venerdì 13 novembre 2015

Il cuore e l'occhio

gaza hamas

Gli assassini dei bambini di Gaza (9 di 15)
- Un'operazione "piombo fuso" per cuori sensibili -
di Robert Kurz

SINTESI
Nella sua analisi critica dell'ideologia, "Gli assassini dei bambini di Gaza", Robert Kurz affronta i modelli di percezione della sinistra riguardo al conflitto in Medio Oriente. Dopo che negli ultimi anni, le guerre capitaliste di ordinamento mondiale, e la loro affermazione da parte dell'ideologia "anti-tedesca", sono state fondamentalmente criticate dalla "Critica della dissociazione-valore", adesso è tempo di considerare anche il rovescio di tale interpretazione ideologica, i cui portatori sono inoltre schierati positivamente con la socializzazione globale del valore e dei suoi prodotti in decomposizione. Queste interpretazioni della situazione mondiale sono impregnate di un "anti-israelismo" affettivo, alimentato anche da un "odio inconscio per gli ebrei" (Micha Brumlik), in quanto lo Stato ebraico e la sua azione militare contro Hamas e Hezbollah  vengono di per sé sussunti al capitale mondiale ed al suo imperialismo securitario. Di conseguenza, la barbarie islamica contro Israele non viene vista come l'altra faccia della medesima medaglia dell'imperialismo di crisi, ma come "resistenza", in maniera quasi romantica. In questo contesto, la base del raffronto col vecchio "anti-imperialismo" impallidisce, ed il conflitto in Medio Oriente diventa un conflitto per procura, al servizio di una "critica del capitalismo" della nuova piccola borghesia, che digerisce regressivamente la crisi mondiale del capitalismo.
(Presentazione del testo nell'Editoriale di EXIT! n° 6 dell'agosto del 2009)

SOMMARIO
* Asimmetria morale ed analisi storica * La violenta emozione dell'inconscio collettivo antiebraico * Il duplice carattere dello Stato d'Israele * L'identificazione positiva e negativa di Israele con il capitale mondiale * Le impossibili richieste di un paradosso reale * La ragion di Stato di Israele nelle guerre contro Hamas e Hezbollah * L'opinione pubblica mondiale anti-israelita e la decomposizione ideologica della sinistra * Una "terza posizione" che non è una posizione * Delitto e castigo o critica radicale mediata storicamente? * Un cuore dalla parte del regime della Sharia * Il determinismo della coscienza e il ruolo degli eroi * Il conflitto per procura e la demoralizzazione della critica del capitalismo * Anti-israelismo - la matrice di un nuovo antisemitismo * La sinistra come Dr. Jeckill e Mr. Hyde *

* Una "terza posizione" che non è una posizione *
La posizione, assunta fino alla riconoscibilità del suo antisemitismo, da parte della linea dura di un "anticapitalismo" ideologicamente degradato, non è, di conseguenza, condivisa dalla maggioranza della sinistra, inclusi gli oppositori alla guerra, ma viene tollerata fino ad un certo punto. Ogni presa di posizione filo-israeliana, al contrario - indipendentemente dai fondamenti del suo contenuto, che difficilmente si arriva a conoscere o che viene riassunto in maniera distorta - viene in gran parte brutalmente attaccata da tutto un ampio spettro della sinistra, ed almeno in parte "unilateralmente" condannata. Dietro questa condanna, nella sua unilateralità, c'è una posizione di "equilibrio" ed un atteggiamento di mediazione apparente, la cui visione assomiglia, fino a confondersi, alla percezione ufficiale, politica e mediatica, dell'Unione Europea, ed in parte perfino anche degli Stati Uniti, soprattutto riguardo al conflitto di Gaza.
Tra la sinistra, questa posizione semplicemente pacificatrice si volge anche contro la "violenza comunicativa" della valutazione del conflitto da parte degli estremi reciprocamente aggressivi. Amerebbe, soprattutto, nascondere o far sparire questo scontro, cosi come presumibilmente le creature molto sensibili della coscienza di classe media non vorrebbero più ascoltare cattive notizie, per poter sentirsi bene nell'indenne mondo habermasiano del "discorso libero dal dominio", in mezzo alle figure dei circoli di sinistra, "proponendo argomenti", fra di loro, che non prendano sul serio l'oggetto. Questo posizionamento è tanto più ambiguo nella misura in cui trasporta pienamente quella presa di posizione anti-israeliana, che non pretende di essere una presa di posizione, e che annega il problema del contenuto in un riconoscimento reciproco formale di mere espressioni di opinione, per poi imporre il cuore sull'occhio. Ancora una volta, è preferibile l'uso onesto delle armi da fuoco.
Tale pseudo-mediazione dimentica che la riflessione mediatrice non può essere un miscuglio di acqua e olio, né un'apparente neutralità in relazione agli estremi che escludono l'unità, ma deve trascendere l'opposizione astrattamente politica, moralista ed in genere superficiale, per arrivare ad una polarizzazione anche più acutizzata, ma ad un altro livello. Questo in particolare si applica alla pretesa di una "terza posizione" relativa ai conflitti globali immanenti del capitalismo di crisi, a partire dall'inizio delle nuove guerre di ordinamento mondiale. Nei dibattiti di sinistra sugli interventi militari dell'imperialismo collettivo dell'amministrazione di crisi globale sotto la direzione degli Stati Uniti, questa pretesa è stata formulata già a partire dalla guerra in Jugoslavia degli anni 90. Essa, tuttavia, si riferiva ad un'argomentazione completamente diversa da quella che ora viene sostenuta da alcuni moderatori di sinistra con attitudine pseudo-mediatrice, relativamente al conflitto di Gaza.
L'argomentazione originale assumeva fondamentalmente il rifiuto della polarizzazione sul piano della contraddizione sociale mondiale fra una posizione astrattamente "filo-occidentale", affermativa del capitalismo di crisi globale quanto meno come male minore, da un lato, e, dall'altro lato, una presa di posizione "antimperialista" a favore degli oggetti delle guerre di intervento, quali il nazionalismo serbo, prima, e poi la barbarie islamica. La logica di questo risiedeva nel fatto che si trattava di due facce della stessa medaglia; vale a dire, di una contraddizione all'interno del capitalismo di crisi globale, che rappresentava in entrambe le parti soltanto il processo di dissoluzione del sistema mondiale, e che perciò stesso non si poteva prendere uno dei due lati come prospettiva di emancipazione, com'era ancora stato il caso nella seconda guerra mondiale contro il regime nazionalsocialista, oppure nella guerra del Vietnam degli anni 60.
Come sfondo si dava la tesi della teoria della crisi per cui il movimento di accumulazione del capitale sbatte contro il suo limite interno assoluto, nel corso della terza rivoluzione industriale. Pertanto, sia la prospettiva di una "civiltà" capitalista d'Occidente, da riformulare come sempre, che la prospettiva di uno "sviluppo" nel capitalismo di Stato, nella periferia del mercato mondiale, erano storicamente senza oggetto. Da entrambi i lati si profilava la logica violenta e barbara del patriarcato moderno produttore di merci. La conclusione era quella per cui occorreva costituire una posizione contraria, trascendendo la contraddizione immanente, in primo luogo nella sfera teorica, posizione che non rappresentava più una critica radicale del contesto della forma capitalista in nome delle urgenze del momento, ma che partiva da una valutazione del conflitto analiticamente fondata, anche se attualmente non poteva essere sviluppato alcun potere di intervento pratico.
Ad oggi, niente di tutto questo è cambiato. Ma ciò che ora, in occasione della guerra di Gaza, appare come pretesa "terza posizione", appoggiandosi indirettamente a quest'argomentazione, distorce le sue basi fino all'irriconoscibilità, e lo fa in due modi. Da una parte, il problema non viene afferrato, per così dire, metodicamente, dacché il posizionamento nella valutazione del conflitto è meramente agnostico e, alla moda postmoderna, relativistico. Una vera posizione contraria alla polarizzazione immanente non può relativizzarla, ma deve trascenderla attraverso un punto di vista superiore. Il risultato non può essere in alcun modo quello di dare una ragione relativa ad entrambe le parti, ma semmai quello di dire che entrambe le parti devono essere combattute e soppiantate, a partire da un altro punto di vista. Questo si applica non solo ai guerrieri dell'ordinamento mondiale, ma anche agli islamici e ad altri nemici. Anche per questo non si parlava di una "terza posizione", bensì di una "altra forza", che avrebbe dovuto aprire un fronte trasversale al confronto ufficiale. Il che è, pertanto, il contrario di una posizione meramente moderatrice.
Dall'altro lato, la falsa "terza posizione" distorce completamente il contesto di argomentazione originario anche riguardo al contenuto, dal momento che la critica di una presa di posizione, nella polarizzazione fra il capitalismo di crisi globale ed i produttori della sua stessa decomposizione, viene immediatamente tradotta nella polarizzazione fra Israele ed Hamas o Hezbollah, e mai sul suo protettore Iran. Si cancella così, per così dire con un gesto casuale, il riconoscimento del carattere duplice di Israele, che fin dall'inizio era parte integrante di quella analisi critica, la quale pretende di trascendere il conflitto artificiale sul piano del capitale mondiale. Israele si trova soltanto in una delle zone della decadenza barbara della "civiltà" capitalista, ovvero viene immediatamente sussunta alla polarizzazione immanente in essa costruita. Così la tanto invocata "terza posizione" perde la sua forza di analisi critica e diviene uguale alla polarizzazione immanente artificiale (la cui negazione sta sullo sfondo) proprio nel momento in cui identifica Israele come rappresentante di questa polarizzazione, solo ed ancora come parte integrante o come rappresentazione del capitale mondiale. La conseguenza necessaria è che l'antisemitismo su scala mondiale, come ideologia di crisi profondamente impiantata fin nell'inconscio, viene abrogato dalla costituzione dello Stato ebraico.
In questo modo, anche le contraddizioni interne ad Israele sono percepite ormai solo unidimensionalmente e vengono equiparate alle relazioni capitalistiche volgari, in modo tale che sparisce la mediazione con la sindrome antisemita, e questa viene respinta solamente in maniera superficiale ed astratta; e ciò avviene nella misura in cui non è diventata apertamente interpretazione antisemita. E' quello che ad esempio vediamo nel fatto si ama confondere, con uno storto sorrisetto ironico, il razzismo, discusso anche in Israele, contro gli ebrei non europei, e soprattutto contro gli arabi israeliani o contro i vicini palestinesi, con l'auto-affermazione "etnica" di Israele in quanto Stato degli ebrei. Questa condizione costitutiva della fondazione dello Stato appare soltanto come un etno-nazionalismo fra i tanti, che dovrebbe essere criticato sul piano generale di una tale ideologizzazione.
Legata a questo, troviamo frequentemente la richiesta per cui Israele deve desistere dall'auto-legittimazione "etnica", e deve passare a fondare la sua condizione statale solo in quanto universalità politica astratta, e possibilmente lasciar "ritornare" i discendenti degli antichi rifugiati palestinesi, che sono stati divisi fra gli Stati vicini e mantenuti in ghetti artificiali, e riconoscerli come cittadini con diritto di voto. In questo modo, gli ebrei diverrebbero ovviamente una minoranza in Israele, come viene semplicemente dichiarato con malizia, in quanto conseguenza ormai inevitabile della legittimazione democratica. Si nasconde il fatto che la costituzione "etnica" di Israele, come base generale dello Stato, è stata imposta da un antisemitismo globale, e che gli ebrei di molti paesi, nei quali si era da tempo sviluppata realmente un'auto-comprensione secolare e non etnica, sono stati catalogati dai loro stessi concittadini come corpo estraneo "etnico", razziale o religioso, dovendosi per questo intendere Israele come il loro Stato; e nasconderlo significa mettere a testa in giù la condizione costitutiva dello Stato. Gli ebrei, nella loro condizione statale specificamente ebraica, in questo modo emergono immediatamente come ramo particolarmente cattivo del nazionalismo "razziale", o come etno-freaks, i quali dovrebbero essere collocati sullo stesso piano in cui viene collocato, ad esempio, il nazionalismo culturalista ed i regimi tribali in tutto il mondo, prodotti della decomposizione della crisi mondiale, o addirittura sullo stesso piano di quella base di sangue e stirpe della nazionalità tedesca. La millanteria di una simile argomentazione è talmente ovvia, quanto lo è il suo contenuto antisemita. Ai fini di un'analisi critico-storica, al contrario, è inevitabile il carattere ebraico di Israele in quanto risultato storico e sociale mondiale, dal momento che questo mondo è capitalista, e la critica al sentimento razzista degli ebrei "bianchi" europei, o dei fanatici ultra-ortodossi contro i loro concittadini, si colloca su un altro piano, e dev'essere condotta, in Israele come altrove.
Altrettanto unidimensionale e negatrice del duplice carattere dello Stato di Israele, appare essere la pseudo-mediatrice "terza posizione" relativa alle contraddizioni esterne di Israele. La sua auto-affermazione - inclusiva degli interventi militari, la cui mediazione con l'antisemitismo globale sparisce - viene astrattamente equiparata al postulato di Hamas e di Hezbollah di spazzar via dalle carte geografiche lo Stato ebraico, e di armarsi a tal fine per il "combattimento asimmetrico". La distorsione del contenuto del contesto storico, qui si lega al metodo relativistico: entrambe le parti dovrebbero essere in qualche modo ugualmente condannate, in quanto identiche nel loro carattere di prodotti della crisi del capitale mondiale, oppure, all'altro lato, dovrebbero avere in qualche modo il loro "diritto" sul piano del conflitto locale. Il relativismo postmoderno presenta qui in modo particolarmente drastico il suo carattere assurdo, in quanto questa valutazione dice soltanto che Israele deve esistere un po' meno e che Hamas deve esigere un po' meno l'annientamento di Israele. Come se si potesse esigere che il capitalismo fosse un po' meno capitalista, oppure che l'antisemitismo dovrebbe essere un po' meno antisemita, e che i felini dovrebbero essere un po' meno divoratori di carne.
Visto che questo è assurdo ed impossibile da sostenere in termini di analisi teorica o argomentativamente, i suoi sostenitori di conseguenza si rifugiano nel sentimento moralista contro gli assassini dei bambini di Gaza e in una "coraggiosa" emozionalità che travolge la riflessione critica, che mobilita "l'odio inconscio contro gli ebrei", ma che, insieme a questo, simultaneamente rappresenta anche la smentita della sua falsa "neutralità". La "terza posizione", così formulata, limita la sua supposta posizione mediatrice alla specificità astratta del conflitto locale, ritira precipitosamente la conclusione politica per cui si dovrebbe poter riconoscere Israele, Hamas e Hezbollah come "fatti" e mantenerli nei loro rispettivi territori. Si rivela così come una presa di posizione contro Israele, non solo sentimentalmente moralista, ma anche comunemente politica ed in ultima analisi, militare. Un trascendere non relativista non può avvenire sul piano della specificità locale, ma semmai su un piano di polarizzazione sociale mondiale. Se, però, soltanto la critica della costituzione del feticcio capitalista come tale costituisce, in questo senso, la misura della valutazione del conflitto, allora in questa valutazione deve rientrare il contesto condizionale storico ed ideologico, ossia, anche il riconoscimento del duplice carattere di Israele. Solo per questo motivo è impossibile una pseudo-neutralità superficiale nei conflitti dello Stato degli ebrei con Hamas ed Hezbollah, neutralità che inoltre non è sostenibile sul piano dei fatti.
Così come nel caso delle differenze fra le espressioni razziste ed il carattere ebraico di Israele, è importante stabilire una differenza fondamentale fra una pressione espansionista da parte dei fanatici religiosi o dei nazionalisti, ad esempio del movimento dei coloni, che è diventato anche per Israele un pesante fardello interno, e gli scontri con le nuove formazione di potere islamico, con una carica antisemita, sulle frontiere di Stato. Come il razzismo interno si lega ad essi, anche il movimento dei coloni nazionalisti della "grande Israele", che recluta quasi a forza famiglie israeliane, che non hanno alcun sentimento nazionalista, attraverso una politica di spazi da abitare, si sviluppa sul piano volgare della costituzione capitalista. Ma non è questo che influisce sul carattere duplice di Israele. Costruire qui una connessione causale con la nascita di Hamas e di Hezbollah, non è solo fattualmente falso, in quanto in Libano non ci sono coloni ebrei e gli insediamenti a Gaza sono stati liquidati. Ma qui quello che sorge ancora una volta è l'espressione della vecchia immagine del pensiero antisemita, per cui gli ebrei sarebbero essi stessi colpevoli per l'odio contro gli ebrei, in quanto non sono persone migliori e fra di loro ci sono altrettante bestie quante ce ne sono da qualsiasi altra parte.
E' decisivo, per la valutazione della guerra delle frontiere di Israele contro i suoi nemici esistenziali, il suo carattere nel contesto della situazione regionale modificata, e l'ancoramento del conflitto ad una funzione ideologica di rappresentanza della società mondiale. Una volta che la "terza posizione", debole e relativista, nega sia questo carattere che questo contesto, in entrambi i casi, ma in maniera particolarmente chiara riguardo alla guerra di Gaza, si trova in comunione con l'antisemitismo mondiale, nonostante tutte le affermazioni contrarie, antisemitismo le cui espressioni tollera o ignora, assolutamente non a caso, nelle manifestazioni degli oppositori alla guerra. Per questo anch'essa non vuole comprendere che l'auto-affermazione di Israele è trasversale ai fronti di guerra dell'ordinamento mondiale capitalista, sebbene questa fattualità di riveli sempre più chiaramente.
Il rifiuto della guerra di ordinamento mondiale contro l'Iraq era corretto anche per il fatto che solo per mezzo di quella guerra veniva resa possibile la relativa ascesa dell'Iran a potenza regionale politico-militare e la dislocazione della costellazione alle frontiere di Israele. Questo riconoscimento viene ostinatamente rifiutato dal quelle sinistre diventate filo-occidentali, come qui nella terra degli "anti-tedeschi", nonostante che con le loro valutazioni del 2003 abbiano fatto una ben magra figura. Su questo sfondo, non si farà sicuramente attendere una separazione degli interessi da parte degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale nel contesto della guerra di ordinamento mondiale, da un parte, e dall'nteresse dell'auto-affermazione di Israele, dall'altra. L'identificazione positiva o negativa di Israele con il capitale mondiale comincia faticosamente ad essere smentita e dovrebbe condurre alla necessità di un chiarimento delle ideologie corrispondenti.

- Robert Kurz – 9 di 15 – (continua…)

fonte: EXIT!

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