giovedì 9 ottobre 2025

Guerra Civile Globale…

Gli Stati Uniti e il "capitalismo fascista"
- di Maurizio Lazzarato - 7 ottobre 2025 -

«L'accumulazione primitiva, lo stato di natura del capitale, è il prototipo della crisi capitalista.» (Hans Jürgen Krahl)

Il capitalismo non è riducibile a un ciclo di accumulazione, dal momento che ciascun ciclo viene sempre preceduto, accompagnato e seguito da un ciclo strategico definito a partire da conflitti, guerre, guerre civili e, quando necessario, rivoluzione. Questo ciclo strategico comprende la cosiddetta "accumulazione primitiva", descritta da Marx, ma solo come prima fase, seguita prima dall'esercizio della violenza che si incarna nella "produzione", e poi dallo scoppio di questa in guerra e in guerra civile, dopo l'esaurimento del ciclo economico. Per riuscire a ottenere una descrizione completa del ciclo strategico, abbiamo dovuto aspettare il XX secolo, e la sua trasformazione in quello che è stato il ciclo delle rivoluzioni, sovietica e cinese; una trasformazione che, da diversi punti di vista, corregge e completa Marx. I due cicli lavorano insieme. Le loro dinamiche sono intrecciate, ma possono anche essere separate l'una dall'altra: dal 2008, il ciclo di conflitti, guerre e guerre civili (e l'improbabile possibilità di una rivoluzione) si sta gradualmente separando dal ciclo dell'accumulazione in senso proprio. Gli stalli e le impasse nell'accumulazione del capitale, richiedono l'intervento del ciclo strategico, il quale funziona sulla base dei rapporti di forza, e del rapporto non economico amico-nemico. Sin dall'avvento dell'imperialismo, l'importanza del ciclo strategico non ha fatto che aumentare. Cicli di guerra, di tremenda violenza e di uso arbitrario della forza, si susseguono in rapida successione. Gli Stati Uniti, hanno imposto tre volte delle regole economiche e giuridiche al mercato mondiale e all'ordine mondiale (1945, 1971 e 1991), e per tre volte hanno cancellato o modificato quelle norme che avevano imposto, a causa del fatto che quelle norme non erano più convenienti per loro, e ne hanno pertanto istituite di nuove. Il fordismo del 1945 è stato smantellato negli anni '70, mentre il cosiddetto "neoliberismo" - scelto per sostituirlo e che si è diffuso in tutto il mondo nel 1991 dopo la caduta dell'Unione Sovietica - ha collassato nel 2008. L'odierna accumulazione primitiva, ancora una volta, sta cambiando le regole del gioco, facendolo stavolta nel nome di un tentativo, assai più che improbabile, di «rendere nuovamente grande l'America». Nel capitalismo contemporaneo, l'analisi del ciclo strategico deve riguardare in primo luogo gli Stati Uniti, e questo poiché è lì che si concentrano gli apparati di potere, le istituzioni militari, finanziarie e monetarie sulle quali detiene quei monopoli vietati alla “alleata” Europa o all’Asia orientale, vale a dire a quei paesi soggiogati dalla guerra (Germania, Giappone, Italia), o dal potere economico e finanziario (Francia, Regno Unito) e, soprattutto, il "Sud" globale. A partire dalla crisi del 2008, il ciclo strategico è venuto in primo piano, al punto da soppiantare il "mercato", le normative economiche, il diritto internazionale, le relazioni diplomatiche tra gli Stati, ecc.; il tutto con l'obiettivo di scongiurare l'implosione del ciclo di accumulazione, e rivitalizzare l'economia statunitense, la quale si trova in seria difficoltà. Così, abbiamo la "fortuna" di poter osservare dal vivo questa accumulazione primitiva e questo ciclo strategico. Trump ha messo in atto lo "stato di eccezione". Ma stavolta questo stato è assai ben diverso da quello canonicamente definito tale da Carl Schmitt, o ripreso poi da Giorgio Agamben. Anziché occuparsi del "diritto pubblico", e della costituzione formale dello Stato nazionale, in primo luogo esso mira piuttosto alle regole che riguardano la costituzione materiale del mercato globale, e alle norme giuridiche internazionali relative all'ordine mondiale. Con lo stato globale di eccezione, lo spazio dove prende forma il nomos della terra - con le sue linee di amicizia e di ostilità - è la guerra civile globale. Invece di focalizzarsi sul diritto, lo stato di eccezione globale integra profondamente l'economia, la politica, l'esercito e il sistema giuridico. In tal modo, la guerra civile globale si ripercuote sulla guerra civile interna, intensificando il razzismo e il sessismo, la militarizzazione del territorio, la deportazione degli immigrati, gli attacchi alle università, ai musei, ecc. La popolazione degli Stati Uniti appare profondamente divisa, e non tra il 99% e l'1%, bensì tra quel 20% che assicura la maggior parte dei consumi all'interno dell'enorme mercato interno (3/4 del PIL), e l'80% per i quali i consumi sono stagnanti, o in declino. Vengono implementate delle politiche fiscali in modo da poter pertanto garantire la proprietà e l'iper-consumo della parte più ricca della popolazione. Trump ha così il merito di politicizzare tutto ciò che il cosiddetto neoliberismo era invece intento a depoliticizzare, senza però essere in grado di farlo. Una volta sospese tutte le regole, l'uso della forza extra-economica diventa la precondizione per la produzione economica, per stabilire leggi e costituire qualsiasi tipo di istituzione. È necessario prima, però, imporre con la forza i rapporti di potere. Ed ecco che allora, una volta stabilita la divisione tra chi comanda e chi obbedisce (e la situazione si stabilizza in quanto viene accettata da chi è stato soggiogato), ecco che si possono così ricostruire le norme economiche e giuridiche, gli automatismi dell'economia, le istituzioni nazionali e internazionali, insieme all'espressione di un nuovo "ordine". Il ciclo strategico, che funziona attraverso lo "stato globale di eccezione", è stato assicurato a partire da delle decisioni politiche arbitrarie e unilaterali, prese dall'amministrazione americana, il cui scopo è stato quello di imporre tutta una serie di "acquisizioni" (appropriazioni, espropri, saccheggi (*1) della ricchezza altrui; direttamente estorta, senza mediazione né sfruttamento industriale, né predazione attuata attraverso il debito e la finanziarizzazione.

   Qual è il significato di questo lungo (e qui parziale) elenco di decisioni politiche prese sulla base del potere coercitivo dello Stato imperiale? Il cambiamento nelle relazioni "economiche" non è immanente alla produzione. Né lo sono gli effetti delle "leggi" della finanza, dell'industria o del commercio stabilite dalla teoria economica. Gli "automatismi" economici imposti politicamente dagli Stati Uniti negli anni '70 e '80, non possono che riprodurre i fini per i quali erano stati istituiti politicamente (finanziarizzazione, economia del debito, delocalizzazione industriale, ecc.), e riprodurre, pertanto, la crisi. Questi apparati non hanno la capacità di innovare; sia distribuendo il potere in modo diverso, sia producendo nuove relazioni tra Stati e classi, che poi servirebbero in quanto condizioni per una "nuova" forma di produzione. La configurazione dei poteri che stiamo esaminando, richiede una rottura. Essa non è deducibile dalla situazione che ha portato a questa crisi. Ma richiede un salto fuori dalla situazione. Il salto va pensato e organizzato da una "nuova" classe dominante, una classe che soggettivizzi la rottura, occupando lo Stato e usandolo strategicamente. L'amministrazione assume qui il ruolo e la funzione dello stratega, del signore della guerra che decide, e che lo fa sulla base del rapporto amico-nemico, e non più sulla "parità" di scambio tra contraenti, stabilendo chi deve pagare, e quanto va pagato. per la crisi degli Stati Uniti. Per poter capire la "politica" degli Stati Uniti, la quale ha gestito, da un po' di tempo, queste fasi di accumulazione primitiva, non dobbiamo, né contrapporla alla"economia" e né ridurla alla classe politica nel suo insieme. Essa costituisce il coordinamento tra i vari centri di potere (amministrativo, finanziario, militare, monetario, industriale, basato sui media) in modo da dotarli di una strategia. Gli interessi eterogenei che li caratterizzano, trovano così una certa mediazione nella necessità di combattere contro un "nemico comune";  il resto del mondo, ma in primis i BRICS, e in particolare la Russia e la Cina. L'amministrazione Trump assume la funzione di capitalista collettivo, di leader capace di negoziare una strategia con quelle che sono le altre potenze finanziarie, militari e monetarie, le quali sennò continuerebbero ad agire secondo i propri interessi, anche qualora fossero interessi che alla fine devono comunque convergere; poiché a essere in gioco non è tanto la salute dell'economia americana, quanto piuttosto la possibilità del collasso della macchina economico-politica del capitalismo finanziario e del debito. Una macchina che è arrivata al capolinea. L'intimidazione economica e il ricatto, l'intimidazione e il ricatto dell'intervento militare, delle guerre e del genocidio, vengono mobilitati tutti insieme. Gli Stati Uniti.  con il pretesto del narcotraffico, minacciano di intervenire nel "loro proprio cortile" (l'America Latina), vale a dire, in Colombia, Messico, Haiti ed El Salvador, mentre simultaneamente puntano le armi contro il Venezuela. Hanno invitato a Buenos Aires (19/21 agosto) i ministri della Difesa della regione per chiedere un perfetto allineamento contro la Cina e imporre un rafforzamento della presenza militare americana negli "Stretti" (Magellano, Panama, ecc.). «I quali potrebbero essere utilizzati dal Partito Comunista Cinese per estendere il proprio potere, interrompere il commercio e sfidare la sovranità delle nostre nazioni e la neutralità dell'Antartide». Nelle condizioni attuali, è difficile anche solo parlare di capitalismo, parlare di un "modo di produzione", visto che ci troviamo di fronte all'azione di un "Lord", di un Signore che decide arbitrariamente la quantità di ricchezza che ha il diritto di estrarre dalla produzione dei suoi "servi della gleba". Il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, ha dichiarato, senza un briciolo di imbarazzo, che gli Stati Uniti tratteranno la ricchezza dei loro "alleati", come se tale ricchezza fosse la propria: il Giappone, la Corea del Sud, gli Emirati Arabi Uniti e, soprattutto, l'Europa, si sono impegnati a investire «secondo i desideri del presidente». Si tratterebbe di «un fondo sovrano, gestito a discrezione del Presidente, al fine di finanziare una nuova industrializzazione». Il conduttore di Fox News, stupefatto, lo descrive come un «fondo di appropriazione offshore». Bessent: «Insomma, si tratta di un fondo sovrano americano, ma fatto con il denaro di altre persone». Le relazioni impersonali del mercato, stanno diventando nuovamente relazioni personali, che contrappongono «il padrone e i suoi schiavi», il colonizzatore e il colonizzato. A governare e decidere, non è il feticismo delle merci, non è l'automatismo della moneta, del mercato, del debito, ecc., bensì è piuttosto la forza, in quanto espressione di una volontà politica. Gli Stati Uniti non designano più il loro concorrente, ma piuttosto il nemico; un nemico che ora hanno identificato nel resto del mondo, ivi compresi i loro alleati (in realtà, in primo luogo, alleati nella misura in cui essi fanno parte della medesima classe dominante, e sono terrorizzati dall'idea del crollo del centro del sistema, che porterebbe anche alla loro stessa caduta; ragion per cui, per salvare il capitalismo, sono pronti anche a spogliare le loro stesse popolazioni, in particolare l'Europa che, come il Giappone negli anni '80, verrà costretta a pagare per la crisi degli Stati Uniti, sacrificando la propria economia e le sue classi lavoratrici, ed esponendosi così ai rischi di una guerra civile). La legge del valore, o dell'utilità marginale – ossia, tutte le categorie dell'economia classica o neoclassica – sono del tutto assolutamente inutili. Non spiegano nulla di tutto ciò che sta accadendo attualmente. Al posto dei modelli econometrici, troppo complicati, è sufficiente un'operazione matematica, appresa alle elementari, per calcolare le tariffe applicate al resto del mondo. La cosiddetta complessità delle società contemporanee si dissolve abbastanza facilmente di fronte alla dualità politica amico-nemico. La "distruzione creatrice" non è più una prerogativa dell'imprenditore, ma diventa il lavoro dei decisori politici, economici e militari.

   Nemmeno il Capitale di Karl Marx (partendo quantomeno dall'accumulazione primitiva, invece che dalla merce) risulta molto utile, quando si tratta di spiegare la situazione. Pierre Clastres, la cui lettura di Nietzsche, incentrata sulla volontà di potenza, è assai diversa da quella di Foucault, può darci invece qualche spunto di riflessione: le relazioni economiche, sono relazioni di potere che non possono mai essere separate dalla guerra. La sua descrizione di come funziona il "potere", quando esso si afferma a spese delle primissime «Società contro lo Stato» rimane ancora il commento più appropriato che abbia mai letto per quel che riguarda l'attuale funzionamento di quella macchina statale/capitale che è l'amministrazione degli Stati Uniti. L'ordine economico - vale a dire la divisione della società in ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati - è il risultato di una divisione più fondamentale della società: la divisione tra coloro che governano e coloro che obbediscono, tra coloro che mantengono il potere e coloro che vi sono sottomessi. Diventa pertanto essenziale capire quando e come nasca nella società il rapporto di potere, di governo e di obbedienza. In che modo coloro che detengono il potere diventano sfruttatori, e in che modo coloro che vi sono sottoposti o lo riconoscono – la differenza conta poco – vengono sfruttati? Il punto di partenza, molto semplicemente, è il tributo. È fondamentale. Non dobbiamo mai dimenticare che il potere esiste solo in quello che è il suo esercizio: un potere che non viene esercitato non è potere. Il segno del potere, il segno che esso esiste realmente è, per chi lo riconosce, l'obbligo di rendere omaggio. L'essenza di una relazione di potere, è una relazione di debito. Quando la società è divisa tra chi governa e chi obbedisce, il primo atto di chi governa è quello di dire agli altri: «Noi governiamo, e possiamo dimostrarvelo chiedendovi di pagare un tributo». (*2). Noi, possiamo facilmente interpretare il rapporto tra governare e obbedire vedendolo come determinato dalla violenza dell'accumulazione primitiva che si ripete costantemente; esso e il rapporto tra lo sfruttatore e lo sfruttato, visto come l'esercizio del potere nella "produzione", una volta che "l'ordine" è stato stabilito, e la situazione "normalizzata": entrambi i rapporti (governante/obbediente e sfruttatore/sfruttato) sono azioni complementari della stessa macchina stato-capitale. La critica di Clastres alla "economia", che in ultima istanza determina anche la "politica", ci sembra pertinente, a patto però che si consideri la volontà di potenza e la volontà di accumulazione come le due facce della stessa medaglia. Il tributo da rendere all'amministrazione degli Stati Uniti, dovrebbe essere il segno di una nuova ridistribuzione del potere, capace di elaborare un nuovo "nomos della terra", vale a dire, un rapporto di subordinazione coloniale degli alleati agli Stati Uniti, da un lato, e dall'altro l'operazione più difficile dei BRICS nei confronti degli Stati Uniti. Internamente a ogni Stato, il tributo dovrebbe essere riconosciuto in quanto segno di sottomissione da parte delle classi dominanti, le quali si suppone siano i veri pagatori. L'arroganza di Trump nasconde così la sua debolezza: voler imporre un nuovo ordine mondiale nel mentre che supervisiona la sconfitta della NATO in Ucraina, oltre a una crisi economica mostruosa e un sud globale che non si sottomette così tanto facilmente come invece ha fatto l'Europa. Il nuovo ordine può essere instaurato solo per mezzo dell'imperialismo, caratterizzato fin dal suo inizio dalla complementarietà tra economia e politica, guerra e produzione. L'imperialismo collettivo, definito da Samir Amin negli anni '70, in cui il ruolo centrale era riservato agli Stati Uniti, si è ora trasformato in una vera e propria subordinazione coloniale degli alleati: Europa, Corea del Sud, Giappone, Canada, ecc. L'Europa si trova nella stessa condizione di subordinazione coloniale che l'Inghilterra aveva imposto all'India nel XIX secolo, dal momento che, come quest'ultima, deve ora pagare un tributo al paese "occupante", costruendo e finanziando eserciti europei, con risorse che vengono acquistate dagli Stati Uniti per poter fare la guerra contro quei nemici che vengono definiti tali dal potere imperiale (la guerra in Ucraina rappresenta l'esperimento, un test generale, per questo tipo di guerra).

Il "neoliberismo" e la reversibilità del fascismo e del capitalismo
La nuova sequenza del ciclo strategico, cominciato nel 2008, che ha portato alla guerra aperta, reca in sé una novità enorme. La macchina del capitale statale, non delega più ai fascisti la violenza estrema. Ma è essa stessa che ora organizza tale violenza, sentendosi forse ancora scottata dall'autonomia che assunse il nazismo nella prima metà del XX secolo. Il genocidio getta una luce inquietante sulla natura del capitalismo e della democrazia, costringendoci a vederli come forse non li abbiamo mai visti prima. Il capitalismo e le democrazie, stanno orchestrando insieme, e per conto proprio, un genocidio come se questo fosse la cosa più normale e naturale del mondo. Numerose aziende (logistica, armi, comunicazioni, controllo, ecc.) hanno partecipato economicamente all'occupazione della Palestina e stanno ora orchestrando, senza remore, l'economia del genocidio. Analogamente alle aziende tedesche negli anni '30 e '40, esse promettono enormi profitti derivanti dalla pulizia etnica dei palestinesi. L'indice principale della borsa di Tel Aviv, è salito del 200% nel corso del genocidio, assicurando un flusso continuo di capitali, per lo più americani ed europei, verso Israele. Con il genocidio, le democrazie liberali si sono riconnesse con le loro genealogie che, un tempo felicemente represse, ora tornano per la vendetta. Gli Stati Uniti hanno costruito le loro fondamenta sul genocidio dei nativi americani, e sulle istituzioni del razzismo e della schiavitù, e questo nel mentre che le democrazie europee hanno fatto più o meno lo stesso, sebbene in colonie lontane. La questione coloniale, le questioni del razzismo e della schiavitù, sono state al centro delle due rivoluzioni liberali, verso la fine del XVIII secolo. Il razzismo strutturale, che caratterizza il capitalismo e che oggi si concentra contro i musulmani, è stato spudoratamente scatenato dagli israeliani, da tutti i media occidentali e da tutte le classi politiche occidentali. Anche qui, senza molto bisogno di nuovi fascisti, perché sono gli Stati, in particolare quelli europei, che lo hanno alimentato a partire dagli anni '80 (e questo mentre negli Stati Uniti esso è endemico e centrale per l'esercizio del potere). Il razzismo si trova profondamente radicato nella democrazia e nel capitalismo, sin dalla conquista delle Americhe, perché in esse regna la disuguaglianza, e uno dei modi centrali per legittimare una tale disuguaglianza, è farlo attraverso il razzismo. Il dibattito sui fascismi contemporanei sta avvenendo troppo tardi, forse perché nessuno di questi "nuovi fascismi" è in grado di esercitare una tale violenza e promuovere la distruzione su questa scala. Per varie ragioni, essi non sono più come i loro antenati, i quali vennero incaricati di condurre una massiccia controrivoluzione contro il socialismo. La ragione principale, tuttavia, è la seguente: non esiste un vero nemico che assomigli, nemmeno lontanamente, ai bolscevichi. I movimenti politici contemporanei non costituiscono alcuna minaccia. Sono del tutto innocui. I nuovi fascismi, sono marginali rispetto ai fascismi storici, e quando arrivano al potere si pongono immediatamente dalla parte del capitale e dello Stato, limitandosi a intensificare la legislazione autoritaria/repressiva, e a influenzare la sfera simbolica e culturale. È questo ciò che i fascisti italiani sono in procinto di fare. Trump (o Milei) costituisce l'immagine perfetta del "capitalista fascista", dato che rappresenta una parte della classe capitalista, e agisce come tale. Le azioni di Trump non hanno nulla a che fare con il folklore fascista storico, tranne forse marginalmente, quando agisce a livello geopolitico al fine di salvare il capitalismo americano dall'implosione, imponendo un diventare fascista di ogni aspetto della società americana. Il capitalismo non ha alcun bisogno di delegare il potere, come ha fatto in passato, ai fascismi, e questo poiché, a partire dagli anni '70, la democrazia è stata svuotata dall'interno (vedi la Commissione Trilaterale). Essa produce, dall'interno delle sue stesse istituzioni – così come il capitalismo fa dall'interno della finanza e lo Stato dall'interno della sua stessa amministrazione e delle sue forze armate – la guerra, la guerra civile e il genocidio. Quelli che chiamiamo "nuovi fascismi", o "post-fascismo", non sono altro che degli attori che interpretano ruoli minori. Non hanno altra scelta se non quella di accettare le decisioni prese dai centri di potere finanziari, militari, monetari e statali.

   Come dobbiamo interpretare questa situazione senza precedenti? Essa ha radici profonde nella fase precedente dell'accumulazione primitiva che ha organizzato la transizione dal fordismo al cosiddetto "neoliberismo". Il ciclo strategico organizzato dall'amministrazione Nixon, per far pagare al resto del mondo, come oggi, le crisi accumulate negli anni '60, è stato ancora più violento di quanto sono ora le azioni di Trump: una decisione unilaterale di rendere il dollaro USA inconvertibile in oro (*3), i dazi del 10%, i capitali giapponesi messi a disposizione degli Stati Uniti, "l'Accordo" del Plaza che ha saccheggiato sia il Giappone che, all'epoca, la Cina, sacrificando l'economia di quest'ultima per salvare il capitalismo americano; e poi il ristabilimento delle relazioni politiche con la Cina, che si riveleranno decisive per la globalizzazione; la decisione politica di costruire un "super-imperialismo" attorno al dollaro, e così via. Alcuni degli episodi più drammatici di questo ciclo strategico sono state le guerre civili in tutta l'America Latina, le quali hanno contemporaneamente dichiarato anche la fine della rivoluzione globale, e avviato i primi cosiddetti esperimenti neoliberisti. A questo proposito, è interessante rivisitare l'analisi economica del neoliberismo nascente di Paul Samuelson, vincitrice del premio Nobel, dal momento che essa non viene quasi mai ricordata. Abbiamo considerato l'analisi di Foucault, della "nascita della biopolitica", come se fosse un'impressionante anticipazione del neoliberismo, anche se durante la stessa epoca l'interpretazione di Paul Samuelson tagliava mirabilmente dritto riguardo l'ammirazione del mercato, le libertà, la tolleranza delle minoranze, la governamentalità, ecc., descrivendo l'economia neoliberista come un "capitalismo fascista", nel senso che, con il mercato neoliberale, I due termini diventano reversibili. Questa categoria, dimenticata negli anni che seguirono, ci aiuterà forse a capire la genealogia del genocidio democratico-capitalista. Ciò a cui alludo, è ovviamente la soluzione fascista. Se il mercato efficiente è politicamente instabile, vediamo allora i simpatizzanti fascisti che concludono: «Sbarazzatevi della democrazia, e imponete alla società il regime del mercato. Non importa se i sindacati debbano essere evirati, e che gli intellettuali fastidiosi debbano essere messi in prigione o in esilio». (*4) Il "mercato" (leggi: "capitale", che non è la stessa cosa) ha gradualmente distrutto, a partire dagli anni '70, la democrazia del dopoguerra; l'unica che potesse, anche solo in qualche modo, assomigliare al suo stesso concetto, poiché essa è sorta dalle guerre civili globali contro il nazismo. Una volta esaurita questa energia politica, il capitalismo fascista cominciò ad istituirsi. La logica del mercato, invece di essere un'alternativa alla guerra e alla violenza terribile, li ha contenuti, li ha alimentati, e alla fine l'ha messo in pratica essa stessa, da sé sola, fino al punto del genocidio. Nell'era dei monopoli, il mercato – quella forma di mediazione che si suppone automatica – costituisce, in realtà, il fine di ogni mediazione, perché fa emergere la forza come attore decisivo: la forza dei monopoli, la forza della finanza, la forza dello Stato, e così via. Non solo ci deve essere la guerra civile per instaurarla, ma delega anche il funzionamento del capitalismo alla forza. In questo senso, il mercato è già un'economia fascista. Samuelson, capovolge il più solido dei sistemi di credenze: l'economia dei Chicago Boys – Hayek, Friedman, ecc. – è una forma di fascismo, e costituisce un paradigma per l'economia in generale. L'esperimento neoliberista è quello di una "economia imposta", che poi è esattamente ciò che l'amministrazione Trump sta cercando di realizzare: un "capitalismo imposto" (un altro dei termini felici di Samuelson), un capitalismo imposto con la forza: «L'undicesima edizione del 1980 della mia "Economia", ha una nuova sezione dedicata allo sgradevole argomento del fascismo capitalista. Per così dire, se il Cile e i ragazzi di Chicago non fossero esistiti, avremmo dovuto inventarli come paradigma. È importante citare alcune delle mie parole, tanto più che i conservatori che non amano il modo in cui funziona la democrazia non sono disposti a seguire la loro logica fino alla conclusione fascista di questi giorni e a usare i limiti costituzionali sulla tassazione come forma di capitalismo imposto. Ecco le parole per descrivere il capitalismo fascista...» (*5)

  Piuttosto che chiederci perché il governo stia portando alla guerra, al fascismo e al genocidio proprio come ha fatto nella prima metà del XX secolo, abbiamo accettato la narrativa liberale. Noi stessi non siamo stati in grado di trarre le necessarie conclusioni, eppure siamo passati dalle cosiddette libertà del neoliberismo al genocidio democratico-capitalistico senza colpo di Stato, senza una "marcia su Roma", senza una controrivoluzione di massa, ma come se tutto questo fosse un'evoluzione naturale. Non una sola persona dell'establishment, men che meno le classi politiche e gli esperti, sono stati infastiditi da ciò. Al contrario, questi ultimi si sono allineati con sorprendente fretta attorno a una narrazione che contraddice, da cima a fondo, l'ideologia professata da decenni di diritti umani, di diritto internazionale, di democrazia contro la dittatura, ecc. Perché tutto questo avvenisse senza il minimo intoppo, gli orrori fisici e mediatici del genocidio dovevano essere inscritti nelle strutture del sistema, il quale - una volta emersi gli orrori - li considerava non più come un'aberrazione, bensì come una normalità. Tutto questo si è svolto come se fosse una cosa ovvia. Il capitalismo "liberale" si è naturalmente e pienamente espresso e realizzato nel genocidio senza che ci fosse la mediazione fascista, senza che i fascisti costituissero una forza politica "autonoma" come negli anni '20. Non siamo riusciti a vedere quello che si trovava sotto i nostri occhi, perché abbiamo messo troppi filtri "democratici"; un'idea pacificata del capitalismo che ci impedisce di leggere con precisione ciò che è accaduto con la costruzione del neoliberismo in America Latina. Rileggiamo Samuelson, tenendo a mente tutti i commenti dei pensatori critici che continuano, anche dopo il 2008, a parlare di neoliberismo: «Generali e ammiragli prendono il potere. Spazzano via i loro predecessori di sinistra, esiliano gli oppositori, imprigionano gli intellettuali dissidenti, frenano i sindacati e controllano la stampa e tutta l'attività politica. Ma, in questa variante del fascismo di mercato, i leader militari rimangono fuori dall'economia. Non pianificano e non accettano tangenti. Consegnano tutta l'economia ai fanatici religiosi – fanatici la cui religione è il mercato del laissez faire; fanatici che non accettano tangenti. (Gli oppositori del regime cileno chiamarono un po' ingiustamente questo gruppo "i Chicago Boys", in riconoscimento del fatto che molti di loro erano stati addestrati o influenzati dagli economisti dell'Università di Chicago, ii quali favorivano il libero mercato). Allora l'orologio della storia tornava indietro. Il mercato veniva liberato, e l'offerta di moneta è strettamente controllata. Senza il pagamento del sussidio, i lavoratori devono lavorare o morire di fame. Quei disoccupati ora frenano la crescita del tasso salariale competitivo. L'inflazione potrebbe così essere ridotta, se non spazzata via.» (*6)
In realtà, la funzione del mercato "fascista" non è mai stata economica. Era, soprattutto, repressiva. Contro l'individualizzazione del proletariato e contro ogni azione collettiva o solidaristica e, secondariamente, disciplinare. Il mercato è stato un costrutto ideologico immanente, sotto il cui mantello la predazione poteva procedere tranquillamente, una predazione resa possibile dal monopolio del "dollaro" e della "finanza", così come dalla violenza militare degli Stati Uniti, i veri agenti economico-politici del neoliberismo che non sono mai stati regolati né governati dal mercato. In che modo possiamo confermare la pertinenza del concetto di Samuelson, il quale implica l'ossimoro della "democrazia fascista"? Abbiamo difficoltà ad afferrare la realtà, poiché la tremenda violenza che unisce democrazia e capitalismo nasconde, con sconcertante facilità, i valori dell'Occidente, sanciti dalle sue costituzioni. Il giovane Marx, ci ricorda che il cuore delle costituzioni liberali non è né la libertà, né l'uguaglianza, né la fraternità, ma la proprietà privata borghese. Questa è una verità incontestabile, tanto più che è «il diritto più sacro dell'uomo» affermato dalla rivoluzione francese, l'unico vero valore dell'Occidente capitalista. La proprietà, è di certo il modo più pertinente per poter definire la situazione degli oppressi. L'accumulazione primitiva messa in atto da Nixon negli anni '70, impose politicamente un'appropriazione e una distribuzione iniziali, stabilendo una divisione proprietaria senza precedenti ai tempi di Marx: questa nuova divisione non era principalmente tra capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e lavoratori privati di qualsiasi proprietà, ma tra i proprietari di azioni e obbligazioni, cioè tra i detentori di titoli finanziari e quelli che non ne detengono alcuno. Questa "economia" funziona come i dazi di Trump, estraendo ricchezza dalla società dei "servi della gleba" con l'unica differenza che la predazione procede attraverso gli "automatismi" della finanza e del debito, automatismi che vengono mantenuti continuamente e politicamente. La società è divisa più che mai: ai vertici si concentrano i possessori di azioni/titoli, al di sotto della stragrande maggioranza della popolazione che, in realtà, non è più composta da soggetti politici, ma da "esclusi". Come nel caso dei servi della gleba dell'ancien régime, la "funzione" economica non implica il riconoscimento politico. L'integrazione del movimento operaio, che è stato riconosciuto come un attore politico per l'economia e per la democrazia negli anni successivi alla guerra, si è trasformata nell'esclusione delle classi lavoratrici da qualsiasi istanza del processo decisionale politico. La finanziarizzazione ha permesso a coloro che sono al "vertice" di praticare la secessione. È essa che organizza il suo rapporto con le classi inferiori in modo che sia esclusivamente di esplorazione e dominio. I servi della gleba non solo sono stati espropriati economicamente, ma sono stati anche privati di qualsiasi identità politica, al punto tale da aver adottato la cultura/identità del nemico – l'individualismo, il consumo, l'ethos della televisione e della pubblicità. Oggi sono spinti ad assumere un'identità fascista e una soggettività in tempo di guerra. I "servi della gleba" sono frammentati, dispersi, individualizzati, divisi in mille modi (per genere, razza, reddito, ricchezza) – ma tutti partecipano, in varia misura, alla società segregata stabilita dalla macchina stato-capitale, una macchina che non ha più bisogno di alcuna legittimazione, tanto favorevoli sono i rapporti di potere ad essa. Vengono prese decisioni sul genocidio, il riarmo, la guerra e le politiche economiche senza che nessuno debba rispondere ai propri subordinati. Il consenso non è più necessario perché il proletariato è troppo debole anche solo per pretendere di contare qualcosa. E' chiaro che in questa situazione la democrazia non ha senso. La condizione dell'oppresso assomiglia più alla situazione del colonizzato (una colonizzazione generalizzata) piuttosto che a quella di un "cittadino". Walter Benjamin ci ha avvertito: «L'attuale stupore che le cose che stiamo vivendo siano "ancora" possibili nel ventesimo secolo, non è filosofico. Questo stupore non rappresenta l'inizio della conoscenza; a meno che non sia la consapevolezza che la visione della storia da cui ne trae origine è insostenibile».(*7) Ciò che è inoltre insostenibile è una certa idea del capitalismo sostenuta anche dall'economicismo del marxismo occidentale. Lenin definì il capitalismo imperialista come reazionario, a differenza del capitalismo competitivo, nel quale Marx vedeva invece ancora alcuni aspetti "progressisti". La finanziarizzazione e l'economia del debito hanno creato un mostro, fondendo capitalismo, democrazia e fascismo, e non ponendo assolutamente alcun problema alle classi dominanti. Dovremmo indagare la natura del ciclo strategico del nemico, dichiarando a noi stessi un unico obiettivo: trasformare tutto questo in un ciclo strategico di rivoluzione.

Maurizio Lazzarato - 7 ottobre 2025 -

Note:

1.Le tariffe variano tra il 15% e il 50%. Una riduzione dell'aliquota fiscale è stata promessa a condizione che (1) l'acquisto di titoli dal mercato americano che stanno avendo problemi tra gli acquirenti sui mercati e (2) il trasferimento gratuito di miliardi di dollari agli Stati Uniti. I dazi hanno un duplice scopo: uno economico (gli Stati Uniti hanno bisogno di denaro fresco per coprire i loro deficit), l'altro politico (l'India commercia liberamente con la Russia, ecc., e il Brasile ha "perseguitato" Bolsonaro). - Imposizioni di acquisti di energia USA quattro volte più cari del prezzo di mercato: l'Europa ha promesso di - Un obbligo di investire miliardi di dollari nella reindustrializzazione americana (Giappone, Europa, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti hanno promesso somme astronomiche, con i 600 miliardi di dollari dell'Europa considerati un "regalo" da Trump). Investimenti che saranno a discrezione degli Stati Uniti, sotto la minaccia di un aumento dei dazi. -Il GENIUS Act autorizza le banche a detenere stablecoin come valuta di riserva per far fronte alle difficoltà legate al collocamento degli enormi titoli di debito pubblico. La condizione politica per queste stablecoin è che siano indicizzate al dollaro e utilizzate per l'acquisto del debito statunitense.

2.R. Bellour e P. Clastres, "Entretien avec Pierre Clastres", in R. Bellour, Le livres des autres. Entretiens avec M. Foucault, C. Lévi-Strauss, R. Barthes, P. Francastel, Union générale d'éditions, 1978, 425-442.

3. Mentre gli Stati Uniti uscirono per la prima volta dal gold standard con un ordine esecutivo nell'aprile del 1933, fu solo nell'agosto del 1971 che Nixon pose fine alla capacità dei governi stranieri di scambiare dollari con oro.

4.Paul A Samuelson, “The World Economy at Century’s End,” Human Resources, Employment and Development. Vol 1, the Issues: Proceedings of the Sixth World Congress of the International Economic Association held in Mexico city, 1980, ed. Shigeto Tsuru, Palgrave International Economic Association Series, 1, 1983, 75.

5.Samuelson, "L'economia mondiale", 75. [Nel francese da cui Lazzarato cita, "capitalisme imposé" risuona con la parola per tassazione, cioè "l'imposizione".

6.Samuelson, "L'economia mondiale", 75.

7. Walter Benjamin, "Sul concetto di storia",

martedì 7 ottobre 2025

Piangete ora !!!

Il 7 Ottobre, Hamas e i suoi alleati "di sinistra" hanno sistematicamente ucciso proletari asiatici e africani che lavoravano nei kibbutz
- di Yves Coleman -

Hamas e i suoi alleati, il 7 otttobre, non solo hanno stuprato, torturato e ucciso più di mille ebrei e israeliani (il numero totale delle vittime, di tutte le nazionalità, è di circa 1.200 persone).
Gli assassini antisemiti e genocidi di Hamas, e i suoi alleati, hanno ucciso 68 persone del "Sud del mondo" che si supponeva fossero, agli occhi della sinistra e dell'estrema sinistra, "persone razzializzate", vittime dell'imperialismo, ecc.
46 lavoratori agricoli thailandesi (uno dei quali è stato ucciso sotto la custodia di Gaza), 10 nepalesi (studenti di agraria), 4 filippini (3 infermieri e 1 badante), 1 cambogiano, 2 cingalesi, 4 cinesi, 1 tanzaniano, 2 eritrei e 1 sudanese.
Secondo il rapporto parlamentare redatto da tutti i partiti della Camera dei Comuni britannica, Hamas non è l'unico ad aver commesso questi omicidi, dal momento che altre organizzazioni sono responsabili di questo genocidio contro gli ebrei e di questi omicidi di proletari immigrati. Oltre alle Brigate Izz al-Din Al-Qassam (Hamas), erano presenti sul terreno:
– le Brigate Al-Quds (Jihad islamica palestinese),
– le Brigate Abu Ali Mustafa (Fronte popolare per la liberazione della Palestina),
– le Brigate Jihad Jibril (Fronte popolare per la liberazione della Palestina – Comando generale),
– le Brigate di Resistenza Nazionale (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina),
- i Battaglioni Nasser Saleh al-Din (Comitati di Resistenza Popolare),
- le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa (ex-Fatah),
- i Battaglioni Mujaheddin e le Brigate Al-Ansar (Movimento Al-Ansar).

Secondo lo stesso rapporto, 7.000 uomini armati hanno partecipato ai massacri del 7 ottobre: 3.800 appartenevano alle Brigate al-Qassam di Hamas, e gli altri 2.200 erano divisi tra i vari gruppi menzionati di seguito, e pochi altri. Il loro obiettivo non era solo quello di uccidere il maggior numero possibile di soldati e civili israeliani, ma di uccidere e rapire sistematicamente i lavoratori immigrati, provenienti dal famoso "Sud del mondo", i cui interessi l'estrema sinistra pretende di difendere con i tremori nella voce, tanto è sensibile al pensiero "decoloniale". Cito qui alcuni estratti del rapporto britannico che mostrano come questo massacro sistematico di proletari asiatici e africani sia stato accuratamente pianificato da Hamas e dai suoi alleati, poiché conoscevano l'ubicazione dei dormitori e dei luoghi di lavoro dei proletari immigrati che volevano uccidere e rapire. Le narrazioni che seguono a volte si sovrappongono l'una all'altra perché i parlamentari britannici non erano ovviamente desiderosi di elaborare una narrazione ordinata dei massacri dei lavoratori immigrati e di enfatizzarne l'importanza – dopo tutto, ai loro occhi erano solo proletari. Inoltre, gli Stati i cui cittadini sono stati uccisi sul posto o presi in ostaggio (e poi uccisi in prigionia) hanno mantenuto un basso profilo di fronte ad Hamas, e sono stati attenti a non denunciare gli omicidi sistematici commessi contro questi lavoratori migranti, sottolineando così ancora una volta gli interessi di classe che questi Stati difendono. Ecco alcuni passaggi, un po' sconnessi, del rapporto:
«Gli assassini si sono diretti verso "una fabbrica di confezionamento di frutta, dove hanno ucciso due lavoratori thailandesi e ne hanno presi in ostaggio altri cinque. Intorno alle 10:30, secondo i filmati delle telecamere a circuito chiuso, un'altra squadra di tre uomini armati di Gaza ha fatto irruzione nella residenza dei lavoratori thailandesi del moshav. Gli uomini armati hanno preso i telefoni degli operai, poi i loro vestiti per camuffarsi [...]. In serata, gli aggressori di Hamas sono tornati e hanno attaccato un edificio del Moshav Yesha che ospitava lavoratori thailandesi, "lanciando granate e dando fuoco alle stanze in cui si nascondevano". Weerapon "Golf" Lapchan e altri 11 thailandesi sono fuggiti dall'edificio e si sono rifugiati in un frutteto. "Abbiamo saltato il muro e ci hanno sparato da dietro. Bang, bang, bang, bang."»
[...] Il kibbutz Alumim ospitava un certo numero di lavoratori thailandesi e studenti nepalesi in programmi di studio-lavoro. Il 7 ottobre, dei 23 civili uccisi nel kibbutz, 22 erano cittadini thailandesi e nepalesi. I militanti di Hamas hanno lanciato granate nei rifugi dove si nascondevano gli studenti nepalesi, nonostante le loro suppliche di "Siamo nepalesi, siamo nepalesi", e hanno sparato indiscriminatamente contro l'edificio in cui risiedevano i lavoratori thailandesi. Molti operatori sanitari stranieri [tra cui 3 operatrici sanitarie e un'assistente sanitaria, tutte filippine] sono stati uccisi insieme ai loro pazienti anziani o malati, che si sono rifiutati di abbandonare. Amitai Ben-Zvi, 80 anni, soffriva del morbo di Parkinson e il 7 ottobre si è recato al rifugio con la sua badante filippina, Gelienor "Jimmy" Pacheco. All'arrivo, i militanti di Hamas hanno forzato la porta del rifugio e hanno sparato a Ben-Zvi tre volte, uccidendolo all'istante. Era sdraiato sul letto nel suo rifugio. Due dei proiettili hanno colpito anche Pacheco, che si nascondeva sotto il letto prima di essere scoperto dagli uomini armati che lo hanno rapito e portato a Gaza" dove è morto per le ferite riportate. […] Il rapimento e il maltrattamento di diversi ostaggi thailandesi è stato filmato anche in video pubblicati su Telegram. In uno di essi, si vede un uomo thailandese che viene portato via su una motocicletta mentre attivisti e civili di Gaza si radunano intorno a lui e lo picchiano, con il sangue visibile sul collo. [...] Al kibbutz Nir Oz, 19 cittadini thailandesi che lavoravano nel programma agricolo del kibbutz sono stati uccisi nei loro quartieri. Mentre era ancora vivo, gli assalitori hanno cercato di usare una zappa da giardino per tagliargli gli arti superiori prima di tentare di decapitarlo. Un video recuperato da uno degli aggressori mostra un lavoratore straniero con una maglietta gialla sdraiato a terra, con il sangue che gli cola intorno all'addome, picchiato ripetutamente da un assalitore. La vittima viene poi presa a calci in testa prima di alzare le braccia per legittima difesa, cercando di proteggere il viso e la testa dagli attacchi. Gli aggressori vengono poi visti usare una grande zappa da giardinaggio per cercare di smembrare e decapitare la vittima alle spalle e al collo.»

Hamas e i suoi alleati, non solo hanno ucciso direttamente i lavoratori immigrati asiatici, ma hanno anche preso di mira con razzi «un dormitorio di lavoratori stranieri thailandesi situato nel sud, vicino al moshav di Naveh. […] Withawat Kunwong, un contadino thailandese, si trovava nell'allevamento di tacchini del kibbutz quando la comunità è stata attaccata. Si è nascosto per diverse ore, ma è stato scoperto da uno degli intrusi che ha cercato di rapirlo. Quando Kunwong si rifiutò di arrendersi, l'intruso, vestito in abiti civili, gli tagliò la gola e il volto con un grosso coltello, poi lo lasciò per morto. È stato salvato e curato da altri lavoratori » Gli assassini si sono diretti verso «un rifugio antiaereo in cui si erano rifugiati dodici contadini thailandesi per sfuggire al lancio dei razzi. (Prima del 7 ottobre 2023, più di 5.000 lavoratori stagionali thailandesi lavoravano nelle fattorie nel sud di Israele e altri 20.000 nel resto del Paese. I thailandesi erano il secondo gruppo più numeroso di ostaggi dopo i cittadini israeliani.) Intorno alle 8:30 del mattino, i terroristi hanno radunato i lavoratori thailandesi, tranne uno che si era nascosto sotto un letto, e li hanno portati fuori. Hanno poi ordinato loro, sotto la minaccia delle armi, di salire su un rimorchio agganciato a un trattore. Gli aggressori hanno guidato il trattore e il rimorchio fino al cancello principale, ma non sono stati in grado di aprire l'elettricità del villaggio dopo aver tagliato l'elettricità. Così i terroristi hanno lasciato il kibbutz attraverso un cancello pedonale, spingendo i loro ostaggi thailandesi davanti a loro, e poi hanno fatto saltare in aria il cancello principale con una granata a razzo. Fuori dal cancello, hanno costretto i thailandesi a sedersi sul pavimento. Mentre i terroristi li fotografavano e chiedevano i loro nomi prima di portarli a Gaza, le forze di sicurezza israeliane si sono avvicinate attraverso la foresta. Uno dei thailandesi li vide e gridò ai suoi compagni di sdraiarsi a terra. I commando israeliani hanno poi aperto il fuoco, uccidendo uno dei terroristi. I thailandesi salvati sono stati riportati in una zona più sicura del kibbutz. Anche se il contingente di lavoratori thailandesi di Mefalsim è sopravvissuto, altri 39 che si trovavano nell'area [in realtà 46 proletari del Trhailand sono stati uccisi da Hamas e dai suoi alleati] non sono stati così fortunati e 31 sono stati rapiti e portati a Gaza. […] Lungo la strada, gli uomini armati hanno attaccato l'area in cui alloggiavano i lavoratori e gli studenti stranieri. Mitchai Bara bon, un contadino thailandese che faceva il bucato, ha assistito all'inizio dell'attacco. "All'improvviso, ho visto uno dei nepalesi che veniva colpito, gli altri sono corsi a nascondersi nel rifugio antiaereo, e poi sono arrivati i terroristi". Mentre si avvicinavano al rifugio dove i nepalesi si erano rifugiati, gli studenti di agraria gridavano: "Siamo nepalesi, siamo nepalesi". Tuttavia, gli aggressori "hanno continuato a sparare e hanno lanciato due granate nel rifugio". Una granata è stata lanciata da uno studente nepalese, l'altra è esplosa. "Dopodiché, il bunker era completamente coperto di sangue". Due degli studenti nel rifugio sono stati uccisi e altri cinque feriti. Secondo Sarabon, "gli altri sono fuggiti, anche loro sono stati fucilati". Uno degli studenti nepalesi, Dhanbahadur Chaudhari, è rimasto svenuto a causa delle esplosioni di granate nel rifugio. "Quando mi sono svegliato, ero coperto di sangue e ho visto i miei amici morti e feriti intorno a me. Un amico non aveva gambe, un altro non aveva mani. C'erano i cadaveri dei miei amici all'ingresso del bunker. Lo studente KO Pramrod si è nascosto "per almeno quattro ore" sotto un mucchio di cadaveri. "Alcuni amici sanguinavano copiosamente, ma io non potevo fare nulla. A quel punto, non sapevo nemmeno chi fosse morto e chi fosse vivo". Lo studente ha poi detto a un giornale: "Anche dopo essere tornato in Nepal, sono ossessionato dal ricordo dei miei amici insanguinati che mi implorano di aiutarli. È un trauma che mi segnerà per tutta la vita". Alle 7:05 del mattino, le telecamere a circuito chiuso hanno ripreso gli assalitori che sparavano alla sala di mungitura e all'edificio residenziale dei lavoratori thailandesi. Il filmato mostra chiaramente uno degli aggressori che lancia una granata nell'edificio.[…] Uomini armati all'interno del kibbutz hanno scoperto lavoratori thailandesi nascosti nelle cucine dei loro quartieri. Hanno lanciato granate nella stanza e l'hanno mitragliata con armi automatiche. "Diverse persone sono state uccise dagli spari; altri sono stati estratti e uccisi all'esterno". L'edificio ha preso fuoco. Mithai Sara Bon, che aveva assistito all'attacco agli studenti nepalesi due ore prima, era uno dei thailandesi colpiti dalla sparatoria. "Tutto stava bruciando, la stanza, le persone, e ho deciso di saltare e correre". Sara Bon, che era stata colpita da due proiettili, è fuggita dall'edificio in fiamme. Era quasi riuscito a raggiungere la strada e a rifugiarsi negli aranceti del kibbutz quando è stato colpito una terza volta. Ancora cosciente, "sono rimasto molto calmo fino a quando non se ne sono andati, volevo che pensassero che fossi morto anche io". Sara Bon è rimasto a terra per tre o quattro ore fino a quando non è stato salvato dalla polizia israeliana. È stato portato in ospedale e si è ripreso a sufficienza dalle ferite per tornare in Thailandia un mese dopo. Dodici thailandesi sono stati uccisi ad Alumim. Subito dopo l'attacco, il gran numero di corpi carbonizzati trovati sul posto ha reso difficile determinare con certezza quanti lavoratori thailandesi fossero stati uccisi o quanti aggressori fossero morti durante i combattimenti. […] Alle 8:15 del mattino, un gruppo di uomini armati di Hamas si è recato alla residenza dei lavoratori agricoli thailandesi del kibbutz e ha rapito sei di loro. L'ostaggio Manee Jirachat ha testimoniato che, poiché il loro veicolo non era abbastanza grande per portarli tutti e sei a Gaza, gli infiltrati hanno sparato alla testa a due di loro, Pongsathorn Khunsri, 25 anni, e Kiattisak Pattee, 35 anni. Jirachat ha anche descritto in dettaglio i maltrattamenti subiti durante il rapimento. […] Durante l'attacco al kibbutz, i terroristi hanno preso di mira anche il dormitorio che ospitava i lavoratori del kibbutz thailandese. Hanno ucciso 11 degli uomini che hanno trovato lì e ne hanno rapiti altri 11 per portarli a Gaza. Tra le vittime c'erano due fratelli, Pongthep e Apichart Kusaram. Pongthep, 26 anni [...]. Ku rat Kha-Fluan sopravvisse all'attacco. In seguito ha detto a un giornale: "Non dimenticherò mai quei momenti terrificanti e orribili in cui i membri di Hamas sono entrati nel nostro rifugio e hanno iniziato a sparare in tutte le direzioni. Ricordo soprattutto il caos e la confusione". Ha aggiunto di aver represso "i momenti in cui ho visto i miei amici essere uccisi davanti ai miei occhi". »
Da questi resoconti, appare quindi molto chiaro che Hamas e i suoi alleati "di sinistra" non solo sapevano dove dormivano i lavoratori immigrati asiatici e africani, ma che li stavano deliberatamente molestando. Non si tratta assolutamente di "proiettili vaganti", uccisioni "non intenzionali" o "danni collaterali" nel contesto di uno scontro tra gruppi armati palestinesi e israeliani armati. Nessun giornale o sito (per quanto ne so) si è davvero interessato ai lavoratori migranti assassinati il 7 ottobre 2023, compresi i siti thailandesi in lingua inglese. Per quanto riguarda le pubblicazioni di sinistra o di estrema sinistra, per quanto ne so, nessuna pubblicazione ha fatto eco alle sue informazioni o, soprattutto, ha messo in discussione la questione di come un movimento di "resistenza" che presentano come "anticoloniale" possa essere stato determinato a uccidere sistematicamente i proletari asiatici e africani. Questo silenzio la dice lunga.

ELENCO DEI LAVORATORI ASSASSINATI DA HAMAS E DAI SUOI ALLEATI (informazioni tratte dal sito del Ministero degli Affari Esteri israeliano poiché gli Stati interessati non si sono degnati di fare questo lavoro)

• Thai (46 anni):
• Il corpo di Nattapong Pinta, che era stato rapito, è stato trovato a Gaza il 7 giugno 2025. Nattapong Pinta, 35 anni, sposato e padre, era stato rapito dal kibbutz Nir Oz, dove lavorava da diversi anni
• Sonthaya Oakkharasri, che lavorava al kibbutz Be'eri, è stato assassinato e il suo corpo è stato portato a Gaza, dove è ancora tenuto in ostaggio.
• Sudthisak Rinthalak, che lavorava al kibbutz Be'eri, è stato assassinato e il suo corpo è stato prelevato da Gaza, dove è ancora tenuto in ostaggio.
• Jakfung Jantassana, assassinato nel kibbutz Kissufim
• Sumchai Sayang, 24 anni •
• Papontanei Pongkrueh
• Chaya Reksanon
• Arenthit Kayson, 29 anni, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Pathay Kiyatissek, 35 anni, assassinato vicino alla Strisciadi Gaza
• Saryut Penkitwanitcharon, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Tawatchai Sieto, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Pongfat Suchart, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Dueh Sayan, 35 anni, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Tianchai Yodtongdi, 32 anni, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Kraysorn Tomiyoma, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Cherkpan Diotaisong, 37 anni, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Seta Homsorn, 36 anni, assassinato vicino alla Striscia di Gaza
• Phichit Najan
• Nitikorn Sae Wang
• Sattawat Phiaaia
• Duwa Sayan, 35 anni, assassinato vicino a Gaza
• Somchai Sayang, 24 anni, assassinato vicino a Gaza
• Tou Cae Lee
• Anucha Sophakun
• Phongphat Suchat
• Sakda Surakhai
• Chairat Sanusan, assassinato nel kibbutz Kissufim
• Somkhoun Pansa-ard
• Arnan Phetrkaeo
• Patti Kiatisk, 35 anni, assassinata vicino a Gaza
• Nanthawat Pinjai
• Seriyut Pankitwanitchirnm, assassinato vicino a Gaza
• Thanakrit Prakotwong
• Saksit Khotmee,
• Jaroon Chatdumdee,
• Srithat Kawao,
• Saksit Khotmee,
• Apichart Gusaram,
• Phongphat Suchat,
• Pongsatorn Khunsree, 25 anni, assassinato nell'attacco al kibbutz Alumim
• Arnatit Kayson, 29 anni, assassinato vicino a Gaza
• Theerapong Klangsuwan, assassinato nel kibbutz Kissufim
• Meechai Ritthiphon,
• Chai Recsanun, assassinato vicino a Gaza
• Phithak Tholaeng,
• Phirun Thanonphim, nepalese (10):
• Frabash Bandari, assassinato nel kibbutz Nirim.
• Dipash Raj Bista, assassinato nell'attacco al kibbutz Alumim
• Lukandra Sinj Dami, 24 anni, assassinato nel kibbutz Alumim
• Narayan Prasad Neupane, 22 anni, assassinato nel kibbutz Alumim
• Ananda Shah, assassinato nel kibbutz Alumim
• Raj Kumar Swarnakar, assassinato nel kibbutz Alumim
• Rajan Fulara, assassinato nel kibbutz Alumim
• Ashish Chaudhary
• Ganesh Kumar Nepali, assassinato nell'attacco al kibbutz Alumim
• Padam Thapa, assassinato nel kibbutz Alumim. Filippini (4):
• Angeline Agirs, 32 anni, uccisa nel kibbutz Alumim
• Loretta Alkarra, uccisa nella sua casa nel Kibbutz Alumim
• Gracie Cabrera, 45 anni, uccisa nel Kibbutz Be'eri
• Vincent Castelvi, 42 anni, assassinato nel Kibbutz Be'eri Cambogiani (1):
• Chum Udum, 24 anni, assassinato nel Kibbutz Karmia Sri Lanka (2):
• Sujith Nissanka, 48 anni, assassinato nel Kibbutz Be'eri
• Anula Jayathilaka, 49 anni, assassinato nel Kibbutz Be'eri Chinese (4):
• Chi Zanhung, 47 anni, assassinato a Sderot
• Zishom Wohn, 36 anni, assassinato a Sderot
• Dali Zoeo, 35 anni, assassinato a Sderot
• Zishon Won, 36 anni, assassinato a Sderot Tanzaniani (1):
• Joshua Loitu Mollel, 21 anni, rapito dal kibbutz Naha Oz, poi assassinato durante la sua prigionia. Eritrei (2):
• Wolderaphael (Tigre) Hagos Berhe, 40 anni, richiedente asilo, ucciso a Sderot.
• Goytum Jabrahiwat, richiedente asilo, assassinato a Sderot sudanese (1):
• Adam Barima, assassinato a Sderot

Yves Coleman, da "Né patria né confini", 7 ottobre 2025.

lunedì 6 ottobre 2025

GIANFRANCO SANGUINETTI (16 luglio 1948 – 4 ottobre 2025)

Ciao Gianfranco, è stato bello conoscerti, divertente la tua amicizia.
Sentirmi dire da te che un ebreo e un siciliano insieme non potranno mai essere fermati. Le nostre Derive in questa nostra città, come quando sul ponte Santa Trinità mi raccontavi di tua madre e delle sue imprese in una Firenze "nazista". Porto con me la tua definizione di "editor", per me, a causa del mio povero raffazzonato blog che dicevi essere il primo che leggevi la mattina, e grazie al quale mi avevi scritto, per poi chiamarmi, per vederci, la prima volta che eri tornato a Figline. I miei consigli per il tuo mal di denti, e tuoi proverbi sui ... traslochi; i nostri terremoti. E in fondo alle nostre passeggiate, pardon "Derive", almeno un paio di bottiglie di vino erano il minimo indispensabile seduti al bar di qualche tuo vecchio amico in Santo Spirito. Mi mancherai Gianfranco, la tua voce, e le tue telefonate da Praga. Come mi hanno insegnato le tue mail...
Con amicizia

domenica 5 ottobre 2025

Abbiamo bisogno di "Fiction" !!

Verso una politica di destituzione: nuclei e campo rivoluzionario
- di Anonimo - Ottobre 2nd, 2025 -

«Ogni generazione deve, in relativa opacità, scoprire la sua propria missione: compierla o tradirla.» (Frantz Fanon)

   La nostra generazione si trova con le spalle al muro. E qui, per generazione, non si intende la solita divisione mainstream per fasce d'età, ma piuttosto tutti coloro che, in un dato momento, si pongono le stesse domande e affrontano gli stessi problemi. Il muro che ci troviamo di fronte, è quello del significato. È questo ai renderci orfani. Orfani politici; orfani delle forme, delle spiegazioni, e di quelle parole da cui trarre un senso per la conflittualità storica nella quale siamo coinvolti. Come osservava Jacques Camatte nel 1973, «I militanti passano da un gruppo all'altro, e in tal modo, così facendo, "cambiano" ideologia, portandosi dietro con sé, ogni volta, il solito carico di intransigenza e di settarismo. Alcuni di loro riescono a percorrere traiettorie estremamente ampie, passando dal leninismo al situazionismo, per riscoprire il neobolscevismo e poi passare al consiliarismo. Vanno tutti a sbattere contro questo muro, e in alcuni casi si viene respinti, più che in altri.» [*1] Questo effetto di rimbalzo, è sempre presente: alcuni, dopo essere stati respinti a causa del fallimento di una lotta territoriale, diventano marxisti , mentre altri diventano formalisti rimbalzando sulle delusioni della comunità, ed altri ancora vengono gettati nelle braccia del movimentismo a causa dei fallimenti del loro gruppo. In queste diverse forme, tutti cercano le risposte che poi illumineranno la situazione e daranno loro i mezzi per combattere. Gli è che però che il nostro periodo di sperimentazione differisce da quello che ha caratterizzato il precedente ciclo di lotta. Ora, le stesse domande non hanno più le medesime risposte. Ciò che le varie prospettive rivoluzionarie del XX° secolo avevano in comune, era il programmatismo. Detto in breve: la rivoluzione sarebbe stata realizzata grazie all'ascesa del proletariato in quanto classe, e dalla sua riappropriazione delle forze produttive capitaliste. Anarco-sindacalista, socialista, trotskista o maoista; era questo il punto di partenza di tutti i modi di pensare al rovesciamento della società capitalista, ognuno dei quali indicava in essa il nemico da sconfiggere. Ora ci troviamo con una capacità di chiarezza strategica assai più debole, rispetto a coloro che ci hanno preceduto. Come possiamo abbattere quel muro di significato, su cui così tanti sono rimbalzati negli ultimi decenni? Per noi, il significato è stato a lungo legato alla nostra esperienza politica: un rifiuto del mondo, e una sperimentazione all'interno di quel rifiuto, e il tentativo di farne una comunità. Una relazione comune con la politica, è quella che potremmo definire come una comprensione soggettivista del significato dell'impegno, come un rapporto esistenziale con la politica. Questo modo di pensare che dice: «Scelgo di lottare poiché questo è un modo di vivere intensamente, pienamente», viene però contraddetto nel momento in cui la politica ci appare ridondante, piuttosto che nuova, allorché l'intensità lascia il terreno della politica, quando la comunità è lacerata. Ecco che allora inseguiamo altrove la follia del movimento, nella forma di coppia, nel lavoro, nell'arte, oppure ci abbandoniamo alla nostra follia. A questo modo di pensare, corrisponde una concezione oggettivista del significato che afferma che «la rivoluzione sarà il risultato di una graduale ascesa al potere delle masse», e che la storia si muove inesorabilmente in questa direzione. L'ultimo decennio, nel quale il movimento operaio è stato inghiottito dal mondo del capitale, e il linguaggio della protesta ha rafforzato la costruzione politica del potere. L'enfasi che viene  posta sulla determinazione storica della rivoluzione, dettata da condizioni materiali oggettive, viene annullata da dei movimenti che muoiono senza nemmeno tentare l'insurrezione, e senza costruire un contropotere, poiché i tentativi di rivoluzione danno origine solo a nuovi governi, altrettanto deplorevoli di quelli che si lasciano alle spalle. Senza cadere in nessuno di questi vicoli ciechi, senza però negare la forza che ciascuno reca in sé, diciamo: «la rivoluzione non è necessaria – se vista come necessità inevitabile della storia – ma è però realmente possibile.» Crediamo che sviluppare questa possibilità, e la possibilità di agire, al suo interno, come forza etica oltre che politica, implichi il dover porre la questione dell'organizzazione. E il problema dell'organizzazione riguarda il tempo che separa il nostro presente da una possibile rivoluzione. Questo tempo, è un tempo di interrogativi e di sperimentazione politica, ma è anche un tempo di esperimenti etici che ci legano a questa scommessa. Poiché, se la rivoluzione è solo possibile, allora è anche possibile che non avvenga, e che il corso catastrofico degli eventi prosegua. Ecco perché dobbiamo continuare a riaffermare la nostra scelta in ogni occasione che abbiamo. In quest'ottica, il presente testo si propone di contribuire, a livello locale e internazionale, al dibattito sulle forme organizzative rivoluzionarie. Nel ciclo di lotta che sta volgendo al termine, la destituzione è stata una potente forza trainante. Piuttosto che chiudere questo capitolo negandone il significato, è fondamentale imparare da esso e aprire una nuova fase di sperimentazione politica. Sviluppando alcune finzioni comuni – la destituzione, il campo rivoluzionario e il nucleo – il nostro scopo è quello di approfondire le intuizioni che si sono dimostrate giuste, mentre dissezioniamo quelle che ci hanno portato fuori strada. Tali strumenti possono cambiare il nostro rapporto con ciò che traspare dai vari paesaggi politici che incontriamo. Non siamo soli nella nostra ricerca di risposte. Questo è ciò che spinge ognuno di noi a cercare, nonostante le differenze di lingua e nonostante il divario tra le nostre esperienze, ciò che ci unisce, e a chiederci se ciò che abbiamo in comune sembra sufficiente. Abbiamo appena iniziato.

Movimenti destituenti   
La Destituzione era stata vividamente espressa dallo slogan "¡Que se vayan todos!" [*2], la parola d'ordine del movimento argentino nei primi anni 2000. Negli anni che seguirono, ci furono di nuovo sommosse, segnate non solo da un rifiuto del mondo così com'è, ma ancor più dal rifiuto di cercare una via d'uscita che chiudesse una particolare sequenza politica. L'obiettivo era quello di farla finita con tutte le concezioni di "cambiamento sociale", così come con la prospettiva di prendere il potere. "Fuck toute", avevano detto gli studenti in lotta nella Quebec del 2015. Allo stesso modo, su scala globale, oggi sta accadendo qualcosa del genere, un'esacerbazione della violenza politica nelle strade che non chiede di avere alcuna legittimità, non si basa su nessun soggetto che possa essere chiaramente identificabile, e non viene giustificata da alcun progetto sociale. Nel 2008, contro quella che era la sua stessa grammatica politica leninista, Mario Tronti esclamava che si stava aprendo un'altra storia, dove la logica della rivolta non fa più riferimento a un qualche progetto di costruzione di qualcosa, ma consiste nel mettere in crisi tutto ciò che nella crisi esiste ; non è più qualcosa di meramente politico, ma etico. Per Tronti, la rivolta etica riflette lo stato di crisi in cui si trova la soggettività operaia portatrice di un progetto positivo. Essa testimonia il crollo del programmatismo. Ciò che si rivela in questo tipo di rivolta, è proprio il rifiuto della totalità del modello sociale, il quale non lascia spazio ad alcuna esteriorità, intromettendosi anche negli aspetti più intimi della nostra vita. L'etica perciò affiora nelle rivolte contemporanee, proprio perché spiega la morsa totalizzante del dominio, per fare qualcosa che le risposte politiche classiche non sono riuscite a fare. Inoltre, ciò che è in gioco, e contro cui si combatte in queste rivolte, non è un nemico che potrebbe essere concepito come totalmente esterno a noi, ma è anche qualcosa che ci attraversa. Non è solo l'istituzione o la merce, ma il nostro bisogno di esse, e la presa che esse hanno su di noi. Si tratta di una determinata relazione con il mondo, dei modi di pensare, di fare e di amare che qui vengono interrotti. L'ipotesi della povertà presuppone pertanto che altre forme di vita possano essere inventate a partire dall'interno di questo rifiuto del mondo. Vengono così scartati quelli che erano alcuni elementi centrali della tradizione rivoluzionaria classica: la presa del potere statale, la dichiarazione di una nuova costituzione, o il decreto, dall'alto, di nuove istituzioni rivoluzionarie. L'ipotesi storicista, secondo cui la destituzione è «la dinamica dell'epoca successiva alla sconfitta del movimento operaio», rappresenta un possibile uso del concetto di destituzione, visto come descrittivo. Per quanto interessante, questa analisi rimane tuttavia insufficiente, dal momento che essa offre solo una visione unilaterale di ciò che avviene nelle situazioni politiche. In realtà, la loro realtà è invece ambivalente. Come ha affermato Kiersten Solt nella sua critica a "Endnotes": «Lo sconvolgimento contemporaneo costituisce il luogo di un incontro conflittuale tra gesti destituenti e forze costituenti» [*3]. Per quanto sia più precisa, anche questa affermazione non ci convince del tutto. Il pensiero politico che ne consegue rimane limitato. Se abbiamo bisogno di pensare al di là dell'opposizione tra gesti destituenti e forza costitutiva, ciò è perché tutto questo non ci permette di immaginare cosa possa essere una forza destituente. Il nostro ruolo di rivoluzionari non può ridursi alla diffusione o alla spiegazione di alcuni gesti compiuti all'interno dei movimenti. È questo il limite riscontrato anche in delle ipotesi come il "meme-con-forza", o la generalizzazione di atteggiamenti come "front line" o il "black bloc". Nel dare centralità alle forme inventate nel corso delle brecce aperte dalle rivolte, non è più nemmeno certo che una simile concezione della destituzione possa essere una concezione della rivoluzione. Nei recenti dibattiti, è stato scritto molto sulla destituzione vista come gesto negativo, e non abbastanza su ciò che una politica rivoluzionaria e indigente potrebbe o dovrebbe essere. Per noi si tratta di saper distinguere tra una descrizione storica e un gesto di prescrizione politica. Partire dalla constatazione che le dinamiche destituenti sono all'opera, senza limitarci a descriverle, rappresenta per noi un primo passo verso la formulazione di una posizione destituente. Da questo punto di vista, tuttavia, vediamo emergere due strade: la destituzione della politica, e la politica della destituzione. Il nostro obiettivo in questo testo è quello di identificare alcune delle impasse che vediamo in quella che chiamiamo la destituzione della politica, e in quella che a sua volta delinea una politica della destituzione.

La Destituzione della Politica
Ciò che il movimento delle piazze, le ZAD, le insurrezioni degli ultimi anni, e i "non-movimenti", nei quali la vita si reinventa attraverso la lotta, mostrano soprattutto un divario insormontabile tra le aspirazioni di coloro che intraprendono la lotta e le loro traduzioni politiche, anche da parte delle organizzazioni più radicali. La destituzione, si riferisce alla consapevolezza che non ci sarà più alcuna organizzazione in grado di unire tutte le richieste, per lo meno nessuna che non sia una truffa all'interno di un quadro negoziale, nessuna che non vada poi a beneficio dello Stato. Se perfino le organizzazioni "rivoluzionarie" sono assai lontane da ciò che sta accadendo ovunque sul pianeta a ogni minimo segno di insurrezione, allora che senso ha tenersele strette? In questi ultimi anni, una delle risposte che è emersa sostiene che dovremmo invece concentrarci sulla condivisione di questi momenti, di certe esperienze del mondo e del cambiamento etico, che emergono nelle situazioni polarizzate. Come suggerisce il titolo della rivista Entêtement, si tratta di «mantenere una sensibilità». Dappertutto, in quest'epoca, il "noi" rappresentativo [basato sull'identità] è stato sopraffatto dal "noi" esperienziale, che per quanto sia assai malleabile e instabile, è eppure così potente. Il "noi" rappresentativo su cui è stata costruita questa società, non può comprendere questo emergere storico di un "noi" esperienziale. E pertanto sono letteralmente terrorizzati, traumatizzati e indignati da esso.[*4] Una forma di ciò che chiamiamo la destituzione della politica, sostiene che ciò che deve crescere è la distanza tra l'etica (il "noi" esperienziale) e la politica (il "noi" rappresentativo). La diffusa disillusione nei confronti della politica rappresentativa, e l'apertura di questioni che vanno ben oltre la logica dell'interesse, indicano di certo un'apertura che è necessario approfondire. Però, prendere posizione a favore dell'etica in questo modo, tende a svuotare la possibilità di un "noi", che così finisce per non essere né rappresentativo né puramente esperienziale, ma piuttosto di parte. Una nuova idea di politica può nascere solo dal fallimento del suo concetto rappresentativo. Le rivolte etiche, se non sono sostenute da una forma politica cadono preda di due tipi di tradimento. Il più evidente è il tradimento riformista: una rivolta contro il mondo intero (che comprende in esso anche il nostro modo di essere), o finisce per passare alla storia come un movimento contro uno dei suoi aspetti particolari, o come una vittoria da cui proviene un senso di progresso e di giustizia.[*5] L'altro tradimento è quello che, pur riconoscendo la natura totale della sfida politica, nell'emergere di questa verità dimentica la centralità della rivolta e, da lì, si ritira nell'etica. Per il primo è facile immaginare i leader dei movimenti che sono diventati politici, i presidenti delle ONG, i professionisti di sinistra di ogni tipo. O secondo, invece, sono coloro che, avendo sperimentato la rivolta, vedono la loro vita sconvolta e, nel tentativo di separarsi da tutto, alla fine rompono con la rivolta stessa. Essendo entrati nei movimenti attraverso la porta politica, ne escono dalla porta etica, e cercano di creare un mondo nel quale questo modo di essere possa fiorire. Dopo l'ebbrezza dei movimenti, ci sono molti che pensano di poter continuare in questo modo. Il tentativo di formulare un orientamento basato sul ripiegamento etico, tende troppo facilmente a condurre sulla strada di ciò che chiamiamo alternativismo. L'alternativismo è una delle figure che associamo alla destituzione della politica. Concentrandosi sui progetti in quanto progetti, esso ci offre la possibilità di accontentare tutti. Per i radicali, l'orizzonte alternativista è quello di una contro-società, mentre per i riformisti il cambiamento avverrà attraverso la graduale diffusione di queste pratiche all'interno dell'economia. In breve, non c'è alcuna lotta frontale contro l'egemonia dell'economia, e non c'è il pensiero di andare oltre «ciò che è possibile, qui e ora»; c'è solo l'abdicazione di fronte alla lotta da condurre. Il fatto che - anziché combattere - ci siano radicali e riformisti che difendono la proliferazione delle filiere corte, delle bioregioni e dei centri di servizio alla comunità, è più indicativo della sconfitta storica dei rivoluzionari, piuttosto che della loro vittoria ideologica. In poco tempo, l'infrastruttura che avrebbe dovuto fungere da supporto diventa la fine di sé stessa. Mettendo in atto infrastrutture che non sono immediatamente politiche, si spera di contribuire a una possibile situazione politica, o addirittura a una crisi futura. Così, nella sua forma autonoma, l'alternativismo esprime una distanza dal tessuto insurrezionale, e colloca l'antagonismo in un tempo futuro. Verrà un giorno in cui queste terre nutriranno i comunardi! Chi mai può essere contro la virtù? In ogni caso, la prefigurazione di un mondo post-rivoluzionario, unita al desiderio di costruirlo ora, ha avuto la precedenza sulla costruzione di una forza politica.

Quali forme dopo l'informalità?
Fino a poco tempo fa, l'enfasi sulla rivolta etica andava di pari passo con il rifiuto di tutte le forme di organizzazione. Per un po' di tempo, l'alternativismo è apparso come una strada seria, che non tradiva ciò che lo aveva originato. Più in generale, mentre l'informalità e la destituzione sembravano andare di pari passo, rapidamente abbiamo percepito i loro limiti. In diversi modi, gli ultimi anni hanno visto la questione dell'organizzazione tornare come se fosse una vendetta. L'organizzazione informale - che è l'opzione implicitamente dominante nell'attuale ciclo di lotta - sta esaurendo la sua spinta, e incontra critiche da tutte le parti. La dinamica, che si basava sulla ricorrenza di movimenti sociali classici, in cui le organizzazioni riformiste o pseudo-rivoluzionarie potevano essere sopraffatte, criticate e combattute, con la pandemia ha intonato il suo canto del cigno. Dopo gli ultimi focolai insurrezionali, ogni possibilità politica è stata schiacciata dalla gestione autoritaria del Covid. La maggior parte dei gruppi informali preesistenti si è ridotta al loro coinvolgimento nei vari progetti (comunità, mutuo aiuto, quartiere, centro sociale, affari, riviste), se non a mantenere un atteggiamento pessimista, persino cinico, nei confronti di qualsiasi tentativo politico. Certo, ci sono ancora dei gruppi informali che mantengono relazioni politiche partecipando a questa o quella lotta, ma come ipotesi tutto questo non ha più senso. Il fallimento della prima fase della sperimentazione destituente – che potrebbe essere definito come il primo ventennio del XXI secolo – ha pertanto prodotto una reazione formalistica che si manifesta nella creazione di gruppi aperti. Questa reazione, crede di poter rimediare alla debolezza del movimento rivoluzionario per mezzo di soluzioni tecniche: strutture formali di impegno che permettono l'allargamento della base organizzativa. Alcuni hanno perciò reagito agli evidenti fallimenti dell'informalità [*6] indossando i vecchi abiti della politica: si oppongono alla clandestinità del gruppo attraverso gruppi formali, pubblici, aperti, volti a rompere l'isolamento di una politica condannata come settaria. Ma stranamente, i vestiti vecchi odorano di vestiti vecchi, e il formalismo sta tornando a delle strutture incentrate su categorie sociali, come la classe e altri indicatori oggettivi, oppure (spesso si tratta di entrambe le cose) a teorie avanguardiste dell'organizzazione. Il pendolo è tornato indietro, portando gli ex sostenitori dell'informalità a rispondere al problema dei numeri, dell'impegno e dell'isolamento per mezzo delle strutture pubbliche, e all'indicibilità del loro contenuto etico e politico, attraverso ampie petizioni di principio (anticapitaliste, femministe, ambientaliste, ecc.). La loro pubblicità, che si presume sia una garanzia di espansione e di propagazione, porta alla fine a dare la sensazione di essere troppo esposti per potere avere l'intensità desiderata, o per trarne forza a posteriori. Inoltre, nei momenti critici, gli spazi aperti non forniscono la fiducia necessaria a mettersi davvero in gioco, e la vaga condivisione di identità o di principi non genera un vero e proprio impegno.

Cercare la soluzione al problema della forza, significa porre la questione al contrario. L'organizzazione pubblica può dare una momentanea sensazione di potere, ma questo si rivela ingannevole nei momenti in cui la polizia tenta di schiacciare sistematicamente ciò che viene fuori. Quando queste organizzazioni pubbliche escono di nuovo fuori nella loro costruzione politica, esse vengono sconfitte dalla repressione. Non contengono i semi del loro superamento, bensì quelli del loro stesso schiacciamento. In un momento di sorveglianza e di controllo specifico, a causa del vacillare dell'ordine capitalista globale, nella sfera pubblica non ci può più essere un gruppo apertamente – e veramente – rivoluzionario. Oltre al problema dell'apparenza, il ritorno all'uso di finzioni storiche obsolete, o di categorie sociologiche derivate da una nuova critica, non riesce a dare un senso al conflitto contemporaneo. Questi termini trovavano la loro forza nella capacità di dare senso a ciò che si viveva. Erano strumenti di semplificazione, come lo sono sempre i concetti politici. Oggi, le piroette retoriche, e l'arsenale accademico necessari a dare loro un senso, testimoniano la loro fragilità, non la loro forza. Il programmatismo, non ha fatto il suo corso perché il movimento operaio è stato sconfitto come nemico, ma è finito perché è stato inghiottito dal mondo del capitale. Tutto ciò che ha reso forte il movimento operaio, è stato integrato nel regno dell'economia. Ciò che potrebbe essere visto come l'espressione del proletariato  o - come diceva Marx - di un «ordine che è la dissoluzione di tutti gli ordini», è andato perduto per sempre. Il movimento operaio è nato nell'economia, e pertanto non sorprende affatto che lì sia morto! Per molti, c'è una grande tentazione di tornare alla lotta di classe in quanto spiegazione generale. Serve loro, come stampella analitica nella loro ricerca del potere, che queste ipotesi storiche hanno effettivamente portato all'esistenza. Invece di imboccare questa strada, ci chiediamo: quale forza è stata resa possibile dall'ipotesi della lotta di classe? Anche se la terminologia del passato non può aiutarci a cogliere la complessità degli eventi che si presentano oggi, resta il fatto che la finzione è una cosa seria. Abbiamo bisogno della finzione per poter credere nella realtà di ciò che stiamo vivendo. Il compito politico più urgente è quello di trovare e condividere i termini che danno senso alle nostre esperienze, a ciò che si oppone al dominio, allo sfruttamento, alla distruzione e a tutte le forme di potere. Il denaro è una finzione, così come lo stato e la legge. Dobbiamo opporre le nostre finzioni a quelle che ci vengono imposte. Insieme al concetto di destituzione; i nuclei e il campo rivoluzionario consentono la ricapitolazione della conflittualità storica.

Organizzare una forza destituente
La destituzione implica una «crisi di ciò che è», un rifiuto totale del mondo. La posizione che chiamiamo "destituzione della politica" fa parte di questa negatività. Tuttavia, a causa del suo rapporto ambiguo con la conflittualità, essa non riesce a partecipare allo sviluppo di una forza rivoluzionaria; una forza capace di affrontare il potere costituente, e non solo di chiedere la diserzione da esso. Inoltre, la risposta formale data dall'opinione pubblica, vale a dire, il rinnovamento dell'anticapitalismo, non riesce necessariamente a soddisfare le esigenze della clandestinità imposte dal potere. Come abbiamo detto prima, sebbene nei movimenti contemporanei le dinamiche di destituzione siano all'opera, esse sono troppo spesso coperte dalla pacificazione, dall'ordine e dal regno della normalità. Per Idris Robinson, il compito dei rivoluzionari è quello di rivelare le dinamiche della destituzione al fine di sconvolgere l'ordine delle cose e precipitarlo in un conflitto incontrollabile. Piuttosto che dire che la destituzione è immanente nelle rivolte contemporanee, si sostiene che l'ingestibile situazione conflittuale è in realtà il risultato dell'organizzazione di una forza destituente. È pertanto necessario «organizzare un potere capace di produrre un nemico diametralmente opposto, provocando così uno scontro così selvaggio da portare a una situazione totalmente ingestibile, incontrollabile e ingovernabile».[*7] È ovvio che non esiste un interruttore che possa innescare magicamente un confronto così selvaggio da portare a una situazione totalmente incontrollabile. Ciò che è possibile è invece cercare, spingere e rivelare tutti gli antagonismi contenuti in ogni situazione. Come minimo, dobbiamo ricostruire un immaginario di lotta politica, e cercare coloro che possono essere d'accordo su degli approcci simili. Se la miseria della politica ha preso per il momento la forma di un rifiuto, il contenuto di ciò che potrebbe essere una politica della destituzione resta tutto da elaborare. La questione, pertanto, è come se essa consistesse nello sviluppare una forza politica capace di rafforzare la polarità rivoluzionaria all'interno delle situazioni, di rendere più forte l'opzione destituente. Come possiamo assicurarci che «non ne rimanga fuori nessuno»? Armare la distruzione con una politica ci permette di immaginare un contenuto positivo per tutti i vari rifiuti che essa comporta. La politica che qui cerchiamo di descrivere riguarda il modo in cui rimaniamo fedeli a delle situazioni che sconvolgono il corso ordinario delle cose, in modo che ciò che si apre in queste situazioni poi non si richiuda, non appena riprende la normalità. Alain Badiou lo ha detto giustamente, quando ha scritto che "il partito" è ciò che organizza la fedeltà all'evento emancipatore, assumendosene le conseguenze per quanto possibile. Ciò che viene poi rivelato, e a cui dobbiamo rimanere fedeli, è la seguente verità: la normalità dell'economia non è l'unica strada concepibile; È possibile fare scelte basate su altre logiche. Dobbiamo politicizzare i rifiuti in rivolta che emergono e che possono sconvolgere irreversibilmente le nostre vite, diventando parte di noi. Se le rivolte etiche hanno il potere di scoppiare, la sfida allora è quella di trovare le forme politiche che le facciano durare nel tempo, le dichiarazioni che le rendano condivisibili al di là dell'esperienza. Rimanere fedeli a questa verità significa continuare ad alimentare un tale sconvolgimento. Questa densità condivisa, esiste in opposizione all'economia, e impone necessariamente qualcosa che trascende le nostre stesse vite. Da lì, la politica chiama in causa l'idea di un "noi", che è un'appartenenza, ma che dobbiamo sempre cercare di collocare all'interno di un orizzonte, sebbene in quanto partecipanti a un campo. Un'inclinazione contemporanea, profondamente liberale, spinge alcuni a concludere che devono evitare di essere coinvolti in qualsiasi gruppo, che «la mia vita, è la mia scelta». In definitiva, allora sarebbe più interessante navigare nella destituzione emotiva del liberalismo esistenziale, piuttosto che farsi coinvolgere in quella che potrebbe però diventare una deriva settaria. La critica dell'attivismo, che noi stessi abbiamo diffuso, era infatti troppo solubile in quest'epoca.[*8] Per uscire da questo vicolo cieco, crediamo sia necessario formalizzare gli spazi politici. Formalizzarli nel senso di dare loro forma e metterli in parole, in modo da chiarire i contorni di una posizione: chi la condivide, per quanto porosa essa sia, in che cosa ci relazioniamo con essa, e come si può rafforzarla? Crediamo inoltre che sia possibile formalizzare le nostre posizioni senza tradire la nostra appartenenza a un "noi" più grande, quello degli insorti, il nostro partito storico. In altre parole, dobbiamo darci forme politiche, pur sapendo che le situazioni riveleranno i loro limiti e dovranno essere superati. I nostri organi di coordinamento partigiani, i nostri nuclei rivoluzionari, non devono mai perdere di vista il loro rapporto con una cospirazione più grande. Il piano rimane quello della rivoluzione nel momento dell'insurrezione. Tutto il resto sono solo prolegomena. Da un lato, l'"ambiente rivoluzionario", in gran parte caratterizzato dall'informalismo e dal rifiuto di impegnarsi, non è chiaramente all'altezza del compito. Per paura di affrontare il muro del significato, o per una coscienza di sinistra colpevole, abbiamo sviluppato un riflesso per cui si creano spazi per gli altri, anche se ciò significa affermare delle mezze verità nelle quali non crediamo, nella speranza di aumentare il nostro numero. In mancanza di uno spazio in cui mettere in gioco gli orientamenti strategici – e non in termini di lotte settoriali, ma in termini di orizzonte rivoluzionario – i vari tentativi organizzativi sono tutti destinati a produrre un'agitazione radicale senza alcun futuro. D'altra parte, le attuali risposte formalizzanti sono insufficienti a ricostruire una forza capace di realizzare e far crescere la possibilità rivoluzionaria. Qui ci proponiamo di delineare i contorni di questa forza, che chiamiamo il campo rivoluzionario, e lo spazio più ristretto da cui la concepiamo, il nucleo.

Costruire il campo rivoluzionario
Il Partito - che fino a non molto tempo fa ospitava al suo interno la stragrande maggioranza delle organizzazioni rivoluzionarie - negli ultimi decenni è stato sostituito dall'ambiente. Ciò che oggi lega i rivoluzionari, è essenzialmente un insieme di relazioni interpersonali implicitamente politiche. L'ambiente è una fantasia di organizzazione, un aggregato senza orizzonte, quasi accidentale, che si riproduce attraverso date ritualizzate (fiere del libro, manifestazioni annuali, ecc.), in un'estetica radicale, o attraverso la creazione di nuovi progetti che moriranno con la stessa rapidità con cui sono nati. Anche se può concentrare le sue forze durante questo o quell'evento, bisogna ammettere che questa forma non ha prodotto il minimo chiarimento politico che vada oltre il suo microcosmo nell'ultimo decennio. Niente di così tanto minaccioso per il momento. Tuttavia, c'è indubbiamente ancora qualcosa che assomiglia a una sorta di "festa storica", vale a dire,un modo per dare un nome a tutte le persone e alle iniziative che stanno lavorando attivamente per rovesciare il mondo dell'economia e dei suoi governi. Dal momento che è questo modo di immaginare le cose che ci ispira, crediamo che sia possibile formare qualcosa di simile a un campo solo nella misura in cui siamo veramente organizzati. Abbiamo bisogno di "fiction" – di storie, di narrazioni, di idee che ci permettano di pensare e di riconoscerci – che ci spinga a produrre forme. Un piano di coerenza. Per noi, il campo rivoluzionario non è solo un luogo per condividere idee, ma anche per schierarsi attivamente a favore della rivoluzione. Deve servire come spazio per la discussione, per la pianificazione strategica e per l'organizzazione tra i diversi gruppi. Il campo è uno spazio, non è un'istituzione che può essere replicata con i suoi codici e le sue procedure. Piuttosto, si tratta di un modo di pensare alla cospirazione, una forma che sta cominciando a diffondersi. Pertanto, il campo rivoluzionario è tanto un'ipotesi quanto una forma concreta di organizzazione politica. Lo scopo di uno spazio come il campo, è principalmente quello di rimediare alla natura dispersa e isolata delle forze rivoluzionarie. In una data situazione, il coordinamento all'interno del campo ci porta a considerare interventi più potenti, sia tatticamente che in termini di discorso. Evita di moltiplicare le chiamate e di confondersi. Se necessario, pensate ai disaccordi su basi politiche e strategiche, ma non in termini di incomprensioni o di conflitti interpersonali. Al di fuori del movimento, quando le forze tendono a ripiegarsi su se stesse, il campo stabilisce uno spazio nel quale lo scambio permette di resistere nel tempo. Allo stesso modo, il campo offre una distanza strategica tra le forze che lo compongono. Anziché fonderle, ne consente la loro interazione. Il campo non costituisce un punto di enunciazione, o un nuovo soggetto politico capace di agire e di esprimersi. Quello che cerchiamo di organizzare, è la cospirazione: si tratta di trovare il modo per riunire le varie forze in gioco e di uscire dalle nostre impasse. Tuttavia, il campo non può essere ridotto a uno spazio che rappresenti tutti gli elementi che lo compongono. I diversi gruppi, non dovrebbero affrontarlo alla maniera di un congresso – in cui ognuno cerca di affermare le posizioni della propria unità politica, ponendola al di sopra di quelle degli altri – né alla maniera di un'assemblea, da cui una decisione deve emergere attraverso il conteggio dei voti individuali. Le decisioni che vi si prendono, si basano sulla possibilità di accordi, di mediazioni, e di iniziative trasversali alle forze che lo compongono: una nuova situazione può portare a un'iniziativa originale che tuttavia non si sovrappone alla divisione precedente, o a tutti i gruppi presenti, ma è un insieme nuovo a sé stante. L'appartenenza si basa sull'incontro tra posizioni diverse, e deve essere sempre aggiornata; ma proprio per questo è più sincera. Oltre all'appartenenza, raggiunta attraverso un comune senso politico, e la scelta di una narrazione condivisa, crediamo anche nella natura generativa dell'impegno. Il campo deve fornire spazi formali e concreti che abbiano un'interiorità, che siano legati alla presenza attiva e alla partecipazione: spazi di discussione, dibattito, pianificazione, debriefing, ecc. Il grado di formalizzazione, così come le caratteristiche dei gruppi che lo compongono - e la questione se possa includere individui o solo gruppi - rimangono da determinare in base alle linee guida di base stabilite da coloro che utilizzano questo spazio. Anche se il campo non richiede che tutti i suoi membri abbiano le stesse priorità, presuppone tuttavia un criterio e un orientamento di base, che è quello di sollevare e far vivere la questione della rivoluzione: la capacità di dire "noi", anche se questo necessariamente copre le differenze. Ma l'etichetta di "rivoluzionario", applicata indiscriminatamente, non può essere una garanzia di appartenenza. Il campo non è un ambiente, o una rete che raccoglie tutti i tipi di tendenze insieme alle loro rivendicazioni di radicalismo. Per le forze che appartengono al campo, l'attività politica dev'essere parte di una strategia che possa essere spiegata. In assenza di una strategia, allora si profila il problema di una "scatola nera" che possa essere in grado di trasformare magicamente ogni forma di coinvolgimento riformista in attività rivoluzionaria. Ovviamente, è impossibile decidere, al di fuori di una data situazione, cos'è che definisca esattamente una posizione rivoluzionaria. Questo esercizio di discernimento rimane fondamentale; È attraverso tale porta che un giorno dovremo uscire dal tunnel della decostruzione. Non ci lasceremo ingannare di nuovo dal riformismo, o dalla presa del potere statale. La rivoluzione implica uno sconvolgimento dell'ordine stabilito e dei modi di vita da parte delle masse insorgenti. Tutti coloro che lavorano instancabilmente per l'avvento di un simile sconvolgimento, e decidono di organizzarsi su questa base, parteciperanno al campo rivoluzionario.

Formazione di Nuclei densi
Quali sono le forme politiche che si troverebbero all'interno del campo rivoluzionario? Indubbiamente un po' di tutto ciò che abbiamo visto prima: gruppi di affinità, piccole cellule comuniste, gruppi di amici, membri di organizzazioni politiche, persone che fanno dei tentativi nel contesto di lotte territoriali, o su questioni sociali, o economiche, ecc. La composizione varierebbe sicuramente a seconda del luogo, del livello di intensità e delle forme di organizzazione politica specifiche di ciascun luogo. Tuttavia, la formazione di unità politiche dense e determinate cambierebbe drasticamente quella che è la forza di uno spazio come quello rappresentato dal campo rivoluzionario e cambierebbe anche l'atmosfera politica generale. Queste unità sono ciò che chiamiamo Nuclei Rivoluzionari. Uno dei limiti attuali che vediamo, è rappresentato dalla mancanza di una posizione chiara da parte dei gruppi organizzati. Il gruppo di affinità, così come l'ampia organizzazione formale, sono soggetti a questa lacuna. Per formulare una posizione, un nucleo rivoluzionario dovrebbe porsi alcune domande, tipo: qual è il nostro quadro di analisi? Qual è la nostra prospettiva strategica per i prossimi mesi e anni? A cosa daremo la priorità? Perché? Quali interpretazioni condividiamo delle nostre esperienze comuni? Dei nostri fallimenti e dei nostri successi? Non si tratta di produrre grandi meta-narrazioni, spiegazioni universali che cerchino di abbracciare tutte le esperienze e le situazioni. Le nostre interpretazioni devono essere in grado di adattarsi alla situazione ed emergere direttamente da essa; una volta che vengono fissati, ci limitano e ci confinano a essi. Dobbiamo essere in grado di riunirci intorno a una serie di considerazioni articolate che possano essere ascoltate e condivise dagli altri. I nuclei rivoluzionari sono delle forme politiche capaci di assolvere a questo compito, in quanto costituiscono la forma più densa di organizzazione politica. Non è il numero dei membri all'interno di un nucleo, che ne crea la densità, quanto piuttosto la posizione politica decisa da coloro che lo compongono. La sua posizione non può essere riassunta in dei principi generali, o in identità condivise. Piuttosto, costituisce un forte accordo politico che ha delle conseguenze. La mancanza di posizionamento tra i diversi gruppi organizzati contribuisce alla confusione che attualmente prevale. Senza proposte sul tavolo, è impossibile capirsi o situarsi in relazione l'uno con l'altro, se non attraverso effetti di distinzione; quella interpersonale ha la precedenza su quella politica. Per definizione, una posizione è costituita tanto dalle coordinate che consentono di localizzare un oggetto in relazione a un altro, quanto dall'orientamento che questo oggetto assume in base al suo orizzonte. Il nucleo dev'essere un punto di enunciazione. Prendere posizione, significa esprimere, affermare, formulare, attraverso una presa di posizione che si decide di prendere per essere presa, una lettura del mondo a cui aderire. Tuttavia, una posizione è anche il modo in cui qualcosa è predisposto e organizzato. La forma è inseparabile dalla sostanza. Nel nucleo, l'impegno si basa sulla fiducia e sulla comprensione, le quali rafforzano i legami e mantengono la forma nel tempo. Una simile comprensione si sviluppa attraverso un accordo reciproco: dare priorità a qualcosa che riguarda un orizzonte assai più ampio della vita collettiva del gruppo. Ogni nucleo poggia necessariamente su un fondamento etico, esplicito o meno. Per noi, l'impegno politico implica una profonda trasformazione della vita; significa mettere in discussione il nostro rapporto con il denaro e con il lavoro, sperimentare la vita collettiva, condividere non solo le cose materiali, ciò che abbiamo, ma anche quello che siamo, i nostri desideri, le decisioni che prendiamo. Aprire lo spazio del comune sfida la logica dell'appropriazione e della valorizzazione all'interno del gruppo. Senza voler ridurre la politica alla vita stessa, crediamo che ciò che condividiamo abbia un senso: crediamo che la vita cambi quando essa viene vissuta insieme. Ed è ciò che dà forza e sostiene l'impegno. A partire dalla nostra esperienza, sappiamo che la mancanza di chiarimento sulle forme costituisce uno dei problemi con le bande e con i gruppi di affinità. Questa ambiguità ostacola la loro porosità, e rende arbitrari i loro criteri di appartenenza. Mentre riconosciamo, come importanti, l'intensità della sperimentazione collettiva e l'opacità cospirativa che le guida, è la struttura centrale che offre la possibilità di formalizzare le procedure, chiarire i ritmi e problematizzare le modalità di entrata e di uscita. In questo senso, la cosa assomiglia a un'ampia organizzazione formale. Per non ristagnare, il nucleo cerca necessariamente di incontrare altri nuclei, di diventare più forte e più saggio. È attraverso l'appartenenza al nucleo, che l'impegno dei suoi membri può essere mantenuto e chiarito. Allo stesso modo, la condivisione delle proposte, e l'impegno nei loro confronti, ne rendono possibile l'espansione. I nuclei hanno veramente senso solo nella misura in cui essi rimangono in dialogo con altri nuclei, e con lo spazio più ampio del campo rivoluzionario. Mentre per il momento siamo in grado di sperimentare solo dei nuclei di questo tipo, coinvolgendo solo poche decine di persone, la nostra scommessa è che sia possibile farlo con molte di più. La storia è piena di esperimenti di ogni genere che, senza tradire la densità dei loro legami, sono stati in grado di crescere di numero.

Spazi di sperimentazione: comunismo, uso, politiche
Se a volte sembra che un divario immenso separi i rivoluzionari – quelli del dizionario teorico politico – le nostre inclinazioni puntano tuttavia in una direzione comune. Quasi orfani politici, esausti per essere stati costantemente respinti dal muro del significato, ci sono almeno due cose che ci uniscono. Il primo, e più immediato, si rivela in tutto ciò che cerchiamo di incontrare, o provocare, nei vari movimenti sociali, e in quelle situazioni che ci troviamo ad affrontare: gesti di rottura, discorsi che sfuggono alla logica del diritto e della legittimità, pulsioni ingovernabili. È solo attraverso un supplemento di organizzazione, e non attraverso la semplice partecipazione, che ciò che manca in una situazione può essere compreso e portato a compimento. Il secondo, invece, sta nel nostro desiderio di affrontare la questione rivoluzionaria, basata sui fallimenti del secolo scorso e sugli ostacoli del nostro immediato presente. I nostri percorsi puntano verso una ritirata dalla politica del potere, ma fino a ora sono rimasti in tensione con la formulazione della nostra politica e con il principio dell'organizzazione. È all'interno di questa tensione che ci orientiamo. Stiamo parlando di spazi strategici, in quanto uso della politica. Ma cos'è che rende possibile questo uso o, più in generale, cosa rende possibile la politica? Siamo impegnati nella dimensione negativa della politica destituente, perché sappiamo che è nella distruzione del potere statale che risiede la possibilità della comunizzazione. L'insurrezione, l'evento politico per eccellenza, è proprio il momento privilegiato, dal momento che esso permette di aprire la questione più generale possibile, al maggior numero possibile di persone. In esso, ogni tentativo prefigurativo o progettuale verrebbe umiliato o imposto. Tuttavia, questo ridispiegamento negativo della politica, la sua sfiducia nei fini, ci impone di ripensare il significato del comunismo, il quale è servito da orizzonte nella politica dell'ultimo secolo. Il comunismo è stato disastrosamente inteso e visto come la fabbricazione di un nuovo mondo da parte dello Stato. Oggi, invece, pensiamo al comunismo come alla condizione della politica destituente, in almeno due modi. In primo luogo, il comunismo è il nome dato a una politica di inimicizia e di antagonismo nei confronti del capitale. Come sottolinea Bernard Aspe, esso è il nome dato a una filosofia generale dell'antagonismo, dell'inconciliabilità con il mondo, e della possibilità di esteriorità qui e ora. Il comunismo, è quindi il nome di una possibilità della politica, perché una politica può rivelarsi solo in relazione a un'altra, che le serve come nemico a livello di totalità. Non momentaneamente, in quello che è un processo di modifica interna, ma completamente. È proprio rivelando come siano possibili decisioni diverse da quelle legate agli interessi, che il comunismo si afferma come il nome di una politica contro l'economia. In secondo luogo, il comunismo si riferisce alla condizione della politica in un altro modo ancora: non possiamo immaginare di caricarci sulle spalle qualcosa politicamente, senza un'elaborazione collettiva. Ciò richiede l'apertura di uno spazio in cui la questione della sopravvivenza non costituisca più la questione centrale. Più che un accordo materiale, il comunismo trascende la nostra semplice capacità di sbarcare il lunario, e sorge nel momento in cui gli esseri smettono di contare, e invece condividono, sia ciò che sono tanto quanto ciò che hanno. La ritirata etica è, dopo tutto, solo una delle possibili forme che la destituzione può assumere. Se permettiamo che la dimensione esistenziale del movimento destituente si gonfi indefinitamente, la sua carica comunista finisce allora per essere neutralizzata. Non stiamo dicendo che questa dimensione debba essere negata, ma solo che deve essere collegata alla costruzione di una forza politica. Il comunismo è un'idea che ci guida, qualcosa che miriamo a diffondere, tanto quanto cerchiamo di scoprirlo nel mondo. È una relazione che ci consente di vedere in un gesto, o in un evento, il potenziale di divisione, di intensificazione o di alleanza. Il comunismo è vissuto da molti proprio laddove la logica dell'appropriazione fallisce, come se fosse un ambito: dove si abolisce la distanza tra chi decide e chi agisce, tra chi possiede e chi non lo fa, permettendo di prendere decisioni, di decidere orientamenti, di adottare o eliminare pratiche. In questo senso, il comunismo può essere vissuto solo ponendosi a una certa distanza dallo Stato. Il terreno da cui crescono simili esperimenti, non è quello del piacere del combattimento, o di qualsiasi conoscenza scientifica che riguardi la possibilità che l'incubo potrebbe  finire, sebbene questa possibilità può nutrirci. Il suo terreno fertile è quello della verità condivisa secondo cui l'incubo può finire. Naturalmente, la nostra partecipazione a questa o quella situazione non è mai completamente condizionata; possiamo sempre essere travolti da un evento, indipendentemente da qualsiasi spazio che lo abbia preceduto, o che gli sopravviva. Tuttavia, chiunque trovi lì dei compagni, e decida di rimanere fedele all'evento, si troverà inevitabilmente di fronte alla domanda: come potrebbe continuare tutto questo? Per quanto utile sia la distinzione tra etica e politica, qui possiamo toccare il loro punto di inseparabilità.

- Anonimo - Ottobre 2nd, 2025 - fonte: https://illwill.com/

NOTE:

1. Jacques Camatte, “Against Domestication” (1973), online here. L’originale francese è stato recentemente ripubblicato qui.

2. «Devono andarsene tutti», è la seconda parte dello slogan, troppo spesso dimenticato, («e nessuno deve rimanere»), annuncia forse il compito della nuova fase di destituzione che si sta aprendo.

3. Kiersten Solt, “Seven Theses on Destitution” Ill Will, February 12th, 2021. Online here.

4. Anonymous, Conspiracist Manifesto, trans. Robert Hurley, Semiotexte, 2023, 301.

5. Si consideri l'esempio della sequenza politica del 2012 in Quebec e il modo in cui è stata portata a termine. Molti mesi di accese proteste si sono ridotti alla questione delle tasse universitarie e a un cambio di governo attraverso le elezioni.

6. La politica informale non è stata in grado di fornire una teoria che andasse oltre la propria esperienza. Si limita al silenzio, alla malinconia o alla ricerca.

7. Idris Robinson, “Introduction to Mario Tronti’s ‘On Destituent Power,’” Ill Will, May 22nd, 2022. Online here.

8. Il rifiuto dell'attivismo classico, che separa artificialmente le scelte di vita e le prospettive politiche, ha generato confusione su ciò che costituisce l'azione politica. Il rifiuto della politica classica ha portato a una tendenza a confondere completamente la distinzione tra etica e politica, rendendo oscura o ambigua la differenza tra l'organizzazione dell'esistenza e lo sviluppo delle forme politiche.