettivo controcultura, impegnato anche nelle sperimentazioni comunicative: dai muri alle varie modalità espressive. Il rapporto fra movimento ed arte in quegli anni è stato spesso banalizzato, sulla figura del cantautore di turno o di qualcun’altro che metteva in rima politica qualche accordo. In realtà la rottura provocata dai movimenti, come rottura anche simbolica dell’ordine produttivo capitalistico, ha investito in quegli anni tutte le istituzioni: dall’esercito all’ospedale psichiatrico, dalla galera alla scuola. Tutti luoghi che addestravano alla disciplina di fabbrica ed alla divisione del lavoro fra manuale ed intellettuale. Quella critica pratica ha segnato pesantemente la produzione artistica: cinematografo, fotografia, l’arte povera e popolare, i fumetti, le forme narrative, le tecniche di comunicazione di massa: nascono allora le radio libere. La Firenze dove agisce, incompreso ai più, il collettivo controcultura è la stessa città in cui si verifica un tentativo di valore assoluto per far incontrare e conoscere le artiste e gli artisti della nuova avanguardia e le loro opere antisistemiche: la galleria AREA aperta da Lotta Continua, grazie a Paolo Marchi, Bruno Corà, Michele Guidugli. Tutta la società è in movimento e si interroga sul proprio ruolo. Si cerca di collocare le conoscenze possedute al fianco, se non all’interno del movimento. Gli avvocati partecipano all’esperienza di Soccorso Rosso, che nasce come risposta pratica alle iniziative repressive della Magistratura. Sono gli anni dell’antipsichiatria militante. Chi lavora nel mondo del giornalismo rappresenta una sponda diretta per le campagne di controinformazione che sveleranno le trame nere, ma anche tante forme di controllo sulle assunzioni in fabbrica ed il vizietto dei fondi neri per finanziare i partiti. Nelle caserme si diffonde l’organizzazione dei proletari in divisa. Gli studenti di medicina allestiscono forme di primo soccorso in previsione degli scontri di piazza. Cambiano anche gli stadi: nascono gli ultras e rappresentano il rifiuto delle regole di chi vuole i tifosi massa amorfa, pubblico che esaurisce la propria funzione nel pagare il biglietto.
A SANTA CROCE
E’ nel popolare quartiere di Santa Croce, dove già hanno la loro sede diversi gruppi della sinistra extraparlamentare, che viene aperta la prima sede autonoma. E’ l’autunno del ’73, quando apre, in via dell’Agnolo 17 rosso il Collettivo George Jackson, che stamperà anche un bollettino ciclostilato dal titolo Col sangue agli occhi. Santa Croce porta nelle sue strade i segni dell’alluvione del ’66, con l’acqua dell’Arno che invade la città raggiungendo oltre quattro metri d’altezza. Un’alluvione che ha insegnato ai fiorentini ad autorganizzarsi senza aspettare l’aiuto dello Stato per risollevarsi; a non aver pregiudizio sui “capelloni” che affluiscono a spalare via il fango dalla città. Un alluvione che ha anticipato la riorganizzazione capitalistica dell’asse urbano, anche grazie alla redistribuzione classista dei “rimborsi” con il ridimensionamento delle piccole botteghe artigianali. Inizia il processo di espulsione degli strati proletari dal centro storico che viene consacrato ai profitti del complesso turistico-alberghiero e del grande commercio. Diventerà negli anni ottanta la città vetrina che quando chiude i battenti lascia le strade al narco traffico ed alla prostituzione. A poche centinaia di metri da piazza Santa Croce c’è il cinema popolare Alfieri, divenuto poi Alfieri Atelier. Al pubblico dei ragazzini e degli anziani del quartiere si uniscono le compagne e i compagni che frequentano la zona. La programmazione cinematografica non era decisamente all’avanguardia. Il pubblico non diminuiva se invece del padrino o della Stangata c’era qualche italica boiata. Cambiava il modo di stare in sala, dove prendevano corpo veri e propri sketch, che forse sarebbe più corretto definire tormentoni. Un uso, verrebbe da dire oggi, interattivo del cinema. Una tradizione che si riproporrà, con una programmazione diversa, ad hoc per il movimento, negli successivi al cinema Universale di via Pisana.
1974
Il 24 febbraio avviene una rivolta nel carcere delle Murate. Un gruppo di detenuti si arrampica sul tetto per manifestare contro l’infinita attesa della riforma carceraria, mille volte promessa, ma che non arriva. Una raffica di mitra, sparata da un agente di custodia, uccide il detenuto Giancarlo Del Padrone, 20 anni, altri 4 rimangono feriti. I detenuti restano sui tetti, il quartiere di Santa Croce solidarizza con loro. La rivolta, e l’assassinio di Giancarlo, diventano una canzone: Le Murate, del Collettivo Victor Jara, una struttura musicale e teatrale di sostegno al movimento: “giustizia sarà fatta, fuori e dentro le prigioni”. Nel quartiere vive, accanto a studenti fuori sede ed artigiani, quel proletariato extra legale che campa di espedienti: dai furti degli appartamenti e nelle ville, al lavoro in bisca. Condizioni di vita ai margini della malavita: il carcere era per loro un tappa obbligata di passaggio, un punto di riferimento delle loro esistenze. Gente che entra ed esce dal carcere, porta fuori la comunicazione ed i saluti, e si avvicina al movimento perchè le lotte carcerarie l’ha in qualche modo politicizzata. Anche la composizione sociale dell’industria del crimine è diversa. A Firenze non esistono, come nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova le “batterie” di rapinatori, ben descritte da Quadrelli nel suo Andare ai Resti. Ci sono gli artigiani della rapina, s’incontrano dei veri e propri artisti dello scasso. La rivolta delle Murate è sostenuta dall’esterno: gli stracci con il sangue di Giancarlo e dei feriti vengono gettati dai tetti diventano gli striscioni con cui si manifesta sotto il carcere, stringendolo d’assedio. Una domenica da cani, di rabbia infinita. Lotta Continua dà l’indicazione di abbandonare l’assedio al carcere, ma nemmeno i suoi militanti la seguono. E’ la conferma di quello che si sapeva già da tempo: con le rivolte del luglio ’73 l’avanguardia dei detenuti aveva rotto con la Commissione carceri di LC, dopo anni di lavoro comune sintetizzati dall’esperienza, ed anche dal volume Liberare tutti i dannati della terra. All’interno delle prigioni la politicizzazione anticapitalista era avvenuta con il passaggio dall’esperienza dell’esproprio singolo alla convinzione della necessità di espropriare tutta la classe degli sfruttatori. La coscienza di massa dei detenuti poneva il problema di un livello di organizzazione diverso da quello della denuncia e della lotta per la riforma dell’ordinamento carcerario. Il carcere doveva diventare base rossa, per rompere i muri dell’isolamento con la società. Il tentativo di esercitare forme di contropotere vide, proprio a partire da Firenze, straordinarie realizzazioni come i colloqui aperti nel carcere di Perugia, e la successiva l’accoglienza in reti di solidarietà per chi usciva - o perchè arrivava la fine pena o perchè se l’era fatta arrivare da se. La nottata finisce con scontri durissimi, il quartiere intossicato dai lacrimogeni e con i rastrellamenti della polizia. Di sicuro il rapporto con queste soggettività e le loro pratiche fu di forte impatto su giovani acculturati, oltre che fortemente politicizzati. Oltre all’odio ideologico verso la forma Stato ed il dominio del capitale, venivano conosciuti i multiformi accorgimenti del procurarsi un reddito senza ingrassare un padrone: dalle diecimila lire false al rispondere in modo univoco al retorico interrogativo di Bertold Brecht È più criminale fondare una banca o rapinare una banca...
L’area che cercava una propria forma organizzata lo faceva comunque attorno alla centralità della figura operaia. Senza vivere le contraddizioni delle grosse fabbriche del nord le avanguardie operaie hanno ormai ben chiaro che il rapporto gruppo - direzione politica esterna alla classe è un meccanismo che li sfianca in un lavoro di retroguardia, trasformandoli da protagonisti in megafoni umani delle giuste parole d’ordine. Per questo, anche nel moderatismo delle lotte operaie dell’area fiorentina, qualcosa si muove. E si muove partendo dal fatto che la classe operaia è ancora all’attacco. Può essere la Gover dell’Osmannoro o la Tipocolor di Calenzano quando c’è uno sciopero od una vertenza aperta i capi reparto devono misurare parole e comportamenti, altrimenti, come minimo, tornano a casa a piedi. I ricatti delle direzioni aziendali non passano. Le figure operaie che partecipano al processo di organizzazione autonoma non sono numerose. C’è comunque un patrimonio rappresentato dalle lotte e dai picchetti di massa che accompagnano le vertenze contrattuali, da lotte dure come quella della Stice: “Chiamiamo autonomia operaia la capacità della classe operaia di lottare e organizzarsi autonomamente per le sue esigenze materiali. A Firenze per la minore quantità e continuità delle lotte, il limite che si è riscontrato e che ha avuto un peso decisivo è stato l’isolamento più assoluto in cui si sono trovate le diverse realtà in lotta: questo è valso tanto per la Stice in tutti questi anni quanto per piccole fabbriche che ogni tanto alzavano la testa (p. esempio la Targetti durante il contratto metalmeccanici 1973, ed a ottobre ’73 sulla vertenza aziendale), isolamento a livello cittadino, ma anche a livello nazionale (la Stice dal resto del gruppo Zanussi, la FIAT di Firenze dagli altri stabilimenti) passando anche attraverso la semplice disinformazione di ciò che accadeva nelle altre realtà. Per superare questi limiti alcuni compagni tentarono di dar vita ad organismi operai che si riunivano in sedi diverse di gruppi e partiti. Esperienze ne sono state fatte diverse, ma non hanno avuto continuità. E questo si è verificato sia che si trattasse del CPO dell’Osmannoro, sia del Collettivo Operaio di Firenze, sia della Sinistra sindacale, sia del gruppo operaio della Stice, sia del collettivo operaio Pdup-Manifesto di Rifredi. Noi siamo un gruppo di compagni provenienti da alcune di queste esperienze organizzative. Secondo noi questi organismi non hanno avuto continuità perchè sono sorti per esigenza ideologica di alcuni gruppi e non per esigenza materiale della classe operaia, cioè organizzare i bisogni operai. E tutto questo perchè la presunzione dei gruppi di avere una linea complessiva che dica tutto su tutto, metta insieme l’operaio delle piccole fabbriche con quello delle grosse, il metalmeccanico con il chimico, l’operaio e lo studente faceva sì che la discussione o era uno scontro di linee politiche generali tra gruppi per cui venivano esclusi gli operai che non militavano nei gruppi o il gruppo più debole) oppure il dibattito era completamente gestito da un gruppo (per cui venivano esclusi tutti quelli che non si riconoscevano in quella linea politica). Il risultato che si è ottenuto è stato quello di spaccare tutti questi organismi e di averli usati solo per ingrassare la propria organizzazione. Secondo noi l’ottica va completamente rovesciata: non un gruppo di compagni che elabora esternamente al movimento una linea, che poi molto spesso si rileva teoria, ideologia e in concreto cosa non gestibile dai lavoratori in prima persona. Ma un programma, delle proposte che vengano elaborate e verificate dalle esperienze di ogni singola situazione. Un programma e delle proposte che nascendo e verificandosi nel movimento di cui si è parte siano sempre praticabili e gestibili dagli operai in prima persona”. Dalla proposta politica avanzata nel luglio del 1974 all’interno del dibattito operaio. Nell’estate del ’74 si sviluppa, a San Bartolo a Cintoia, un movimento di occupazione delle case senza precedenti: 96 appartamenti, 600 pproletari protagonisti, un braccio di ferro durato per mesi e concluso con la requisizione degli immobili da parte del comune di Firenze. “La casa è un diritto di tutti i lavoratori [...] siamo le famiglie che hanno occupato i 96 alloggi in via Santa Maria a Cintoia e chiediamo la collaborazione di tutti i lavoratori e i cittadini alla nostra lotta per il diritto ad una casa decorosa e a prezzo accessibile al salario operaio. Lo sfruttamento in fabbrica si proietta nella società dove il padrone riprende il 50-60% del reddito operaio in affitto. Il continuo aumento del costo della vita rende la situazione ormai insostenibile. Questa occupazione è il primo momento di una lotta che in forme diverse dovrà portarci a soddisfare un diritto elementare [...]. Il problema della casa riguarda tutti i lavoratori e quindi la soluzione del nostro problema dovrà essere un primo passo per una soluzione generale”, scriveva a fine agosto il Comitato di occupazione delle case di Santa Maria a Cintoia. Torniamo indietro di qualche mese. Sui tetti del carcere delle Murate, in quei giorni di fine febbraio, a parlare con i dimostranti che si sono radunati sotto il penitenziario, c’è Giancarlo Pagani, proletario comunista. Uno di quelli che non si tirava mai indietro quando c’era da rischiare, fosse in corteo o contro un comizio fascista. Giancarlo faceva parte di un giro proletario che aveva anticipato l’esistenza della sinistra extraparlamentare. Artigiani, proletari autodidatti, altri soggetti che vivevano d’espedienti pur mantenendosi a distanza dalla malavita. Compagni che negli anni si divisero, andando ognuno per la loro strada, ma che avevano dato vita ad esperienze assolutamente originali come quella della Lega Spartaco, un rifiuto dei gruppi all’insegna della necessaria radicalità della rivolta, messa in piedi dall’inesauribile Pierotto, operaio dei servizi educato al comunismo dal mitico Bordiga, e poi animatore del Comitato Proletario di Casellina. Molti di questi compagni avevano finito per trasformare una modesta trattoria, Schioppo in via degli Alfani, in una vera e propria sede. Passavi di lì e ti nutrivi più di lezioni proletarie (“il movimento di massa riparte sempre da dove si è fermato nel precedente ciclo di lotte”), di qualche libro od oggetto a buon prezzo che di alimenti - deglutibili solo per la gran fame e le poche lire in tasca. Giancarlo era stato arrestato nel dicembre ’73 per un esproprio ad un orefice in via degli Alfani, una zona dove era di casa. Viene fermato ed arrestato dopo un inseguimento a piedi. Qualche mese dopo finisce sotto processo. Giancarlo non è uno di quelli abituati a camuffare i propri comportamenti, nè tantomeno a fare i conti con l’entità delle condanne. Nell’aula giudiziaria Giancarlo rivendica il diritto dei proletari all’esproprio “non sarà la condanna che mi darete a farmi sentire in torto [...]. L’impressione che mi fate è la solita di quando ero bambino - che mi portavano a vedere il teatrino dove c’erano tante marionette che venivano tirate con i fili. Non avendo nient’altro da dire vi rammento che l’unica valida giustizia è quella proletaria”. Pagani libero! è il volantino che diffonde, anche in tribunale, il Collettivo Jackson. “Il 7 dicembre 1973 il compagno Giancarlo Pagani, proletario militante assaltava una gioielleria nell’evidente scopo di assicurarsi quei mezzi di sopravvivenza che questa società ci nega, applicando così un comportamento che diventa sempre più generale fra il proletariato, per lui il carcere sta sempre più diventando il luogo definitivo di esistenza. Per noi assumere la difesa politica del compagno Pagani vuol dire affermare il diritto all’espropriazione che il proletariato sa esprimere nei livelli più alti dello scontro di classe. Vuol dire negare il concetto di inviolabilità della proprietà privata, concetto che è la struttura portante della società divisa in classi”.
LUCA
E’ il 14 ottobre, quindici giorni dopo “il 29 ottobre una rapina alla cassa di risparmio di Firenze si conclude tragicamente. I carabinieri sono a conoscenza della rapina, si appostano, e con fredda determinazione uccidono due ‘rapinatori’ che sono dentro la macchina, feriscono gli altri due che in seguito sono catturati. Le perizie balistiche parlano chiaro: sono stati colpiti con armi di grande precisione da militi che erano ben appostati. Il massacro voluto e concertato dallo Stato sembra concludersi con le congratulazioni del PCI di Firenze e con le solite promozioni dei carabinieri che li hanno preso parte. Ma c’è un particolare: i ‘rapinatori’ assassinati sono due militanti rivoluzionari, due compagni conosciuti e stimati: Giuseppe Romei di Napoli e Luca Mantini di Firenze [...]. Luca e Sergio avevano fatto entrambi dopo la loro esperienza di ex detenuti e di ex LC la scelta di organizzare i NAP, una formazione clandestina che si interessa principalmente delle carceri e della violenza borghese [...]. Non delinquenti comuni, provocatori o ribelli, ma compagni che avevano scelto una strada da cui si può dissentire solo per l’immaturità del momento e per l’improvvisazione dell’organizzazione che ha lasciato ampi varchi al terrorismo poliziesco. I loro errori, la loro vita sono patrimonio di noi tutti, per questo li difendiamo come interni al lungo e tortuoso cammino rivoluzionario.” (da Rosso numero speciale contro la epressione, 1975). I Nap si erano formati dalla Commissione carceri di LC e dal movimento dannati della terra. La critica pratica all’istituzione carceraria è la distruzione di tutte le istituzioni totali. Così dalle carceri si sviluppa, con un ideologia semplicissima, la lotta armata contro l’oppressione dello Stato: “o ribellarci o morire nelle carceri e nei ghetti”. I Nap, la cui esistenza va dalla primavera ‘74 al ‘77, sono senza dubbio l’organizzazione armata che ha avuto più morti rispetto al totale dei militanti, alcuni in conflitti a fuoco, altri nella preparazione di ordigni, e su cui più si è abbattuta la repressione con di uccisioni premeditate (come quella di Mantini e di Romeo), carcere durissimo, torture, annientamento psicofisico. La vicenda di Alberto Buonoconto è emblematica di questo trattamento speciale. In 300 accompagnano la salma di Luca sperimentando le nuove tecnologie a disposizione della sbirraglia. Il video tape, che proprio in quel periodo Pio Baldelli e Claudio Popovic iniziavano a spiegarci come utile strumento della controinformazione di classe per registrare inchieste e comportamenti di lotta, schedava uno per uno i partecipanti al funerale. Riprese che non avevano pietà della morte e del dolore e che anticipavano il futuro: quello di un apparato poliziesco dedito ad entrare in ogni meandro della nostra esistenza per trasformarlo in legame associativo. Niente di fronte alla lucida decisione di Anna Maria di dare continuità alla scelta del fratello fucilato: lotta armata fino alla vittoria! La morte di Luca genera uno sconquasso. Mantini è un militante riconosciuto, nessuno può parlare dell’infiltrato o intonare la cantilena del “a chi giova”. Luca, aveva militato per oltre due anni in Lotta Continua, era stato arrestato a Prato, in un rastrellamento al termine di un comizio del MSI nella campagna elettorale della primavera ’72. Due anni e otto mesi la condanna ricevuta da Luca, nell’onda nera della repressione orchestrata dal procuratore della repubblica di Firenze Calamari: oltre sessanta arresti, migliaia di denunce, decine di anni di galera contro gli antifascisti - una campagna elettorale conclusasi con l’assassinio dell’anarchico Franco Serantini lasciato morire senza cure nel carcere di Pisa, dopo essere stato pestato ed arrestato il 5 maggio per essere sceso in piazza contro il comizio del MSI. Luca ha perseguito le proprie idee: il tentativo di dotare il proletariato italiano di un organizzazione simile alle Pantere Nere. Per Luca la lotta armata non era il fine, era il mezzo, attraverso cui l’autonomia operaia e proletaria, e con essa i dannati della terra, aprivano varchi e spazi per la loro iniziativa, per la rivoluzione. La struttura di lavoro in cui militava e che aveva fortemente voluto era il Collettivo George Jackson. L’obiettivo primario che si era posto era quello di rompere l’isolamento delle lotte dei detenuti a Firenze. La solidarietà mostrata in città nei confronti della rivolta di febbraio aveva mostrato la fondatezza del suo impegno. L’esecuzione di Piazza Alberti segnò una linea di non ritorno in città. Una linea difficilmente attraversabile. Il Jackson rivendicò, senza mezzi termini, la figura dei compagni assassinati, e di quelli arrestati, e la consequenzialità tra militanza comunista ed azione di esproprio. Le forze dello Stato usarono l’azione come molla per setacciare la nascente area dell’autonomia. L’antiterrorismo, che presto diverrà il Servizio di Sicurezza diretto da Santillo, si insediò in città. Perquisizioni, interrogatori, pedinamenti... L’impatto della repressione provocò il suo effetto principale: quello di separare, dividere, far diffidare l’uno dell’altro azzerando le precedenti comunanze. La cultura del sospetto fece il resto, alimentata da dichiarazioni “la rapina era stata decisa in assemblea” che confondevano l’azione con la rivendicazione della legittimità del “prendersi i soldi dove i capitalisti li depositano contro di noi”. La storia dell’autonomia pareva già finita prima di nascere, stritolata dalla relazione autonomia e lotta armata. L’effetto principale non fu quello, peraltro rilevante, di sparpagliare chi provava ad aggregarsi, ma quello di funzionare da freno per rotture che parevano imminenti come quella interna a Lotta Continua. Se la prospettiva era quella dei Nap tanto valeva rimanere all’interno di un gruppo che, su scala locale, garantiva un sufficiente radicamento per l’esercizio della forza in chiave antifascista e contro le gerarchie di scuola e di fabbrica. Il 29 ottobre diventa una data che per diversi anni viene ricordata con un’abbondanza di fuochi...
LA PAGHI LA SIP? NOP!
La fine del 1974 segnò l’avvio di una delle più formidabili risposteall’uso capitalistico della crisi: il movimento dell’autoriduzione delle bollette ENEL e SIP. I comitati territoriali crescono da Varlungo a Sesto Fiorentino, interessando ogni quartiere. In ogni comitato si crea una dialettica nuova: vecchi militanti dei gruppi e nuove soggettività autonome discutono su come organizzarsi. In alcuni casi, come a Santa Croce, per l’attività del comitato è fondamentale il banchino. Viene piazzato davanti alle poste di via Pietrapiana, il secondo ufficio per ampiezza in città, ed intercetta, con la proposta ed i moduli dell’autoriduzione, chi va a pagare le bollette. Il banchino ha lo stesso orario dell’ufficio e nel comitato militanti dei gruppi e dell’autonomia lavorano fianco a fianco. Il terreno d’azione comune è quello della riappropriazione, dell’esercizio del contropotere: la decisione dal basso di quanto pagare sulle tariffe, di che percentuale del salario destinare alle bollette. A Sesto, per fare un altro esempio, per la diffusione dell’autoriduzione vengono utilizzate le forme di organizzazione già esistenti: dalla rete di delegati di fabbrica ai comitati di caseggiato, dalle sedi politiche e sindacali alle piazze. La mobilitazione proletaria vede protagonisti operai e casalinghe, pensionati ed artigiani, ed impedisce all’ENEL di procedere agli stacchi - la società non era ancora informatizzata, oggi i contatori digitali sono controllati dalle centrali. Vengono organizzati turni di guardia, strada per strada, per impedire l’accesso ai furgoncini ENEL che portano le squadre addette al distacco. Una vicenda che andrà avanti per un anno, con la crescita del dibattito nei comitati: si parla di crisi e di prospettiva politica. I gruppi della sinistra extraparlamentare sono oramai dominati dall’autonomia del politico, per cui tocca a questi organismi di massa dare indicazioni alla classe sulle forme di lotta da mettere in pratica.
GIOIA E RIVOLUZIONE da Crac! LP degli Area, 1975.
E’ un moto insurrezionale quello che si scatena in tutt’Italia contro l’uso sistematico dell’omicidio politico da parte dei fascisti e dello Stato. Quattro morti in tre giorni, tra il 16 ed il 18 aprile 1975. Le giornate d’aprile vedono alla guida del movimento una nuova generazione. A Firenze il corteo, indetto da tutta la sinistra extraparlamentare, si scioglie per attaccare la sede del MSI. I diversi servizi d’ordine si dirigono verso Piazza Indipendenza, dove in mattinata era già stato caricato lo spezzone staccatosi dal corteo degli studenti medi. La polizia difende gli accessi alla piazza. Gli scontri sono immediati e divampano in tutto il centro storico, particolarmente intensi nel quartiere di San Lorenzo. Alle 20 le segreterie di LC, PDUP ed AO comunicano: “andate a casa è stata una grande giornata antifascista”, ben pochi raccolgono l’invito. Questa volta alla polizia resta difficile fare i soliti arresti da rastrellamento: le strade sono piene di gruppi organizzati, la giornata non è finita. Alle 21.30 c’è una manifestazione indetta in Piazza San Marco dall’ANPI, a cui aderiscono PCI e PSI. Alla fine del comizio i compagni presenti cercano di far partire un corteo verso Piazza Indipendenza, ma il servizio d’ordine del PCI si frappone violentemente e lo impedisce. I compagni tornano alla spicciolata nei pressi di Piazza Indipendenza, si è sparsa la voce, vera, di squadre speciali in azione. Sono gruppi di 10 poliziotti in borghese con i fazzoletti al volto che avvicinano i compagni isolati li pestano e li trasportano alla vicina caserma di PS Fadini, dove subiscono nuovi pestaggi. Sono quelle squadre che vedremo massicciamente in azione nelle piazze del ’77 responsabili, fra l’altro dell’assassinio di Giorgiana Masi. In via Nazionale si raggruppano un centinaio di compagni, militanti della sinistra rivoluzionaria ma anche della “casa del popolo” del vecchio mercato. Stanchi di respirare l’area dei lacrimogeni e di assistere alle scorrerie delle squadrette. Vicino alla sede del MSI, un gruppo di 9 agenti, una squadra speciale della polizia, sta massacrando di botte con bastoni e calci di pistole un compagno. “Fascisti assassini” viene gridato dai compagni. In quel momento il militante autonomo Francesco Panichi scende da una Fiat 500 convinto, come tutti gli altri, di essere di fronte ad un pestaggio operato da militanti fascisti. Dalla squadra partono i primi colpi di pistola contro i compagni che avanzano e, ora, si sparpagliano. L’agente di Ps, Orazio Basile si inginocchia, prende la mira con la sua calibro nove e fa fuoco. Rodolfo Boschi viene centrato alla nuca e cade ucciso. Basile spara ancora. Ferisce Panichi ad un braccio e un altro compagno che, colpito ad una gamba, riesce ad allontanarsi. Al processo che ne seguirà, l’agente Basile sarà condannato a 8 mesi con la condizionale per “omicidio colposo in eccesso di legittima difesa”. In primo grado 10 anni di reclusione saranno inflitti a Francesco, imputato di reati minori.
Da Rivolta di classe, maggio 75. Firenze: la polizia spara. Psss... è una provocazione!
“Il 18 aprile, a Firenze, la polizia spara e ammazza un compagno, Rodolfo Boschi militante del PCI e ne ferisce un altro, Francesco Panichi, militante dell'Autonomia Operaia; il PCI stravolge la figura di Boschi facendolo diventare, da antifascista militante e sincero qual'era, un ignaro e occasionale passante; salva la faccia alla polizia scaricando su Panichi la responsabilità dei fatti e lo manda in galera per tentare di placare la collera operaia e proletaria e sviare così i contenuti della risposta antifascista che sorgeva spontaneamente già dopo gli assassini di Milano [...]. La notizia si sparge rapidamente per Firenze e in tutta Italia. La base del PCI rumoreggia e vuole dare una risposta concreta: due case del popolo prendono ufficialmente posizione contro l'ennesimo deliberato assassinio di Stato. Ma a questo punto interviene la direzione del PCI che impedisce l'uscita dei volantini già pronti ed emette un comunicato «ufficiale» in cui si afferma la totale casualità della presenza di Boschi in via Nazionale e si addossa di fatto la responsabilità della sua morte, non alla polizia, ma al provocatore di turno che per l'occasione è bell'e pronto: Panichi. A Firenze dunque il PCI tenta di giocare una grossa carta sull'ordine pubblico accreditando ancora una volta la tesi del ‘poliziotto proletario e figlio dei popolo’ e nel contempo, cercando con tutti i mezzi di offrire di sè e della sua base un'immagine che sia la più pacifica possibile. Ed è proprio per nascondere la realtà della ribellione ideale e pratica di Boschi come di tutta la sua base, che il PCI si inventa di sana pianta la storia della provocazione di Panichi per colpire così tutta la sinistra rivoluzionaria e in particolare l'Autonomia Operaia. Ma il PCI a Firenze è anche un partito di potere e in quanto tale lo esercita in qualsiasi occasione approfittando ignobilmente persino del clima creatosi con l'uccisione di Boschi per risolvere le sue beghe interne. Non a caso infatti la pubblica dichiarazione di accusa contro Panichi viene fatta leggere in un comizio al Sindaco di Scandicci, personaggio ormai bruciato per il partito che farà subito in modo, a seguito della immediata querela di Panichi, di silurarlo definitivamente! Ma tra tanta miseria e tanta bassezza la verità che comunque si vuole soffocare è che il 18 aprile a Firenze la base del PCI, gli studenti e gli operai tutti, erano scesi in piazza duramente contro la DC e i fascisti per contrapporre i fatti all'antifascismo parolaio e per dire basta a commemorare ancora i propri morti. Riaffermare questa verità significa fare giustizia non solo della ‘verità di Stato’ ma soprattutto fare giustizia delle tesi che revisionisti e opportunisti cercano di accreditare sui fatti di via Nazionale, restituendo a Boschi quella dignità di antifascista militante che si vuol sacrificare, insieme alle calunnie e al carcere per Panichi, sull'altare del compromesso storico. Ma significa anche che vanno battute quelle tesi opportuniste di chi vuole oggi Panichi, innocente, si, ma in galera per coltivare nel proprio orticello un nuovo caso Valpreda e salvare così la faccia al PCI”.
Assassinato il compagno Rodolfo Boschi Comunicato della Federazione Fiorentina del PCI
“A Firenze città civile e democratica, dove mai, nel trentennio trascorso dalla liberazione ad oggi era stato versato il sangue dei cittadini e dei lavoratori nel corso delle lotte politiche e sociali è stato assassinato un giovane democratico, Rodolfo Boschi, iscritto al PCI, della sezione Gagarin. I comunisti esprimono il più profondo cordoglio alla famiglia Boschi. E’ stato possibile sulla base di testimonianze ricostruire in parte lo svolgimento dei tragici fatti. Quando la tensione provocata per ore nel centro cittadino da gruppi di teppisti, provenienti anche da fuori Firenze, si andava esaurendo, in via Nazionale, angolo via Faenza, da un auto FIAT 500 è sceso un individuo armato di pistola. Si tratta di certo Panichi, noto provocatore, sempre coinvolto negli incidenti degli ultimi mesi alla Mensa Universitaria e di fronte alle scuole e inspiegabilmente mai fermato dalla polizia per le sue azioni provocatorie. In quel momento sono stati sparati diversi colpi di pistola, uno dei quali ha ferito mortalmente il compagno Rodolfo Boschi, che con un amico si trovava a passare. Veniva inoltre ferito lievemente al braccio il Panichi. Il magistrato inquirente ha indiziato di reato l’agente in borghese Orazio Basile dell’Ufficio Politico della Questura di Firenze, che è stato visto sparare da alcuni testimoni. Da questo episodio, su cui gravano ancora ombre preoccupanti e punti oscuri, emergono comunque gravissime responsabilità di chi è chiamato a tutelare l’ordine pubblico. Invece di colpire i provocatori e le loro centrali è stato versato il sangue innocente di un giovane lavoratore. Occorre che i responsabili siano severamente puniti proprio per impedire che si scavi un solco profondo tra i lavoratori fiorentini e le sue forze di polizia e si crei una contrapposizione. I gravi fatti avvenuti ieri e ieri l’altro a Firenze testimoniano della esistenza di gruppi provocatori che, prendendo a pretesto i sentimenti antifascisti delle masse popolari e giovanili, cercano consapevolmente di distorcere l significato del grande e civile moto di indignazione popolare, delle manifestazioni di protesta unitaria e democratica che si è avuta nei luoghi di lavoro e nelle scuole in seguito ai fatti di Milano. Chi getta bottiglie incendiarie in uffici, negozi e private abitazioni, chi inscena vere e proprie battaglie di strada, compiendo atti di vandalismo e di teppismo, chi infine crea con falsi allarmi ondate di tensione e di paura, alimenta la strategia della tensione, collocandosi a fianco dei suoi fautori ed esecutori. Queste frange estremistiche – al cui nterno agiscono provocatori da tempo noti – vanno isolate e decisamente condannate da tutti i democratici. Contro di esse si deve esercitare la più ferma e rigorosa vigilanza. Firenze democratica e antifascista ha già detto chiaramente in questi giorni, come già in passato, che l’eversione e la criminalità fascista, le manovre, gli intrighi, le provocazioni di chi vuole fare uscire la lotta politica dal terreno della democrazia, vengono isolate e battute coll’impegno democratico e antifascista, colla mobilitazione di massa, coll’unità dei cittadini, dei lavoratori, delle forze democratiche. Uniamoci per imporre al governo un fermo impegno antifascista, il massimo rigore nel perseguire esecutori e mandanti delle trame nere. Gli organi dello Stato devono compiere fino in fondo il loro dovere contro i fascisti assassini; nessuna tolleranza può essere ammessa. I comunisti chiamano tutti i democratici, i lavoratori, i giovani, gli antifascisti a rispondere ai gravi fatti di questi giorni con manifestazioni ordinate, unitarie, di massa. Occorre respingere ogni provocazione, occorre spezzare la spirale della rissa, del teppismo e del fascismo con la forza possente dell’unità dei lavoratori e degli antifascisti, che garantisce l’ordine democratico, la legalità repubblicana, la vita civile del Paese”.
LO SCONTRO È CON IL PCI
Sabato 19 aprile Piazza Signoria è strapiena per la manifestazione antifascista. Ma il PCI non ha nel mirino i fascisti: “Panichi sicuramente ha sparato” mente Barbieri, ex partigiano ed all’epoca sindaco di Scandicci, a cui tocca interpretare la realpolitik piccista di un paese da salvare dagli opposti estremismi. Lo scontro in piazza divampa subito: il servizio d’ordine del PCI schierato nella sua interezza non riesce a fermare l’onda. Il tappo salta alla svelta, il corteo autonomo trascina tutta la sinistra rivoluzionaria ed una parte della base comunista che non ha visto nessuna risposta, da parte del glorioso partito, all’omicidio di un suo militante per mano della polizia. In ventimila sfilano per tutto il centro sciogliendosi in San Frediano. Quello che avviene da allora, lo scontro sistematico con il PCI e con il suo servizio d’ordine, è ciò che avverrà a livello nazionale nel ’77 con Lama e dopo Lama. A Firenze il PCI si erge a garante dell’ordine pubblico in città, oltre che dell’ordine produttivo in fabbrica. Il partito controlla da sempre tutti i comuni limitrofi al capoluogo. I comuni cedono aree edificabili agli industriali a cui garantiscono, tramite le locali camere del lavoro, che non verrà organizzato il sindacato in fabbrica. Comuni, come Sesto Fiorentino che all’epoca aveva 40 mila abitanti e quasi seimila iscritti al partito, oltre 11 mila alla CGIL. A Sesto nel ’70 il PCI ha messo sotto inchiesta molti militanti della sua federazione giovanile. Il motivo? Avere osato, in sintonia con l’autunno caldo e con il dibattito sull’approvazione dello Statuto dei lavoratori, organizzare la “lega degli apprendisti”. Niet! I padroni delle ceramiche non andavano disturbati, alcuni avevano la tessera, altri elargivano cospicui contributi alle casse del PCI. Situazioni analoghe avvenivano a Scandicci ed a Campi Bisenzio. Calenzano era un modello anticipato di marketing territoriale offrendo il proprio territorio all’insediamento delle imprese – infrastrutture ovviamente a carico della fiscalità generale. Il “sostegno all’occupazione” annunciato dalle giunte picciste passava per i regali alla piccola impresa. A questo tipo di impatto con il PCI erano preparati gli studenti medi. Una componente forse maggioritaria di studenti proletari, i primi, come cantava Guccini, a poter studiare in casa loro. Sbaragliati, come si è visto, i fascisti nelle scuole lo scontro politico e fisico ora è con i militanti della FGCI, sostenuti dalla CGIL scuola. Per loro il carattere classista della scuola era “da attenuare”, “da emendare”. La meritocrazia un valore da difendere garantendo pari opportunità – come se essere figli di un professionista o di un operaio non producesse una selezione a prescindere. Erano anni luce indietro nell’analisi della scuola. Una scuola che era diventata un recinto per l’esercito industriale di riserva, un recinto d’addestramento al ritmo della fabbrica ed alla disciplina. Programmi ministeriali, nozionismo, docenti, ore d’assemblea contingentate, la pretesa di essere in una torre d’avorio avulsa dalla società e dalla lotta di classe che vi divampava. Il movimento dei medi aveva trasformato la scuola disciplinare in spazio pubblico di dibattito e crescita collettiva. Aveva sostituito la democrazia diretta dell’assemblea alla gerarchia del corpo insegnante, aveva praticato l’insubordinazione organizzata contro ogni tentativo di ripristino dell’autoritarismo. Libertà di lottare, innanzitutto, libertà di essere fuoriuscendo dall’assurdo confine della minore età, del “fate venire i vostri genitori”. Buoni per essere arruolati in un esercito, ma necessari di patria tutela per affrontare le cose che li riguardavano in prima persona. Ed il PCI che assolutizzava lo schema minore età/maggiore età con le diverse organizzazioni: federazione giovanile e poi partito. Quanti tutori per una generazione che aveva capito che per non bruciare se stessa doveva incendiare la prateria. Piazza San Marco, il luogo degli appuntamenti per i cortei studenteschi, vedeva regolarmente il confronto fra servizi d’ordine per incolonnare gli spezzoni. Per stare in piazza non avevamo bisogno solo delle idee, occorreva la determinazione per portarcele. E nessuno si poteva permettere d’imporre diktat.
DAI GRUPPI AL MOVIMENTO
Le giornate d’aprile innescano una crisi verticale nell’organizzazione cittadina di LC. Un duro scontro politico si protrae per qualche mese, concludendosi con l’affermazione della sinistra interna, parte della quale sembrava già fuori dal gruppo. Si ritrovano fuori dalla gestione della sede militanti storici che hanno da sempre rapporti diretti con la segreteria nazionale. Questa situazione produce un maggior impulso di LC nelle lotte sociali con l’obiettivo di organizzare la sinistra attiva” nelle scuole, nei territori, nelle fabbriche. In questi mesi LC verrà tacciata, anche da parte di altri gruppi, di “deriva autonomista” simboleggiata dai fischi a Lama (6 novembre 75) e dai duri scontri che oppongono LC e autonomi a FGCI, PDUP, AO al corteo dei medi il 2 dicembre. Le giornate d’aprile rappresentano un punto di svolta. Il paese è scosso da lotte di potere. I picchetti operai non si limitano più ad difendere gli scioperi. Diventano forme offensive di lotta allo straordinario in fabbrica, forme mobili che investono un medesimo territorio Nelle fabbriche dove il ritornello della “difesa dell’occupazione” viene cantato per introdurre la politica delle compatibilità, leggi sacrifici, lottare contro lo straordinario è un turpiloquio. Si sviluppano le mille forme d’appropriazione: il sabato pomeriggio lo shopping è collettivo e non si limita più a fare il pieno di libri alla Feltrinelli, da tempo zona franca. Non c’è bisogno di complesse operazioni politiche per rifornirsi di maglie, giubbotti, pantaloni. Per gli alimentari non è neppure il caso di scomodarsi: basta andare in tre per uscirsene con i carrelli pieni. La Standa di via Pietrapiana insegna. Ancora Brecht: “dato che noi altri avremo fame se ci lasceremo derubare verificheremo che tra il pane buono che ci manca e noi solo un vetro sta [...] dato che laggiù ci sono case mentre senza tetto ci lasciate decretiamo ci entreremo e subito stare nelle tane non ci garba più”. Questi alcuni indicatori del costo della vita in Italia nel 1975: stipendio operaio circa 154.000. Costo giornale £ 150. Biglietto del tram £ 100. Tazzina caffè £ 120. Pane £ 450 al kg, latte £ 260 al litro. Vino al litro £ 350. Pasta al kg £. 480. Riso al kg £ 420. Carne di manzo al kg. £ 4500. Zucchero al kg £ 430. Benzina £ 305. 1 grammo di oro costa £ 5440. Il tasso d'inflazione è al 19,2%. Si diffondono le forme creative di riappropriazione: dai meccanismi di blocco dei contatori dell’ENEL (pellicole ed altro inserite per non far girare la rilevazione del consumo). Piccole chiavi per aprire i telefoni e infilare una cordicella chiamando senza gettoni; la chiavetta della simmenthal, multiuso come il coltellino svizzero, buona anche per “spadinare” le serrature, invero non sofisticate, delle autovetture di allora. Pratiche che si generalizzano tra i giovani proletari delle periferie e gli studenti medi: autonomia come negazione dell’ordine, della gerarchia, della divisione sociale del lavoro; autonomia come piccoli gruppi in costante moltiplicazione. Ogni quartiere ha una piazzetta, un giardino, una casa del popolo in cui ritrovarsi, sapere cosa succede, decidere dove andare, partire per fare le scritte, ammorbidire qualche aguzzino, preparare la manifestazione successiva. Le nostre Quarto Oggiaro si chiamano Vingone, Sesto, Rovezzano. Una generazione che cresce con quella che si potrebbe definire cultura di strada. Abitudine al confronto, anche fisico, ad entrare e ad a tirarsi fuori dai “guai”, a misurare la vita nella sua drammaticità, capendo quanta violenza nasconde l’assenza di soldi e quanta poca ne contengano qualche cazzotto ben assestato a chi produce simili situazioni. Esperienze che fanno crescere senza nessun tipo di soggezione verso chi comanda, ma anche verso l’intellettuale che si sente in dovere di spiegare com’è fatto il mondo. E’ l’altra faccia di una radicalità gridata a pieni polmoni nei cortei dove gli sforzi dei gruppi per tenere a distanza gli spezzoni autonomi non sono più sufficienti, sia per il numero che per la contaminazione di altri settori. “Curcio libero” è uno degli slogan che funziona da riconoscimento. Uno slogan che afferma la legittimità della lotta armata, della sfida al monopolio della violenza detenuta dallo stato. Ma mostra anche la convinzione che la pratica armata delle Brigate Rosse avviene in dialettica con il movimento di classe, quantomeno con le sue punte più avanzate. I sequestri di dirigenti d’industria e di capireparto, i sabotaggi nei depositi alimentano la convinzione che la "propaganda armata” sia un elemento rafforzativo dell’autonomia di classe e non la sostituzione di essa con un apparato clandestino che instaura una guerra privata con lo Stato. Ancora autonomia e lotta armata: scopriremo negli anni successivi il revisionismo armato delle BR, la loro concezione di guerra privata fra il proprio apparato militare e quello dello Stato, l’armatismo codista e subalterno al PCI, l’uso allucinante e in dosi massicce dell’omicidio politico. L’area dell’autonomia diviene un luogo di ricerca e d’incontro dei diversi processi di liberazione. Femministe, creativi, tante controculture passano, guardano, spesso se ne vanno per la loro strada fino alle manifestazioni successive. Dentro fuori ai bordi dell’area dell’autonomia come sottolineava, nel suo sottotitolo, un libro dell’epoca Diritto all’odio. Le giornate di aprile rappresentano l’inversione del passaggio segnato nel ’69 dal movimento ai gruppi. Finalmente si fa il percorso contrario: dai gruppi al movimento. Il ’75-’77 è un biennio insorgente: riappropriazione ed illegalità di massa, autogestione dello scontro, tentativi di centralizzazione dal basso delle esperienze ne sono i tratti distintivi.
1976
Esce Novecento, l’epopea della classe è arrivata fin lì, sta a noi portarla ancora avanti. Nascono anche a Firenze i circoli del proletariato giovanile ed organizzano autonomamente la Festa della primavera nel pratone di via Morandi (Rifredi Tre Pietre). Ma che vuol dire proletariato giovanile? E’ solo un dato anagrafico quello che segnala una nuova marginalità sul mercato del lavoro? L’eccedenza della forza lavoro soprattutto scolarizzata, rappresenta i primi effetti di una ristrutturazione industriale affermata in chiave tutta politica per riportare il comando in fabbrica. "Innanzi alle imponenti modificazioni provocate - o in via di essere determinate - dalla ristrutturazione, il corpo di classe operaia si distende e si articola in corpo di classe sociale [...]. Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l'operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario” (A. Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, 1976, p. 9).
Il comunismo giovane e bello, di cui parla Rosso in una fortunata prima pagina, esteticamente non ha niente a che fare con le foto di gruppo delle nostre carovane desideranti. Se si guardano le facce dell’epoca molto meglio l’immagine dei nuovi barbari, brutti sporchi e cattivi che utilizza il PCI . Le porte dei posti di lavoro si chiudono in faccia ad una generazione che varca i cancelli per creare conflitto. Quando non c’è da organizzare lotte marca visita e plaude al “compagno assenteismo terrore dei padroni fa bene all’organismo”. I gruppi, prima di andare definitivamente in crisi, mettono in crisi centinaia di militanti. La militanza a capo fitto in cui si erano impegnate intere generazioni non vede più prospettiva. La campagna elettorale del ’76, condotta sull’illusione del crollo del regime democristiano e dell’affermazione del governo delle sinistre, rappresenta la deriva finale dei gruppi. Totalmente sbagliata la valutazione del ruolo del PCI a cui si affida ancora una funzione progressiva non comprendendo che proprio il partito comunista intende mettere velocemente fine all’offensiva del movimento di classe. Il governo d’unità nazionale chiarirà in pochi mesi questo equivoco. A Firenze la campagna elettorale si chiude con il protagonismo della piazza. Il 31 maggio 1976 comizio di Almirante. Chi si aspetta la solita mobilitazione antifascista si sbaglia di grosso. In ballo non c’è solo la provocazione dei fascisti. In discussione è il tipo di sinistra che in città accoglie la provocazione. Il PCI prova a creare un clima preventivo d’isolamento per chi andrà in piazza a contestare. PDUP ed Avanguardia Operaia, preoccupati per il risultato elettorale del cartello Democrazia Proletaria, rispondono alle sollecitazioni picciste ed invitano ad un presidio fisso, senza muoversi, in Piazza Signoria. Lotta Continua e gli organismi autonomi danno vita ad una giornata senza precedenti. Viene lanciata una quantità industriale di bottiglie molotov. La polizia è costretta a cedere il controllo del centro storico, i compagni e le compagne arrivano fino a Piazza Strozzi dove parla il fucilatore dei partigiani, perché questo era, Almirante. Gli scontri si concludono molto dopo che i fascisti se ne sono andati, avvolgendo in sordina i loro tricolori ed abbondantemente scortati. Gli sbirri hanno effettuato solo pochi fermi e due arresti: prima e lontano dal perimetro degli scontri. E’ quasi notte quando un corteo ripercorre le vie del centro, a terra cocci di bottiglie, gusci di lacrimogeni, caschi di poliziotti. Pochi giorni dopo, la Democrazia Cristiana chiude la propria campagna elettorale, condotta all’insegna dello slogan la DC non si processa con un comizio di Amintore Fanfani in Piazza Signoria. I democristiani mobilitano l’associazionismo para DC di tutta le regione: vogliono dare una prova di forza e di unità politica di un partito ridotto a brandelli dai numerosi scandali (Lockeed in testa) emersi. Succede un qualcosa di assolutamente imprevisto. Finito il comizio i democristiani escono dalla piazza in corteo: “rossa o nera è sempre dittatura”, lo slogan scelto. In quegli anni il centro di Firenze non era riservato alle comitive turistiche. E’ giugno, le strade sono piene di gente che si gode la città. La reazione ai democristiani è immediata: “ma che democrazia, ma che cristiana: ladri, mafiosi...”. L’impatto è nevitabile, la prova di forza, e con essa il corteo, finisce in risse gigantesche. Dalle urne, di quel 20 giugno che doveva segnare la caduta del regime democristiano, esce un risultato che conferma l’ingovernabilità del paese: la DC resta il primo partito ma viene fortemente avvicinata dal PCI. Per la lista DP è un vero fallimento: mezzo milione di voti e 6 parlamentari. Anche le urne ratificano la fine dei gruppi.
SI SPENGONO LE LUCI, TACCIONO LE VOCI...
Dopo l’estate lo scenario cambia radicalmente. Per la prima volta, dal 1947, il PCI non vota contro la costituzione di un governo democristiano. L’astensione di fronte al governo Andreotti è il frutto di un "compromesso di portata storica" come ebbe a dire il segretario del PCI. Il successivo governo Andreotti venne chiamato governo “delle convergenze programmatiche”. Nel momento di massima crisi, politica ed economica, del capitalismo il PCI funzionava da salvagente della borghesia italiana. In fabbrica la CGIL sposava la politica dei sacrifici e cominciava a schedare i delegati che vi si opponevano. I sindaci del PCI, come Gabbugiani a Firenze, dichiaravano il pieno assenso alle misure annunciate dal ministro degli Interni, Francesco Cossiga, a partire dal pattugliamento dei quartieri. Non saranno rari i mandati di cattura, per reati quali violenza e/o resistenza per cui la Magistratura avrebbe potuto tranquillamente denunciare a piede libero, che riporteranno, virgolettate, dichiarazioni del sindaco di Firenze in cui sottolinea “la gravità dell’episodio”. Si capisce che siamo entrati in una fase nuova. La situazione è difficile, ma vediamo sempre più collettivi, sempre più compagni e compagne. Il problema è come dare una risposta a questa domanda, capire quale possibile centralizzazione possa essere praticata tra tutte queste esperienze. Autonomia come organizzazione, questo il nodo che proviamo ripetutamente ad affrontare. Un dibattito che costantemente ci riporta indietro, a ripercorrere modelli organizzativi già superati. Tanti tentativi di centralizzazione dal basso, una questione di cui non ne verremo a capo. Il ’76 si chiude in piazza, così come è stato vissuto in tutto il suo scorrere:
“hi siamo rotti i hoglioni d’esse presi peicculo tutto l’anno da questi merdaioli!! Un si ‘ole passà la fine di kest’anno indò vorrebbero che s’andesse a buttavia e sordi (che poi un s’è mà visto). A Firenze c’è pohi circoli, m di giovani proletari incazzati ce n’è un monte. Gli è da prima di Natale ke s’è visto la gente di merda a riempire e negozi di ccentro e noi s’era solo a vedelli. ‘io ladro! A Capodanno la solita gente la sarà ingozzassi sulla (s)palle de disgraziati. E noi indò si sarà? A tirallo ‘nculo alla maiala di so mà! (siccome c’è la rima siamo ‘ncazzati più di prima). No, momento, a parte gli scherzi, e ci si trova alle novemmezzo in piazza S. Croce pevvedè se insieme il 31 dicembre ci si diverte di più.
("14-12-76 circoli giovanili di Vingone-Scandicci, S. Croce e gruppi di compagni di S. Lorenzo, le Tre Pietre e Sesto INCAZZATI COME POCHE VORTE”.)
E NEL BUIO SENTI SUSSURRAR:...
Piazza Santa Croce è il punto di riferimento generale. A cielo aperto: un bel superamento del concetto di sede, di quei fondi e cantine fumosi che ricordano gli sceneggiati tv che ricostruiscono le attività della carboneria risorgimentale. Una piazza immensa e bellissima, con la cattedrale in stile gotico: l’architettura dell’assalto al cielo, che viene dopo i secoli bui del feudalesimo! Gli scalini non bastano, ogni giorno è un pienone, la sera un blocco stradale causato da chi si vuol fermare. La dimensione è quella del territorio liberato. Un processo di autovalorizzazione che non riuscirà a darsi una centralizzazione organizzativa ma che ben rappresenta un esplosione di relazioni, quella ricchezza sterminata di rapporti, di conoscenze cooperanti. Un’esplosione che chiamavamo bisogno di comunismo, intendendo con questa espressione l’incapacità del capitalismo di soddisfare un livello superiore di relazioni non riconducibile alla sfera del consumo o alla mera emancipazione dalla miseria. In Piazza si viveva e si affrontava vita e militanza. Si affrontavano tutte le situazioni: quelle della lotta e quelle dell’esistenza; dell’iniziativa politica e del reddito per campare. Non c’era un giorno uguale all’altro, non c’era nessuno che poteva far finta di essere al di sopra delle contraddizioni che vivevamo. Una società di mutuo soccorso a cielo aperto, ma anche un luogo dove si riproducevano, per usare una formula del movimento anarchico, numerosi gruppi di affinità. Questa capacità di cercare risposte al politico ed al personale sottraendo la vita al dominio del lavoro, si potrebbe definire con un termine che allora non conoscevamo militanza biopolitica negazione del biopotere esercitato... sotto lo sguardo incupito di Dante! Questa umanità non sfugge all’apparato del PCI. Gli autonomi che si vedono in Piazza Santa Croce sono oggetto della prima lista di proscrizione passata dal partito, nello specifico la Casa del popolo Buonarroti, alla Questura. Il PCI interpreta il ruolo di “nuova polizia” e passa alla delazione. Liste di nomi dalle sezioni a via Zara (sede della questura). Militanti piccisti tra le file dei poliziotti che indicano i “promotori” dell’occupazione della Mensa Universitaria di Sant’Apollonia, invitando i questurini agli arresti che puntualmente avvengono. A Scandicci ed a Sesto Fiorentino le segreterie locali del partito fanno lo stesso sporco lavoro.
1977
Sul movimento del ’77 tanto si è detto e tanto si è scritto che, nella necessaria economia di queste pagine, dobbiamo utilizzarlo come sfondo. Facoltà occupate; case occupate non più solo come appartamenti ma come spazi sociali; continui cortei con le vetrine delle boutique che cadono giù; le piazze piene Santa Croce e la più studentesca San Marco. Le interminabili assemblee sul carattere che doveva assumere il corteo: “pacifico, di massa, autodifeso” la formula buona per tutte le mediazioni. Quando alla mediazione non si arrivava erano botte. Segno di una dialettica in via di esaurimento tra le anime del movimento. Troppo pesante il livello d’aggressione dello Stato, i carri armati all’Università di Bologna. Gli arresti che si moltiplicavano anche da noi, per detenzione e porto di ordigni incendiari lungo le strade della manifestazione, o in preparazione di esse, e per i motivi più svariati. A Firenze prende il via anche una sperimentazione mai annunciata: l’utilizzo dei vigili urbani in ordine pubblico con funzioni di polizia che risponde direttamente, attraverso le gerarchie del Comune, al PCI. La pratica della riappropriazione, la spesa proletaria l’esproprio di beni, è l’elemento principale d'identità dell'autonomia. L’illegalità di massa significa che i nostri comportamenti che non si fermano alla “legalità”, la superano e la ridefiniscono fino alla soddisfazione dei bisogni. Non si contratta, s’impone. Non si chiede si “decreta”. Questo è il contesto operativo. Viene applicato sia che si tratti di ronde contro il lavoro nero e le catene del lavoro a domicilio, sia quando si tratta di affrontare, dal settembre del ’77 massicciamente in Piazza San Marco, il dilagare dell’eroina e del suo spaccio. Ronde contro il lavoro nero, spese proletarie, pranzi e cene gratis nei ristoranti economicamente infrequentabili rappresentano una prassi consolidata nel movimento. Queste azioni divengono anche il terreno d’azione di articolazioni organizzative di Prima Linea, organizzazione comunista combattente che si forma proprio nel ‘77. Prima Linea nasce all’interno delle lotte. I suoi militanti, a differenza di quelli delle BR, non scelgono la clandestinità. Mantengono una partecipazione, molte volte anche un ruolo nel movimento. A Firenze PL rappresenta realtà importanti del mondo universitario e dell’organizzazione dei fuori sede. I militanti di PL non sono clandestini, solo l’attività armata è clandestina. Il loro schema organizzativo è comunque tardo-leninista: i gruppi di fuoco, a cui sono affidate le azioni strategiche, le squadre proletarie di combattimento, come elemento di intermediazione dialettica fra le funzioni dell’attacco e del lavoro di massa. PL si rapporta infatti alle realtà dei comitati, cercando di utilizzarli come cinghia di trasmissione e bacino di reclutamento. Ancora, quindi, autonomia e lotta armata. La differenza fra PL e le BR è abissale, sia per cultura politica che per intenti. Ma questa distanza è colmata da altri fattori. Il primo sta nel rendere “strategico” l’apparato armato, la colonna o il gruppo di fuoco: il protagonista, le cosiddette masse servono solo come sfondo, tutto il contrario del nostro bagaglio storico “l’emancipazione dei lavoratori sarà l’opera diretta dei lavoratori stessi, o non sarà affatto”. Nella loro comune logica le azioni armate sono “propedeutiche”, hanno cioè lo scopo di introdurre e preparare, come se i rapporti di dominio e sfruttamento non potessero essere compresi, immediatamente e direttamente da chi li subisce. L’organizzazione combattente “esemplifica”, quindi non si pone il problema di modificare i rapporti di forza generali, ma di dare l’esempio di cosa sarebbe giusto fare alla classe degli sfruttatori, condannando uno di loro. Ed ancora fornisce “sintesi” fusione di diversi elementi essenziali e caratteristici; risultato di tale fusione è che il mezzo diventa il fine da affermare. Le tre dita alzate, il simbolo della P38, la “lotta armata che ci parla di comunismo” avevano una carica non “esemplificabile” rappresentava la determinazione a non fermarsi di fronte a niente, a rimuovere qualsiasi ostacolo al processo di liberazione. Una volontà anche di fuoco che si esprime in modo massiccio, forse per l’ultima, nei giorni successivi al 18 ottobre 1977 per l’assassinio di Andreas Baader, Gudrum Enslin e Jean Carl Raspe, avvenuto nel carcere di Stammhein. Per le organizzazioni combattenti il movimento diventa terreno di caccia, di proselitismo, di stravolgimento delle reti di solidarietà per farne basi d’appoggio, loro “reti amiche”. In questo stravolgimento, in questa trama di piccoli inganni in nome dell’organizzazione, ha inizio quel processo di desolidarizzazione che esploderà nel circuito dei carceri speciali fra il 1981 ed il 1982.
AUTONOMIA OPERAIA...
Il ’77 è anche la moltiplicazione dei linguaggi, delle mille vie di fuga dall’alienazione, di una domanda non riducibile alla centralizzazione organizzativa. Il movimento vive a se stante, è continua mutazione di luoghi e situazioni. Dalle facoltà universitarie agli spazi sociali che vengono aperti nelle periferie. Nascono codici di comportamento e di comunicazione. La città è vissuta a tutte le ore, in tutte quello che può offrire. Le mattinate a Boboli ed al Forte Belvedere, fatte conoscere a tutti dagli studenti medi che vi passavano buona parte dell’anno scolastico, spesso compiendo la loro iniziazione sentimental-sessuale. Le nottate a cavallo dei ponti, girando a piedi per i percorsi dei “nottambuli”: La Nazione all’edicola della stazione, la pizza accanto al cinema Capitol, le paste in viale Petrarca, il cappuccino al Galluzzo, se si era in macchina, o ai bar del mercato se si va a piedi. Firenze all’epoca è una città ancora a dimensione di donne ed uomini, vivibilissima. Paradossalmente chiusa nella sua internazionalità, ostaggio di un rinascimento che sembra aver precluso la costruzione del futuro. Una città sempre, alla periferia di quanto succede. Il movimento del ’77 è stato uno straordinario moto d’anticipazione degli scenari politici, economici e sociali che hanno caratterizzato la fine del novecento. Una per tutte, la distinzione tra “garantiti e non garantiti”, imposta dalla riorganizzazione del comando sul mercato del lavoro. Una riorganizzazione determinata dalla ristrutturazione dell’apparato produttivo, dalla necessità padronale di emanciparsi dall’autonomia operaia e dalla composizione sociale, l’operaio massa, che aveva affermato il carattere strategico della sua incompatibilità con il rifiuto del lavoro.
SACRIFICI, SACRIFICI, SACRIFICI
L’ordine viene ripristinato con il decentramento produttivo, le isole di montaggio in fabbrica, le prime applicazioni della tecnologia. Le “magnifiche e progressive sorti” del capitalismo per affermarsi hanno bisogno del collaborazionismo sindacale (CGIL) e politico (PCI). Passerà alla storia come la linea dell'EUR (piattaforma approvata dai consigli generali di CGIL, CISL e UIL riuniti al palazzo dei congressi dell'EUR, a Roma, dal 13 al 15 febbraio 1978). E’ la linea delle compatibilità economiche e sociali, del contenimento delle rivendicazioni per favorire l'occupazione e il Mezzogiorno. Una svolta che ha un risvolto immediato: mettere il bavaglio alle categorie, a partire da quella di punta rappresentata dai metalmeccanici che aveva superato la distinzione dei tre sindacati organizzandosi in FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici) con proprie strutture e tesseramento. Una scelta di assunzione della politica economica generale, dal punto di vista del capitale. Scelta strategica accompagnata dal tentativo di disinnescare le lotte contrattuali come occasione generale di protesta sociale. Il PCI dell’unità nazionale fu il baluardo di questa scelta. Nelle sezioni del partito venivano contrabbandate più verità, a seconda del livello che la discussione politica raggiungeva: a) che era il prezzo necessario da pagare per entrare nella sfera del governo e da lì, piano piano a compimento della lunga marcia dentro le istituzioni iniziata con la resistenza, cambiare il volto del paese; b) se si voleva conservare il livello di vita raggiunto, i posti di lavoro sicuri, la casa di proprietà, la macchina ed i figli all’università quella era l’unica strada da intraprendere. Nelle fabbriche fiorentine la svolta dell’EUR era stata preparata fin dai giorni successivi alla cacciata di Lama dall’Università la Sapienza di Roma. Il PCI indicava il movimento come nemico. Provocatori che, maggio ’77, avevano la sfrontatezza di contestare le festività soppresse (per legge), giornate regalate ai padroni, mobilitandosi. Contro costoro la classe operaia doveva farsi Stato.
I NODI VENGONO AL PETTINE
Un movimento di anticipazione che non trovò sbocchi per diversi motivi. Innanzitutto, il blocco del quadro politico rappresentato dall’unità nazionale che respinge e reprime le istanze dei movimenti con i carri armati e gli omicidi di Stato nelle piazze, con le leggi e le carceri speciali. A nostro avviso è più corretto parlare di sconfitta delle insorgenze ’75-’77 che non di sconfitta del movimento del ’77; è più interessante capire quali siano stati gli elementi interni che hanno contribuito a questo esito. Questa anticipazione, questo viaggio nel futuro anteriore era accompagnato da un armamentario del passato prossimo. Avevamo di fronte agli occhi, lo dicevamo e lo scrivevamo senza la minima esitazione, il fallimento del socialismo reale, la trasformazione della bandiera rossa da simbolo degli oppressi in vessillo di regimi polizieschi, retti da un capitalismo monopolistico di Stato. L’uccisione sistematica dei comunisti scomodi, il ruolo dell’URSS nello stroncare la rivoluzione sociale spagnola, l’imperialismo sovietico. Ciò nonostante, tra mille contraddizioni ed interpretazioni diverse, continuavamo ad utilizzare le categorie politiche del 1917: il partito, la rottura rivoluzionaria come conquista della macchina statale, la dittatura proletaria... Categorie che ci allontanavano dalla sostanza del movimento, consegnandolo ad una sconfitta frontale sul terreno dei rapporti di forza. Avevamo sbagliato la lettura dei processi di ristrutturazione industriale, accelerando gli effetti della tendenza, a partire dalle previsioni sull’esubero della forza lavoro causata dagli investimenti tecnologici. Pensavamo che, sullo scenario della nuova composizione di classe rappresentata dall’operaio sociale, dominio e sabotaggio fossero direttamente proporzionali. Ma, soprattutto, non avevamo capito che eravamo stati protagonisti di un fenomeno fuori dall’ordinario: quello della prosecuzione decennale del movimento del ’68. Ragionavamo convinti che il movimento ci sarebbe sempre stato, il nostro problema era consolidarlo attorno alle punte più avanzate e qualificanti della destrutturazione del comando. L’eroina dilaga, ha rotto gli argini. Ripercorre al contrario i processi di radicamento territoriale di cui siamo stati protagonisti. Dall’esterno, dalla società fino all’interno di collettivi, è un’arma spianata contro il movimento. Cerchiamo analogie con quanto successo nei ghetti neri, nella lotta spietata ed omicida condotta dal FBI contro le Pantere Nere. Le sprangate non fermano l’eroina, alla fine questo lo capiamo. La scelta dell’eroina rappresenta la rinuncia di fronte alle difficoltà di lottare, la dissoluzione del sogno collettivo, l’abbandono, la risposta negazionista alla vita. Nel 1978 logoramento del movimento, asfissia del dibattito e morsa della repressione che si stringe, sono aspetti che s’intrecciano. Bisogna reagire, chiamare le varie soggettività e forme organizzate a tracciare un minimo denominatore comune. E’ quello che proviamo a fare con il convegno del Parterre, in piazza della Libertà, nel marzo. Trasformazioni urbane e produttive a cui contrapporre occupazioni di case e stabili, un tentativo di pensare ad un’attività politica che non fosse schiacciato sui temi della repressione, a partire dai carceri speciali. Rioccupiamo lo stabile in Santa Croce. Di lì a poco il sequestro e l’omicidio di Moro esaspereranno le difficoltà già evidenziate. Le BR, nel loro percorso di guerra privata con l’apparato dello Stato, si avviano a chiudere la loro parabola. Intendiamoci le BR non rappresentano il motivo della sconfitta, contribuiscono solo, con la loro pratica e lo strascico di morti, a renderla più pesante.
CACCIA ALLE STREGHE
L’operazione 7 aprile del ‘79, con il teorema Calogero, impone i divieti sistematici: tutto blindato. Di manifestare contro la repressione non se ne parla nemmeno. L’11 aprile 1979 viene impedito ogni accesso a piazza Santa Croce. Per protestare contro quello che succede, in Italia ed a Firenze, siamo costretti ad occupare Controradio, emittente di movimento creata nel ’75 e che trasmette regolarmente dalla seconda metà del ’76. Ma anche queste emittenti non hanno più il fiato, o la volontà di opporsi a questa moderna Inquisizione. Esce uno dei tanti numeri unici, Autonomia diffusa, in cui cominciamo a declinare in modo nuovo il tema della centralizzazione organizzativa. Necessaria, sia per difendere i percorsi della soggettività autonoma che per accompagnare i comportamenti autonomi che trovano nei processi di ristrutturazione una loro nuova diffusione. Scegliamo di serrare le fila, di ripartire dalla forma del collettivo territoriale e dalla proposizione comune sulle tematiche generali. Nascono, a partire dai quartieri di Santa Croce e dell’Isolotto, i collettivi proletari autonomi. No alla clandestinità né per amore né per forza. La normalizzazione autoritaria non passa con gli applausi proletari, si continua a lottare. Il filo che lega le lotte è ancora quello della riappropriazione. Ingressi gratis ai concerti, che vedono il battesimo di nuovi impresari, destinati ancora oggi a spartirsi il grosso del business, diretta espressione di una gioventù piccista che comincia a chiedere il conto dell’ingrato lavoro di controllo a cui è chiamata. Per garantire gli incassi dei concerti il bastone dell’ingente schieramento poliziesco e la carota di qualche centinaio di biglietti offerti a chi dovrebbe placare il movimento. Per il concerto di Peter Gabriel gli scontri cominciano nel pomeriggio e finiscono a tarda serata, con il pratone delle Cascine illuminato da centinaia di bengala sparati dai carabinieri. Perché si deve pagare la musica suonata nei parchi pubblici? Gli studenti fuori sede sono in lotta contro i disservizi e gli sfratti selettivi alla casa dello studente, che viene occupata contro le gerarchie PCI dell’Opera universitaria. C’è la campagna, finalmente vincente, contro gli aumenti del trasporto pubblico urbano. L’azienda, ATAF, decide su indicazione della giunta Gabbugiani il rincaro dei biglietti e degli abbonamenti per studenti e pendolari. La risposta è semplice non si paga e si sabota. I tram portano in giro per la città le gettoniere fuori uso affiancate dai volantini della protesta. Un progetto di ricomposizione, che sfugge alla paralisi politica dello guerra Stato-BR, attorno ai comportamenti autonomi di chi è costretto a pagare i costi della crisi. Per il PCI gli autonomi sono nemici mortali: al duo di magistrati speciali, Vigna&Chelazzi (il gatto & la volpe), il compito di tappare la bocca a questa scomoda area. Il PCI fa da sponda all’azione persecutoria, creando l’indispensabile consenso politico e sociale. Nelle fabbriche e nelle case del popolo le uniche assemblee che vengono fatte, spesso proprio con Vigna, sono contro il terrorismo. Assemblee in cui viene ben spiegato che il problema non è tanto quello di arrestare i “pesci”, bensì di prosciugare l’acqua in cui nuotano. E l’acqua è rappresentata da chi non accetta la politica dei sacrifici, da chi continua a reputare “la proprietà privata un furto” della ricchezza prodotta da tutti. Antiterrorismo e ristrutturazione sociale marciano di pari passo. Il loro obiettivo è disintegrare un’area politica per contenere la reazione proletaria ai processi di riorganizzazione della macchina produttiva e dell’asse urbano. Il PCI cerca delatori capaci di rimpolpare le accuse che la procura della Repubblica puntualmente istruisce contro le avanguardie autonome, con l’accusa di aver partecipato a “bande armate variamente denominate”. Nei luoghi di lavoro i militanti piccisti e le burocrazie sindacali impediscono fisicamente a chi dissente di parlare nelle assemblee. Chi ci prova viene tacciato di fiancheggiamento” al terrorismo e segnalato a questura e gerarchia aziendale. I servizi d’ordine sindacali hanno il compito di bloccare l’accesso “agli autonomi” ai cortei negli scioperi generali. La politica del Comune interpreta al meglio la linea dell’unità nazionale: i proletari continuano ad essere espulsi dai quartieri storici del centro a vantaggio delle immobiliari e della corporazione dei commercianti. Vengono costruiti ghetti periferici come il quartiere delle Piagge. Sollicciano doveva essere un modello di carcere giudiziario, destinato a detenuti non “definitivi”, in linea con gli intendimenti della riforma giudiziaria del ’75. Nel corso dell’opera diventa l’ennesimo supercarcere, dotato di tutti i crismi della massima sicurezza. I costi si moltiplicano, i costruttori Pontello ringraziano ed incassano. Una simile solerzia degli enti locali non si riscontra quando ci sono da creare le condizioni per mettere in atto leggi avanzate, come la 180 del ’78 (Basaglia) che sancisce finalmente la chiusura dei manicomi. L’ospedale psichiatrico di San Salvi, che doveva chiudere immediatamente dopo l’approvazione della legge, trascina per anni la propria esistenza: a svuotarlo criticamente ci penseranno gli operatori e gli studenti delle scuole vicine. Accerchiamento o liberazione chiamiamo questa fase. Il socialismo realizzato e il modello di sviluppo socialdemocratico hanno in questi anni caratterizzato la questione del comando a Firenze. Fabbrica diffusa, ovvero l’atomizzazione imprenditoriale di singoli momenti del ciclo. Soluzione che offre maggiori garanzie in settori caratterizzati da debolezza strutturale, dipendenza dall’oscillazione della domanda estera e dall’indebitamento bancario, e che necessitano di pronte decisioni e rapide riconversioni. Riconversione produttiva che si avvale dell’abbattimento del costo del lavoro attraverso l’utilizzo strategico del lavoro nero e di quello a domicilio. Il controllo del PCI sui mercati di lavoro locali garantisce questa deregulation ed ha effetti regolatori locali creando un’ingente offerta di lavoro comprendente tutte le fasce della popolazione. Queste forme di sfruttamento vengono utilizzate in chiave pace sociale, accrescendo il potere d’acquisto e la gratificazione consumistica delle famiglie. La fabbrica diffusa determina un’eccezionale quota di piccoli imprenditori. Il dominio diffuso provoca una profonda disgregazione proletaria ed un controllo sistematico sullo sviluppo delle lotte sul territorio. Con il farsi largo della classe operaia che si fa Stato, completamente spogliata del patrimonio storico e della sua conflittualità, si radicano nuove stratificate gerarchie sociali.
RADIO MORGAN
E’ il processo che ci porta ad aprire, nel settembre del 1980, Radio Morgan, la filibusta dell’etere. La radio “nasce per costruire canali d’informazione antagonista, per far vivere, circolare tutte le forme di comportamenti, di volontà che esprimono antagonismo/bisogni di liberazione da questo tipo di società [...]. E’ l’altra Firenze quella che vogliamo far parlare attraverso radio Morgan: tutti coloro che subiscono questo non come pace sociale, ma come dominio”. Informazione antagonista non vuol dire “chiudersi dentro quattro mura per esprimere posizione, leggere comunicati o dare la linea. Tutto questo sarebbe solo miseria e ghetto politico, privo di sbocchi concreti se non quello di riprodurre continuamente se stesso. Uscire, liberare energia, diffonderci in città [...] essere la radio dell’altra Firenze, della Firenze esclusa, sotterrata, ma soprattutto della Firenze scomoda ai signori della Politika e dello sfruttamento”. L’esperienza della radio è un tentativo di varcare i confini classici del lavoro politico dei collettivi autonomi, per muovere una critica radicale ai ritmi della città: “le città in cui viviamo assomigliano molto a dei carceri sociali, non sono solo gli spazi politici ad essere chiusi. C’è proprio un’impossibilità ad esprimere socialità, a produrre movimenti culturali autonomi, momenti differenti da quelli imposti dal mercato culturale”. La radio assume funzione di tramite organizzativo tra i collettivi proletari autonomi e le lotte, le occupazioni che si esprimono nelle scuole superiori, dell’università, nelle periferie e nei comuni limitrofi a Firenze. E’ la radio ad organizzare la solidarietà proletaria in occasione del terremoto del 1980 in Irpinia, ed a rappresentare il punto di riferimento per la campagna internazionalista in occasione dello sciopero di fame ad oltranza di Bobby Sands e dei rivoluzionari irlandesi. Dare comunicazione diretta di quanto avviene contro; sperimentare nuovi linguaggi, organizzare momenti musicali con quanto esce dalle viscere di una città resa grigia come il cemento dalla gestione PCI. Ma Radio Morgan non deve proseguire le sue trasmissioni. Ad i poteri forti (come il Circolo delle costruzioni che all’epoca gestiva le concessioni, RAI e grosse radio commerciali che fagocitavano frequenze) che ci volevano imporre il vagabondaggio sulle frequenze dell’etere, avevamo risposto in modo oculato, anticipando quella che di lì a poco tempo sarebbe stata la liberalizzazione delle frequenze da 104 a 108 Mhz. Frequenze in concessione al Ministero della Difesa riservate a casi di calamità naturali – ma non utilizzate nemmeno in occasione del terremoto in Irpinia - ed adoperate in realtà dalla RAI per la gestione di ponti mobili. 105,500 Mhz. le nostre trasmissioni, come altre radio facevano già in altre città italiane. Impugnammo l’ordinanza di chiusura del Circolo delle Costruzioni al TAR. Il TAR, acquisendo una perizia dello stesso Circolo da cui si evinceva che le trasmissioni di radio Morgan non disturbavano nessuna altra emittente, autorizzò in un primo momento le trasmissioni. Poi, lo stesso TAR decretò la chiusura della radio. Cosa era cambiato? Vigna&Chelazzi (sempre il gatto & la volpe) non si accontentavano più delle perquisizioni a scadenza mensile contro i redattori della radio. Dopo un bliz con 30 perquisizioni nel mese di novembre, il 16 febbraio ’81 ordinarono un’azione in grande stile. Perquisizione alla sede della radio, che viene saccheggiata e devastata. Nello stesso momento la stragrande maggioranza dei soci della cooperativa che deteneva la proprietà dell’emittente vengono prelevati dalle proprie abitazioni, tutte perquisite, e tradotte in questura. Il mandato è un capolavoro di diritto: inquisiti perché hanno mantenuto rapporti commerciali (?!) con persone sospettate di appartenere ad un’associazione a delinquere. Terra bruciata. Questo vogliono fare. I mandanti dell’ordinanza del TAR che c’impone la chiusura sono questi. 1981 nella Firenze gestita e governata dal PCI si deve rendere impossibile l’iniziativa di massa contro lo Stato del lavoro nero, delle carceri speciali, dei licenziamenti, della democrazia blindata che militarizza il territorio mentre dà via libera al fronte dell’illegalità di Stato degli speculatori immobiliari, degli spacciatori di eroina, degli imboscatori dei prodotti, dei ladri del salario proletario, dei fascisti che raccolgono le firme per la pena di morte”. Dopo un lungo braccio di ferro alla fine di maggio radio Morgan chiude. Una sconfitta pesante. Un blocco dei processi d’organizzazione autonoma. Il vento gelido dei primi anni ottanta spira forte dalle carceri speciali: detenuti comunisti che schedano, processano e giustiziano altri detenuti pentiti o sospettati di esserlo o, in pieno delirio stalinista, di poterlo diventare. Dall’altra la dissociazione che si presenta come resa alle ragioni dello Stato. Questo clima gelido lo si respira anche per le strade e segna un periodo di discontinuità organizzativa.
LA STORIA NON FINISCE
Poi, piano piano, la ripresa. Le proteste contro la trasformazione del quartiere di Santa Croce in zona off limits per la celebrazione del processo a PL - un’aula bunker, un prefabbricato ad hoc per lo svolgimento del maxi processo nel giardino interno al complesso di Santa Verdiana che doveva servire solo per quella straordinaria occasione. Il bunker è sempre lì a testimoniare la civiltà giuridica del paese e ad ospitare i processi che ancora ci vengono intentati, come quello del 13 maggio 1999 per le cariche al consolato USA in occasione dello sciopero/corteo contro la guerra del centrosinistra nei Balcani. Nel 1983 nasce a Firenze il Centro di comunicazione antagonista. La sede è via di Mezzo 46, eredità di Lotta Continua per il comunismo. Verrà mantenuta per 13 anni con un ruolo centrale per le lotte ed i movimenti che si sviluppano in tutto questo lasso di tempo. In via di Mezzo viene anche sperimentato, con il Piano di sotto – Chiricaua tribe, un prototipo di spazio sociale che prelude alla pratica delle occupazioni dei centri sociali autogestiti nell’area fiorentina. Il Centro di comunicazione antagonista ha origine da soggettività politiche diverse: alcune già militanti durante gli anni ’70, altre che rappresentano il portato delle lotte studentesche ed ambientali dei primi anni ’80. Il senso comune che anima il collettivo è la convinzione della percorribilità di un’ipotesi antagonista. Viene rivendicata la storia e l’esperienza del movimento operaio internazionale dell’epoca contemporanea ed in particolare la continuità politica ed ideale con il ciclo di lotte ‘60/’70. Continuità ideale e discontinuità organizzativa, avendo ben chiara la consapevolezza che quel ciclo fosse definitivamente concluso e la composizione di classe, che lo aveva interpretato e reso possibile, radicalmente mutata. La discussione iniziale aveva visto sciogliere presto il primo nodo che si era creato: costituire un ambito di dibattito ed anche d’iniziativa o dare vita ad una compagine militante. Si scelse la seconda strada, radicandosi in un conflitto che pareva sopito ma investiva, giorno dopo giorno, milioni di persone. Gli anni ‘80 sono gli anni del cinismo e dell’indifferenza. Solidarietà è una parola da usare in modica quantità; egualitarismo un termine da bandire. Si vuol far sparire dalla cultura comune la lotta di classe per nascondere la natura, capitalistica, del modello produttivo. I sindacati completano la loro parabola organizzativa divenendo, da difensori del lavoro, puntelli della produzione. Le differenze sociali, le disuguaglianze vengono trasformate in drammi individuali. I cassintegrati si suicidano, gli sfrattati si gettono dai tetti, la singolarizzazione determina la psichiatrizzazione del quotidiano. La ristrutturazione industriale e la sconfitta storica del movimento operaio vengono gestite dal governo Craxi-Spadolini-Andreotti, con la sola opposizione del movimento degli autoconvocati. La politica di riarmo, le guerre stellari” di Reagan, la lotta contro la base missilistica di Comiso e le mobilitazioni contro ’impresa d’oltremare in Libano delle “forze multinazionali di pace”- oggi non è diverso, sic! E’ su questa strada che si stabiliscono nuovi rapporti politici che ci vedranno protagonisti del coordinamento nazionale antinucleare ed antimperialista. Altri quadranti dell’iniziativa saranno: la mobilitazione diretta contro le produzioni di morte: dal ciclo della chimica assassina Farmoplant) a quello dei rifiuti (inceneritori e discariche); - la lotta al carcere ed alle istituzioni totali, primo fra tutti l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino; - un nuovo internazionalismo (Nicaragua libero e centroamerica insorgente; Euskadi ed i minatori inglesi contro la Thatcher, no apartheid in SudAfrica). Dal movimento dell’85 alla Pantera, dai centri sociali autogestiti ai cobas nei luoghi di lavoro: un percorso ininterrotto che ha portato, fra le tante altre cose, alla chiusura del nucleare ed alle piazze del 1992 che mettono a tacere i sindacalisti.
NUCLEARE MAI PIÙ!
ITALIA 1986. All'indomani dell'immane disastro di Chernobyll il movimento antinucleare pone, con la forza dei blocchi alle centrali, il problema dello smantellamento degli impianti nucleari esistenti e la non entrata in funzione di quelli in costruzione. NUCLEARE MAI PIU'! La parola d'ordine che rimbomba davanti alle centrali, nei paesi limitrofi, a Roma e nelle altre piazze italiane. A Montalto, al PEC del Brasimone, a Caorso, a Trino Vercellese gli impianti vengono assediati dalle manifestazioni, dai blocchi, dai cortei e dai campeggi organizzati dal movimento dell'azione diretta. Movimento che riesce a collegare la lotta e l'uso della forza con la nuova sensibilità antinucleare prodotta nella popolazione dal rischio della contaminazione radioattiva. Il 1986 è l'anno in cui il Piano nucleare italiano (ENEL/Enea) é ancora ben saldo e l'industria (Ansaldo/Fiat) è protagonista di un colossale giro di commesse, regalie, tangenti attorno alle centrali ed ai cantieri. Il 1986 è l'anno in cui il PCI, ancora unito, ribadisce al proprio Congresso nazionale la linea filo/nucleare ed i verdi già spiegano che il loro unico interesse è un posticino di ultima fila nelle istituzioni. Scontri a Corso, al Brasimone, a Trino, più volte a Montalto di Castro. Arresti, processi, criminalizzazione. Il “nostro nucleare” ha il nome di PEC del Brasimone, un reattore sperimentale situato sull’ Appennino tosco emiliano, vicino a Camugnano. Per tre anni consecutivi organizziamo un campeggio in località Baragazza di Castiglione dei Pepoli, oltre ai campeggi non c’è momento della vita politica dell’Appennino che non ci veda presenti. Dalla settimana del “campeggio di lotta” nel giugno 1985 al campeggio del 1986 che dura quindici giorni, in un crescendo di azioni e di propaganda, di blocchi, occupazioni ed invasioni che si susseguono a ritmo incalzante. Non molliamo più la presa. Nel 1987 Castiglione dei Pepoli viene messo in stato d’assedio per far passare la “tanca”, il contenitore esterno del reattore sperimentale, un pezzo di acciaio di svariate tonnellate Ore di scontri, di botte prese, di sollevazione del paese contro il mostro nucleare&poliziesco. 1987/88 il movimento antinucleare vince: stop al nucleare civile.
22 SETTEMBRE 1992
Abbiamo reagito alle stagioni delle svendite dei sindacati confederali, agli accordi che eliminavano la scala mobile e bloccavano i salari. Abbiamo messo a tacere a Firenze Trentin, segretario nazionale della CGIL, in Piazza Santa Croce. A Firenze, dentro uno sciopero che ha portato in piazza la volontà di lottare di circa 100 mila lavoratori, la stragrande maggioranza della piazza ha gridato "vattene venduto" al segretario della CGIL. I lavoratori sono stanchi di fare i sacrifici e di essere svenduti, come il 31 luglio, da dirigenti sindacali, mentre l'Italia è il paese dell'evasione fiscale dilagante, della corruzione (tangentopoli) di imprenditori, partiti, sindacati, della rendita finanziaria, del capitalismo assistito dallo Stato (Fiat, Olivetti che scaricano i costi della loro ristrutturazione sui lavoratori e sul bilancio statale). I lavoratori sanno che la posta in gioco è chi pagherà la crisi se i salariati e gli altri strati sociali subalterni oppure chi non ha mai pagato niente. I lavoratori toscani hanno voluto, lanciando uova e verdura contro il palco, dare un messaggio chiaro a tutte le piazze d'Italia: "fuori i burocrati, organizziamoci da soli, andiamo allo sciopero generale nazionale per rovesciare il governo Amato e la sua manovra economica". "La cosa che mi preoccupa è che la massa imponente dei lavoratori presenti in piazza a Firenze ha passivamente assistito all'aggressione. E' sconvolgente. Non avrà funzionato il servizio d'ordine, le forze di polizia si saranno mosse in ritardo, ma è un fatto che migliaia e migliaia di persone hanno consentito la violenza. Ripeto è sconvolgente."(Luciano Lama al Giornale).
LA STORIA CONTINUA
Tutto quello di cui non abbiamo parlato, e che ci ha portato a Seattle 1999, Genova 2001, all’organizzazione del lavoro invisibile, alle piazze contro la guerra infinita è storia viva, di autonomia e di altre autonomie.
(Massimo Cervelli e Bruno Paladini)
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