giovedì 11 dicembre 2025

Il Labirinto della Modernità e il Filo di Arianna della Critica Radicale !!

Gli intellettuali dopo la lotta di classe
- Dalla deconcettualizzazione alla disaccademizzazione della teoria -
di Robert Kurz

   Formulare teorie che abbiano un pretesa esplicativa, è come se fosse passato di moda. Chiunque osi esprimere un pensiero concatenato, una teoria critica della società o una riflessione minimamente al di sopra del livello banale dell'attuale democrazia di mercato, diventa subito oggetto di sospetto. L'apparato teorico-concettuale viene visto come fosse un'impertinenza: si potrebbe quasi parlare di una de-concettualizzazione delle scienze sociali e umane. La presunta rinascita del pensiero cinico fa parte della fenomenologia di un'epoca che vive quella che è l'attuale teoria della fine della storia. Il «grugnire e scoreggiare collettivamente nei seminari»(Sloterdijk), può essere valutato non come se fosse un nuovo fiorire della filosofia, ma piuttosto come il sintomo di una sua capitolazione senza condizione alcuna. E' naturale che, poco a poco, simili tendenze penetrino nella pratica accademica quotidiana, oramai senza più speranza, potrebbe quasi suscitare solo compassione. Emettere empiti di relativizzazione, con masochistica umiltà, serve a ritrattare qualsiasi concetto appena proclamato. La continua preoccupazione per le "differenze", esacerbata al punto da trasformarsi in dipendenza, sembra dissolvere gli oggetti storici e sociali, e li rende  irriconoscibili. Sicuramente, non si tratta della critica del concetto, svolta da Adorno nella sua "Dialettica negativa". Questa avrebbe piuttosto meritato il nome di critica eroica, dal momento che essa conservava ancora la dignità di un pensiero concettuale, e di conseguenza era indissolubilmente legata a una critica fondamentale - per quanto fosse senza speranza - della società. In tal senso, la nuova a-concettualità di oggi non può in nessun modo riferirsi ad Adorno, dovendo, al contrario, trattarlo come se fosse il più morto dei cani.  La bandiera adorniana, è stata, per così dire, oramai ammainata, e i nuovi filosofi della a-concettualità si limitano a sventolare bandiera bianca, sperando di essere confortati da quello che prima era oggetto di critica. Di conseguenza, una nuova a-concettualità non significa nient'altro che il desiderio di degradare la storia e la filosofia, fino a ridurli ad oggetti di uso capitalistico. Col passare dei giorni, a dare le carte vediamo sempre più degli yuppie filosofici. Anche in questo senso, di certo, la filosofia continua a essere "il suo tempo concepito nel pensiero" (Hegel), in quanto gli yuppies filosofici corrispondo ai loro simili sociali. Oggi, il "denaro dello spirito" si trova nella medesima situazione in cui si trova il dollaro: ridotto a pura massa di manovra nelle mani degli speculatori: una sovrastruttura di credito paralizzata sull'orlo del collasso. Ed ecco che così, in un'economia-casinò globale, lo spirito si converte in una filosofia-casinò - a uso domestico - della macchina autonomizzata del denaro. Non è un caso che anche il lifting "etico" che ha avuto il volto dell'economia di mercato, riceva addirittura il nome di "filosofia", come avviene con i cosmetici di Jil Sander, o come quando viene posta in vendita una nuova concezione amministrativa, o il profilo di una corporazione. C'è dell'ironia in questo modo in cui viene abbattuto il vecchio muro che separava filosofia e "vita", che separava lo spirito e la società: qui si rivela quell'impulso universale, essenziale al capitalismo, a vendere tutto il vendibile. Tuttavia, gli yuppies dello spirito dicono assai più di quanto si immagini - o di quanto essi vogliono dire - sull'attuale quadro della realtà sociale. Quando, per esempio, Odo Marquardt - raccomandando agli amministratori e alla classe politica, in maniera seducente, la sua merce filosofica come se fosse una "istanza compensativa competente", esprimendo, con un simile consiglio, il fatto che in fondo anche lui tiene una famiglia da sfamare -  sta mettendo in atto una semi-involontaria critica sociale. E se il filosofo alla moda, Gerd Gerken, si presenta al pubblico con lo slogan secondo cui: «per avere successo, devi credere in qualcosa, non importa cosa», ecco che quest'affermazione potrebbe anche  essere percepita come un sonoro schiaffone, per quanto non pianificato, in faccia all'arbitrarietà e alla completa mancanza di contenuto; al punto che nemmeno la stesso Adorno sarebbe stato in grado di riuscire a far meglio. Così, vale la pena notare come, a partire dal modo involontariamente ironico attraverso il quale si fa coincidere filosofia e "vita", si potrebbe persino mettere in atto, rispetto ai suoi protagonisti, il passaggio ad assumere una nuova distanza ironica, tanto nei confronti della filosofia quanto in quelli della "vita" capitalistica. Ma per far questo, sarebbero però necessari dei nuovi concetti o, quanto meno, un nuovo modo di approcciare quelli vecchi. Insomma, sarebbe necessaria una nuova teoria che reagisse ai cambiamenti sociali e che formulasse una critica della società rapportata al nuovo terreno storico. Ma, in tal senso, si è fatto davvero assai poco. La supposta sconfitta della vecchia critica, e la nuova a-concettualità, vanno affrontate una volta per tutte nei loro molteplici aspetti. Sulla stampa in generale - rispetto a tutto ciò che che domina il mondo intellettuale anglo-americano - un dibattito teorico approfondito ha ceduto il passo a un genere degradato di letteratura specializzata; niente più che una massa informe, riunita sotto la categoria di "non-fiction", paragonabile per questo alla divisione che viene fatta nell'universo delle merci, fra cibo e non-cibo. Il giornalismo politico-sociologico sembra decadere allo stesso ritmo di quello economico: si vedano per esempio - anziché la critica - le "guide finanziarie"; guide di aiuto capitalistiche invece dell'economia politica. Nel migliore dei casi, entra in scena, in luogo di una riflessione a proposito della totalità sociale (identificata, ora, in maniera tanto falsa quanto dilagante, come "totalitarismo"), il monotono recitativo che parla di un unico e bramoso pensiero: ossia, la "discriminazione economica delle donne" (Renate Schubert), oppure; "lo Stato tutelare" (Rolf Schubert). Questo tipo di valutazione unidimensionale, si limita, in gran parte, a una critica triste, la quale obbedisce solamente ai nuovi imperativi del pensiero isolato e dell'immediatezza fattibile. Certo che questo genere operoso della letteratura della banalità esisteva anche negli anni '60 e '70 ; sebbene prima non avesse l'accompagnamento musicale che oggi gli dà tono. Questi rigogliosi e mal-rifiniti composti sensazionalistici hanno raggiunto il loro apice in quei prodotti kitsch - in particolare dopo Gorbaciov - che hanno accompagnato la caduta del socialismo di Stato, condendola con il fascino oscuro dello "Io c'ero", oppure dello "Adesso posso parlare", arrivando fino al più miserevole dei trionfi:"Anch'io sono stato una vittima della Stasi". Ma forse, su questo tipo di giornalismo, bisognerebbe solo stendere un velo di indulgenza ; esso riflette una mancanza, un'incapacità ad assimilare criticamente gli avvenimenti storici. Anche perché, ben presto, tutto questo ha finito per diventare monotono.

   Detto in senso lato, alla stampa manca semplicemente il rinforzo teorico da parte della sfera logistica intellettuale, la quale sembrava che finora avesse la competenza in tal senso, e che ora produce solo angosciati ruminanti e venali pavoni. E così, ora che il "concetto di lavoro" è stato trascinato nella sfera negativa, e che non è più possibile resistere alla pressione della presunta "società mondiale post-storica e senza alternativa" (Lutz Niethammer) del denaro totale, ecco che il giornalismo diviene sempre più angosciato. La macchina dei concetti del pensiero occidentale, perde la sua forza materiale e - prima della rottamazione - sembra cadere a pezzi. E la critica si trasforma in critica della critica. Non è solo a partire da Sloterdijk, che si possono scrivere 800 pagine di "teoria con la T maiuscola", facendolo proprio per contrapporsi alla "Teoria". Queste teorie-anti-teoriche sembrano solo voler riprendere, e dare continuità alla traccia affermativa dello strutturalismo e della teoria sistemica. Ciò nonostante, tuttavia, esse talvolta segnalano - così come lo fa il surfismo universale dei filosofi in voga, e i campioni dell'etica - una trasformazione sociale non ancora maturata. Ma, in quale direzione? Il mondo scientifico non sembra più essere in grado di ritrovare quella forza necessaria a dare una risposta a una simile situazione. Sebbene la vita accademica non si fosse ancora del tutto irrigidita in un "paesaggio culturale pietrificato" (Enzensberger), tuttavia, molto prima dell'estinzione del movimento del '68 essa aveva già insabbiato, davanti al dilemma teorico, l'impulso alla ricerca propriamente accademica. La letteratura sensazionalista della stampa corrisponde alla ritirata accademica in direzione dell'archeologia storico-culturale. Se l'impresa, alquanto ingenua, della "storia orale" è servita frequentemente ai fini dell'assistenza degli anziani, e per costruire un collezione di oggetti di devozione del movimento operaio e socialista, oggi il boom allargato della storia culturale sta frugando nelle tasche dei giubbotti, e nelle latrine della storia. In Francia, soprattutto, simili sforzi producono notevoli risultati. Come nella "Storia dell'infanzia", o nella "Storia della morte", di Philippe Ariès, nei lavori sul Medioevo di Jacques Le Goff, o di Georges Duby; così come nella "Storia della vita privata", pubblicata congiuntamente agli ultimi due, o nella grande trilogia storico-sociale su "Le origini dell'economia di mercato" di Fernad Braudel: in tutti questi libri viene riunita una quantità monumentale di informazioni, che formano un insieme di indubbio significato storico. Tuttavia, queste opere mancano di una sintesi che possa far sì che un tale materiale venga visto nella prospettiva di una storia critica della socializzazione occidentale; ossia, manca una visione d'insieme capace di indirizzare una rinnovata valutazione storica, e orientare così una nuova agenda di questioni. Insomma, manca l'orizzonte teorico di una critica radicale della società, che permetta di ordinare i risultati della ricerca storico-culturale. Potrà sembrare sfrontato e arrogante, ma da questo punto di vista anche Foucault stesso non può essere considerato sempre e sotto tutti gli aspetti come un teorico nel senso rigoroso del termine. Le sue "archeologie" della sessualità, delle istituzioni e del sapere, sono anche lodevoli, soprattutto per il lavoro di estrazione mineraria, mentre la riflessione teorica propriamente detta, in fin dei conti, lascia perplessi. La tregua teorica, è diventata un problema centrale, la demoralizzazione del pensiero minaccia di diventare paralisi. Se la teoria, soprattutto in ambito accademico, osa entrare nella sfera pubblica solo in punta di piedi, va detto che forse questa lamentevole situazione è dovuta alla morte del marxismo. A quanto pare, il marxismo è stato determinante ai fini della formulazione teorica del XX° secolo, di modo che ora tale formulazione sembri essere cessata insieme a esso. Se nel marxismo, sembrava che l'eredità della filosofia fosse stata soppressa, di modo che ogni formulazione concettuale a posteriori veniva a essere definita a fronte di esso - sia per affinità che per rifiuto - ecco che, con il declino dei concetti marxisti, decade anche la concettualità della teoria in quanto tale. Oggi, tale istanza referenziale, positiva o negativa, sembra essere svanita senza che abbia lasciato traccia. Il movimento globale del '68, aveva condotto quello che era il già senile marxismo del movimento operaio a una prosperità così talmente illusoria che, per qualche tempo, anche l'ultimo degli opportunisti della sociologia si è visto obbligato, quanto meno, a scrivere la sua tesi di dottorato sulla storia sociale delle guerre contadine. o sulla lotta di classe nella Valacchia del XIV° secolo. Tuttavia, in parallelo con questo tardivo e fantasmagorico risveglio, ciò che si stava preparando sarebbe stata la sepoltura definitiva del corpo teorico marxista, già sventrato e imbalsamato dalla moda strutturalista (Althusser) e da quella teorico-sistemica. Oggi, dopo il collasso catastrofico dell'ordine sociale che era stato eretto in suo nome, a causa di questo, in piedi non rimane nemmeno un mausoleo. Nell'autunno del 1989, il settimanale tedesco  Wirtschaftswoche era già in grado di presentare la quasi totalità dei marxisti restituiti alla vita accademica tedesca, come se fossero dei delinquenti pentiti che dovessero balbettare solennemente la propria ritrattazione. In Francia, l'enfatica transizione entusiasta della democrazia occidentale si era già conclusa precedentemente e, in mezzo al desert storm, si era finalmente verificata, fra le grida, la riunificazione del nucleo duro del '68, che ora si presentava come un illustre circolo di filosofi pro-bomba atomica in costume da guerra. Ma forse l'ebreo-tedesco Karl Marx, abituato a simili problemi, stavolta era stato messo nella fossa con eccessiva fretta. Nel precipitoso funerale della teoria marxista, i teorici della cautela, i quali forse avevano già troppo da "differenziare", non avevano fatto alcun tentativo di differenziazione. Tuttavia - così come avviene con tutte le teorie dotate di una loro forza storica - anche la teoria di Marx non si esaurisce nella sua versione rimasta vincolata a un'epoca; né tantomeno può essere solo quella totalità chiusa, immaginata tanto dai cercatori di citazioni quanto dai becchini precipitosi. Con la fine di un'epoca - sigillata dal crollo del socialismo di Stato - ciò che si estingueva era soltanto il momento della teoria legato a quel periodo, e che non significa affatto che la teoria stessa fosse in qualche modo esaurita.

   Tantomeno si trattava semplicemente di una sconfitta. Un pensiero su cui si riflette storicamente, il quale non si banalizza associando i predicati "giusto" o "sbagliato", "buono" o "cattivo", ai grandi movimenti sociali e alle formazioni politico-economiche, e tutt'al più  si avvicina al problema chiedendo quale compito sia stato portato a termine, dal punto di vista dello sviluppo storico, rispetto a una tale rottura epocale. Solo una messa in discussione di questo genere ci può dare un'idea di ciò che è avvenuto, e che merita di essere messo all'ordine del giorno. Al fine di una tale comprensione, il concetto chiave  può essere solo quello che - sotto il nome di "modernizzazione" -  possiede già un discreto tempo di esistenza ambigua dentro la teoria. Questo termine, ha meritato quasi sempre uno sguardo obliquo da parte dei marxisti; dato che sembrava che quasi coprisse il "contenuto di classe" di quello che era tutto un interrogativo teorico. Il vero spartiacque doveva essere situato fra il capitalismo borghese e il socialismo operaio; ragion per cui "modernità" e "modernizzazione" erano concetti che sembravano volessero annullare, in modo meramente conciliatorio, quella che avrebbe dovuto essere la "vera rottura fra le classi". Ma quando capovolgiamo questa argomentazione, vedendola alla luce dell'effettiva rottura epocale, la quale contraddice in modo evidente qualsiasi concezione del marxismo volgare, ecco che appare un quadro totalmente distinto. Ragion per cui, la "modernità" e la "modernizzazione" non verrebbero più visti come i due concetti di un'annacquata ideologia (piccolo-)borghese, quanto piuttosto proprio come un involucro borghese reale, all'interno del quale si sviluppano le cosiddette "lotte di classe". Oltre tutto, il carattere borghese sarebbe il carattere dell'epoca stessa, la quale include persino quelli che sono i presunti opposti del Capitale. Per dirla altrimenti: il Capitale stesso sarebbe identico alla modernità e al suo processo di formazione, proprio in quanto forma sociale comune alle fazioni in conflitto. In questo senso, non sarebbe più possibile classificare come "anticapitalista", se non condizionalmente, né il il socialismo di Stato dell'Est, né il movimento operaio occidentale, e né, tantomeno, il movimento anticolonialista di liberazione nazionale nei paesi dell'emisfero Sud, ivi incluse anche le sue correnti più radicali. O meglio, il suo anticapitalismo non si riferisce ancora all'autentica forma di base del capitalismo stesso, ma solo a un capitalismo empirico dato; si riferisce a quello che, da fuori, viene preso per capitalismo in persona, e che, in realtà, non è altro che uno stadio ancora incompleto dello sviluppo della modernità borghese. Ecco che così, il marxismo di quest'epoca non poteva essere niente di più che un marxismo della modernizzazione, immanentemente borghese, e parte esso stesso della storia della realizzazione del capitale. E questo momento modernizzatore, limitato all'involucro borghese formale, lo troviamo a ogni passaggio della teoria marxiana. Tutto quello che appare in Marx, come incondizionalità del "punto di vista operaio" e della "lotta delle classi" - o che viene detto a proposito del "plusvalore non pagato" e dello "sfruttamento" - è ancora teoria capitalista dello sviluppo, e riflette il fatto che il capitale non ha  ancora trovato il suo modo di riproduzione. In tal senso, si tratta di una teoria - ed è stata letta anche in questo modo - che punta essenzialmente a due problemi immanenti al capitalismo: in primo luogo, alla critica dei momenti patriarcali, corporativi, nel contesto delle relazioni sociali stabilite dal capitale, ossia, alla trasformazione dei lavoratori salariati in soggetti borghesi, e questo nella sua piena accezione, sotto il punto di vista monetario, giuridico e statale; e, in secondo luogo, al conflitto distributivo che avviene sotto forma monetaria, e nel quale il carattere relativo "del valore della merce forza-lavoro" (vale a dire, il momento storico-"morale", come a volte lo chiama Marx) viene ricondotto a una sua normalità capitalistica, che è quella di un "benessere nel capitalismo", raggiunto sia attraverso degli accordi collettivi che per mezzo di politiche distributive statali. Oggi, questo marxismo, immanente alla modernizzazione, è diventato, di fatto, del tutto obsoleto, e non perché sia "sbagliato", ma perché il suo compito si è concluso. Nei paesi dell'Est e del Sud, il processo di modernizzazione tardiva, ha incontrato la sua barriera assoluta; il ciclo di implementazione delle relazioni capitalistiche si è chiuso quando queste ultime sono state totalizzate, sotto forma di una relazione immediatamente globale, in un produttore mondiale di merci. I lavoratori salariati si sono convertiti in soggetti monetari e giuridici, nella piena accezione borghese, essendo impossibile una maggior "libertà" e "uguaglianza", perché, in qualche modo, il gioco distributivo statale ha raggiunto il proprio limite assoluto. Con ciò, arriva al suo termine anche la lotta di classe, che non era altro che il processo di attuazione del capitale, il quale nella sua logica formale pura e astratta si contrappone ai capitalisti, storicamente ed empiricamente limitati.

   I vari becchini di Marx, e i nuovi amici della democrazia del mondo delle merci occidentali, traggono da tutto questo la conclusione affrettata secondo cui la critica della società sarebbe esaurita - almeno nella sua variante radicale - e che pertanto d'ora in poi, e per tutta l'eternità, questa «società globale senza alternativa» del capitale, ci detterà le regole per tutto quello che verrà fatto e/o pensato. Niente di più lontano dalla verità. Poiché, invece, è proprio solo ora che può entrare, sulla scena storica, quell' "altro" Marx,  quello che se n'era rimasto nascosto, quel Marx "oscuro" ed "esoterico" del quale, non a caso, il movimento operaio non sapeva assolutamente che cosa farsene: il tentativo marxiano di trascendere il capitale attraverso una mera assolutizzazione della "classe operaia" ("Dittatura del Proletariato") è sempre stata una costruzione distorta, dal momento che in tal modo si stava cercando di conseguire, come totalità, quello che era invece solo un momento particolare e immanente al capitale stesso. E questa pseudo-trascendenza, va interamente imputata alla teoria marxiana, in quanto mera teoria della modernizzazione, la quale - partendo da una falsa immediatezza sociologica - si concentra sulle classi e sulle relazioni sociali, senza che appaiano nel suo campo visuale quelle che sono le forme sociali comuni a esse. Questa forma però non è altro che il capitale. E' la forma-valore, o la forma-merce in quanto tale che, diversamente dalla sua esistenza embrionale come forma ristretta ad alcune nicchie sociali, nelle società premoderne, ora si sviluppa nel capitale fino al punto da convertirsi nella forma totale della riproduzione sociale. Con la sua critica, il marxismo della modernizzazione - o il marxismo operaio - non mette a fuoco tale forma, che viene soprattutto concepita in quanto fondamento ontologico insuperabile da parte della società in generale. Così, per tale marxismo, il problema non era il "valore", che è la forma sociale delle merci, bensì semplicemente il "plusvalore" che viene imposto dall'esterno. Ma è in Marx stesso, al contrario, che il piano immanente della teoria viene reso possibile proprio grazie alla sua critica radicale del valore, visto in quanto valore. La categoria centrale di tale critica, è il concetto di feticismo, salendo dal feticcio della merce al feticcio del denaro, del capitale, del salario, del diritto e dello Stato. In sostanza, tutte le categorie sociali della modernità vengono qui sottoposte alla critica radicale, mentre che l'ideologia borghese - incluso il marxismo - si limita solo e sempre a postulare il loro lato positivo. Pertanto alla fine vediamo in Marx, due linee argomentative intrecciate, ma incompatibili tra di loro. Oggi, però, bisogna sciogliere questo nodo gordiano, non importa se alla maniera classica o per mezzo di un lento dipanare il filo. Ed ecco che così il Marx degli operai e della lotta di classe, cade in disgrazia, ma il critico radicale del feticismo e della forma valore è ancora in piedi, ed è ancora efficace. Bisogna smettere di brancolare nel labirinto della modernità, e seguire invece il tenue filo di Arianna della critica radicale marxiana - della merce e del denaro - ancora necessariamente astratta e incompleta. Il concetto marxiano di feticismo, liberato dall'antico fardello del marxismo del movimento operaio, può ora essere ampliato - o farsi conoscere - attraverso la critica dello stesso feticcio del lavoro. Il problema non è più lo "sfruttamento" della forma valore, ma innanzitutto il lavoro astratto stesso, vale a dire, l'utilizzo astratto imprenditoriale dell'essere umano e della natura. Il "lavoro" ha perso la propria dignità, in quanto terapia occupazionale, moderna costruzione di piramidi, feticismo del posto di lavoro e produzione distruttiva, ed è in questo modo artificiale, e con  dei costi di gestione sempre più rovinosi, che esso mantiene in funzione il sistema capitalista globalizzato. Ovviamente, questa proposta teorica non piace neanche un po' ai teorici ancora predominanti. Al contrario, essa viene recepita come una proposta indecente, quasi una specie di volgarità o di enormità. Ma una coscienza, la cui immaginazione teorica si esaurisce nella scommessa di continuare eternamente a modernizzare la modernità, guardandola sempre come se fosse un "progetto incompiuto" (Habermas), non potrebbe certo reagire diversamente, . Per questa ragione, ogni critica alla modernità viene accusata di appartenere al vecchio repertorio reazionario piagnucoloso che vorrebbe solo tornare alla pre-modernità: cioè, passare dalla socializzazione alla "comunità", dalla forma-merce all'economia naturale di sussistenza, dal diritto al dispotismo, dal mercato mondiale al villaggio. Ma qui non si tratta di regolare i conti con la modernità, retrocedendo, bensì piuttosto avanzando.
Il denaro totale ha prodotto il Mondo Unico, e sappiamo che quanto a questo non è più possibile tornare indietro: ma si tratta solo della stampella dell'umanità, che ora dev'essere eliminata. E' necessario liberare questo mondo unificato dalla sua conformazione mercantile, proteggendo il suo livello di civiltà, la sua forza produttiva e le sue conoscenze. Un simile compito storico - che il marxismo operaio aveva messo da parte e aveva rimandato a un futuro presumibilmente lontano - si trova ora all'ordine del giorno. Con la sua "vittoria", l'Occidente trova anche la sua propria fine. Ha bisogno di sopprimere e superare sé stesso. La soppressione (Aufhebung), in questo caso, non significa solo il punto finale di un processo. Ma essa presuppone invece una rottura storica decisiva (e decisa), che i teorici della civiltà, della democratizzazione e della modernizzazione hanno cercato inutilmente di eludere. E nonostante si siano fatti carico, tutti insieme, della sepoltura di Marx, essi stessi non sono stati capaci di andare al di là delle forme residue e degradate del marxismo della modernizzazione - che non si sono lasciati alle spalle, come pensano -  ma che le hanno piuttosto diluite fino a trasformarle in qualcosa di totalmente inoffensivo e sprovvisto di oggetto. Non sono i precursori di una nuova teoria, ma rappresentano le macerie teoriche di un processo storico già concluso. Questo può essere dimostrato, nella pratica, dal fatto che hanno completamente perso l'immaginazione, in quanto critica della società. E non è affatto un caso che il concetto teorico (e anche l'appello "politico") abbia perso anch'esso la sua dignità, insieme al "lavoro". E  il fatto che la critica marxiana del valore, e del feticismo, sia stata molto più disprezzata dei "capricci filosofici" di Marx, non è stato certo opera del caso,. Infatti, prendendo sul serio la critica del feticismo, arriviamo a disporre, non solo di una forma sociale reale, ma anche della cassetta degli attrezzi ideale per la modernità. Il valore non è affatto una cruda "cosa economica", ma al contrario abbiamo a che fare con una forma sociale totale, vale a dire, forma-soggetto e forma di pensiero. Anche se impieghiamo continuamente il prefisso "post" nei discorsi sulla post-modernità - sia per parlare di post-fordismo di post-industrialismo, o termini affini - inconsciamente li pensiamo anche come se fossero collocati lungo le linee della forma merce. Tuttavia, se la modernità, in sostanza, è semplicemente la totalizzazione della forma merce, non possiamo avere nessun "post-industrialismo" mercantile, né tantomeno un pensiero mercantile della post-modernità. Sarebbe necessario tornare a portare avanti, criticamente, il pensiero iniziato da Sohn-Rethel, circa il nesso esistente tra «forma-merce e forma di pensiero», al fine di disvelare la conformazione mercantile di tutto il dibattito occidentale che c'è stato intorno alla teoria della conoscenza. Questo programma potrebbe portare a un nuovo modo di sfatare Kant, e decifrare concettualmente, in quanto costruzione  feticista, la cesura attuata sia nella teoria della conoscenza che nell'etica, cui, per inciso, è approdata, sensibilmente, la discussione etica attuale. La critica radicale del valore - in quanto critica della società - ristabilisce l'identità esistente, fra forma di esistenza e forma di pensiero, riguardo al pensiero; la critica delle moderne dicotomie occidentali - tanto tra individuo e società, quanto tra economia e politica - precede il superamento pratico delle stesse. A partire da questo, si apre non solo la possibilità di una re-storicizzazione delle forme di relazionamento e di "legalità" sociali, che sono state antropologizzate ed ontologizzate dallo strutturalismo e dalla teoria sistemica, ma anche una via di accesso più facile ed efficace verso tutte le problematiche contemporanee. Questo può essere visto in maniera esemplare e centrale, nella relazione tra i sessi, tema che non a caso è sbiadito lentamente sotto l'egida del movimento operaio e della modernizzazione. E' solo nell'ambito di una critica del valore - in quanto definizione basilare della forma sociale - che l'assegnazione dei ruoli sessuali può apparire nella coscienza teorica. La relazione occidentale fra i sessi, è definita dalla forma valore, ossia il valore viene costituito sessualmente. Una società feticista della produzione e del lavoro astratto, presuppone sempre quella che è la «cesura di un contesto di vita femminile» (Roswitha Scholz); ossia la separazione di quei momenti sensibili, e non passibili di monetizzazione, e, insieme a questo, la costituzione di ruoli sessuali specifici, socialmente e storicamente. L'uomo si converte così nel rappresentante del lavoro astratto, e la donna nella "persona fisica domestica", sulla quale si scarica tutto ciò che non può essere ridotto ad astrazione di valore. In tal modo, si stabilisce la relazione specificamente borghese tra sfera pubblica e sfera privata, che nella modernità raggiunge il suo culmine L'attività della donna, all'interno di uno spazio privato (sessualità, famiglia), non legata alla forma valore, costituisce il presupposto strutturale e storico del sistema produttore di merci, e precede tutte le altre relazioni forgiate sull'astrazione virile, fra sfera privata (denaro) e sfera pubblica (Stato). Quando la totalizzazione della forma valore, erode il suo stesso fondamento, convertendo tendenzialmente la donna in soggetto monetario e statale, ecco che allora diventa non solo possibile rivendicare la "uguaglianza" sull'ultimo terreno che ancora rimaneva, ma anche far saltare in aria l'intera relazione tra sfera pubblica e sfera privata, e che corrisponde alla forma merce. Nell'ambito di una mera "critica del plusvalore", il problema neppure appare; tuttavia, nella misura in cui il valore, in quanto relazione sociale, incontra il suo limite, la relazione tra i sessi diventa un centro di crisi, e si riferisce alla crisi del valore in quanto valore. Con la chiave della critica radicale del valore si potrebbe disserrare, ugualmente, anche l'attuale dibattito in merito ad un orientamento pragmatico ("realista") circa la fine dell'utopia e la fine della storia. I realisti, pratici e teorici, gli spiriti del cambiamento, i democratici della temperanza, gli artisti della negoziazione e i critici-astemi sono stati frettolosi nell'arrivare alle conclusioni. A volte la storia, di fatto, arriva al suo termine, ma quando finora l'ha fatto, è stata solo la storia occidentale del valore, o del sistema produttore di merci. A partire dall'antichità occidentale, passando per il cristianesimo e per il Rinascimento, si è messo in marcia un processo, il cui spazio temporale effettivo è pari a 200 anni: dal 1789 al 1989. Tutto il resto è una... "non ancora" storia. Per il Marx esoterico, questo periodo corrisponde esattamente alla preistoria del genere umano, ivi inclusa la fase del capitale (in quanto, la potremmo completare come forma ultima e più elevata del primitivismo feticista). Inoltre, la "fine della storia". non si riferisce a qualcosa di diverso dalla crisi e dalla fine del valore. Se vogliamo, si riferisce proprio alla fine dello stesso Occidente. Le cose non vanno meglio, allorché si parla della fine dell'utopia, strombazzata ai quattro venti. Anche l'utopia è una creazione tipicamente occidentale, un prodotto della relazione del valore, e dei passaggi da questo generati. Così come il potenziale desensibilizzante dell'astrazione mercantile reale, ha creato "la donna" in quanto essere compensativo, "l'utopia" è stata forgiata come accompagnamento musicale fisso, la quale doveva suonare più forte a ogni nuovo passaggio storico dell'astrazione reale del valore. Il carattere insopportabile della contraddizione, nel momento in cui essa si manifesta nella forma sociale dell'alienazione inerente alla forma valore, produce - al divinizzarsi di questa contraddizione stessa -  il desiderio di una completa assenza di contraddizione. La quale può essere non solo l'elemento centrale del pensiero utopico, ma proprio della ragione borghese in generale.

   Sicuramente, il dogmatismo dell'utopia può essere recuperato all'interno del pensiero marxiano, visto come struttura dogmatica, ma ciò si verifica solo nella misura in cui questo si mantiene immerso nella forma valore, ossia, quando si tratta di pensiero formulato dal teorico borghese della modernizzazione e, quindi, del movimento operaio. Per cui, ci riferiamo al dogmatismo essenziale del pensiero moderno illuminista, ovvero, al dogmatismo oggettivo della ragione borghese in quanto tale. Per un'ironia del destino, i nuovi anti-utopisti e becchini della teoria marxiana, che accusano Marx di essere utopista, e imputano alla sua utopia una visione escatologica della storia, ora parlano, essi stessi, di "fine della storia", così come supposta eternizzazione della normalità capitalistica. Ma questa concezione, è essa stessa una sorta di escatologia per fare sonni tranquilli, la cui realizzazione nell'ambito della società mondiale può, però, causare degli incubi. E' il pensiero illuminista borghese che ha bisogno di far coincidere la fine della storia con la sua propria fine. Questa struttura dogmatica, tende a sfociare in una "visione del mondo" omicida, allorché si vede espressamente vietata la possibilità di pensarsi in questi termini, come avviene non solo nelle teorie pragmatiche borghesi, ma anche nei marxismi critici occidentali, ancora prigionieri della modernità e dell'illuminismo. Anche la teoria critica, vede la ragione come un'entità fuori della storia, e simultaneamente dentro. Il pragmatismo borghese opera, allo stesso modo, mediante un concetto di ragione che non può essere desunto. Non c'è da stupirsi che entrambe le correnti si incontrino oggi nella filosofia cosiddetta "realista", nel senso più ampio del termine, sotto la forma di una propaganda omicida, pro-capitalista e pro-occidentale, di quella che è la società globale del capitale. Il preteso orientamento pragmatico, cela piuttosto la sua propria forma sociale. Un vero pragmatismo, non sarebbe mai capace di plasmare il mondo sensibile, le risorse sociali e il potenziale scientifico, secondo un principio razionale unico, dogmatico e astratto. Il vero pragmatismo significherebbe, pertanto, una rivoluzione contro il valore e contro il suo sistema di ordinamento. Ogni pensiero sottomesso alla forma merce, invece, è  al contrario "visione del mondo" solo a causa della lente deformante dell'astrazione valore. I pseudo-pragmatici borghesi, in realtà obbediscono al dogmatismo reale del denaro, e alla sua auto-valorizzazione feticista. Nella pratica sociale, tale pragmatismo si converte forzatamente in una dittatura della stato d'assedio, che dichiara guerra contro tutti coloro che non possono più vivere degnamente sotto il giogo della forma merce totalizzata. In realtà, c'è qualcosa di terribilmente consolatorio nel fatto che il Mondo Unico, tagliato sulla forma valore, obblighi gli a-critici teorici professionali dell'Occidente a dire quello che pensano realmente, nelle forme delle teorie omicide della democrazia liberale, con tutti i suoi deficit ecologici e sociali. E questo poiché l'economia di mercato e la democrazia occidentale - in quanto forme di superficie o forme fenomeniche del feticismo moderno - non sono semplicemente capaci di integrare la stragrande maggioranza dell'umanità. La fine del socialismo di Stato - che non era altro che una dittatura di modernizzazione tra le tante altre - reca in sé, in modo evidente e con primitiva violenza, non una rivitalizzazione della democrazia occidentale - come avevano sperato i teorici della civiltà - ma, al contrario, proprio l'irruzione galoppante della barbarie. Il Menetekel (N.d.T.: espressione di origine ebraica, tratta dal libro di Daniele, che profetizza la dissoluzione del regno di Baltasar e la sua spartizione fra Medi e Persiani. In tedesco, il termine è venuto a significare "segnale di allarme", "minaccia di pericolo", o "destino fatidico") jugoslavo funge da profezia del nostro futuro. Ovviamente, questa diagnosi della situazione della società e della teoria, porta a chiedersi quali siano le possibilità di dominio e di cambiamento della stessa. La prassi sociale, deve passare attraverso la coscienza teorica.  Sicuramente, con la crisi e con la critica del sistema produttore di merci, quello che viene a cambiare, è anche la posizione della teoria stessa. Mentre la critica radicale del valore non può obbedire al dogmatismo reale del denaro, e tantomeno recare in sé un concetto astratto di ragione, dogmatico e esterno. Una teoria capace di concepire sé stessa, non è più il comitato centrale dello spirito del mondo, e pertanto non può più servire come istanza leggittimatrice di alcun comitato centrale politico, ma nemmeno di una commissione parlamentare verde professionalizzata alla maniera capitalista. Il vecchio collegamento tra teoria, programma, partito e potere, dev'essere, esso stesso, imputato alla forma borghese, la quale definiva anche la posizione della teoria. Se salta per aria la relazione borghese tra "vita" e filosofia - in quanto tale - così come quella fra economia e politica, allora diventa non più possibile imporre al pensiero la vecchia assegnazione prescritta dal modello mercantile.
La teoria - che non deve più celebrare alcuna base sociologistica di classe, anche se questa si presenta nella figura ultima e degradata di una "volontà elettorale" - alla fine gode della libertà propria del "fuorilegge", e viene riconosciuta come momento critico di una crisi sociale di portata mondiale, senza che però sostenga che queste pretese, rispetto alla totalità del mondo intero, le derivino da una qualche metafisica della logica finale. La nuova modestia della teoria dev'essere, tuttavia, simultaneamente, la sua nuova e inaudita radicalità, ed è semplicemente su questo che riposa la sua verità. Al contrario, l'apparente modestia dei filosofi occidentali-democratici della capitolazione, smentisce sé stessa, poiché, a livello di dirigere la radicalità della critica contro le attuali condizioni di vita, essa mobilita, in maniera del tutto immodesta, la radicalità delle relazioni capitaliste contro gli esseri umani reali. La teoria non può più richiamarsi a un qualche soggetto ontologico, che non sia essa stessa. Quando si dissolve l'ontologia e la metafisica del lavoro astratto forgiato dalla forma merce, la crisi già non può più essere superata mediante la trasformazione di un soggetto in sé, inconsciamente presente da sempre nella sua particolarità capitalistica, vale a dire,  un soggetto di per sé del lavoro totale. E' la società stessa, che deve ora costituirsi coscientemente in quella terra desolata nella quale fino ad ora non c'è stato alcun soggetto, se non la forma cieca e feticista della "astrazione reale" (Sohn-Rethel). La teoria dà così fondamento a questa costituzione cosciente, e lo fa proprio perché non può più evocare alcun "interesse" immanente alla forma merce, ma può solo mobilitare "l'interesse" sensibile, contro la stessa astrazione reale. I germi di questo movimento, li troviamo praticamente già presenti nella società sotto forma di critica femminista, sociale ed ecologica. Tutte queste forme di critica pratica, non sono più un ontologico "in sé" "per sé" del lavoro, ma sono dei momenti effettivi del movimento di soppressione del valore. Il momento teorico, cammina ancora a passi lenti, e deve compensare il proprio ritardo.

   E in tal caso, anche il cambiamento di luogo della teoria va inteso in senso letterale. Dovrebbe essere diventato chiaro, già da molto tempo, che rinchiudere il pensiero (soprattutto quello rivoluzionario) dentro la prigione dell'amministrazione intellettuale accademica occidentale , non gli avrebbe di certo fatto bene. L'università non si sbarazzerà della sua "muffa di mille anni" per mezzo di una modernizzazione capitalistica, anche perché lo stesso capitale non è altro se non muffa residuale di una preistoria di mille anni di feticismo sociale. Ma, d'altra parte, anche le dicotomie del mondo della merce, mantenute istituzionalmente, crollano. La rivoluzione teorica costituisce, simultaneamente, anche una rivoluzione istituzionale, e ogni rivoluzione comincia con la pratica di non prendere più sul serio le sacre istituzioni. Così come oggi non serve avere una coscienza teorica, esplicitamente critica del valore, per riuscire a mettere a confronto il gesticolare, la mimica, i discorsi e le azioni della classe politica del sistema produttore di merci, da una parte, coi cerimoniali dei cacicchi di una tribù cannibale, dall'altra, per riuscire a vedere un'unità scimmiesca da preistoria. E' in questo modo, grossolano, visto che la vita accademica è, allo stesso tempo, anche l'ultimo bastione di una coscienza di Stato. In nessun'altra sfera del sistema produttore di merci riesce  a mantenersi così tanto tenacemente una grottesca e antidiluviana ostentazione dei titoli. Solo i fasti della toga, del berretto dottorale, della talare, ecc., già essi ci rimandano a questo stato di cose. La gente si domanda perché i rettori e i decani non si mettano piuttosto a usare delle ossa alle narici, come indice della loro importanza. Per ironia, oggi, la crisi della "muffa di mille anni" coincide con la crisi delle relazioni stabilite con il valore. I rimbrotti della coscienza accademica che ne derivano non sono privi di grazia. Con l'obsolescenza del solenne orgoglio per il proprio stato, ecco che tutt'a un tratto diventa obsoleta l'arbitrarietà astratta che guadagna denaro. Con le restrizioni imposte dalla crisi fiscale dello Stato, ecco anche l'impresa del pensiero vede strangolata la sua offerta. Come si sa, perfino la filosofia va alla ricerca di finanziamenti, e cerca di provare la propria importanza ai fini del funzionamento capitalista. La cantilena che intonano riesce anche a essere divertente. Si tratta della transizione istituzionale della filosofia, e delle scienze umane in generale, verso quel livello di leggerezza che oggi definisce di gran lunga anche quello che è il suo contenuto. Non c'è alcun motivo per i lamenti pessimisti circa il futuro della cultura, che si vede tagliati i finanziamenti per progetti di ricerca i quali, in qualche modo, sono nella loro maggioranza inutili, o costituiscono una minaccia pubblica. Tanto meno, devono essere oggetto di compassione quegli accademici che si mantengono grazie a dei posti di lavoro parziali o provvisori, e lo fanno per puro attaccamento alla loro rispettabilità professionale, percependo dei redditi equivalenti a quelli dell'assistenza sociale. E' più probabile che possano emergere connessioni innovative tra filosofia e "vita", insieme ad altre connessioni, grottesche, come lo sono i tentativi un po' stravaganti di istituire, per esempio, un "consultorio filosofico", quasi una specie di dentista dello spirito, oppure un'officina di bricolage per appassionati pensatori. In generale, però, non ci si deve aspettare che la scienza - decaduta e intimidita, in quanto ramo istituzionale della modernità borghese - investa contro quelle che sono le sue proprie basi e compia, di per sé, il prossimo passo storico del pensiero, ossia, che passi alla critica radicale della forma merce. Anche la scienza, come tale, è stata modellata dalla forma merce, e in tal senso anch'essa dev'essere superata; non retrocedendo in direzione del mito, ma avanzando su un territorio sconosciuto. Così, il fatto che essa non sia più presa sul serio, indica il primo passo nella giusta direzione. La ragione relativa di Paul Feyerabend, o di Hans Peter Duerr, si basa su tale situazione. Queste osservazioni non vanno intese, equivocando, come le espressioni di un risentimento anti-accademico. Non c'è alcuna vergogna nel fatto che qualcuno concluda il suo corso di laurea, o il suo dottorato di ricerca, e che si guadagni da vivere come accademico.

   Ma, alla fine, cosa si può obiettare contro l'americanizzazione della posizione sociale degli accademici? Nei nuovi legami compulsivi tra "vita" e filosofia, risiede anche la possibilità di una nuova capacità di distanziamento. Così come la scienza presuppone una distanza nei confronti dei suoi oggetti, anche il superamento della scienza della costituzione feticista presuppone una meta-distanza nei confronti della stessa scienza. Se tutti sono artisti, come pensavano Joseph Beuys o Andy Warhol, allora, nessuno lo è. E questo vale anche per la scienza. Nella stessa misura in cui si massifica la capacità di astrazione, la società feticista dell'astrazione reale viene spinta verso la dissoluzione. La "proletarizzazione" degli intellettuali e la "de-proletarizzazione" della società vanno di pari passo, e danno mostra di quale sia il carattere discutibile del mondo concettuale sociologistico. Diminuisce il numero dei "figli di operai" fra gli studenti, ma, e con una rapidità ancora maggiore, diminuisce quello degli "operai" nell'insieme della popolazione. Nel 1986, per la prima volta nella Repubblica Federale Tedesca, era maggiore il numero degli alunni che concludeva il secondo grado, rispetto a quello che concludeva l'insegnamento di base; nel 1991, e ancora per la prima volta, c'erano più studenti universitari che apprendisti artigiani. Con questo, si vuol dire che ogni pacchetto di relazioni amorose con sopra l'etichetta "intellettuali e classe operaia", tipico della lotta di classe, si vede ridotto ad assurdo. Quando la "intellighenzia" stessa viene convertita in "popolo", questa non è più intellighenzia, e nemmeno il popolo è popolo. La crisi del lavoro astratto, che presuppone una "classe" e un "popolo" che le corrisponda, si esprime nell'esistenza sociale, così come la crisi dei contenuti si esprime nella crisi istituzionale. Il focus dell'innovazione teorica non può più nascere all'interno dell'attività intellettuale ufficiale. La nuova meta-distanza nei confronti della scienza stessa, supportata dalla "vita" effettiva di una intellighenzia massificata - e anche soppressa e superata in quanto intellighenzia - potrebbe essere capace di ricaricare la batteria del pensiero socialmente critico. Non è a partire da un'opposizione forzata "contro" l'impresa scientifica, ma piuttosto da una posizione obliqua in rapporto a essa, che può nascere un discorso critico nei confronti della modernità capitalistica, capace di selezionare gli interventi secondo criteri distinti da quelli della macchina scientifica borghese, che è arrivata a un punto morto. "L'inutilità di diventare adulto" (Koch/Heinzen), così come la visione chiara della mancanza di senso dei criteri capitalisti di successo, a volte arrivano più vicino alla proscritta teoria della critica radicale del valore, di quanto attualmente vogliano ammettere gli esecutori dell'impresa intellettuale.

- Robert Kurz - Testo originalmente pubblicato su "Münchner Zeitschrift für Philosophie", n. 22, del 1992 - fonte: EXIT! -

martedì 9 dicembre 2025

Partire dall’Inizio !!

Un Marx anti-marxista
- di Freddy Gomez -

«In ogni caso, quello che so è che non sono marxista.» - Karl Marx -

  Fino a poco tempo fa, la storiografia marxista prestava ben poca attenzione al Marx dell'ultimo periodo, e, più in particolare, ignorava del tutto un episodio che non era molto noto fino a poco tempo fa [*1]: vale a dire, agli scambi epistolari che egli mantenne, dal marzo 1881 in poi, con la militante rivoluzionaria Vera Zasulich (1849-1919) e, più in generale, con dei convinti populisti russi, come Pyotr Lavrov (1823-1900) e Nikolai Danielson (1844-1918), così come il fatto che esisteva, dal punto di vista di una via russa verso il socialismo, una possibile articolazione, la quale, senza passare attraverso la fase capitalistica, che attraverso certe strutture tradizionali della società – la comune rurale (in particolare il mir oobshchina – potesse portar alla  costruzione di una società che così sarebbe preservata da tutti quei mali, presumibilmente transitori, insiti in qualsiasi società basata sull'accumulo di capitale. La vivace curiosità per l'argomentazione populista - che ovviamente contraddiceva le leggi necessariamente intangibili che il marxismo scolastico dominante aveva invariabilmente sempre riecheggiato - manifestata dall'autore de Il Capitale, nel migliore dei casi, poteva essere interpretata come se fosse il capriccio di un vecchio. Ciò, significherebbe ignorare il fatto che, prima di invecchiare, nel 1869, Marx abbia imparato la lingua russa; facendolo a costo di un grande sforzo, e tuttavia lo abbia fatto in pochi mesi, per poter così accedere agli scritti populisti. Nel 1870, German Lopatin (1845-1918) lo introdusse agli scritti di Nikolai Chernyshevsky (1828-1889) – tra i quali "Capitale e Lavoro" e il suo famoso "Che fare?". Senza contare poi che, contemporaneamente, coltivava anche dei forti legami di amicizia con Elisabeth Dmitrieff (1851-1910. o 1918), una delle direttrici del giornale populista Narodnaye Delo ("La Causa del Popolo"). Leggendo il libro di Löwy e Guillibert, si comprende quale sia stato l'interesse costante che Marx avesse riservato alla Russia in quel decennio, e più precisamente alla sua struttura agraria, alla forma della sua proprietà comunale, e al ruolo che la contadinità avrebbe potuto svolgere in un futuro processo rivoluzionario. Per farlo, egli si dedicò - annotandole scrupolosamente - alla lettura meticolosa di una quantità colossale di opere, e mantenne una corrispondenza costante con alcuni dei loro autori, ai quali mostrava assai spesso la sua simpatia e il suo sostegno. Per Marx, il compito fu talmente impegnativo al punto il suo sodale Engels – secondo il genero di Marx, Paul Lafargue [*2] – ne era davvero infastidito: «Vorrei gettare nel fuoco le pubblicazioni russe sulla situazione agricola, che per anni vi hanno impedito di portare a termine "Il Capitale".»  Si percepisce chiaramente come il duo non stia più suonando la stesso spartito. Tuttavia, Marx cercò – e in parte riuscì – a condividere con Engels, il quale mostrava anch'egli delle forti simpatie per i populisti, il proprio interesse per la questione russa, ma non le nuove vie di riflessione a cui essa si apriva – e ancor meno la rivelazione che gli aveva apportato e che egli, in una lettera del 25 marzo 1868 al suo alter ego, riassunse così: «La gente si stupisce di trovare nelle cose più antiche quelle che sono anche le più moderne.» Se in Marx esiste una rottura con il marxismo dottrinario, è proprio questa. Tutto sembra suggerire che - come, ai suoi tempi, già sosteneva Maximilien Rubel - il libro dell'antropologo Lewis Morgan, "Ancient Society, or Researches in the Lines of Human Progress from Savagery, through barbarism, to Civilization" (1877)  (senza dubbio una delle ultime letture di Marx) svolse un ruolo essenziale per quanto riguarda ciò che si può definire - per usare l'espressione di Pierre Dardot e Christian Laval - come «un approccio "antropologico" alla concezione marxiana del comunismo» [*3]. Per L. Morgan, il quale  fu in un certo senso il re-introduttore della figura ciclica della storia, persa nel XIX° secolo, e dell'idea, importante in questa svolta marxista, secondo cui grazie a ciò che sopravvive del passato – in Russia, per esempio, la "comune rurale" – non è affatto necessario ricominciare da zero, ma occorre una rigenerazione che venga basata sul suo potenziale rivoluzionario. Da questa idea, essa stessa rivoluzionaria amche rispetto al corpus di questo Capitale che non è mai stato completato, poiché incompiuto, Marx, il vecchio Marx, alla fine tanto inquietante quanto lo era il giovane Marx delle Tesi su Feuerbach del 1845, giunse alla conclusione, tutto sommato radicale, secondo cui la prospettiva evoluzionista basata sulla maturità delle forze produttive, viste come condizione per la transizione al comunismo, non era più operativa. In altre parole, bisogna ricominciare a pensare da una prospettiva antropologica. Detto da lui, è espresso come: «Dovremmo partire dall'inizio.» [*4] Da dopo l'esperienza comunarda del 1871, e quindi anche alla luce di ciò che l'esperienza populista russa e la lettura - da ogni punto di vista e nel senso letterale del termine travolgente - di Lewis Morgan gli rivelano.
    Il 16 febbraio 1881, Vera Zasulich scrisse a Marx, insistendo sul fatto che, per ogni rivoluzionario russo, il destino della comune rurale era centrale, e denunciava coloro che si facevano chiamare "Marcsistes" (sic) – «i vostri discepoli per eccellenza» [*5], aggiunse – i quali,  ispirati da lui, la condannavano al fallimento, dal momento che «è Marx, a dirlo». E pertanto vuole sapere quale sia la sua posizione. Dopo quattro bozze, Marx rispose. Giustamente e appropriatamente, Löwy e Guillibert osservano come queste quattro bozze [*6], e la lettera di Marx a Zasulich, «costituiscono uno dei corpi di lavoro inediti più influenti per quel che attiene alle tradizioni eterodosse del marxismo». Questo è indiscutibile. Da ciò deriva il sacro oblio nel quale sono state a lungo confinate dal marxismo scolastico, senza dubbio per timore che potessero intaccarne l'immagine di infallibilità. Il marxologo Maximilien Rubel (1905-1996), attribuiva questa dimenticanza a una «cospirazione del silenzio». Lo storico Theodor Shanin (1930-2020) al fatto che alcuni marxisti più marxisti di Marx non esitarono a censurarlo. Due punti che, di fatto, non sono in contraddizione. Il silenzio ci fu, eccome, e fu lungo. La lettera a Vera Zasulich – e ancor di più le sue quattro bozze – «attestano», ci dicono Löwy e Guillibert, «la vicinanza assai stretta che Marx aveva alle posizioni populiste», da un lato, e corroborano, dall'altro, una chiara rottura nel pensiero di Marx, visto che «la critica del presente capitalista viene [d'ora in avanti] condotta in nome di un passato premoderno, il quale, sotto certi aspetti, prefigura il futuro emancipato dell'umanità.» La sua lettera specifica pertanto che «le analisi de Il Capitale si applicano soltanto all'Europa occidentale» (Löwy-Guillibert) e che «non si può escludere l'ipotesi secondo cui il comune rurale possa diventare il punto di partenza della "rigenerazione sociale" della Russia»; un'espressione, questa, che in realtà si riferisce al socialismo (Löwy-Guillibert). Inoltre, egli disconosceva i suoi cosiddetti discepoli russi ("marxisti") che, scrisse Marx, gli erano del tutto sconosciuti, a differenza dei russi con cui manteneva rapporti personali, e che «nutrono, per quanto ne so, opinioni piuttosto opposte» (Marx). Qui, si fa riferimento qui ai due esponenti vicini ai narodniki (populisti russi) Lavrov – desideroso di trovare punti di convergenza tra Marx e Bakunin (1814-1876) – e Danielson. «La Russia,» osserva Marx nella prima bozza della sua lettera a Vera Zasulich, «è l'unico paese europeo dove fino a oggi la "comune agricola" è stata mantenuta su scala nazionale. Non è stata preda di una conquista straniera, come per le Indie Orientali. Né vive isolata dal mondo moderno. In altre parole, si tratta di un'opportunità per la rivoluzione che arriverà.» Ricordiamo che, parallelamente alla scoperta di questa specifica problematica della "comune rurale", e delle sue potenzialità, Marx si trovava immerso nella lettura di Lewis Morgan, e che nell'ampliamento della sua analisi, essa giocò un ruolo decisivo. Ciò è dimostrato da questa frase di evidente essenza morganiana, laddove egli sottolinea come la crisi del capitalismo possa creare le condizioni per un «ritorno della società moderna a una forma superiore del tipo più arcaico: la produzione collettiva e l'appropriazione» [*7]. È comprensibile che l'ortodossia marxista si sia chiesta quale insetto avesse punto il profeta spingendolo a mettere tutti in imbarazzo, e abbia quindi deciso di ignorare questa distorsione analitica. Fu così che Plekhanov, originariamente populista e poi futuro leader menscevico, cadde nell'anti-populismo, e nella pura scolastica marxista evolutiva. Lenin (1870-1924), che aveva perso un fratello nell'avventura populista, e per il quale la popolazione contadina poteva diventare rivoluzionaria solo proletarizzandosi, difese la medesima linea di Plechanov asserendo che «il capitalismo agrario in Russia [era] una considerevole forza progressista» [*8] Per quanto riguarda Trotsky (1879-1940), da giovane molto vicino ai narodniki, che giustamente considerava "romantici", anche lui abbracciò il dogma, seppure con riluttanza. Infine, Rosa Luxemburg (1871-1919), la quale forse malgrado tutto, secondo il suo proprio giudizio, si sarebbe considerata meno dogmatica, convalidò a ogni modo la posizione di Engels, secondo cui la "comune rurale" fosse solo un «anacronismo storico» [*9]. Va notato, di sfuggita, come sottolineano Löwy e Guillibert, che quando Marx, faceva della "comune rurale" il punto di partenza di una possibile "altra via" verso il socialismo, la quale non passerebbe automaticamente attraverso la fase capitalista, i suoi discepoli rispondevano con la riaffermazione del dogma, con il pretesto che le Sacre Scritture del Capitale non possono essere toccate.
   Ecco perché questo caso è piuttosto unico. Pensando contro sé stesso – e, per dirla in altro modo, contro l'ideologia meccanicistica che il marxismo era già diventato – l'ultimo Marx, nel proprio campo, non riesce più a farsi sentire. In breve, la cosa è inquietante. Insomma, dà fastidio. Proprio come dava fastidio il giovane Marx quando demoliva allegramente certe reputazioni consolidate e le vanità dei loro autori. Ma in questo caso la defezione è reale e, alla fine, generale tra i suoi presunti sostenitori. In altre parole, la dottrina ha trionfato. Sarà assunta, in maniera strumentale, dalla socialdemocrazia e, meccanicamente, dal marxismo-leninismo. Con tutte le conseguenze che conosciamo. Si potrebbe pertanto pensare che il vecchio Marx abbia commesso un errore, nell'intraprendere questa svolta teorica degli ultimi anni. Sulla questione se egli avesse ragione o torto, Löwy e Guillibert sottolineano che, se la Rivoluzione Russa, nel contenuto, era certamente più proletaria che contadina, i contadini hanno avuto un ruolo essenziale in essa e che, come testimoniano alcuni anarchici, le tradizioni comunitarie – come ha osservato il sottile osservatore Pierre Pascal (1890-1983 [*10] ) – esercitarono senza dubbio una certa influenza nella formazione dei soviet; un'opinione questa, condivisa dallo storico Moshe Lewin (1921-2010). D'altra parte, come sottolineato dagli autori, Marx aveva sicuramente ragione quando evocava «la possibilità che la rivoluzione iniziasse prima nei paesi periferici, meno industrializzati, con forze produttive capitalistiche ancora limitate e forme sociali “arcaiche”, prima che raggiungesse il centro». Molto opportuno, è inoltre il paragone che Löwy e Guillibert fanno, tra le tesi del tardo Marx e quelle, ancora oggi poco conosciute, difese, dall'altra parte del mondo, dal grande pensatore marxista peruviano José Carlos Mariátegui (1894-1930), fondatore nel 1926 della rivista "Amauta". Per lui, nessuna prospettiva di vera emancipazione sociale era possibile, senza che essa si basasse sulla vitalità delle «tradizioni comunitarie della contadinità andina», e sul suo passato «comunista inca». Come se si riecheggiassero le aspirazioni dei narodniki e, probabilmente senza conoscerle, le intuizioni del tardo Marx.
    In questi tempi maledetti, in cui il capitalismo ci sta conducendo al peggio – crollo generalizzato e guerre – è ovvio dire che queste intuizioni continuano a essere ancora rilevanti. Sono esse che devono nutrire qualsiasi prospettiva rivoluzionaria che si preoccupi di non riprodurre gli errori del passato. E per farlo, nulla ci sembra più utile del citare, in omaggio al suo lavoro di pioniere, questo estratto da Maximilien Rubel: «Da nessuna parte e in nessun momento vediamo, in queste riflessioni, la minima allusione alla necessità di un apparato politico onnipotente che debba sostituire la spontaneità attiva dei contadini russi, per poi guidarli sulla strada della liberazione; oppure, di un partito che dispensi questa liberazione.» [*11] Partendo da questa citazione, possiamo avanzare, secondo l'ultima ipotesi, che forse sia stata questa la causa dell'accoglienza ostile che i marxisti partitici e dogmatici – a differenza di alcuni eterodossi – riservarono agli ultimi testi di Marx, per usare un eufemismo.

- Freddy GOMEZ -

MICHAEL LÖWY et PAUL GUILLIBERT, "MARX NARODNIK. Les populistes russes, le communisme et l'avenir de la révolution". L'échappée, « Versus », 128 p -

NOTE:

[1] Con poche eccezioni degne di nota, fra cui, tra le altre, quella di Maximilien Rubel – marxista e non marxista – che fu il primo a dedicargli pagine particolarmente ispirate (Rivière, 1957) [pp. 340-351 della ristampa di Klincksieck, 2016] nel suo Karl Marx, essai de biographie intellectuelle, un'opera prefazione di Louis Janover, a quella di Pierre Dardot e Christian Laval, autori di "Marx, nome di battesimo: Karl" – Gallimard, Essais, 2012 – dove questa questione viene affrontata [pp. 657-672] in un continuum storico che va dall'esperienza della Comune di Parigi a quella dei populisti russi, il cui effetto sarebbe stato, nel caso di Marx, di operare una sorta di "deviazione dalla strada" basata sul desiderio di emanciparsi dalle vecchie certezze. Espresse lui stesso questo desiderio al suo amico populista Nikolai Danielson, traduttore russo del Libro I del Capitale: "Dovremmo ricominciare da capo."

[2] Paul Lafargue, "Friedrich Engels. Memorie personali", in Memories of Marx and Engels, Foreign Language Editions, Mosca, 1953, p. 93.

[3] Pierre Dardot e Christian Laval, Marx, nome: Karl, op. cit., p. 665.

[4] Lettere di Marx a Danielson del 13 giugno 1871 e del 13 dicembre 1881. Il passaggio è citato da Michael R. Krätke in "The Last Marx and Capital", Actuel Marx, 2005/1, n° 37, PUF, 2005.

[5] Va però notato che due anni dopo – nel 1883 – Vera Zasulich aderì al primo gruppo marxista russo – "Liberazione del Lavoro" – fondato da Plekhanov (1856-1918), che fece parte della redazione di Iskra e che radunò i menscevichi in un'opposizione radicale e virulenta alle tesi di Lenin.

[6] Furono trovati nel 1911 nei documenti del genero Paul Lafargue. Per quanto riguarda la lettera inviata a Vera Zasulich, fu scoperta nei documenti del marxista russo Pavel Axelrod (1850-1928) e pubblicata nel 1923 dall'archivista e storico Boris Nikolaevsky (1887-1966).

[7] Vedi Kolja Lindner e le edizioni dell'asimmetria, The Last Marx, 2019, p. 272.

[8] Lenin, Opere III, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Editions du progrès, Mosca/Éditions sociales, Parigi, 1969, p. 14.

[9] Rosa Luxemburg, L'accumulo del capitale, Opere complete, Volume V, Agone, Marsiglia/Smolny, Tolosa, 2019, p. 278.

[10] "Il mir si è ripreso con la rivoluzione, non solo non è morto, ma è tornato in vita, è risorto dove apparentemente era scomparso, e da allora ha funzionato in modo diverso. […] Fu sufficiente per far scomparire la pressione governativa e far rilanciare il comune. C'erano terre da dividere, decisioni da prendere, un ordine sociale da ristabilire: l'assemblea comunale era pronta a svolgere questo ruolo. (Pierre Pascal, Civilisation paysanne en Russie, Losanna, L'Âge d'homme, 1969, p. 31.

[11] Maximilien Rubel, Karl Marx, essai de biographie intellectuelle, op. cit., p. 349.

lunedì 8 dicembre 2025

Otto Uomini…

Otto uomini, camminano per le strade di Barcellona. Stanno camminando, non sono in marcia; ché non c'è niente di marziale in loro, nell'atteggiamento di questi otto uomini che hanno appena fatto a pezzi un intero esercito. C'è aria nuova, per le strade di Barcellona, il venti di luglio del 1936.

   Il primo da sinistra, si chiama José Perez Ibanez, ma tutti quelli che lo conoscono lo chiamano "El Valencia". Veste la tuta blu degli operai, e sulla spalla ha una mitragliatrice Hotchins. Quello piccolo, quello più piccolo di tutti alla sua sinistra, è Severino Campos. Lui è disarmato, ed è l'unico ad esserlo. Nella foto, lo vediamo quasi schiacciato tra "El Valencia" e Ricardo Sanz, il quale, alla sua destra, a causa dello straccale che gli sega il torace, sembra essere quasi grasso. Mezzo passo indietro arriva Garcia Oliver, che sta fumando e potrebbe sembrare quasi che guardi preoccupato Sanz. Aurelio Fernandez, dopo di lui, invece, sembra che stia passeggiando distrattamente. Accanto a lui, quasi mano nella mano, Jover, detto "il cinese"; l'unico nel gruppo ad aver passato i quarant'anni. In abito da pescatore, e che guarda da un'altra parte, Miguel Garcia Vivancos. Ultimo a destra, a chiudere il gruppo, Augustin Souchy, dalla sua mano destra vediamo penzolare una borsa, forse di cuoio.       

   Di ciascuno di questi uomini, di ognuno e di loro tutti, si può dire che sono abituati alla violenza. E prima che arrivassero questi tre giorni, avevano già ucciso. Hanno ucciso "pistoleros", e uomini della Falange, hanno fatto fuori industriali, e anche dei religiosi. Hanno ucciso, ma non sono violenti. Hanno ucciso, e hanno rapinato banche, lo hanno fatto anche per poter pagare gli avvocati dei tanti finiti in galera, ma per sé non hanno mai tenuto neanche un centesimo. E tutti e otto questi uomini - nei mesi a venire - saliranno ad arrivare al comando di divisioni, o di brigate, e tutto questo lo faranno senza mai diventare dei soldati di mestiere. Del resto il loro lavoro è sempre stato quello di meccanico, di ebanista, manovale, operaio tessile, panettiere. E pertanto quasi tutti loro moriranno, ormai vecchi e dopo aver lavorato per tutta una vita.

      Ma in queste poche ore, di quella che è stata una giornata il cui culmine viene ora testimoniato da questa foto, è accaduto che - senza rendersene conto - essi siano diventati così gli uomini più potenti di tutta la Catalogna. Poi, di lì a pochi mesi, commetteranno anche loro degli errori, che finiranno poi per rivelarsi terribili, di modo che quella rivoluzione - l'ultima del movimento operaio - affogherà nel sangue, e tutto ciò avverrà anche a causa dei loro errori. Così, nei decenni successivi che verranno dopo quel giorno, e da quel giorno in poi, anche fra di loro ci sarà inimicizia, malevolenza e rancori che dureranno per tutto il resto della loro vita.

      Ma questo momento - che eppure nella foto appare fermo, immobile, come per magia - costituisce il loro trionfo. È questo il loro giorno. Poiché hanno vinto, oppure forse solo perché sono ancora tutti vivi. Tre giorni prima, rispetto a questa foto, prima di scendere in strada, uno di loro, Garcia Oliver, era stato chiamato dal padrone del «Ritz», il quale gli aveva comunicato di avere scelto lui - tra i tanti dipendenti - per diventare il maitre di quell'albergo. E lui aveva accettato, fingendo riconoscenza. Poi aveva salutato, ed era uscito fuori, per strada, dove lo aspettano tre compagni. Uno gli porge un'Astra 9mm.. Lui, controlla che l'arma non abbia il colpo in canna, dopo di che tutti e quattro si avviano. Il Ritz, 4 giorni dopo, verrà trasformato in una mensa popolare per gli operai, i mendicanti, le puttane ...

domenica 7 dicembre 2025

Con il cuore in mano, e la mitragliatrice ormai scarica…

   Ne "Il Mucchio Selvaggio", Pike Bishop cade da cavallo una seconda volta, subito dopo che la stessa sorte era toccata a tutti gli altri uomini del "mucchio" durante l'attraversamento del deserto. Come una sorta di crollo collettivo, enfatizzato dall'utilizzo del "ralenti". Come se si fosse in un mondo ormai superato, incapace di tenersi in piedi da sé solo. E anche Dutch, rischierà di finire sotto le ruote del treno, salvato dall'intervento decisivo di Angel.

   Il nuovo ordine travolge tutto e inutilmente essi cercheranno di rimanere aggrappati alla ... mitragliatrice, il simbolo micidiale di un mondo nuovo, nella scena finale.

   I personaggi di Peckinpah cadono, o cade loro la pistola, come a Yellowleg, ne "La morte cavalca a Rio Bravo". O lo sceriffo Judd, in "Sfida nell'alta sierra", che rischia di essere travolto da un auto. Il maggiore Dundee verrà ridotto all'inattività da una freccia nella gamba. Cable Hogue muore, schiacciato da un auto che egli si illudeva di riuscire a fermare con le mani, parandovisi di fronte, come si fa con i cavalli. Billy the Kid, viene disarcionato dal cavallo, proprio in mezzo alla folla di cittadini inerti, mentre si appresta a uscire da Lincoln, dopo essere evaso. E così come, del resto, McCoy, in "Getaway", che viene sbalzato dall'auto sgommante guidata dalla moglie.

   Cadono, e non lo fanno di buon grado. Perché non accettano di ... decadere!

Quelli che una volta scrivevano le pompose lettere al direttore…

Il  piccolo stronzo di sinistra
- Un contributo alla tipologia del fan senza leader -
di Robert Kurz

«Il pensiero diffamato dai fautori della prassi li affatica evidentemente in modo eccessivo: impone troppo lavoro, è troppo "pratico". Chi pensa, oppone resistenza; è più comodo nuotare nel senso della corrente che contro di essa, dichiarò anche lo studente. Cedendo ad una forma regressiva e deformata del principio del piacere, le cose diventano più facili, ci si lascia andare, e si può per giunta sperare di ricevere un premio morale dai consenzienti. Il Super-io-di-compensazione-collettivo esige un rivolgimento brutale, cosa che invece l’antico Super-io disapprovò: la cessione di se stesso conferisce a colui che acconsente la qualifica di uomo migliore.»

(Theodor W. Adorno, "Note marginali su teoria e prassi", in "Parole chiavi. Modelli critici", Sugar.Co,1969)

   «Che cosa significa, oggi, essere ancora di sinistra?»  Questo, era il titolo di una raccolta, pubblicata da degli inesauribili chiacchieroni, notoriamente famosi negli anni Ottanta. Già all'epoca, le risposte erano assolutamente banali. Essere di sinistra, significa essere noiosi - oggi più che mai. Uno sguardo al panorama intellettuale della sinistra, è come fermarsi a guardare un giardino dopo che la neve si è sciolta: ovunque rifiuti desolanti, cadaveri delle piante dell'anno trascorso e mucchi di foglie marce. Il problema è che la sinistra - soprattutto la sinistra postmoderna - somiglia a questo per tutto l'anno. Oramai non vi fiorisce più nulla. Come prodotto della storia della decomposizione del marxismo del movimento operaio, si è come sprigionata una sinistra residuale che, per mezzo del suo respiro spirituale,di solito finisce per ricoprire, di un velo grigio universale, i colori più vivaci del pensiero e dell'azione. Questa deplorevole situazione non si spiega solamente a partire dal mantenimento dei principi fondamentali della tradizionale ontologia del lavoro. Si tratta piuttosto di una sindrome derivante dal bisogno eterno di autoaffermazione, flessibilità, efficienza immediata e “valore pratico” immediato in contesti che non sono più adatti al capitalismo di crisi del XXI secolo. I portatori di questa sindrome, possono di certo cogliere delle nuove idee, persino una critica che vuole ridurre lavoro, la quale sta già cominciando a infestare le colonne dei giornali borghesi. Ma lo fa solamente per renderle immediatamente obsolete, vale a dire, per integrarle nel proprio orizzonte di comprensione, eccessivamente limitato. Il politico da bar di sinistra diventa l'anti-politico da bar di sinistra. Ciò che fa incazzare l'antipolitico da bar, così come tutti i suoi predecessori, è innanzitutto il carattere della teoria che viene presunto come incomprensibile o sconnesso. Egli vorrebbe che la novità gli venisse presentata in una forma predigerita, in modo da poterla così rifiutare immediatamente, e senza sforzo. Egli definisce tutto questo come la relazione fra teoria e prassi.

   Questo modo di pensare, ereditato dalla storia della sinistra, si addice a un personaggio che a ragione, potrebbe forse essere descritto come un piccolo stronzo di sinistra. Costui, nutre la speranza di poter compiere, in un modo o nell'altro, una svolta importante, e questo dal momento che sa di essere compatibile con tutti gli altri normali stronzi di questo mondo. In ogni generazione, ci sono stati e ci sono dei piccoli stronzi di sinistra: per lo più si tratta soprattutto anticonformisti autoproclamatisi tali per mezzo dei graffiti nei bagni, abili tuttofare sociali, utopisti della vita quotidiana e filosofi da bar. Quelli che sono I piccoli stronzi di sinistra più avanti negli anni, sono a conoscenza, grazie al passaparola, di una discreta quantità di letteratura. Nel corso dei decenni, hanno ingurgitato così tante chiacchiere da bar che, anziché tornei di briscola o di tressette, a volte organizzano gare di "name dropping" [*NOTA: si tratta pratica di “lasciar cadere” (to drop) nella conversazione dei nomi di persone famose, in modo da suggerire così che si sia in un rapporto di familiarità con queste persone].Adottando così un atteggiamento paternalistico  nei confronti del resto del mondo. I piccoli stronzi di sinistra più giovani, sono cresciuti con Internet. In genere, non leggono libri, ma al massimo delle recensioni. Per loro, questo è sufficiente per poter partecipare alle conversazioni. E non scrivono nulla, ma copiano e incollano frammenti di testo. In modo che così, ciò che è  letto e digerito a metà, viene preferibilmente scaricato nell'arbitrarietà di un vomito di opinioni non mediatizzate su mailing list anonime. I virtuali oratori che si accalcano in questa sorta di Hyde Park, svolgono il ruolo che un tempo era dei professionisti, altrettanto pomposi delle, lettere al direttore. Tutti i piccoli stronzi di sinistra, hanno un tratto comune: in un certo senso, essi disprezzano qualsiasi lavoro teorico originale e coerente. Certo, vogliono trarne profitto, come se fosse una merce, ma non pagheranno in nessun caso lo pagheranno, nemmeno con lo sforzo di uno sviluppo concettuale. Il loro passatempo preferito, consiste nel disprezzare meschinamente i teorici in quanto produttori individuali, etichettandoli come "imprenditori della teoria", pur volendo erigere, a standard generale della riflessione critica,  il proprio inconcludente ragionamento.  Le campagne contro il copyright e contro le licenze, inizialmente lanciate per combattere lo sfruttamento di scienziati e inventori da parte delle multinazionali - così come l'espropriazione, nei paesi periferici, delle loro risorse di conoscenza - vengono dirottate dagli idioti di sinistra, e strumentalizzate per celebrare, nell'ambito della critica sociale, l'espropriazione intellettuale e giornalistica dei produttori di teoria, messa in atto da dei compiacenti aspiranti teorici, come se fosse una "predisposizione al comunismo". I testi devono così essere arbitrariamente collocati in dei contesti che contraddicono completamente quelle che erano le intenzioni dei loro autori. Le idee e gli approcci teorici formulati, vengono trattati come oggetti liberamente cacciabili dai bracconieri, dove la  volontà dei produttori può essere allegramente calpestata. Tutto ciò, che non è altro che un modo particolarmente volgare, tipico dei soggetti borghesi della concorrenza, per soddisfare il proprio bisogno di autoaffermazione e autorappresentazione a spese degli altri, viene falsamente presentato come fosse la "forma germinale" di un modo di produzione al di là del capitalismo. Con l'ipocrita pretesto che tutte le conquiste culturali sarebbero in ultima analisi collettive, e che tutti i teorici si baserebbero sempre, in un modo o nell'altro, sulle idee altrui, questi piccoli stronzi di sinistra promuovono il saccheggio senza scrupoli dei processi di sviluppo teorico, senza mai citare un solo riferimento. Il furto di idee concorrenti, che costituisce una regressione persino più bassa di quella al livello della meschinità intellettuale accademica, e persino addirittura il plagio spudorato, vengono considerati come se fossero atti normali di emancipazione, persino egualitari. Tutte le regole di citazione, di citazione delle fonti e, più in generale, di riconoscimento della paternità, vengono rapidamente e integrate, a forza, nel principio capitalista di proprietà e di valorizzazione. Non appena il piccolo stronzo di sinistra ha la possibilità di discutere un testo, si convince di esserne l'autore, quando addirittura non arriva a immaginare di averlo già superato da tempo. L'egualitarismo del piccolo idiota di sinistra, non è altro che quello di un seguace, incapace di autonomia e di affidabilità, che tuttavia si aggrappa a delle illusioni riguardanti la superiorità del suo pensiero eclettico, che egli equipara a uno sviluppo personale indipendente. L'economia del saccheggio intellettuale si maschera da "giudizio critico", estraendo dagli scritti teorici solo quegli elementi ritenuti conformi alla sua educazione incompleta, e al suo modo tronco di pensare, e lasciando i cadaveri virtuali dei produttori di teoria sul ciglio della strada di un'arida fabbrica delle opinioni.Questo tipo di “appropriazione” consumistica, che per l’appunto non passa attraverso la mediazione concettuale, induce all’abbandono del discorso. Il piccolo stronzo di sinistra, è antiautoritario solo nella misura in cui egli squalifica la pretesa di onestà intellettuale e di affidabilità come se invece si trattasse di presunzione dittatoriale, di dogmatismo, di paternalismo elitario, ecc., al fine di sussumere in tal modo il pensiero critico, riportandolo  sotto la sua propria stessa mancanza di onestà e di affidabilità. Il piccolo stronzetto di sinistra sfanfaroneggia contro i leader e le star, ma è solo un fan come tanti altri. Il paradosso del fan senza leader sta nel fatto che la creazione di testi, in quanto oggetti di attenzione, non deve superare la qualità di una lettera di un fan, in modo che il fan e il leader diventino una cosa sola, un po' come in una messa in scena in stile Grande Fratello. In questo modo, il rapporto intrinseco tra industria culturale e spettacolo non viene mai superato: ma esso si riduce semplicemente a una completa e basilare ignoranza della democrazia.

   Se c'è una cosa che può alimentare ulteriormente la rabbia latente del coglione di sinistra, è l'emergere di teoriche donne, donne con le loro pretese intellettuali. Perché il coglione di sinistra non è, per lo più, solo maschio: egli è l'incarnazione stessa dell'identità maschile in crisi. Anche sull'orlo del collasso sociale, la supremazia sessuale deve essere affermata, preferibilmente sputando indiscriminatamente sui prodotti del pensiero femminile. Incomprensioni grossolane e mancanza di conoscenza vengono elevati a criteri di giudizio, in modo da potersi sentire superiori alle donne che hanno svolto il lavoro di mediazione teorica; inoltre questo viene poi liquidato come "ossessione per la performance", di modo che così la pigrizia intellettuale possa venire nobilitata come "resistenza". Dopo due secoli di universalismo androcentrico - come quello che ha dominato la storia della teoria illuminista - il piccolo stronzo di sinistra crede ancora di potersi presentare come se fosse un re-filosofo in miniatura, barricato dietro spazi di discussione riservati agli uomini, dove le donne sono già state relegate in secondo piano, e possono parlare soltanto quando interrogate; e interrogate in quanto "studenti dell'uomo". Ciò, naturalmente, non impedisce al piccolo stronzo di sinistra di saccheggiare anche le donne teoriche, in modo che così le idee ritenute degne di "appropriazione" possano essere - una volta cancellata ogni traccia di creazione femminile - introdotte furtivamente nel suo universo di pensiero. Che il piccolo stronzo di sinistra, scoprisse la critica del valore e del lavoro, e cercasse di demolirla in quello che sarebbe un modo il più (anti)politico possibile, era inevitabile. Per poter fare questo, diventava necessario stravolgere l'intero approccio teorico. In particolare, la tematizzazione critica della dissociazione borghese dei sessi, avrebbe dovuto essere disarmata, in modo che essa non offendesse più il piccolo stronzo di sinistra. Ora esistono persino fornitori specializzati in una stampa scandalistica «critica del valore» destinata ai pettegoli di lingua tedesca, come ad esempio la rivista viennese Streifzüge e altre officine affini del pensiero riduzionista. Il fatto che si tratti chiaramente di club maschili non disturba il piccolo stronzo di sinistra; al contrario, può fiutare con gioiosa gratitudine l'anima gemella tanto desiderata. Qui [N.d.t: in Germania], a creare un'affinità, è solo la comune vicinanza alla terra. Tra i teorici dilettanti di una critica del valore semplificata, i rari movimenti di pensiero indipendenti non superano l'altitudine di volo di un pollo. Secondo Franz Schandl, l'idea può attraversare le Alpi solo a piedi. Questo splendido esempio di stampa scandalistica "critica del valore", è finito inevitabilmente ad analizzare i pettegolezzi succulenti su "Carlo e Camilla".Quando l'eterna “resistenza”, che nessuno nota, eccetto i chiacchieroni della critica del valore, e si insedia “in sé” ovunque, allora essa deve per forza risiedere anche all'interno di casa Windsor. Così, il piccolo stronzo di sinistra può arrivare persino ad ammirare questo tipo di situazione imbarazzante, visto che il suo livello di pensiero è pari a zero. In questo modo, si è abbastanza lontani dalla realtà per consentire una certa ricettività, pur rimanendo abbastanza vicini da proclamare a gran voce, nel parco zoologico postmoderno, la democrazia di base del pensiero selvaggio dell'immediatezza.

   Ora, vediamo che c'è una propensione a commercializzare un approccio critico al valore e al lavoro, utilizzando il bagaglio teorico appropriato, e fraudolentemente bollato come frutto del proprio pensiero, nonché per una vendita a basso costo, riguardo alla quale le anime intellettuali dei sub-appaltatori si stanno già schierando. La tendenza è qualcosa tipo la "critica del valore in tre giorni", oppure la "critica del valore per dummies", accompagnata - su richiesta - da una teoria "usurpata" della dissociazione (dopo aver simbolicamente bruciato la sua creatrice originale) e così rielaborata a partire dall'universalismo androcentrico; da collocare sotto la voce "Donne", oppure, per semplicità, completamente spogliata di qualsiasi aspetto problematico relativo alla dissociazione. E, naturalmente, seguita poi da una "Introduzione alla critica del valore per piccoli stronzi di sinistra" riccamente illustrata e contenente numerose ricette e istruzioni. Poiché la teoria grigia, nella sua versione da Reader's Digest, non deve rimanere tale, ma deve essere coronata da una prassi ancora più grigia, fatta da e per i piccoli stronzi di sinistra. Per garantire una transizione, non c'è niente di meglio che le toccanti testimonianze tratte dalla vita quotidiana dei piccoli stronzi di sinistra, che offrono il giusto stimolo e la necessaria preparazione emotiva, come ad esempio: «Come ho scoperto per caso la critica del valore su un tavolo in un mercatino dei libri e come questo ha cambiato la mia vita», «Come la critica del valore mi ha dato idee interessanti per organizzare le mie vacanze a Maiorca» o ancora «Come la critica del lavoro mi ha confortato quando ho fallito l'esame di idraulico sociale». E poi si passa alle cose serie con esercizi semplici, progetti di benessere e prospettive utopiche per i piccoli stronzi di sinistra: «Pisciare insieme nei boschi senza spendere soldi: una resistenza tedesco-austriaca contro l'industria transnazionale dei bagni autostradali», «Copyleft in fattoria: quando le mucche imparano a volare grazie all'appropriazione virtuale», «Vivere meglio sotto i ponti romantici: non  lasciamo che la nostra quotidianità ribelle ci rovini la vita!», «La mia utopia personale: un concorso di disegno per quarantenni in sofferenza concettuale» o «Fare un passo verso il superamento pratico dello spirito di competizione nelle comunità di giovani adepti della masturbazione» (con il  pedagogo sentimentale viennese e socio-patologo Dr. Lorenz Glatz come ospite speciale). Senza dimenticare, naturalmente, la grande immersione di una settimana dedicata alla critica del valore, con esercizi di sensibilità per principianti, giochi di obiettività per i più avanzati e serate conviviali di gruppo nel parco naturale della foresta bavarese (numero limitato di partecipanti).In poche parole, questa offerta a buon mercato della «critica del valore» è davvero fatta su misura per i piccoli stronzi di sinistra. È del tutto possibile trarne, in senso opposto, una certa determinazione definitoria: chi, nel conflitto sullo sviluppo della critica della dissociazione-valore, si serve nel negozio teorico del «Tutto a 1 €» è senza dubbio un piccolo stronzo di sinistra. Durante l'assemblea generale che ha segnato la scissione di Krisis, si poteva già osservare un gruppo di piccoli stronzi di sinistra che provavano un malizioso piacere nel partecipare al bastonamento dei teorici, e soprattutto delle teoriche, dando libero sfogo al loro risentimento e giocando a «Wir sind das Volk». È vero che il piccolo stronzo di sinistra non ha alcuna importanza per lo sviluppo della storia della teoria e per la costituzione della resistenza sociale. Ma tuttavia ogni piccolo stronzo di sinistra ha diritto al suo quarto d'ora di celebrità nel suo piccolo socio-sistema di stronzi, con la sua poesia critica del lavoro e il suo affetto misogino. E tutto questo non è poi così male.

- Robert Kurz - pubblicato su "Der Alptraum der Freiheit: Perspektiven radikaler Gesellschaftskritik", nel 2005 -

giovedì 4 dicembre 2025

La Parola d’Ordine è Rischiare Tutto !!

Rivoluzione Teorica Incompiuta
- Introduzione al libro "Denaro senza Valore" - Luglio 2012 -
di Robert Kurz

  Le teorie grandi e influenti, sfociano sempre in scuole di interpretazione, e percorrono una storia che va ben al di là delle loro origini, che viene portata avanti mediando con la storia della società. La teoria di Marx, in termini storici, è ormai sedimentata: più di 125 anni dopo la morte del suo creatore, ha provato, da molto tempo, di essere una delle più poderose teorie di tutta la storia del pensiero; e questo sebbene non sia disponibile come se essa fosse una sorta di "insieme artistico" (come Marx avrebbe voluto pretendere dalla sua esposizione), ma più, quasi, come un immenso tronco, costituito da masse di testo, a volte tra loro eterogenee. A causa e a partire dalla sua forma, questa teoria non può essere integrata in quelle che sono le schematizzazioni del mondo accademico; dal momento che essa affronta, in termini espitemici, anche la comprensione del cosiddetto metodo scientifico. E questo perché Marx ha operato una cesura paradigmatica, la quale dev'essere definita come se fosse una "rivoluzione teorica"; e questo a ragione. Ma è proprio tale carattere, intrinseco alle riflessioni di Marx, ad aver dato luogo - e continua a dar luogo - a dubbi e a conflitti; e tutto ciò a causa del fatto che mai, per una sola volta, sia stato condotto alcun "assalto" paradigmatico. Pertanto, la rivoluzione teorica di Marx rimane, necessariamente, una rivoluzione incompiuta e, in questa misura, non è solo incompleta, ma è anche passibile, e carente, di interpretazione. Come ogni teoria poderosa, anche quella di Marx viene filtrata per mezzo di quella che è stata la sua storia interpretativa, e ciò avviene soprattutto in due modi:  da una parte, la critica radicale dell'economia politica ha provocato una reazione affermativa da parte della scienza borghese che, proprio a causa del suo carattere reattivo, si è vista essa stessa costretta a un'interpretazione dell'oggetto in esame e, senza volere, ha assorbito elementi di quello stesso oggetto, seppure volesse negare qualsiasi "scientificità" a Marx; senza però essere tuttavia capace di riflettere sul contenuto di una teoria veramente critica della scienza. Dall'altro lato, la teoria di Marx è stata recepita in maniera positiva ma, com'era inevitabile, ciò è avvenuto a partire da una griglia interpretativa continua, e condizionata sia dalla contemporaneità che dalla società, che si è cosi manifestata, pertanto, come una storia del marxismo; la quale, simultaneamente, è stata determinata dalla controversia con le reazioni borghesi coeve (politiche e teoriche), costituendo così alla fine, e insieme a esse, un vasto campo del discorso storico. Il marxismo, si è differenziato in scuole, e relative battaglie interpretative che si sono caratterizzate per l'intendimento secondo cui la rivoluzione teorica di Marx si fosse conclusa, innalzando la sua opera principale a una sorta di bibbia. Tolte alcune eccezione (come quella di Rosa Luxemburg, sebbene in maniera limitata), nella storia della sua ricezione non c'è stato alcun confronto aperto coi concetti fondamentali della teoria di Marx; la critica marxista a Marx, si è riferita, tutt'al più, a dei fatti empirici, la cui mediazione con le determinazioni della riflessione teorica rimaneva del tutto nell'ombra. Così, le basi categoriali della critica dell'economia politica sono state solo oggetto di interpretazioni diverse, ma non di un ulteriore sviluppo. Apparentemente, Marx apriva una prospettiva che andava ben oltre l'orizzonte di comprensione di quella determinata epoca. Come disse Rosa Luxemburg, «ci aveva superato in anticipo». Pertanto, il carattere incompleto della teoria di Marx si manifestava solo indirettamente, e la cosa avveniva nell'ambito del confronto e nelle differenze interpretative, facendola così assomigliare a una disputa teologica. Sebbene le scuole filosofiche e scientifiche borghesi, si fossero raramente comportate in maniera diversa, la contro-reazione affermativa si aggrappò - con gratitudine - alla teologia interpretativa del marxismo, in modo da poter così respingere del tutto il testo della rivoluzione teorica, denunciandola come "ideologica", o come "metafisica". In tal modo si riuscì a enfatizzare il carattere ideologico e metafisico del positivismo (borghese), e la cosa riscosse il medesimo successo che aveva avuto il carattere della metafisica reale della società feticista capitalista. La storia interpretativa marxista, mancava di spiegazione, ma tale spiegazione - e soprattutto la necessità della stessa - sarebbe stata possibile solamente se la corrispondente storia, nella sua limitazione,  fosse stata intesa in quanto tale. In realtà, tutto il campo del discorso storico cui apparteneva il marxismo, aveva cominciato ad appannarsi, e in maniera peculiare a partire dalla fine del XX° secolo, e tutto questo malgrado il fatto che i processi di crisi della società globale si stessero acutizzando in quelli che erano i suoi nuovi modelli; o forse proprio per questo. Le attuali esigenze capitalistiche richiedevano, a gran voce e più che mai, una critica radicale, ma sembrava che, apparentemente, con il cambiamento delle condizioni storiche, una simile critica, se vista nel quadro della griglia interpretativa del marxismo, non fosse più formulabile, proprio perché da tale griglia veniva paralizzata.

   Ma tuttavia, la paralisi di un paradigma non ha mai impedito ai suoi difensori di trincerarsi identitariamente, o di combattere in ritirata, fino alla propria auto-dissoluzione. A volte, il processo di decomposizione viene mascherato da una "evoluzione" che, tuttavia, non rappresenta altro che delle varianti di un agganciamento, ostentato o inconfesso, alle teorie borghesi che si sono sviluppate storicamente in parallelo col marxismo. In questo si vede come ci si seppellisca, insieme ai vecchi avversari, in un campo discorsivo che ha smesso di essere veritiero. Le costellazioni e le congiunture di questa telenovela, che parla di una comprensione della teoria di Marx diventata obsoleta, possono essere viste mentre esse vanno in una successione sempre più veloce; non possiamo ignorare che la storicizzazione del marxismo, ivi inclusi i suoi epigoni, sia all'ordine del giorno della teoria critica, senza la cui riformulazione però il cosiddetto "postulato della prassi" della sinistra, può solo essere ridicolizzato. Storicizzazione, significa che una storia è arrivata alla fine, ed essendo finita, essa deve essere oggetto di riflessione visto da una prospettiva nuova e differente. Le scuole della storia interpretativa marxista, si sono esaurite, e la cosa rimanda all'esaurimento del loro campo di riferimento storico. Dalla "ortodossia" di Kautsky, al "revisionismo" di Bernstein, dalla teoria leninista della rivoluzione, alla "filosofia della prassi" di Bloch o di Gramsci, e dal "marxismo occidentale" fino a tutte le ramificazioni della cosiddetta "nuova sinistra", esse appartengono tutte ad un'epoca defunta che, se la critica sociale radicale vuole superare la propria impotenza, va definita teoricamente. Il fatto che sia arrivata l'ora di una profonda cesura si manifesta anche (spesso in modo involontario) nella letteratura accademica, sia quella favorevole a Marx che quella critica di Marx. In entrambi i casi, si afferma sempre più quello che è un punto di vista sinottico, nel quale le scuole del passato vengono elencate per poi essere messe in relazione le une contro le altre. Il loro carattere - per la maggior parte dei casi che si limitano alla filologia di tale letteratura di analisi critica, sotto forma di una sorta di "entomologia" del marxismo, con etichette e perfino con tabelle della storia della teoria - non riesce nemmeno a negare che quella che si sta marcando, è una cesura storica ancora indefinita. Ciò di cui essa consiste, e quello che è il suo obiettivo, costituisce, come si dice, un assunto "polemico". Tuttavia, non siamo più davanti ad una guerra di trincea tra posizioni formulate fino all'esaurimento, che poi si differenziano in una determinata costellazione interpretativa, e il cui campo di riferimento principale (all'incirca dalla metà del XIX° secolo e fino alla fine della II guerra mondiale) costituiva un punto cieco comune, o un presupposto incontestabile. Invece, oggi la teoria di Marx viene, da una parte, collocata, dal mondo accademico, sul piano della storia delle idee e fatta accomodare in un museo classico; mentre, dall'altra parte, viene ecletticamente amalgamata con le attuali tendenze ideologiche e/o subordinata, in maniera leggittimatrice, alle necessità politiche dei movimenti pre-teorici, senza tornare a radicalizzarla - a livello del XXI° secolo - in quanto contrarietà sovversiva per l'ordine vigente. Così facendo, si rende inevitabile un sondaggio e una definizione concettuale di quello che è un terreno ancora sconosciuto, in quanto solo a partire da questo si può gettare luce su una costellazione che è ormai di per sé passata. E quando ciò non avviene, allora non si può più formare, a causa delle alterate condizioni storiche, un campo discorsivo nuovo e stabile, relativo alla rivoluzione teorica di Marx e al suo sviluppo ulteriore. Nella maggior parte dei casi, quello che si fa passare per questo, fa parte proprio del processo di dissoluzione del marxismo. In questo inter-mondo, la riflessione critica comporta necessariamente un rischio elevato, e deve incontrare il suo destino solo nella determinazione della cesura storica. Bisogna chiarire non solo la relazione di tensione della storia del marxismo con la teoria di Marx, così come, e soprattutto, il modo in cui il marxismo storico si sia alimentato dell'incompletezza di questa teoria, a causa proprio del suo postulato di completezza, tentando di risolvere le contraddizioni dei contenuti in maniera interpretativa ed unilaterale. Il fatto che, in termini oggettivi, si sia aperto un nuovo terreno storico è qualcosa di ben presente - tanto nel discorso ufficiale quanto nel discorso di sinistra della critica sociale - nell'espressione corrente di "fine di un'epoca", dove per questo si intende, nella maggior parte dei casi, superficialmente, il collasso del "socialismo reale" e la fine della Guerra Fredda. Tuttavia, questa rottura eclatante è stata solamente il fenomeno superficiale di un processo ben più profondo e che, da molto, si era già manifestato nella decadenza del vecchio movimento operaio, e nell'affievolirsi della "lotta di classe" storica. Lo sfondo di tutte queste manifestazioni, è costituito dallo sviluppo capitalistico delle forze produttive, che avviene nella transizione della terza rivoluzione industriale della microelettronica, la quale non solo rappresenta una mutazione tecnologica nel disegno dei nuovi processi di razionalizzazione (forme di informazione e di comunicazione, Internet), così come rappresenta un capovolgimento delle condizioni sociali e culturali; ma tutto questo ha finito anche per costituire il capitale globale, e ha portato a un processo di crisi planetaria di nuovo tipo. Quel che ora importa sapere, è se questa rottura sia avvenuta nell'ambito di una storia continua - significando in tal modo solo una modificazione delle strutture basilari della società moderna, la quale continua ancora a essere capace di svilupparsi sul suo proprio terreno -  oppure se si tratti di una fine della Storia, in quanto storia della modernizzazione; e pertanto di una rottura strutturale di ordine superiore. Dalla risposta a questa domanda, dipende il modo in cui ora vengono trattati i fenomeni a livello teorico, e di come essi vengono integrati nell'auto-riflessione della Critica Radicale del Capitalismo: ossia, se questa ha bisogno solo di modificarsi,  in modo da poter così tenere il passo con le alterazioni, oppure se essa deve operare, in sé stessa, una vera e propria rottura consapevole, la quale metta profondamente in discussione tutta la comprensione precedente. Quando la letteratura di analisi del marxismo - filologica e superficiale - ci rimanda in forma implicita e - nella maggior parte dei casi - inconscia a una profonda cesura nella storia della teoria - e alla fine di tutto un discorso - ecco che vediamo che quest'allusione a una cesura endo-teorica, ancora non maturata appieno, può essere compresa solo nella misura in cui essa possa essere relazionata alla Storia della Società Reale, e alla "Fine di un'Epoca" di tale società reale. Di conseguenza, bisogna tematizzare le condizioni storico-sociale in cui si inquadra la discussione teorica.

   In questo saggio, rispetto a tutto questo, possiamo procedere solo marginalmente, soprattutto per quanto riguarda il contesto dell'analisi critica della Teoria della Crisi di Marx, che rimane solo come se fosse la "desiderata" di un'elaborazione teorica. e di un'ulteriore analisi.  Qui si tratta soprattutto di un contesto avvolgente, il quale proietta una qualche luce sulla Rivoluzione Teorica di Marx, e sul suo carattere incompiuto, in modo che così possa indicarci la strada di un'ulteriore evoluzione; il che comporta sapere in cosa consista il "nucleo temporale" della teoria di Marx, vale a dire, sia i suoi limiti storici che i momenti i quali puntano oltre tali limiti. La pretesa storicizzazione, pertanto, non può essere definitiva, ma solo trasformativa. Ed essa, in tal modo, ci assegna un compito del tutto nuovo, rispetto a cui non può essere risolta, e non può nemmeno continuare a essere collocata, e formulata in quanto tale, sul terreno del Marxismo, così come lo intendiamo ora. Questa forma di porre il problema, ancor meno, può essere attribuita a un qualche "post-marxismo" attuale. Tutti i "post" sono oriundi dell'ideologia postmoderna, la quale è, sotto ogni aspetto, incompatibile con la Critica dell'Economia Politica di Marx, così come lo è con ogni "tipo di teoria", o comprensione concettuale di base, corrispondente, il cui aspetto principale consiste proprio nel sabotare qualsiasi chiarificazione teorica che riguarda la nuova situazione storica, affogandola nell'eclettismo. La teoria critica viene sostituita da una percezione superficiale fenomenologicamente riduttiva, ovvero dal positivismo discorsivo "decostruttivo". Essenzialmente, si tratta di un'ideologia della classe media, la quale costituisce l'espressione affermativa di una virtualizzazione del capitale nel contesto di crisi all'inizio del XXI° secolo. Così, sotto il termine di "post-marxismo"  possono essere riassunti tutti gli sforzi volti a "post-modernizzare" il marxismo; il che equivale - anziché a soppiantare criticamente il marxismo del Partito e del Movimento Operaio - a virtualizzare solamente quello che era il  vecchio paradigma, e renderlo così compatibile con la classe media. Per fare avanzare il contenuto radicale della teoria di Marx - nel senso di una concretizzazione approfondita della rivoluzione teorica - contro le tendenze "post-marxiste" di dissoluzione e di volatilizzazione, è necessaria una definizione più circostanziata di quello che è il concetto di Trasformazione, rispetto alla differenziazione che poneva la vecchia opposizione fra ortodossia e revisionismo. Tale opposizione, deriva il suo nome dall'antidiluviana controversia fra Kautsky e Bernstein, avvenuta alla fine del XIX° secolo; ma oltre a questo, essa è diventata la definizione di ogni controversia politica - tra e all'interno di tutte le scuole marxiste - a partire da quell'epoca e, prima, fino al "marxismo occidentale", e poi alla "nuova sinistra" degli anni 1960. In un contesto simile, il concetto di revisionismo è diventato più o meno una parola che sembra essere ora quasi sinonimo di riformismo, nel mentre che, simultaneamente, l'ortodossia veniva supposta essere come l'equivalente delle posizioni "rivoluzionarie". Così, già allora si poteva dire che con l'esaurimento del suo ambito di riferimento storico, tutto lo spettro dei marxismi aveva dato le dimissioni da qualsiasi tipo di ambizione rivoluzionaria; così come essa era stata sempre intesa, e (secondo i suoi stessi vecchi termini) era caduto in una sorta di Revisionismo. Da questo punto di vista, la vergognosa fine del "socialismo reale", in quanto segnale esterno della fine di un'epoca, non ha fatto altro che ratificare uno sviluppo ideologico già iniziato molto tempo prima. Appare evidente, in questa sua unilateralità, che  associare l'ortodossia a delle posizioni radicalmente critiche - e il revisionismo, invece, alla pura ideologia del conformismo - sia sempre stato sbagliato. Durante la Prima Guerra Mondiale, furono molti gli ortodossi che votarono a favore dei prestiti di guerra, mentre il revisionista Bernstein, malgrado tutto, alzò la sua voce contro quei prestiti e affrontò il patriottardismo socialdemocratico.  In termini generici, quel che è certo, è che nella pratica, gli ortodossi e  i revisionisti delle diverse fazioni e scuole marxiste, manifestarono, nel corso dei decenni, il medesimo orientamento, contro-rivoluzionario o riformista; cosa che fa già intuire come entrambe le parti appartenessero - una volta osservati da un punto di vista teorico e storicamente superiore - a un determinato campo delimitato e che era loro comune, senza che avessero alcuna coscienza di questo fatto. A prima vista, invece, la vera opposizione immanente consisteva, da una parte, nel trattamento diverso della contraddizione esistente nella teoria di Marx, e dall'altra nella pratica riformista di quella che era una mera "lotta per il riconoscimento" dei lavoratori salariati sul terreno delle categorie capitalistiche. In tal modo, si definisce un punto di vista decisivo: quello categoriale. La teoria di Marx, si riferisce essenzialmente al piano categoriale, del fondamentale contesto sociale formale, del "lavoro astratto": merce, forma del valore, denaro e valorizzazione del capitale. Sono tutti questi, i momenti decisivi della definizione critica dei concetti, fatta da Marx (specialmente l'analisi del carattere feticista della socializzazione capitalista), i quali venivano ugualmente tutti elusi da entrambe le parti, che non li comprendevano. Ma, mentre la cosiddetta ortodossia aveva pietrificato l'opera di Marx, in termini teorici, canonizzando su piani diversi i suoi enunciati parzialmente sconosciuti e contraddittori, e convertendoli poi in una sorta di catechesi marxista - la quale, si contrapponeva come se fosse qualcosa di esterno alla vera prassi "politica", e rimaneva pertanto, in larga misura, senza conseguenza alcuna - nel mentre che, invece, il revisionismo tendeva innanzitutto ad affermare le necessità di questa vera prassi dei partiti e dei movimenti ponendola in contrasto con la teoria "distante dalla realtà". Da un lato, essa si avvicinava così alla critica borghese a Marx, la quale, alla fine, parlava di mistificazioni, di promesse di salvezza, di costrutti filosofici, e "non scientifici" della teoria di Marx. Dall'altro lato, allo stesso tempo, si prendeva in considerazione solo la difesa del buon senso del movimento operaio, contro le imposizioni delle distanze teoriche rispetto alla vita quotidiana; e la cosa riguardava non solo la routine politico-partitaria e sindacale, in quella che è la "gabbia di ferro della servitù" di cui ha parlato Weber, ma anche il radicalismo della sinistra soggettivista di tutti i tempi e paesi. L'impulso a essere ostili rispetto alla teoria è stato, da sempre, profondamente revisionista, nel senso di una  falsa immediatezza del volontarismo, del sentimento istintivo, dell'espressione esistenzialista, dell'orizzonte presente degli eventi e delle ideologie di moda, che veniva contrapposto alle difficili astrazioni teoriche della critica dell'economia politica. In un certo, tale modo, anche oggi, nel pensiero di "sinistra" postmoderno, fa parte di questo tipo di revisionismo; nel momento in cui fa ancora qualche riferimento a Marx.

   L'effetto revisionista che ebbe la necessità di una partecipazione pratica - sul piano del mero trattamento della contraddizione nel quadro irriflesso delle categorie capitalistiche - si fece sentire, in termini teorici o metodologici, nella forma di un orientamento positivista ed empirista di "sinistra". Qui, la critica a Marx, che ne conseguiva, faceva riferimento al piano categoriale, le cui definizioni venivano - quando andava bene - rifiutate in quanto "filosofiche" o "speculative", senza che nemmeno se ne analizzasse il contenuto. Anzi, contro certi enunciati analitici di Marx, si invocava l'esistenza di un mondo fattuale cambiato, come accadeva per esempio relativamente alla formazione di una nuova classe media al posto della crescente polarizzazione fra borghesia e proletariato industriale, (e anche in questa misura, il revisionismo classico appartiene alla galleria degli antenati del pensiero postmoderno). Analogamente, anche la teoria della crisi di Marx, che non aveva ricevuto un trattamento sul piano categoriale, finì per essere considerata refutata e considerata vedendola su un piano superficiale, empirico e datato. Anche i marxisti ortodossi, facevano riferimento a un mondo empirico che era cambiato in termini politici e superficialmente analitici, ma tuttavia cercavano di conciliarlo astrattamente con il dogma, oppure smettevano di continuare a mettere la teoria da "catechesi"  accanto alle circostanze empiriche, fianco a fianco, in quanto esterne l'una all'altra, e non mediate, laddove, in termini pratici e programmatici, non andavano però, tuttavia, molto lontano rispetto alla posizione contraria dei revisionisti.Il vero tratto comune - tra ortodossia (inclusa quella leninista e quella della sinistra radicale) e revisionismo - consisteva nell'intendere, in fondo, le categorie della critica dell'economia politica come se fossero delle "definizioni" positive della fattualità oggettiva e, in larga misura, trans-storica, della cosiddetta economia, in quanto supposta come "base" della società umana in quanto tale. Fino alla Prima Guerra Mondiale, occasionalmente, emergevano ancora delle concezioni oscure che si riferivano a un superamento socialista delle forme del valore e del denaro, ma venivano proiettate in un futuro immaginario e molto distante. E poi, in secondo luogo, venivano intese quasi esclusivamente in senso tecnocratico, vale a dire, non come una loro applicazione cosciente e "pianificata", di modo che così la forma valore e il denaro potessero semplicemente "sparire" in termini fenomenologici (o "deperire" pacificamente), senza che la relazione del feticcio soggiacente al "lavoro astratto", dovesse simultaneamente sparire anch'essa (come avviene, per esempio, in Hilferding). Dopo la Grande Guerra, questo piano di riflessione, già così poco frequentato, finì per evaporare sempre più dal discorso marxista - anche sotto i colpi della produzione pianificata di merci da parte del "socialismo reale" -  e oggi viene evitato, più accuratamente che mai, da quasi tutte le correnti residuali e post-marxiste, come se si trattasse di peste. In buona coscienza - dal punto di vista categoriale - possiamo definire tanto l'ortodossia quanto il revisionismo, e quello che di loro rimane, come profondamente positiviste. Naturalmente, si pone la questione di come relazionare la rivoluzione teorica di Marx, e il suo carattere incompiuto, con questa storia della sua ricezione; ora oramai già chiusa da tempo e da storicizzare. Questa domanda, che prima non era neanche possibile, è stata preparata grazie a una riflessione teorica, avvenuta nel contesto della nuova sinistra fin dagli anni 1960, e  presentata come una "ricostruzione della critica dell'economia politica"; "ricostruzione", in primo luogo, perché si suppone che il marxismo tradizionale di partito, con tutte le sue fazioni e correnti, alla fine, quella che aveva diffuso e canonizzato era solo un'interpretazione superficiale e ridotta della teoria di Marx. In secondo luogo - d'accordo con l'idea fondamentale, soprattutto filologica, per cui tale interpretazione, tuttora, si riferisce a una materiale editoriale limitato - è avvenuto che importanti testi di Marx sono stati pubblicati solo nel corso del XX° secolo e, in particolare, i tuttavia famosi Grundrisse sono tornati a essere accessibili solo dopo la II° guerra mondiale. Un impulso importante, è stato esercitato dall'ampio commentario di Roman Rosdolksky, con il suo "Genesi e struttura del Capitale di Marx" (Rosdolsky, 1968), il cui fulcro erano appunto i Grundrisse. A partire dai primi scritti di Marx, aveva avuto così origine una corrente interpretativa propria della "teoria dell'alienazione" (per lo più, superficialmente filosofica o moralizzante), nella quale i Grundrisse ora apparivano come al centro di una nuova e diversa riformulazione. La critica dell'economia di Marx, andava ricostruita dettagliatamente, proprio sulla base del materiale delle fonti nel frattempo scoperte, e quindi depurata delle erronee interpretazioni "revisioniste". Questo progetto di ricostruzione ebbe una carattere ambivalente, Da un lato, gli si doveva attribuire il grande merito di avere di reso accessibili nuove grandi masse di testi dell'opera di Marx e, soprattutto, di essere tornato a collocare al centro dell'interesse il trascurato piano categoriale della critica dell'economia politica; più o meno ridotto ad astrazione, a causa del suo trattamento accademico e, in gran misura, malinteso sulla base delle definizioni positiviste. Dall'altro lato, questi tentativi di ricostruzione avvenivano in un ambiente peculiare. L'abbandono del marxismo di Partito, aveva anche ragioni strutturali. Alla fine, in ultima analisi, la cristallizzazione dogmatica o la dissoluzione revisionista del marxismo di Partito derivavano dal fatto che il movimento e i partiti operai si erano da molto tempo istituzionalizzati, in termini capitalistici e, in fondo, non avevano più alcuna necessità della teoria di Marx; tranne che, forse, per operazioni nostalgiche. Il marxismo teorico era stato accademizzato, e trasformato in una manifestazione marginale di discussioni scientifiche borghesi. A tutto questo, corrispondeva una limitazione filologica al Marx del progetto di una sua ricostruzione, ed essa aveva come lemma, più o meno, quello di appurare, con minuziosità certosina, "quello che Marx aveva realmente detto".

   Così come l'inquadramento delle proprie intenzioni, e dell'oggetto del loro rifiuto nello sviluppo storico concreto della società, aveva portato in larga misura a occupare il piano categoriale della teoria di Marx; allo stesso tempo tuttavia non aveva portato a stabilire dei nuovi obiettivi per la critica radicale, ma aveva piuttosto consentito e favorito, occasionalmente, la prosecuzione delle carriere accademiche, per quanto questo fosse avvenuto solo nel campo delle discipline cosiddette esotiche. In tal modo, il progetto di ricostruzione filologica era andato acquisendo impercettibilmente il colorito di una coscienza accademica di classe media, come, del resto, accadeva con tutta la nuova sinistra, il cui ambito di riferimento "proletario" non era mai andato oltre la pura ideologia nostalgica; per quanto marziali fossero le loro evocazioni. Inoltre, evidentemente essa non aveva potuto restare immune dall'attivismo superficiale del movimento del 1968, e delle sue necessità politichesi. Così, in parte, era tornato a legarsi, nel nome della "capacità di intervento politico" - seppure con una pretesa "critica" ai vecchi partiti operai in acuta decadenza ideologica (SPD, DKP, eurocomunismo)  o agli apparati sindacali - ai cosiddetti nuovi movimenti sociali della classe media. e al loro sbocco nel partito dei Verdi. Con simili orientamenti, le elevate pretese di "ricostruzione" tendevano così forzatamente a morire; almeno rispetto per quel che riguardava la maggior parte dei teorici. Il progetto di ricostruzione, non poteva essere pertanto classificato in maniera inequivocabile; in una determinata fase la nuova sinistra vi partecipava, a un grado minore o maggiore, con dei teorici di quasi tutte le correnti, e tutti quanti soffrivano la pressione di quelle che erano le necessità pratiche e politiche dell'ideologia del movimento, la cui preponderanza non portava a niente, se non al pantano ideologico. Mentre, per quanto riguardava l'occupazione della teoria di Marx, essa si suddivideva, grosso modo, in un'ortodossia cosiddetta recente, da una parte, e ina una denominata "Nuova lettura", dall'altra. L'aggettivo che indica la novità rimandava, in entrambi i casi, non solo alla nuova sinistra nell'ambito della classe media accademica, ma anche al passaggio (con caratteristiche diverse per ciascun caso) attraverso un progetto, filologicamente esigente, di ricostruzione; i cui risultati, tuttavia, dobbiamo ricercare, con fatica, noi bibliofili. E' stata proprio l'ortodossia recente, a mostrarsi disposta, in maniera significativa, ad avventurarsi sul piano categoriale della teoria di Marx, seppure solo in maniera condizionale e sempre più marginale, nella maggior parte dei casi, più per fini formativi (come, per esempio, nelle lezioni introduttive al Capitale di W.F. Haug), piuttosto che nel senso di una mediazione storica concreta e analitica, come già avveniva con la vecchia socialdemocrazia.  L'abbandono di questo piano può esser visto, esemplarmente, nella cosiddetta teoria della regolazione, o "scuola della regolazione", la quale all'inizio si riferiva ancora alle categorie fondamentali della critica dell'economia politica, ma che poi non tardò a sganciarsi da sé sola, facendolo a beneficio di una elaborazione teorica superficiale, caratterizzata da un empirismo positivista. In termini globali, possiamo dire che fu proprio l'ortodossia recente, che non solo si limitò a comportarsi come quella vecchia, ma che, a dirla tutta, finì essa stessa per adottare, almeno implicitamente, un orientamento revisionista in senso classico. L'enfasi posta sull'elaborazione teorica e sulle pubblicazioni (nello spazio linguistico tedesco, per esempio, in riviste come Das Argument, Sozialismus o Prokla) si allontanò irreversibilmente dalle discussioni intorno alle categorie fondamentali (teoria del valore e del denaro, lavoro produttivo ed improduttivo, il "problema della riduzione", il "problema della trasformazione", ecc.), le quali rimanevano così senza alcuna soluzione in vista, in favore di un'analisi riduttiva, frequentemente sociologica e soprattutto fenomenologica, di quelli che erano i processi di sviluppo, le tendenze e i conflitti sociali; in parte, tutte porte già spalancate alle ideologie oriunde del mondo accademico e alle correnti indotte dallo spirito dell'epoca. Di una mediazione categoriale nel senso della critica di Marx, già si poteva parlare poco, e per lo più con riferimenti superficiali; fu questo, del resto, ciò che avvenne proprio riguardo alle relazioni fra i sessi (così, la rivista Argument, contrariamente alla maggioranza delle altre riviste teoriche di sinistra, che ebbe il grande merito di un'apertura alla teoria femminista, ma rimase assente sul riferimento categoriale). In realtà, la questione delle categorie fondamentali, e della loro interpretazione, compariva ancora nell'ambito dell'ortodossia recente, soprattutto quando veniva fuori il conflitto latente con la "Nuova Lettura di Marx". Fu quest'ultima che (soprattutto nei lavori di Hans Georg Backhaus e di Helmut Reichelt e, successivamente, nella riformulazione fatta da Michael Heinrich) proseguì il progetto di ricostruzione, concentrandosi più che mai sugli aspetti variati dell'analisi che Marx aveva fatto della forma del valore. Il prezzo da pagare fu, sotto diversi punti di vista, la quasi completa rinuncia alle analisi concrete dei processi sociali e della loro propria situazione storica, dal momento che cominciava ad evidenziarsi una peculiare "divisione del lavoro", sotto forma di deficit simmetrici e complementari. Se, per l'ortodossia recente, il piano categoriale della teoria si diluiva sempre più in una contemplazione superficiale delle tendenze, per la "Nuova Lettura di Marx", al contrario, il piano di analisi empirica della teoria rientrava in una auto-sufficienza categoriale filologica. Con la sua tematica "esoterica", tutto questo approccio sembrava qualificarsi come "eterno consiglio di iniziati" con un'esistenza nell'ombra, nel mondo accademico di sinistra e nelle frange delle pubblicazioni specializzate. La problematica teorica veniva cucinata a fuoco lento, nelle occasionali incursioni dell'ortodossia recente che, almeno sul suo stesso nuovo terreno catechistico, accondiscendeva a volersi mantenere "ortodossa", e si opponeva ai sondaggi di profondità concettuali della "Nuova Lettura di Marx" con sempre maggior diffidenza. La contesa guadagnò nuovo respiro nel discorso degli anni 1990, allorché la ricostruzione di Marx, fatta dalla "Nuova Lettura di Marx", si convertì poco a poco in critica. A questo contribuirono le pubblicazioni teoriche di Michael Heinrich, che con la sua "Die Wissenschaft vom Wert", non solo allargò il terreno su cui ricostruire l'analisi fondamentale della forma del valore, estendendolo all'analisi della totalità del Capitale di Marx, ma egli acutizzò anche la questione della critica di Marx, superando i suoi riferimenti teorici. Già nell'introduzione alla sua opera principale, dice chiaramente che, a proposito del progetto di ricostruzione: «E' un fatto che, negli anni '70, la rivelazione e la sistematizzazione dei testi di Marx emersi sotto il titolo di "Nuova Lettura", sono stati un passo importante verso l'appropriazione della teoria di Marx. Tuttavia, essi presupponevano l'esistenza di un discorso coerente e corretto, il quale poi si sarebbe semplicemente distillato a partire dai vari manoscritti di Marx, ossia, "ricostruito" già protetto dalle volgarizzazioni e dalle interpretazioni erronee, essendo rimasta sistemisticamente limitata  quella che era la capacità critica di fronte al testo di Marx.» Possiamo dire che, per Heinrich, la "capacità critica" relativa a Marx costituiva il nocciolo degli sforzi teorici. Ora, bisogna invece evidentemente sapere in quale senso qui va inteso il concetto di critica. Da un lato, esso può riferirsi al carattere necessariamente incompiuto della teoria di Marx e pertanto, in questa accezione, alla sua natura storicamente datata; ma può anche però riferirsi ai fondamenti stessi, oltre che al modus operandi della teoria di Marx. Anche nel caso di una critica formalmente immanente, tutto dipende dal criterio; essa può designare ciò che rimane incompiuto, oppure può sviluppare la teoria a partire dal suo interno, secondo quello che è il suo proprio impulso, o ancora può valutare la teoria per quel che dice riguardo la propria realizzazione immanente, facendolo a partire da un criterio esterno di definizioni del contenuto, oppure dalla teoria della scienza, e in tal modo abbandonare, o perfino negare, tale impulso. Nel primo caso, si tratta della già citata trasformazione della teoria di Marx, mentre nel secondo, ancora una volta e alla fine, della sua mera revisione; in questo caso, però, andata già molto al di là del revisionismo classico: ora si tratta di abbandonare gli stessi fondamenti categoriali, proprio perché ne viene riconosciuto il loro carattere negativo e, insieme ad esso, il potere esplosivo insito in un tale piano. Dalla metà del decennio 1980, e soprattutto negli anni 1990, questa preconizzata interpretazione della teoria di Marx -  fatta alla luce della critica del valore, o (includendo anche la moderna relazione tra i sessi) quella svolta alla luce della dissociazione e del valore - è come sorta, in mezzo agli altri combattenti, come se, nel campo del dibattito della critica sociale, fosse una specie di UFO. E dopo i falliti tentativi di metterla a tacere, essa è stata coinvolta in un'accesa polemica con entrambe le parti, ossia, tanto con l'Ortodossia recente quanto con la Nuova Lettura di Marx (la quale, da parte sua, non ha potuto fare a meno di rispondere); non essendo ancora oggi completamente chiaro se sia la nostra insistenza sulle definizioni fondamentali relative al Marx critico del feticcio, oppure se, a motivare la maggiore enfasi, sia stata la critica trasformativa del cosiddetto Marx del "movimento operaio", formulata in questo preciso senso. Tutto ciò, non solo ha una sua connotazione identitaria dovuta a motivi nostalgici, ma fa anche sì che si debba rimanere nel cuore della teoria, in modo da poter così continuare a "correggerlo" su un unico e solo superficiale piano sociologico (detta più concretamente, nel senso dell'ideologia postmoderna della classe media di sinistra), nel mentre che, allo stesso tempo, "l'altro" Marx possa continuare a essere ignorato, o svalorizzato, come se fosse un po' "tonto".

   Tuttavia, bisogna che la critica della Rivoluzione Teorica Incompiuta contenga in sé gli impulsi per la sua prosecuzione, e non per la sua revoca parziale o totale. Se la questione sia quella di andare "con Marx oltre Marx", o "dietro Marx senza Marx"? Un ulteriore sviluppo trasformativo - se è questo ciò che viene chiesto sul serio, e non solo per finta - attuato nel senso di un adattamento alle relazioni capitalistiche del XXI° secolo, presuppone la critica della teoria di Marx svolta unicamente nel senso dei suoi limiti storici relativi, e la sua collocazione rispetto alla nostra attuale posizione storica. Dal punto di vista di un tale intendimento, la delimitazione storica al XXI° secolo è stata duplice, essendo i due momenti legati tra di essi. Da una parte, e sebbene la rivoluzione teorica di Marx rappresenti una rottura con la razionalità illuminista del capitalismo, in accordo con le condizioni dell'epoca e con le sue forme di espressione teorica, essa conserva le scorie di una tale razionalità (come, soprattutto, possiamo vedere nella metafisica borghese della storia e del progresso, in quella che è la sua rappresentazione hegeliana). Nelle condizioni storiche date, una rottura pià ampia non sarebbe neppure stata possibile, dal momento che il Capitale e la Ragione, a partire dalle loro proprie stesse basi, avevano ancora davanti a sé un lungo sviluppo. E' per questo che la critica categoriale della costituzione feticista del capitale, a volte inciampa in quelli che sono i resti dell'ontologia borghese che si trova contenuta nel pensiero di Marx. Dall'altra parte, Marx lega necessariamente la sua teoria, sotto molti aspetti, al movimento operaio allora incipiente, il cui obiettivo immanente, tuttavia, era solamente quello del suo riconoscimento in quanto soggetto funzionale proprio sul terreno delle categorie capitaliste: un compito questo,  che era parte della "modernizzazione" capitalista stessa, e non della rottura con essa modernizzazione. Era da qui che nasceva una tensione, non solo fra la teoria di Marx e l'ideologia borghese del movimento operaio, ma anche in seno alla teoria di Marx stessa. Allora, la vecchia ortodossia aveva risolto questa tensione, in gran misura e unilateralmente, facendo ricorso al paradigma della modernizzazione e del riconoscimento. Pertanto, in tal modo, possiamo caratterizzare tutto il marxismo fino a oggi esistente come un "marxismo del movimento operaio" esercitato sotto il controllo (o il vincolo) delle categorie del contesto formale capitalista. Ma oggi, all'inizio del XXI° secolo, il capitalismo si è già sviluppato fino al punto di aver reso manifesta la sua essenza feticista e la sua maturità per la crisi. Proprio per questo, il marxismo finora esistente si deve ora esaurire in tutte le sue correnti, nella misura in cui quello che era l'intento della modernizzazione e del riconoscimento è ormai diventato puramente e semplicemente irrilevante. Al contrario, la critica che viene fatta a Marx, da parte della sua "Nuova Lettura", soprattutto nella versione di Michael Heinrich, in questa riduzione, rimane legata - in accordo con il suo percorso, che è di natura molto più strettamente filologica, e senza un inquadramento storico approfondito  - soprattutto alla scienza economica borghese, e al suo rispettivo sviluppo accademico, collocando pertanto la questione della «rottura (di Marx) con il campo teorico dell'economia politica»(Heinrich) in un quella che appare come una penombra sospetta, come verrà dimostrato. Questo si applica soprattutto al problema di sapere in che relazione la critica di Heinrich a Marx si ponga rispetto all'economia neoclassica borghese e all'ideologia postmoderna (a loro volta, legate tra di loro). Ora, potrebbe anche sembrare che l'Ortodossia recente si opponga, e resista, alla discussione intorno alla critica di determinati elementi della teoria di Marx, e che  così finisca per affermare la sua vecchia identità, ma questo è vero solo fino ad un certo punto. Evidentemente, i grandi punti di una lettura che, in termini globali e di preferenza, è orientata secondo modelli di comprensione tradizionali (o, in ogni caso, finalizzata a una narrazione lineare e ininterrotta del marxismo), si agitano davanti all'espressione del "duplice Marx", la quale da tempo è moneta corrente nella teoria critica della dissociazione e del valore, e con la determinazione da essa risultante, di un Marx "essoterico" e un Marx "esoterico" - differenziazione dell'opera di Marx che avviene per la prima volta in Stefan Breuer (1977). Queste designazioni vennero usate dallo stesso Marx (in "Teorie sul Plusvalore") nei confronti di Adam Smith, il vero fondatore della "scienza economica" moderna. Secondo Marx, il lato "essoterico" della teoria di Smith consisteva nel cominciare a fare una semplice descrizione dei fenomeni capitalistici, ossia, a determinare le categorie solo rispetto al loro modo di essere superficiali. La parte "esoterica" di Smith, al contrario, si sarebbe sforzata, anche se in modo erroneo e affermativo, di determinare teoricamente l'essenza del "nesso interno" categoriale. Ora, W.F. Haug insorge contro la possibilità che si possa procedere secondo questa differenziazione, seppure in un altro modo, anche nei confronti dello stesso Marx: «Uno dei fenomeni grotteschi della forma verbalmente radicale di misurarsi con Marx, nel post-comunismo, consiste nell'applicare retroattivamente una simile differenziazione allo stesso suo autore, Marx» (Haug). Per Haug, e non solo per lui, è insopportabile vedere designati i momenti di mera teoria della modernizzazione, della metafisica del progresso e "del movimento operaio" presenti nella teoria di Marx, vedendoli come "essoterici" e storicamente decadenti, e vedere invece i momenti critici del feticcio, riferiti al carattere di fine in sé della "ricchezza astratta" e al "soggetto automatico" del valore, essere designati, al contrario come "esoterici", e dotati così di vitalità futura. Nell'invettiva di Haug viene espressa soltanto la sua caparbietà nel voler interpretare la teoria di Marx nell'orizzonte della supposta infinita "storia della modernizzazione", sulla base di fragili premesse ispirate tanto dalla Realpolitik quanto dall'opportunismo del movimento, oltre che sul terreno delle categorie fondamentali del capitalismo, che non deve mai essere messo in discussione, né teoricamente né praticamente. Questa opzione, però - ed è in questo che consiste la dialettica del proseguimento di un marxismo che viene supposto ininterrotto, e che viene solo modificato secondo la modernizzazione - non può essere attuata senza operare, sotto diversi aspetti, delle rotture che non sono ammesse. Così, da un lato, anche la supposta ortodossia è rimasta da tempo bucherellata, come un formaggio svizzero, dal modo di pensare postmoderno - cosa che non costituisce alcuna sorpresa, dal momento che, sul piano categoriale, l'ortodossia stessa ha smesso di offrire qualche resistenza; e la grettezza dell'analisi, fenomenologicamente sociologica e "praxeologicamente" politicastra, deve rimanere sottomessa al positivismo del discorso decostruttivista postmoderno, a essa conforme.00

   Dall'altro lato, col collasso della RDT e dell'Unione Sovietica, l'Ortodossia recente (e molto più i suoi cugini dell'Est del vecchio "socialismo reale") ha sofferto un colpo tale, che alla fine non si è alzata più in piedi, e l'arbitro della storia teorica ha dovuto contare fino a dieci. Gli occhi tumefatti, il naso disfatto e il cervello ridotto in pappa, ora anche il marxista residuale di ferro ritiene di doversi trascinare verso nuovi lidi: «Che, in quest'ambito, andiamo sempre oltre Marx, è sottinteso» (Haug). Ma come, e in che stato, e soprattutto: per andare dove? Guarda piuttosto dove stai andando, è tutto quello che possiamo dire; soprattutto visto che Haug continua, facendo una citazione di sé stesso: «Per il pensiero marxista, bisogna considerare escluso ogni riferimento a Marx fatto in termini acritici»  Anche qui occorre, piuttosto, interrogarsi proprio  sul contenuto e sulla tendenza di ogni critica a Marx, la quale, quanto meno a partire dal 1989, ora è diventata alla portata di tutti, e anziché dichiarare una nuova e piacevole passeggiata del proprio discorso, e andare a dare una benevola occhiata, l'integrazione politichese dell'Ortodossia recente (che si trova già nell'orbita del Linkspartei) ci fa proprio invece sospettare che la critica di Marx che è stata intrapresa abbia proprio come obiettivo, innanzitutto, la legittimazione delle necessità di partecipazione e di adattamento, per potersi così leccare le ferite, dopo essere stati messi al tappeto dalla storia reale. Con simili premesse, il rifiuto apparentemente ortodosso di una storicizzazione del Marx del movimento operaio assomiglia a una critica di Marx ispirata esclusivamente dallo spirito dell'epoca, ed è essa stessa revisionista, regredendo fino a prima del Marx "essoterico". Pertanto, lo sfondo che vediamo stagliarsi dietro l'intento di un più o meno chiaro ripudio di Marx - sia da parte dell'Ortodossia recente che da parte della "Nuova Lettura di Marx" - è costituito, da un lato, dal collasso del "socialismo reale", dalla fine della Guerra Fredda e dalla terza rivoluzione industriale e, dall'altro lato, dalla necessità e dall'ideologia postmoderna vista sull'orizzonte di una coscienza della classe media di sinistra. In questo confronto si decide se ciò sarà una trasformazione della teoria di Marx, nel senso di un avanzamento della rivoluzione teorica, o nel senso di un revisionismo di nuovo tipo. Al centro di tale processo, si trovano necessariamente le categorie fondamentali della critica dell'economia politica e il loro statuto. E rispetto a questo ci sono, almeno, cinque gruppi di questioni che vanno trattati e chiariti, non potendo il presente saggio fare altro che delimitare soltanto il terreno, in modo da fornire un panorama delle linee guida dell'inevitabile conflitto teorico. Il primo gruppo di questioni, riguarda sapere in che misura le categorie di Marx non rappresentano delle mere categorie teoriche, o un "modello" meramente ipotetico, bensì categorie reali ovvero, secondo Marx, delle "forme oggettive di esistenza", alle quali corrispondono delle "forme oggettive di pensiero". In quest'ultimo approccio, però, la differenza tra situazione storica reale e la sua riflessione teorica, non è ancora del tutto appianata. Nella teoria, lo statuto delle categorie dev'essere diverso dalla realtà. Da qui ne consegue il famoso "problema di esposizione" riguardo solo lo sviluppo sequenziale della teoria di Marx, sistematizzato dalla "Nuova Lettura di Marx", ma in maniera non adeguatamente risolta. Il secondo gruppo di questioni, si riferisce alla storicità delle categorie, e lo fa in duplice senso. Da un lato, a essere in causa è il suo statuto nella storia pre-moderna o pre-capitalista. Queste questioni, andrebbero intese come trasversali rispetto alle formazioni, se non addirittura trans-storiche, quanto meno per quel che riguarda le culture cosiddette superiori, a partire approssimativamente dalla rivoluzione neolitica; oppure si applica, in senso stretto, solo al capitalismo? E in cosa consisterebbe allora la differenza, e come può la costituzione storica primordiale del capitale venire tradotta in categorie? Dall'altra parte, si deve determinare lo statuto delle categorie in quella che è stata la storia interna del capitalismo. Si tratta di forme di esistenza, intrinsecamente dinamiche, che nell'astrazione teorica, possono solo apparire come sempre uguali, sennò sarebbero statiche in sé, confrontandosi così con una storia fatta solo di accadimenti esteriori, e meramente empirica? Dalla risposta a questa domanda, dipende non solo sapere se un'esposizione definitiva del "capitale in generale" è del tutto possibile, ma anche se esiste un limite storico interno alla valorizzazione del capitale (teoria della crisi). Il terzo gruppo, si occupa della relazione tra categorie e totalità capitalista ovvero il "processo globale" (Marx) del Capitale, il quale viene trattato solamente nel terzo volume dell'opera principale di Marx. Qui, la questione dello statuto delle categorie, si riferisce alla relazione tra la particolarità e la generalità sociale. Potrebbero, le categorie della critica dell'economia politica, essere concettualmente rappresentate nella merce e nel capitale, se considerate individualmente, o si tratta invece dell'incontro di categorie della totalità che, in quanto tali, si applicano solo al Tutto, e appaiono non corrette dal punto di vista dei soggetti economici individuali e della loro condotta? Questo significherebbe anche che il concetto di "valore individuale" di Marx, sarebbe errato, e dovuto solamente al suo "problema di esposizione", laddove, implicita ed inavvertitamente, si manifesta "l'individualismo metodologico" delle scienze sociali borghesi, che ostruisce la prosecuzione della rivoluzione teorica. Il quarto gruppo, attiene invece allo statuto delle categorie, viste nella loro relazione tra essenza ed apparenza. Si tratta, nel caso delle categorie della critica dell'economia politica, di determinazioni dell'essenza di quello che è un "apriorismo trascendentale", il quale non può manifestarsi immediatamente in quanto tale, ma costituisce ancora la realtà sociale; oppure i fenomeni capitalistici possono essere compresi direttamente nelle categorie, e pertanto possono esistere sotto forma indipendente? Come categorie reali trascendentali, non possono essere empiriche; e, se venissero intese come empiriche, allora non necessiterebbero di definizione trascendentale. Nel primo approccio, teoria ed empiria non possono fondersi l'una con l'altra, e le apparenze devono essere, innanzi tutto, decifrate; mentre nel secondo, l'essenza e l'apparenza - e insieme a esse anche la teoria e l'empiria - coincidono immediatamente, vale a dire che le stesse categorie sono immediatamente empiriche. In tal caso, da un lato, esistono solamente, a ben vedere, le apparenze e la loro osservazione "scientifica". Il quinto gruppo di questioni, costituisce, in un certo qual modo, la conclusione dell'approccio categoriale totale. Lo statuto delle categorie della critica dell'economia politica sarà positivo o negativo? La parola "positivo" deve qui essere intesa nel senso di un'oggettività esteriore neutra che un soggetto della conoscenza affronta. È questa la costellazione fondamentale del mondo della scienza, che esclude il concetto di critica e, insieme a essa, per la verità, anche il sottotitolo del Capitale di Marx. In questo caso, la critica dev'essere sostituita da un'etica ugualmente esteriore. Le categorie non sono, in questa prospettiva, dei meri modelli del pensiero (come indicato nel primo gruppo), ma si relazionano anche a un'oggettività indiscutibile, le cui "leggi" devono solo essere identificate e trattate in maniera strumentale. Se, al contrario, lo statuto delle categorie sarà negativo, allora anche la sua conoscenza può essere solo negativa, ossia, esso statuto viene processato soltanto secondo il modus della critica dell'oggetto stesso, il quale va distrutto, e le cui "leggi" devono essere abolite. Da questa breve rassegna, già emerge il fatto che una prosecuzione della rivoluzione teorica di Marx sarà, in termini epistemici, fondamentalmente critica della scienza, e pertanto dovrà farla finita con qualsiasi intendimento positivista del capitale; cosa che finora è stata caratteristica della totalità del marxismo del movimento operaio (sia quello dell'ortodossia che quello del revisionismo) il quale ora è allegramente rinato dalle sue ceneri sotto forma di una riformulazione postmoderna. Un momento essenziale, in questo superamento del pensiero positivista, è costituito - per la critica radicale - dallo "individualismo metodologico"; e questo non solo nella forma riferita prima, nel terzo gruppo, ma anche come momento globale di tutti gli aspetti di una reinterpretazione della critica dell'economia politica. Qui, non si tratta solo di una diffusa ideologia borghese "della totalità", ma della definizione accurata che descrive la relazione tra il contesto sociale globale, in quanto determinazione dell'essenza, e le apparenze, ovvero le micro-"unità" riproduttive individuali di questo Tutto sociale; ossia, la critica di un modo di pensare predominante nelle scienze sociali che, al posto della totalità (negativa), nel suo contesto di mediazione, colloca la mera "astrazione intellettuale" (Hegel) dell'azione individuale (per esempio, il cosiddetto atto di scambio) vista come essenziale e costitutiva. Non è certo per caso che questo problema rimane alieno al marxismo, ed è stato tematizzato, nella migliore delle ipotesi, in modo tanto marginale quanto insufficiente.

La parola d'ordine, è rischiare tutto. La conseguenza, può consistere solamente in un programma esplicito di critica categoriale e di rottura categoriale pratica, vale a dire, in un globale «programma di abolizioni» (Karl Korsch). E' proprio a questo sviluppo di energia negativa che si riferisce il concetto di trasformazione teorica, con il quale già si affronta solo un revisionismo fondamentale, fatto di vari colori, sotto forma di marxismo residuale e post-marxismo. Trasformazione o revisione, ecco il problema. Per questo, ciò che sta all'ordine del giorno è il confronto, e non un eclettismo accademico post-moderno. In un nuovo empito polemico, il problema può innanzi tutto essere rappresentato con particolare chiarezza, in quanto contesto storico-sociale globale, nella realtà e nel concetto di denaro. Il Denaro è la manifestazione fondamentale dell'essenza; esso è categoria e, allo stesso tempo, fenomeno palpabile, crocevia della storia e oggetto visibile dell'abolizione. E' perciò che è in quest'oggetto che la determinazione categoriale negativa può distruggere con la massima incisività l'esaltazione positivista dei fatti e la grettezza fenomenologica.

- Robert Kurz -  Introduzione al libro "Denaro senza Valore" - Luglio 2012 -