Solo un blog (qualunque cosa esso possa voler dire). Niente di più, niente di meno!
venerdì 14 marzo 2008
"Preferirei indire una mattinata di supposizioni"!
Ecco, ritengo che il verso di Majakovskji sia oltremodo appropriato, a fronte del vento di celebrazioni che sta spazzando questo povero anno.
Sessantotto, Duemilaotto!
Con l'otto non ho mai avuto un bel rapporto: ricordo che quando ero troppo piccolo per riuscire a tracciarlo con la dovuta disinvoltura, mettevo in atto lo sporco trucco di costruire due piccoli tondi, uno sull'altro, Epperò, dal momento che questo vento ci soffia addosso, quasi schiaffeggiandoci la faccia, a volte, bisognerà pur registrarlo.
Libri, articoli su giornali e riviste, raduni di vario genere, e siamo appena all'inizio! Ed io? Io leggo, e vado, per quanto mi è possibile. Forse perché da lì provengo, e non mi dispiace verficare quanto diceva Camus a proposito del fatto che, dopo i cinquant'anni, ciascuno ha la faccia che si è meritato.
Le facce, accanto all'articolo, non ci sono di solito. Ragion per cui, ignoro la faccia che ora ha Fulvio Iannaco il quale, su Left (già Avvenimenti), scrive del 1968, e lo fa "uccidendo", a modo suo, i padri. Liberandosene. Solo che non lo vedo questo gran guadagno, a farsi adottare dal presidente uscente della camera, pagando il prezzo di definire "esule folle e intabarrato" chi, al contrario degli psicoterapeuti che ora gli illuminano la via (e anche il blog), non ha mai ... venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie. Se ne coltiva, di rancore!
Certo che quarant'anni non son pochi, e sicuramente viene la tentazione di far quadrare in qualche modo il cerchio! Far quadrare quello che sei ora con quello che eri quarant'anni fa, oppure far quadrare quello che eri quarant'anni fa con quello che sei ora. E non è affatto la stessa cosa! Franco Piperno, nel suo libro, " '68 L'anno che ritorna", tenta la seconda operazione. Con fortuna alterna, a mio avviso. Forse si riesce ad evincerlo fin dalla prefazione, dove non si riesce a capire se i sei capitoli (come dice l'incipit) che compongono il libro dovessero essere sette (quando va a sommare quattro più due più l'ultimo capitolo). Non credo abbiano importanza, più di tanto, i refusi, come quando afferma che nel dopoguerra il tasso di nascita si sarebbe quintuplicato. E rispetto a quando? All'anteguerra? No, credo intendesse parlare del tasso di scolarizzazione. Oppure dell'abbattimento della mortalità infantile, grazie agli antibiotici. Ma non ritengo si possa affermare che le "nostre" famiglie composte da una media di due tre figli, fossero più numerose di quelle dei nostri padri e madri, composte da sei sette figli, in media.
Un particolare curioso, i personaggi femminili - anche quelli "famosi" - sono rammentati solo per nome, diversamente dall'altro genere.
La narrazione e il ricordo, via via, assumono dei connotati che sembrano parlare di "rivisitazione" di un "comunismo" che ricordo diverso da quello descritto nelle sue componenti. Prevale una considerazione del "rapporto amicale" che sembra tutto informare e tutto spiegare. Ed anche il ricordo degli scontri aspri con le componenti arretrate, come il sindacato e "i cattolici" (cui sono portato ad attribuire tutte le peggiori responsabilità) sfumano. Anche il movimento studentesco della statale, tristemente stalinista, viene assolto nelle sue componenti per "aver tenuto fede a ciò che, all'inizio e tra loro, li aveva resi amici". Convince la posizione sulla violenza e la critica della non-violenza e le pagine si animano di vita propria quando cominciano a parlare del meridione. Mentre non ritengo sufficiente l'analisi per cui "i nostri nemici hanno vinto perché hanno usato la violenza in modo assai più spregiudicato e sleale di quanto avessimo fatto noi". A meno che non si faccia rientrare nella violenza anche tutti quei fenomeni che, dalla droga all'ideologia del disimpegno (propagandata da certi guru), hanno scompaginato quello che del movimento rimaneva.
Ma sono punti di vista, addirittura quasi oziosi, forse inutili, come inutili mi sono parse le pagine che indugiavano su De André, Celentano e Battisti, forse messe lì a cercare di dare un quadro più completo di un periodo.
Non so se Franco abbia letto lo splendido saggio di Furio Jesi, "Spartakus. Simbologia della rivolta", ma le pagine del capitolo su "Il '68 contro il dio Progresso" mi hanno riportato alla mente quelle di Jesi sulla sospensione del tempo storico.
Sembra sfibrata, e senza forza, la conclusione che invoca un "potere studentesco" (che dovrebbe camminare sulle gambe di una "minoranza comunitaria" di studenti) in grado di riannodare i fili col '68.
Ma il libro, nel suo complesso, ha il coraggio di assumere la responsabilità di scommettere.
Come si dovrebbe fare sempre, e non solo in un clima di rievocazione!
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