lunedì 14 luglio 2025

Il Maoismo nel vento…

Uno sguardo al maoismo e alla sinistra globale*
- di Kevin B. Anderson -

A fronte di quasi un secolo di dibattiti sullo stalinismo, la sinistra internazionale non è mai venuta a patti con il maoismo, in particolare con il suo impatto globale. La disillusione nei confronti dello stalinismo è segnata da date chiare, anzi tragiche, nella politica internazionale: il patto Hitler-Stalin del 1939 che ha dato il via alla seconda guerra mondiale, la soppressione della rivoluzione ungherese del 1956, la repressione della primavera di Praga nel 1968. Tutti questi eventi vengono ben ricordati, e talvolta dibattuti. Con il maoismo, sono invece le seguenti date che segnano eventi tragici, anche per la sinistra globale, ma esse non hanno ricevuto l'attenzione che meritano: il crollo del Partito Comunista Indonesiano Maoista nel 1965, avvenuto a causa di errori di calcolo che hanno portato alla repressione omicida messa in atto da parte dei militari con l'aiuto della CIA; il riavvicinamento della Cina all'imperialismo statunitense, nel 1971-1972, quando Nixon bombardava a tappeto il Vietnam e si imbarcava nella sua campagna per la rielezione; l'auto-genocidio dei Khmer Rossi maoisti; l'inclinazione di Mao verso il Sudafrica e verso lo Zaire di Mobutu, a spese dei rivoluzionari africani, nel 1975-1976. A dire il vero, il fatto che tutti questi eventi influenzati dai maoisti abbiano avuto luogo nel Sud del mondo, piuttosto che nell'Europa occidentale e centrale, spiega in qualche modo la relativa mancanza di attenzione rispetto a essi. Ma tuttavia, questo non è un motivo per continuare oggi in una tale emarginazione. Negli anni '60, negli Stati Uniti, il maoismo divenne un polo di attrazione per le Pantere Nere e  per l'SDS (Studenti per una Società Democratica) , così come per un certo numero di rivoluzionari e nazionalisti africani e, tra gli altri, anche per l'estrema sinistra francese. Molti vedevano la Cina maoista come il prodotto di una rivoluzione socialista di successo che era stata portata avanti da "persone di colore". E mentre essa ha gradualmente perso il suo smalto, in quanto fenomeno internazionale, tutto ciò è arrivato, non tanto con un botto quanto piuttosto con un piagnucolio, senza tutti quei furiosi dibattiti che avevano invece segnato il 1939, il 1956 e il 1968. Il fatto che non ci sia stata una chiara resa dei conti, ha fatto sì che l'influenza ideologica del maoismo continuasse a persistere fino ad oggi, spesso indirettamente. Un esempio di questo, lo si può trovare nelle teorie strutturaliste e post-strutturaliste, le quali hanno influenzato così tanti campi accademici, e che spingevano a concentrarsi su ciò che i marxisti ortodossi chiamavano la sovrastruttura; in particolare in quelle che sarebbero le sue dimensioni culturali e ideologiche. Qui, l'affinità con il maoismo non risiede semplicemente nel fatto che alcuni degli intellettuali associati allo strutturalismo e al post-strutturalismo, all'inizio, siano stati influenzati dal maoismo; persone come Louis Althusser, o come Michel Foucault e Jacques Derrida. La loro affinità con il maoismo risiede anche in un punto teorico indiscutibile: il fatto che il pensiero maoista abbia cercato di sostituire la struttura con la sovrastruttura, notoriamente con la Rivoluzione Culturale.
Un secondo esempio ha a che fare con l'estremo volontarismo del maoismo, a partire da slogan come «Osare lottare, osare vincere», o come «L'imperialismo americano è una tigre di carta», per arrivare  all'avventurismo, o peggio, nella sfera della politica rivoluzionaria: il Partito Comunista Indonesiano, la Cambogia di Pol Pot. Ancora una volta, mentre oggi sono pochi gli attivisti di sinistra che si identificano con il maoismo - a parte dei gruppi come i "Naxaliti" in India, i partiti maoisti in Nepal o il Partito Comunista delle Filippine - il suo spirito volontaristico persiste, in modi più sottili e indiretti, ai margini dell'antifascismo e dell'anarchismo. Questa continuità rende assai importante per la sinistra, e non solo in termini storici, il brillante libro di Julia Lovell. Mentre abbiamo innumerevoli Storie del Comunismo Internazionale, che si concentrano sui partiti, sui gruppi e sugli intellettuali associati allo stalinismo, a partire dagli anni '20 in poi, vediamo come, rispetto a essi, il libro di Lovell colma un'importante lacuna, dal momento che affronta per la prima volta una Storia completa del maoismo in quanto fenomeno globale. È il prodotto di ricerche d'archivio, di interviste ai partecipanti e di un'attenta sintesi degli studi precedenti. Lovell non fa parte della sinistra radicale, ma è una storica accademica, il cui libro resta comunque di fondamentale importanza per tutti noi. E va detto che ci sono alcune delle sue scoperte che aprono gli occhi. Una di queste riguarda la gestazione del resoconto agiografico di Edgar Snow, del 1937, sul maoismo, risalente a subito dopo la Lunga Marcia: "Stella Rossa sulla Cina". Lovell mostra come il libro di Snow sia stato coreografato e curato attentamente da Mao e da altri funzionari del partito: «La trascrizione inglese di Snow, nella versione del traduttore delle parole di Mao» è stata «tradotta in cinese, poi corretta da Mao, e poi ritradotta di nuovo in inglese» . Mentre il libro andava avanti, i rappresentanti del partito continuavano a plasmarne la sua narrazione: «Mentre, per tutto l'inverno del 1936, Snow lavorava duramente per riuscire a trasformare gli appunti in bozze, i suoi intervistati continuavano a inviargli un flusso di emendamenti: dicendogli di rimuovere ogni traccia di dissenso con la politica del Comintern, di eliminare ogni elogio per gli intellettuali cinesi in disgrazia, e di attenuare le critiche ai nemici politici diventati alleati, e parlare così di patriottismo anti-giapponese». È stata questa la prima, ma non certo l'ultima, romanticizzazione del maoismo, messa in atto da parte della sinistra globale.Un altro momento chiave che Lovell chiarisce, è il massacro di mezzo milione di persone, tra indonesiani di sinistra e sospetti tali, nel 1965 da parte dell'esercito e dei suoi alleati islamisti, che ha visto una considerevole assistenza da parte della CIA. Com’è successo?  All'inizio degli anni '60 era ampiamente noto che Mao aveva formato un'alleanza con il nazionalista di sinistra Sukarno, il quale, nel 1954, aveva sponsorizzato la conferenza di Bandung, dei paesi cosiddetti "non allineati". Frequentata da rappresentanti cinesi ma non sovietici, Bandung è stata un momento importante per quel che riguarda la nascita del Terzo Mondo. A sinistra, era anche moneta comune che il Partito Comunista d'Indonesia (PKI) - che dopo la scissione sino-sovietica divenne, tra i partiti comunisti del mondo, il più grande alleato della Cina  - fosse stato colto alla sprovvista dalla ferocia della repressione, nel 1965-1966. All'epoca, l'Indonesia veniva inoltre ritenuta, da parte della sinistra rivoluzionaria indipendente, come la più grande debacle del maoismo visto come movimento internazionale, dal momento che aveva notato che sostanzialmente il PKI, nell'opporsi opportunisticamente a un dittatore nazionalista, non agiva in modo diverso dai partiti comunisti pro-Mosca, senza costruire una sufficiente capacità politica o militare indipendente. Ma per Mao la verità si rivela ancora più complicata e più schiacciante. Gli eventi che avevano portato all'insurrezione abortita guidata dal PKI, e alla brutale repressione che ne era seguita, sono rimasti a lungo avvolti nel segreto. Lovell non riesce a rompere completamente questa segretezza, data la soppressione della propria storia messa in atto da parte del regime cinese. Ciononostante, l'autrice raccoglie prove sufficienti per confermare che la sconfitta della sinistra indonesiana è stata causata tanto da Mao quanto dalla leadership del PKI, e che i disastrosi errori di calcolo del PKI sono stati influenzati dal volontarismo dello stesso Mao. Per dimostrarlo, Lovell riproduce una versione di una conversazione dell'agosto 1965 avvenuta tra Mao e il leader del PKI, D.N. Aidit, in cui Mao chiede ad Aidit di «agire rapidamente» contro i capi dell'esercito conservatore, e di farlo in un momento in cui la salute cagionevole di Sukarno metteva in pericolo l'alleanza del PKI con lui.

   Se questo è vero, Mao ha commesso un errore di calcolo strategico che equivale alla decisione di Stalin di non permettere ai comunisti tedeschi di allearsi con i socialdemocratici nel momento in cui Hitler stava salendo al potere. Comunque sia, l'influenza ideologica del maoismo sul PKI è stata altrettanto deleteria. Come racconta Lovell, alludendo al disastroso sforzo di Mao di trasformare la campagna cinese per mezzo delle "Comuni del Popolo" - cosa che causò la carestia di massa della fine degli anni '50 - : «Nello stile volontaristico del Grande Balzo in Avanti, Aidit iniziò a rifuggire dal tipo di mobilitazione attenta e paziente che aveva avuto luogo negli anni ‘50, a favore di dichiarazioni che enfatizzavano lo "spirito, la determinazione e l'entusiasmo" del pensiero maoista». E mentre Aidit parlava di organizzare una forza paramilitare per contrastare l'esercito regolare, e lo stesso faceva Sukarno, mentre la Cina prometteva grandi quantità di armamenti, in realtà non venne fatto nulla di sostanziale, sebbene si intensificasse la retorica del PKI contro l'esercito. Poi, il 30 settembre 1965, il PKI, agendo con l'apparente incoraggiamento cinese, si mosse per inabilitare la leadership militare. Uccisero un certo numero di generali, ma a causa della mancanza di sostegno nelle strade, o all'interno dell'esercito, soprattutto dopo che Sukarno si rifiutò di unirsi alla loro causa, l'azione si ritorse ben presto contro. Tutto ciò permise, ai generali indonesiani rimasti, di poter orchestrare così uno dei più grandi massacri politici della storia, e di istituire un regime conservatore e anti-operaio, che oggi persiste in forma modificata, in un sistema politico un po' più democratico. Una seconda rivelazione da parte di Lovell, riguarda il rapporto di Mao con Pol Pot, e quello che a volte viene chiamato l'auto-genocidio cambogiano, quando negli anni 1975-1979 ci furono fino a due milioni di persone – un quarto della popolazione – che morirono di fame, di superlavoro e di esecuzioni. La guerra degli Stati Uniti in Vietnam, che Nixon estese alla Cambogia nel 1970, aveva portato a dei massicci bombardamenti nei quali rimasero uccisi un gran numero di civili. Mentre i contadini fuggivano dalle bombe che piovevano sulle aree rurali - dove avevano sede i Khmer Rossi, vale a dire, essenzialmente, il Partito Comunista Cambogiano - la popolazione delle città crebbe, rendendo così la carestia una possibilità reale. Quando, nel 1975 collassò lo sforzo bellico degli Stati Uniti, i Khmer Rossi di Pol Pot presero il potere, entrando nella capitale, Phnom Penh, ed evacuando sotto la minaccia delle armi praticamente l'intera popolazione. Tutto ciò faceva parte di un piano strampalato, ispirato da progetti maoisti, come quello de Il Grande Balzo in Avanti, volto a svuotare le città e a costruire il "socialismo" nelle campagne, sulla base di un aumento precipitoso della giornata lavorativa, accompagnata a delle minime indennità in cibo. Tutto andò a rotoli in seguito all'invasione da parte del Vietnam, nel 1979, che determinò il rovesciamento dei Khmer Rossi e l'installazione di una versione più razionale dello stalinismo, più vicina a quella sovietica di cui esso era alleato. Mentre il fatto che i Khmer Rossi fossero ispirati dal maoismo è noto da decenni, Lovell lo sottolinea ulteriormente: «L'evacuazione delle città, è stata una versione estrema della ruralizzazione dell'era della Rivoluzione Culturale. La creazione delle mense e l'abolizione dei pasti in famiglia replicavano la collettivizzazione del Grande Balzo in Avanti». Inoltre, dimostra come la Cina maoista fosse profondamente coinvolta nel regime di Pol Pot, avendogli assegnato il più grande pacchetto di aiuti che Pechino avesse mai offerto: Un miliardo di dollari in sovvenzioni e prestiti senza interessi. Anche il panno nero per le uniformi simili a pigiami, imposto dal regime, era stato importato dalla Cina. Nel 1975, poco dopo che i Khmer Rossi avevano preso il potere, ma dopo che ebbero completamente evacuato le città sotto la minaccia delle armi, i leader Pol Pot e Ieng Sary si incontrarono privatamente con Mao. Si dice che, durante la loro conversazione, Mao abbia detto: «Io vi approvo! Molte delle vostre esperienze sono migliori delle nostre», al che Pol Pot rispose: «Le opere del presidente Mao hanno guidato tutto il nostro partito». L'anziano e malato Mao, cui rimaneva solo un anno di vita, sembrava sentirsi come se fosse stato frenato. per il modo in cui era stato costretto a cancellare il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale. Aveva anche affermato: «Quello che volevamo fare ma non siamo riusciti a fare, voi lo state ottenendo». Pol Pot espresse sentimenti simili tre anni dopo, ma aggiungendo l'insinuazione di aver superato persino Mao: «Mao ha fermato la sua Rivoluzione Culturale, ma noi facciamo una Rivoluzione Culturale ogni giorno».

   Gli orrori del regime dei Khmer Rossi, causarono un brusco risveglio a molti intellettuali di sinistra che avevano abbracciato il maoismo vedendolo come un'alternativa più militante e anti-burocratica allo stalinismo russo, soprattutto in Francia. Ora, Foucault e altri prendevano le distanze, non solo dal maoismo, ma anche dal marxismo in generale. Fu in quei tempi, che i Nuovi Filosofi parigini presero di mira il "totalitarismo", in modo tale da non essere più in grado di sostenere dei movimenti genuinamente di sinistra, come la rivoluzione sandinista in Nicaragua, e traendo ispirazione dal talentuoso, ma molto destro, scrittore russo Aleksandr Solzhenitsyn. È stato tutto questo che ha contribuito a inaugurare in Francia qualcosa di assai simile a un neo-conservatorismo. Il capitolo sull'Africa, racconta un notevole e costante impegno, da parte della Cina maoista, a sostegno dei nazionalisti e dei rivoluzionari africani negli anni '60, e quasi sempre in competizione con l'Unione Sovietica. La Cina ha ottenuto un sostegno sostanziale per mezzo della Tanzania di Julius Nyerere - uno dei pochi paesi africani liberati nella prima ondata di movimenti indipendentisti -  al fine di evitare il governo dell'uomo forte dell'esercito di destra (Congo-Kinshasa, Zaire, Ghana), o l'autoritarismo apparentemente di sinistra (Congo-Brazzaville, Guinea). Nyerere - che sposò la "Ujamaa" (una forma di socialismo rurale) e che sostenne i movimenti di liberazione nell'Africa meridionale, in quanto leader del principale Stato africano "in prima linea" nella lotta contro l'apartheid in Sudafrica - ricevette un considerevole aiuto cinese. Lo stesso è avvenuto con l'Unione Nazionale Africana dello Zimbabwe di Robert Mugabe, un partito rivoluzionario dichiaratamente marxista, che in seguito ha poi instaurato una brutale dittatura di sinistra. Lovell evidenzia tutte queste relazioni, e dipinge un ritratto molto più positivo riguardo la politica maoista nei confronti dell'Africa, rispetto ad altre regioni. Questo ha una certa validità, visti i risultati come la ferrovia Tan-Zam, completata nel 1975, con un costo enorme per i cinesi, e che ha liberato le miniere di rame dello Zambia dalla dipendenza economica dal Sudafrica creando una linea ferroviaria attraverso la Tanzania. Ma tuttavia Lovell ignora completamente il più grande fallimento della Cina maoista in Africa, quello che ha macchiato la sua reputazione all'interno della sinistra globale quasi quanto lo abbiano fatto gli orrori del regime dei Khmer Rossi. Si tratta della guerra dell'Angola del 1975, la quale ebbe luogo allorché questo paese dell'Africa meridionale, ricco di minerali, si stava liberando dal colonialismo portoghese. Nel corso degli anni, il Movimento Popolare per la Liberazione dell'Angola (MPLA) era diventato il più di sinistra, e profondamente radicato, dei movimenti di liberazione africani del paese. Ma poiché l'MPLA era sostenuto dall'Unione Sovietica, la Cina, dagli anni '60, in poi sostenne l'Unione Nazionale per l'Indipendenza Totale dell'Angola (UNITA), più di destra, che aveva sede nello Zaire di Mobutu. Mobutu, uno dei governanti più reazionari e cleptocratici dell'Africa, era salito al potere orchestrando l'assassinio del famoso leader della liberazione africana, Patrice Lumumba. Il Portogallo cominciò a ritirarsi dall'Angola e dalle sue altre colonie nel 1975, e questo dopo aver sperimentato, nel 1974, la propria rivoluzione di sinistra rovesciando un regime fascista che era al potere dagli anni '20. Gli ufficiali rivoluzionari portoghesi, che erano stati, essi stessi, radicalizzati dal contatto con i rivoluzionari africani, cercarono di consegnare il potere all'MPLA. A questo punto l'UNITA (e un altro gruppo nazionalista di destra più piccolo) fece un'offerta per il potere, sostenuta non solo da Mobutu e dagli Stati Uniti, ma anche dal Sudafrica dell'apartheid, il quale inviò delle truppe nel sud dell'Angola. In tal modo, questo poneva la Cina dalla stessa parte del Sudafrica. Quando l'UNITA, lo Zaire e il Sudafrica subirono un'umiliante sconfitta per mano di circa 36.000 soldati cubani, inviati con l'aiuto sovietico, quell'umiliazione fu anche l'umiliazione della Cina, poiché Mao si venne a trovare ora esposto al mondo come un alleato del Sudafrica. Per i sostenitori della causa della sinistra, più impegnati nella liberazione dell'Africa e del Terzo Mondo, il tradimento della Cina nei confronti del movimento di liberazione africano in Angola è diventato un punto di non ritorno. Tragicamente, il regime dell'MPLA che ne conseguì, indurito dai lunghi decenni di guerra civile con l'UNITA finanziata dagli Stati Uniti, si trasformò in uno Stato autoritario e cleptocratico. Tuttavia, il sostegno di Mao alle forze alleate del Sudafrica giocò un ruolo nella disillusione nei confronti del maoismo, in molti settori della sinistra, in particolare in quelli coinvolti nella liberazione dei neri. Per alcuni, però questo ha portato a una disillusione nei confronti del marxismo, punto. Non sorprende che Lovell, una studiosa della Cina, si senta più sicura nell'analizzare l'impatto del maoismo sui paesi vicini, come l'Indonesia o la Cambogia, piuttosto che nel discutere dell'Africa. Tuttavia, va comunque lodata per aver scritto la prima indagine sul maoismo visto come progetto globale. Nel complesso, si tratta di un lavoro di profonda erudizione e di attento giudizio. Per la sinistra del ventunesimo secolo, contiene una ricchezza di materiale indispensabile  da considerare, se vogliamo evitare i terribili errori del passato. E dato il fatto che il maoismo – o almeno dei modelli teorici e politici simili o da esso derivati – oggi persiste in alcune forme di radicalismo accademico e in alcune tendenze della sinistra attivista, questo libro parla anche a noi.

- Kevin B. Anderson -

* Questa recensione di "Maoism: A Global History" di Julia Lovell è apparsa per la prima volta su New Politics, inverno 2021.

domenica 13 luglio 2025

Strade e Traiettorie

Revolutionary Roads and Marxism Today
- Cosa ci dice l'opera dell'ultimo Marx sul ruolo delle lotte anticoloniali e indigene rispetto al superamento del capitalismo? Quali sono le traiettorie rivoluzionarie del nostro tempo? -
Intervista a Kevin B. Anderson

Grusha Gilayeva: Recentemente Verso ha pubblicato il suo nuovo libro, "The Late Marx's Revolutionary Roads: Colonialism, Gender, and Indigenous Communism". Costituisce il seguito di "Marx ai margini" (2010), il quale si occupava di come quello che era il pensiero di Marx sull'autodeterminazione nazionale, sull'etnicità e sulle società non occidentali fosse cambiato nel corso della sua vita e del suo lavoro. Il nuovo libro, esamina da vicino i cosiddetti quaderni etnologici del tardo Marx, compreso il materiale sulle tribù irochesi in Nord America, le comuni rurali indiane e russe, le antiche comunità celtiche in Irlanda, ecc. Insieme, tutti questi libri rivelano la complessità del pensiero di Marx, al di là di ogni forma di riduzionismo. Eppure, perché dovremmo leggere Marx oggi e quale Marx?

Kevin Anderson: Marx, in quanto rimane il più grande e importante critico del capitalismo, sta tornando alla ribalta fin dall'inizio del XXI secolo, o quanto meno dalla "Grande Recessione". Pertanto, questo libro probabilmente non dovrebbe essere letto isolatamente [dagli altri suoi lavori]. Anche tutte le altre discussioni, come la critica dell'economia politica o l'analisi della minaccia fascista vista da prospettive marxiste, richiedono attenzione. Il mio libro vuole piuttosto essere una risposta ad alcune delle critiche rivolte a Marx nell'ultimo mezzo secolo, a partire dal periodo di "Orientalismo" di Edward Said (1978). Nell'accademia, e nei circoli intellettuali più in generale, quando si tira in ballo Marx, la gente normalmente non dice «beh, mi piace il capitalismo e quindi Marx ha torto», oppure: «beh, il capitalismo mi sembra che stia funzionando piuttosto bene. No? Che ci piaccia o meno. Perciò Marx ha torto ed è superato». Nelle università [americane], è più probabile sentire che Marx era un uomo bianco del 19° secolo che non comprendeva il genere, la razza, e nemmeno il colonialismo, e sicuramente non comprendeva la sessualità, nel senso delle questioni LGBTQ+ o le questioni indigene; tutte quel che riguarda le preoccupazioni contemporanee che motivano oggi molti dei movimenti radicali. Marx viene spesso giudicato al di fuori di queste discussioni. Poi esiste un gruppo più piccolo, ma in crescita, che si identifica di più con Marx, ma dice «bisogna guardare invece alla classe e all'economia». Questi gruppi - diciamo, i sostenitori di Bernie Sanders e le persone DEI ["Diversity, Equity, and Inclusion"], discutono tra loro. Ho sentito persone, nel mondo accademico, dire: «Perché questi maschi bianchi vogliono sempre parlare di classe?» Io provengo da una tradizione del marxismo, dove già molto tempo fa, intorno alla Seconda Guerra Mondiale, si parlava di collegare tutti questi problemi. Era una piccola tendenza [organizzata attorno a CLR James, Grace Lee Boggs e Raya Dunayevskaya], ma a partire da quella base intellettuale, in particolare quella fornita da Raya Dunayevskaya, ho sempre guardato a Marx come a questo pensatore multidimensionale. Ho fatto ricerche serie su questo, da circa 25 anni fa. Nell'ultimo decennio, con un gruppo di altri studiosi, abbiamo cercato di dimostrare che nell'ultimo Marx molte di queste questioni vengono alla ribalta, per esempio, ciò che ha scritto sulla guerra civile negli Stati Uniti, dove vengono discusse le questioni di razza e di classe. Non è che vogliamo dimostrare che Marx non era così cattivo come pensavamo, e che pertanto dovremmo semplicemente andare avanti con i nostri movimenti così come stanno ora. Naturalmente, in Marx c'è sempre una critica assai profonda del capitale e della classe, quindi la mia ricerca dice che, avendo a che fare con Marx, siamo costretti a guardare al capitalismo, e a guardare non solo a livello locale, ma anche a livello globale. Dobbiamo rivolgerci a questi ampi modi teorici di comprendere il mondo, ma che allo stesso tempo non escludono che si possa essere molto specifici riguardo a una particolare società, una particolare lotta, una particolare etnia, genere o orientamento sessuale; e quindi dobbiamo in qualche modo combinare tutto questo.  C'è stato un grande pensiero critico e radicale che ha teso a escludere il capitale e la classe da una seria considerazione. Qualche anno fa, stavo mettendo insieme un programma interdisciplinare di laurea e non riuscivo a trovare nessun corso riguardo la Classe, alla UCSB. Lavoro nel dipartimento di sociologia, e non c'era una lezione regolare sulla Classe, e nemmeno una sulla stratificazione sociale. In tutta l'università non c'era un solo corso con la parola "classe" o anche con "disuguaglianza economica" nel titolo, che fosse tenuto regolarmente agli studenti universitari. La stessa cosa vale, in una certa misura, anche nel programma annuale dell'American Sociological Association. Spero che il mio lavoro, e quello di altre persone come Heather Brown, Kohei Seito, August Nimtz, Marcelo Musto, David Smith e Andrew Hartman (con il suo nuovo libro "Karl Marx in America") cominci a cambiare le cose. Oggi, non si possono dire così tanto facilmente il tipo di cose che Cedric Robinson dice contro Marx nel suo libro [Black Marxism: The Making of the Black Radical tradition, 1983] senza avere almeno una nota a piè di pagina, a partire dal fatto che Marx, all'inizio, potrebbe anche essere stato davvero problematico su alcune delle questioni, ma poi nei suoi scritti successivi ha superato questo.

Grusha Gilayeva: Qual è il rapporto tra i diversi Marx e la lotta contro il fascismo?

Kevin Anderson: Sul fascismo ci sono molte teorie di sinistra, ma penso che le migliori siano due: la teoria del colonialismo e la prassi storica che Trotsky cominciò a sviluppare, e che si può vedere anche in persone come Erich Fromm, sebbene molti non si rendano conto che tra le due cose c'è un collegamento. Iniziamo quindi con il secondo. Secondo Trotsky ed Erich Fromm, quello che differenzia il fascismo dai precedenti movimenti reazionari consiste nel fatto che in esso c'è una base di massa costituita dalla classe media inferiore, la piccola borghesia. Ecco che pertanto il fascismo, in questo senso, ha un suo fascino populista. A partire da questo, perciò noi, in quanto persone di sinistra, dobbiamo guardare a quella base sociale, e cercare di allontanarla dal fascismo, verso la sinistra. La teoria del colonialismo razzializzato – credo che Aime Césaire sia tra i primi ad averlo detto – sostiene che ciò che Hitler ha fatto in Europa, era già stato praticato in larga misura nelle colonie. A tal proposito, si può guardare a ciò che re Leopoldo fece in Congo; che sarebbe l'esempio più ovvio. E gli inglesi e i francesi  nella loro brutalità, non ne erano così lontani. L'intero aspetto razziale del progetto del colonialismo, tutto quel razzismo e quell'antagonismo razziale, combinato con il moderno antisemitismo razzializzato che intanto stava fermentando nel profondo della cultura occidentale, venne alla ribalta col fascismo. Ecco, queste due teorie non parlano molto tra di loro, ma dovrebbero. Per di più, esse riproducono in qualche modo gli ampi dibattiti contemporanei a sinistra di cui ho parlato.

Grusha Gilayeva: Nel tuo libro sostieni anche che Marx ha cambiato la sua comprensione della trasformazione rivoluzionaria, partendo dalla periferia piuttosto che dal nucleo capitalista. Perché, l'ha fatto?

Kevin Anderson: Certo, ci sono state delle rivolte contro il colonialismo, che risalgono a molto tempo fa, ma prendiamone un paio. Di sicuro, ai tempi di Marx, negli anni '50 dell'Ottocento, c'era la ribellione dei Taiping in Cina – che non è propriamente anticoloniale, ma che avviene tuttavia in quella regione che era una semi-colonia. Poi c'erano anche i cinesi che combattevano al tempo delle due guerre dell'oppio. C'è stata la rivolta dei Sepoy in India nel 1857-58. Tuttavia, con la possibile eccezione della ribellione dei Taiping, tutte queste rivolte non avevano un'agenda sociale, in termini di una maggiore uguaglianza, di maggiori diritti delle donne - quel genere di cose che associamo all'ala sinistra - e non erano nemmeno ancora movimenti di liberazione nazionale. Ma alla fine degli anni '60 e '70 dell'Ottocento [le rivolte anticoloniali] assunsero sempre più un carattere che potremmo considerare di sinistra o progressista. Marx aveva sempre sostenuto l'Irlanda, ma alla fine degli anni '60 dell'Ottocento sostenne apertamente il movimento feniano – parte del quale, in seguito, sarebbe diventato l'IRA; e il suo nazionalismo di sinistra. A quei tempi, i feniani erano un po' lontani dalla Chiesa e combattevano per l'emancipazione contadina e per l'emancipazione nazionale. Poi si passa alla Russia, che ai suoi occhi era stata un paese reazionario: aveva agito come forza controrivoluzionaria, contro l'insurrezione austro-ungarica del 1848, e Marx l'aveva vista come il gendarme d'Europa. Poi, dopo le rivolte contadine degli anni '50 dell'Ottocento, l'abolizione della servitù della gleba nel 1861 e la concomitante riforma agraria in Russia, il movimento populista emerse negli anni '70 dell'Ottocento. Furono i populisti [i quali vedevano i contadini, e non la classe operaia, come l'agente della rivoluzione socialista in Russia] che iniziarono a tradurre l'opera di Marx, che venne pertanto ampiamente discussa in quell'ambito. Allo stesso tempo, dopo la soppressione della Comune di Parigi nel 1871, il movimento operaio dell'Europa occidentale si trovò a essere in declino, fino alla fondazione della Seconda Internazionale, avvenuta sei anni dopo la morte di Marx, nel 1889. Se si guarda empiricamente alle possibilità rivoluzionarie nel mondo, dal 1869 fino a circa alla morte di Marx nel 1883, e oltre alla Comune di Parigi che fu rapidamente soppressa nel 1871, vediamo che c'è un enorme fermento rivoluzionario che sta avendo luogo in Irlanda, in Russia. e anche in India. Nel caso della Russia e dell'Irlanda, in quei movimenti contadini che Marx ritiene molto importante c'è anche un elemento di sinistra.

Grusha Gilayeva: Se passiamo a parlare del contesto contemporaneo: esiste un qualche metodo per riuscire a valutare il potenziale rivoluzionario, o la direzione che la sequenza rivoluzionaria può prendere? Riguardo l'ultimo Marx - come spieghi chiaramente in "Marx ai margini" - questa sequenza rivoluzionaria non poteva iniziare facilmente in Inghilterra, nonostante il fatto che fosse il centro del capitalismo del XIX secolo, e avesse la più grande classe operaia.

Kevin Anderson: Per me, questa è la parte più difficile per me, e nel nuovo libro sull'ultimo Marx non l'ho sviluppata completamente. In diversi contesti, Marx dice che i lavoratori inglesi hanno i più grandi sindacati; sono di gran lunga la più grande classe operaia industriale del mondo, dato che nessun altro paese potrebbe nemmeno avvicinarsi al livello di industrializzazione della Gran Bretagna negli anni '60 e '70 dell'Ottocento. Pertanto, è qui che la rivoluzione deve aver luogo se vuole davvero rovesciare il capitalismo. Allo stesso tempo, egli dice che i lavoratori inglesi hanno varie cose che li trattengono. Una di queste cose è il pregiudizio contro i lavoratori irlandesi all'interno della Gran Bretagna che, secondo le sue parole, è quasi altrettanto grave dell'odio razziale che i bianchi poveri negli stati meridionali del Nord America hanno verso i neri precedentemente schiavizzati; è qualcosa che divide la classe operaia. Pertanto, i lavoratori inglesi devono essere stimolati dall'esterno a sostenere la rivolta in Irlanda. Poi, alla fine degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 dell'Ottocento, Marx comincia a pensare che la rivoluzione europea potrebbe avere inizio in Russia, per poi diffondersi in Germania e nell'Austria-Ungheria, ed ecco che  allora i francesi - con la loro tradizione rivoluzionaria - interverranno in qualche modo. In tal modo, ci sarebbe stata, dall'esterno, la pressione, ma anche l'ispirazione. Ma tuttavia, alcune persone interpretano tutto ciò [il pensiero di Marx] in un senso quasi maoista: i lavoratori inglesi sono razzisti e reazionari, e tutto dovrà accadere dall'esterno. Ma penso che egli non avrebbe certo versato tutto questo inchiostro sugli operai inglesi, se non avesse pensato che ci fosse un potenziale rivoluzionario. E dopo tutto, Marx è coinvolto con gli operai inglesi. Essi hanno possibilità rivoluzionarie, ma la rivoluzione è più complicata ed è destinata ad accadere a livello internazionale. Come facciamo a saperlo quasi con certezza? Come facciamo a saperlo quasi con certezza? Perché mentre nel 1869-1870 Marx scrive di quanto sia distorta la coscienza degli operai inglesi, solo circa sei anni prima elogia la classe operaia inglese e la sua coscienza al cielo. Perché? Perché durante la guerra civile negli Stati Uniti gli operai inglesi non appoggiarono l'intervento inglese nel Sud per separarlo dagli Stati Uniti e far fluire il cotone nero verso l'Inghilterra. Gli operai si opposero all'intervento a favore del Sud anche a costo di perdere il posto di lavoro, poiché la guerra civile americana aveva precipitato le fabbriche tessili in un'enorme crisi industriale dovuta all'impossibilità di procurarsi il cotone. Pertanto, non avrebbe certo potuto decidere, in sei o sette anni, che i lavoratori inglesi erano assolutamente reazionari. Quindi, il punto non è che Marx smette di pensare al potenziale socialista delle classi lavoratrici in luoghi come l'Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, ma il fatto è che egli che complica [la sua comprensione del processo rivoluzionario] in termini di difficoltà che sorgono nel modo di sviluppare la coscienza rivoluzionaria; così come complica la motivazione e il programma di vittoria. Vede anche diverse possibilità rivoluzionarie in tutto il mondo, più di quanto non avesse mai viste prima.

Grusha Gilayeva: Mentre parliamo di queste complicate contraddizioni, vorrei sollevare la preoccupazione per il ruolo della Russia nel capitalismo contemporaneo visto che - come stai dicendo - in qualche modo Marx era attento a ciò che stava accadendo in Russia. Non era industrializzata, era piuttosto reazionaria, e lui la vedeva come una forma di potere imperialista. Trentacinque anni dopo la morte di Marx, l'impero russo crollò sotto le sue stesse contraddizioni, esacerbate dalla prima guerra mondiale inter-imperialista, e fu sostituito dall'Unione Sovietica, che servì come centro di attrazione per i movimenti socialisti e comunisti nel Terzo Mondo; insieme e in competizione con la Cina, dopo la scissione sino-sovietica negli anni '60. La Russia di Putin, che è emersa dalla mutilata democrazia di mercato di Eltsin, viene ancora vista a sinistra come se fosse una sorta di forza anti-imperialista progressista. Qual è la tua opinione sul ruolo della Russia nel capitalismo e nella politica contemporanea, alla luce della sua invasione su vasta scala dell'Ucraina?

Kevin Anderson: Ritengo che uno degli aspetti che riscontriamo nel Putinismo, l'ideologia dell'attuale regime in Russia, sia questo strano miscuglio tra il vecchio nazionalismo slavofilo del XIX secolo e il neo-stalinismo. Si potrebbe dire che oggi, sia Stalin che Aleksandr Solzhenitsyn, il più grande nemico dell'Unione Sovietica, sono i grandi eroi dell'attuale Stato russo. La Russia è una potenza imperialista? Sì. Il suo potere è principalmente regionale, quindi non è come negli anni Cinquanta, quando l'Unione Sovietica era un'enorme potenza dal punto di vista militare, politico ed economico. Per alcuni risultava essere anche un modello attraente. Non credo che oggi esista nulla di tutto ciò. Pure se la Cina è la seconda potenza economica del mondo, la Russia è la seconda potenza militare. Anche se la sua tecnologia è un po' vecchia, la Russia ha ancora tutte le testate nucleari e la capacità di usarle. Ma c'è un'altra cosa importante a cui stai alludendo nella tua domanda, e che si applicherebbe all'intero gruppo BRICS. Anche se questi paesi costituiscono un contrappeso all'egemonia degli Stati Uniti, questo cosa significa? Generalmente, le loro politiche sono neoliberiste. Cosa potrebbe significare questo per un paese dell'Africa, ad esempio? Anziché avere la legione straniera francese, avranno il gruppo Wagner. Non è un grande miglioramento! Non si tratta di Che Guevara, e nemmeno della Rivoluzione Culturale di Mao che, per quanto orribile, quanto meno pretendeva in qualche modo di cambiare le relazioni umane, radicalmente. No, è come se volessimo una fetta più grande della torta, però vogliamo anche che la torta abbia esattamente lo stesso sapore e la stessa glassa, e tutto quanto il resto. Naturalmente è la debolezza della sinistra, che la spinge a questo tipo di pensiero. Vedere gli Stati Uniti aiutare Israele a prendere a pugni l'Iran ci rende infelici, e nulla sembra essere in grado di contrastarlo. È come si ci fosse il desiderio di qualcuno che sfidi gli Stati Uniti e i suoi alleati. Le persone arrabbiate con l'imperialismo statunitense, vedono Putin andare in Ucraina e in Cina e flettere i suoi muscoli economici, e non entrare nei dazi statunitensi. C'è un motivo per cui la gente può anche arrivare a dire: «È un bene, così almeno non possono fare tutto ciò che vogliono», ma in questo non vedo nessun programma positivo. E questo ci riporta al motivo per cui, negli anni '70 dell'Ottocento, Marx era così entusiasta della Russia. Certo, vedeva gli intellettuali in contatto coi movimenti rivoluzionari che si stavano formando, che traducevano il Capitale e lo discutevano, ma il suo interesse per la comune di villaggio o mir non significa che pensasse che la rivolta contadina si sarebbe semplicemente unita a un movimento socialista in Occidente per indebolire un po' il sistema. Quello che vedeva nella comune contadina era un vero e proprio potenziale progetto comunista. In questo frangente, egli è molto attento a spiegare che non pensa che il villaggio comunale russo possa essere difeso e sviluppato solo sulla propria base, cacciando le influenze straniere e capitaliste. Dice chiaramente che è necessario allearsi con il movimento operaio rivoluzionario dell'Occidente e con la tecnologia moderna...

Grusha Gilayeva: Tu, tra i potenziali soggetti rivoluzionari indagati da Marx, nomini le società comunitarie autoctone insieme alle comuni contadine. Per la strategia rivoluzionaria della sinistra oggi, questo cosa significa? Visto che in Russia, ad esempio, il numero di autoctoni è in costante diminuzione?

Kevin Anderson: Beh, è così ovunque. Voglio dire, ci sono eccezioni come la Bolivia, che credo abbia una maggioranza indigena che come prima lingua potrebbe anche parlare lingue diverse dallo spagnolo. Per essere precisi, quelle di cui sto parlando sono le popolazioni rurali, poiché il villaggio russo non era [quello che intendiamo oggi] una comunità indigena. Varie forme di comunismo premoderno, che persistono in modi diversi, sono qualcosa di molto interessante. Quando le persone si trasferiscono nelle città dalle zone rurali, portano con sé sensibilità diverse. Se si guarda alla Turchia, il potere di Erdogan viene spesso spiegato a partire dalla sua dipendenza dalla popolazione rurale recentemente urbanizzata, la quale viene vista come sostenitrice dell'Islam politico, del divieto di alcol e di dover coprire il capo delle donne. Se questo è vero, ed esiste quel lato delle popolazioni rurali, che è anche di alcune popolazioni indigene, c'è però anche l'altro lato: un maggiore senso di identità collettiva, e di solidarietà sociale, in contrasto con l'individualismo borghese. Queste popolazioni di recente proletarizzazione, portano con sé le proprie forme di cooperazione e di solidarietà. Tutto questo si lega anche a una vecchia discussione all'interno del proletariato occidentale: in un posto come Chicago, chi è il lavoratore più rivoluzionario? Sono gli operai qualificati tedesco-americani, come i fratelli Reuther – soprattutto, quelli di loro che stanno più a sinistra – che erano operai industriali di seconda o terza generazione: erano qualificati, avevano partecipato ai movimenti sindacali, avevano letto letteratura socialista. Ok, c'è una concezione in questo; i lavoratori “avanzati”, come li chiamano nel lessico socialista. Dall'altra parte, che dire di persone come il mio ex compagno Charles Denby, autore di "Indignant Heart, a Black Worker's Journal"? Arrivò a Detroit nel 1943 nel bel mezzo della guerra; quando non si sa nemmeno cosa sia la parola "sciopero". Ma lì ci sono un sacco di lavoratori neri che arrivano dal Sud, e che sono davvero arrabbiati perché pensano che al Nord saranno liberi,  e sono scioccati quando scoprono che non sono liberi. Così Denby dà inizio a uno sciopero, dicendo che gli operai devono lasciare il lavoro, tutti insieme, perché c'è un sacco di lavoro in fondo alla strada, e costringe così la direzione ad accettare le loro condizioni. Quali sono gli operai più rivoluzionari? In questa situazione, i nuovi lavoratori neri. Ma io penso che abbiamo bisogno di entrambi. Non staremmo avendo questa conversazione, se non pensassimo che mantenere molte di queste discussioni e tradizioni sia importante per i movimenti sociali, perché nessuno di noi due è uno studioso puro non legato all'attivismo. Però, allo stesso tempo, penso che dobbiamo riconoscere che alcune delle lotte più rivoluzionarie provengono da persone che non parlano nemmeno un linguaggio socialista.

Grusha Gilayeva: Mi chiedo solo se, dalla traiettoria del pensiero di Marx, così come lo hai delineato, si possa estrarre un qualche tipo di metodo o di criterio. Quando si trattò di pensare a dei soggetti e a degli alleati nella lotta per il cambiamento rivoluzionario, Lenin usò la lettera di Marx a Meyer e a Vogt, per affermare che il proletariato di una nazione oppressa avrebbe dovuto sostenere la lotta per l'autodeterminazione da parte della nazione oppressa. Pensi che dobbiamo tornare a Marx per legittimare simili affermazioni. o pensi che Marx sia invece utile, piuttosto,  per trovare un metodo per fare delle distinzioni?

Kevin Anderson:  Intendo dire che Marx non è più una figura autorevole, probabilmente non lo è da nessuna parte, sebbene sia ritenuto tale in maniera più significativa in alcuni grandi Paesi come il Brasile o l'India, e naturalmente in alcuni più piccoli. Lì ci sono ancora molti intellettuali e movimenti sociali che sono marxisti. Ometto la Cina, dove il marxismo è più una questione di carrierismo che di reale adesione al pensiero marxista. Forse Lenin è stato il primo a indicare il termine “movimenti di liberazione nazionale”. È un movimento nazionalista? È antimperialista, ma è liberatorio? È reazionario? O è una combinazione di tutte queste cose? Già nel Manifesto del Partito Comunista, Marx ed Engels usano la frase che si suppone si opponga a ogni nazionalismo: «gli operai non hanno patria». Eppure, nelle pagine conclusive del Manifesto, insistono tuttavia anche sul fatto che la classe operaia debba sostenere la Polonia, e la sua ricerca dell'indipendenza come nazione. Marx non lo dice, ma nel mio libro "A Political Sociology of Twenty-First Century Revolutions", penso che il genere venga spesso usato come un'ottima cartina di tornasole. È questo uno dei modi per distinguere i movimenti più fondamentalisti, come gli Ayatollah iraniani o i Fratelli Musulmani, che sono anti-imperialisti e sostengono i palestinesi, ma a causa del genere, tra le altre cose, il loro contenuto socio-politico, nella migliore delle ipotesi è conservatore. E poi abbiamo movimenti esplicitamente di sinistra, come il Rojava in Siria, che per la sinistra globale sono davvero facili da sostenere. Ma quando si sono verificate rivolte gigantesche, come la primavera araba, questi movimenti non erano esplicitamente di sinistra, ma di certo non erano fondamentalisti o islamisti. Questi giovani, e anche quelli che provenivano dai gruppi islamisti, non erano come in Iran nel 1978. «L'Islam è la soluzione», non era il canto per le strade in Tunisia o in Egitto nel 2011. Quando guardiamo ai vari movimenti antimperialisti, spesso possiamo usare il genere – così come la classe, ovviamente – perché ci aiuti a fare una valutazione.

Grusha Gilayeva: In materia di Sociologia politica tu parli anche del legame tra la lotta del popolo palestinese contro Israele e la lotta del popolo ucraino contro l'aggressione russa. Come è possibile fare questo collegamento? Sembra essere in contrasto con la posizione mainstream della sinistra statunitense. Mentre c'è consenso sulla necessità di sostenere la Palestina, quando si tratta dell'Ucraina, il punto di vista risulta totalmente diverso.

Kevin Anderson: Beh, in questo momento, empiricamente, possiamo parlare di una dura repressione in luoghi come il Myanmar/Birmania, dove la rivolta viene violentemente attaccata militarmente. Ma anche lì, i militari non stanno dicendo che ci libereremo del popolo birmano. Mentre sia gli israeliani che gli Stati Uniti di Trump, da un lato, e i russi e i bielorussi, dall'altro, stanno negando ai popoli autoctoni il diritto all'esistenza. La Russia dice: «L'Ucraina, come paese, non esiste nemmeno. Non è mai esistito. L'ucraino è solo un dialetto del russo. E in ogni caso, quelli che pensano che esista sono tutti fascisti e nazisti. E per questo motivo, devono essere spazzati via». E Trump e gli israeliani dicono sempre più spesso che potrebbero espellere tutti i palestinesi, non solo da Gaza, ma anche dalla Cisgiordania; cacciarli non si sa dove, ma cacciarli, se non peggio. Quindi è comprensibile che la nostra sinistra si preoccupi della Palestina dal momento che finanziamo, consigliamo militarmente, e sosteniamo attraverso il nostro governo e tutte le nostre istituzioni, la guerra a Gaza. È anche comprensibile che sui media mainstream, per ragioni geopolitiche,  gli ucraini appaiono come gli eroi. Ma queste lotte sono comunque molto simili. Ho visto la piccola sinistra in seno alla comunità ucraina. E c'è una piccola sinistra nella comunità russa in esilio. Vedo questi gruppi ucraini di sinistra fare risoluzioni sulla Palestina, ma non vedo i gruppi filo-palestinesi in Occidente fare risoluzioni, e mostrare sostegno all'Ucraina. Al contrario, vedo che non dicono nulla. È un vero peccato. Ma, se guardiamo più globalmente, è questa la battaglia che va condotta. Dopo il famigerato incontro, alla Casa Bianca, tra Zelensky e Trump, gli Stati Uniti hanno tolto il tappeto da sotto i piedi dell'Ucraina. Senza quel sostegno dall'esterno, potremmo vedere una parte sostanziale del territorio ucraino che viene lentamente occupato. Non credo possano essere conquistati, ma possono tuttavia essere divisi. E questo è davvero orribile perché la mancanza di sostegno allontana gli ucraini e i filo-ucraini dalla sinistra. E più sentiamo qualcuno, come Zelensky, dire «sosteniamo Israele, poiché il suo progetto nella lotta al terrorismo e alla violenza è il medesimo del nostro», più diventa difficile, per la sinistra, sostenere l'Ucraina. Di certo, i trumpisti sembrano non avere alcun problema a vedere la somiglianza tra Ucraina e Palestina, visto che vogliono schiacciarle entrambe. Non esageravo, nel libro, quando ho detto che queste sono lotte per l'esistenza stessa di queste nazioni. E vediamo Trump stare dalla parte sbagliata in entrambe. Forse questo sveglierà un po' le persone. Penso che sia un segno della natura reazionaria dei tempi, il fatto che anche la sinistra non possa fare di più. Ricordo i tempi del 1968 in Cecoslovacchia, o del 1980 in Polonia, e di come porzioni ampie della sinistra globale sostenessero la Polonia e la Cecoslovacchia più di quante ne sostengano l'Ucraina oggi. Allora, la sinistra stessa era molto più grande. E naturalmente, quando la sinistra è più grande, questo significa che una maggiore base sociale.Se si dispone di un gruppo di poche migliaia di persone fortemente legate a una particolare politica, si può sostenere implicitamente o esplicitamente regimi come la Siria di Assad o persino la Corea del Nord e non se ne perderanno molte di queste persone. Ma se si ha una base nella classe operaia, o in un'altra grande forza sociale, essi lasceranno in massa il vostro partito, come è successo al Partito Comunista Francese dopo il 1956 e il 1968.

Grusha Gilayeva: Pensi che a sinistra ci sia una tendenza a identificare lo Stato e il popolo? Molti a sinistra, vedono che Vladimir Putin rappresenta in qualche modo il popolo russo, indipendentemente da tutte le elezioni truccate che egli ha messo in scena. Anche Zelensky incarna la volontà del popolo ucraino e anche Hamas, abbastanza curiosamente, incarna la volontà del popolo palestinese. Ma questa tendenza non si applica agli Stati Uniti, dove nessuno nega che il divario tra la parte del popolo e il governo non avrebbe potuto essere più ampio.

Kevin Anderson: Questo modo di pensare risale almeno allo stalinismo. Gli stalinisti hanno detto assai chiaramente che certi popoli sono rivoluzionari, quasi in maniera permanente, mentre altri sono reazionari. Ad esempio, i ceceni venivano considerati reazionari e quindi vennero deportati verso il Kazakistan. C'è un discorso di Stalin, risalente ai primi anni '30, in cui egli dice che i russi - non il popolo sovietico - sono i più rivoluzionari. E naturalmente, se siamo rivoluzionari e se andiamo in Ucraina, allora dobbiamo fare cose buone. Quindi c'è questa tendenza all'emarginazione, e io penso che, più ci allontaniamo dal cosiddetto centro occidentale, più diventa facile farlo anche agli occhi delle culture globali dominanti. Per le persone è difficile, a causa dell'orientalismo e così via, vedere come differenziato il popolo palestinese. Mi occupo molto dell'Iran, e vedo che, in questo senso, per molte persone [negli Stati Uniti] è difficile vedere la popolazione iraniana come differenziata. Questo è un grosso problema e, naturalmente, è qui che la classe diventa davvero importante. Nel mondo, tutte le società che conosco oggi hanno classi dirigenti. Per quanto ne sappiamo, la Cina potrebbe avere la più grande disuguaglianza economica di tutte le nazioni veramente potenti. Hanno anche molti miliardari reali, mentre la popolazione complessiva è molto più povera che nei paesi occidentali. Quindi il divario economico, in Cina, è in realtà maggiore di quanto lo sia in Francia, o negli Stati Uniti. Sappiamo anche dall'indice di Gini che il Sudafrica è al primo posto nella disuguaglianza economica. Anche negli anni '60 non si sentiva molto parlare di classe, in relazione ai movimenti antimperialisti. E l'Ucraina non si oppone nemmeno all'imperialismo dell'UE e del Nord America, mentre Putin sostiene di farlo. C'è un'altra ragione per cui questo è spiacevole, perché - se mai riuscissimo, come sinistra, a diventare più grandi di quanto siamo -  sarebbe molto difficile andare in giro a dire che sosteniamo il socialismo democratico ma che non possiamo dire nulla su ciò che Putin sta facendo in Ucraina, oppure che non si può criticare il regime iraniano perché è il momento sbagliato per farlo nel mentre che è sotto il fuoco di Israele e degli Stati Uniti. Questo si lega al tipo di società che vorremmo avere. Uno dei motivi per cui, quando ero giovane, sostenevamo la Cecoslovacchia, era perché dicevamo che ci opponevamo al socialismo ufficiale dell'URSS. Se non fai questo genere di cose, alla fine rimani prigioniero di un oscuro progetto intellettuale e politico che stai portando avanti. Un'ultima cosa: negli Stati Uniti facciamo parte di questo gigantesco apparato imperialista; il nostro governo è stato per decenni a giudicare costantemente gli altri paesi – con il trumpismo però è diventato più cinico – dicendo che sono antidemocratici, e così via. In risposta, anche la sinistra ritiene che non abbiamo il diritto di criticare la Cina o altri stati come se farlo fosse antisocialista, o non marxista. Ma perciò la nostra analisi di classe, di genere o di razza/etnia dovrebbe quindi fermarsi ai confini degli Stati Uniti, dell'UE e del Giappone? Oppure ci è permesso applicarla anche in luoghi come la Cina o la Russia o il Medio Oriente? Direi di sì. Altrimenti, qui ci saranno sempre forze di sinistra o progressiste che ignoriamo. Invece dobbiamo sostenerle in ogni singolo paese del mondo. Fare diversamente, equivarrebbe a rompere con Marx e con il meglio della tradizione marxista.

Grusha Gilayeva: Sono contento che tu abbia menzionato l'Iran, poiché la posizione nei confronti di ciò che sta accadendo in questo momento è qualcosa di molto difficile da elaborare. Da un lato, c'è una sorta di anti-imperialismo riduzionista che sostiene che fare qualsiasi cosa al regime iraniano significa sostenere la presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente. Poi c'è un'altra posizione riduzionista che è condivisa da una parte degli emigrati iraniani, la quale sosterrebbe qualsiasi tipo di intervento e rovesciamento del regime in Iran, anche se fosse la cancellazione dell'intero paese stesso. Sembra che ci siano due poli contrapposti e che tutti e due non sembrano condivisibili.

Kevin Anderson: Di certo, non riesco a pensare a nessun altro paese del Medio Oriente che nel secolo scorso abbia avuto più rivolte popolari, a partire dalla rivoluzione costituzionale del 1906 fino al periodo di Mossadeq negli anni '50, il governo eletto anche se nazionalista, la grande rivoluzione del 1978-79, e poi diversi movimenti sociali molto grandi, tra cui il Movimento Verde nel 2009 e la rivolta delle donne e curdo-baluchi del 2022. Dobbiamo pensare alla complessità e alle diverse forze di questi movimenti in Iran. Ma non credo che la popolazione iraniana reagirà positivamente all'essere bombardata. Netanyahu ha tenuto un discorso in cui ha elogiato il movimento "donna, vita, libertà" del 2022 e poi ha sottolineato il fatto che l'aeronautica israeliana ha delle donne pilota e che una di loro stava bombardando l'Iran proprio in quel momento. Penso che in realtà lsia stato come un tentativo di fare appello alla popolazione iraniana. Sappiamo che la sinistra in Iran non è più quella di una volta.Ci sono anche dei movimenti sindacali in Iran, naturalmente, e, come ho detto, importanti movimenti femminili ed etnici.

Grusha Gilayeva: Hai già menzionato le recenti proteste contro Trump durante la sua parata militare del 14 giugno. Come valuti queste proteste? Segnalano l'urgenza di tornare a uno status quo liberale, o pensi che ci sia un potenziale per collegare questo movimento ad altre lotte, anche oltre i confini degli Stati Uniti?

Kevin Anderson: Naturalmente, questo potenziale c'è, anche perché la leadership del Partito Democratico si è davvero screditata, prima sulla Palestina e così ora si può vedere che ci sono molti di loro che tacciono sull'intervento degli Stati Uniti in Iran. Se guardi al movimento anti-Trump del 2017 – sono andato al grande raduno della Women's March a Los Angeles e il sindaco, i senatori, erano tutti lì, hanno parlato tutti. [Questa volta] in California non c'erano grandi politici che si associavano alle manifestazioni. In alcuni stati è successo, ma qui i politici democratici hanno mantenuto le distanze. Ma non si tratta solo della marcia, quanto piuttosto della gente in strada che lotta per sostenere gli immigrati. Avere le truppe qui a Los Angeles è davvero una provocazione, e c'è una certa parte della popolazione che è là fuori a picchettare ogni giorno perché non vogliamo qui quelle truppe. Naturalmente, le proteste affrontano il problema delle grandi istituzioni, con il Partito Democratico che le frena. Quali sono quindi le basi istituzionali o sociali per l'opposizione? Le università? Harvard alla fine ha iniziato a resistere, ma c'è stata tanta capitolazione da parte delle università, soprattutto sulla questione palestinese. Perché le università non possono dire qualcosa sulla Palestina? Poiché le università statali in California hanno bisogno del sostegno del legislatore? Se parlano della Palestina lo stato taglierà il loro bilancio, e le università lo sanno. Quindi quali sono le due più grandi organizzazioni che non ricevono finanziamenti dai finanziatori di Wall Street, che non ricevono finanziamenti da fondazioni liberali, che non ricevono finanziamenti dal governo? I sindacati e le chiese. La Chiesa nera e le altre chiese progressiste, anche in una certa qual misura la Chiesa cattolica sotto gli ultimi due papi, si sono espresse apertamente sui diritti degli immigrati e sui diritti dei lavoratori. Quando si pensa al modo in cui l'amministrazione Trump ha licenziato tutti quei lavoratori del governo federale, è questo ciò che ogni lavoratore teme. Abbiamo i giovani e le comunità latine che vanno in strada, e sto parlando di questi due gruppi perché sono quelli più ben organizzati, ben finanziati e con le loro filiali in tutti gli stati. C'è molta speranza. Soprattutto dopo le marce del Primo Maggio, ho iniziato a rendermi conto che ci sarebbero state molte più resistenze. Sono all'Università della California e sto solo supponendo che possano accadere cose ancora peggiori di quelle che sono state fatte ad Harvard. Penso solo che stiano aspettando di farlo, quindi sarà davvero orribile nei prossimi anni. Dovremmo anche guardare all'America rurale, che è stata una grande base di sostenitori di Trump, almeno elettoralmente, ma noto che raramente supera il 60%. Coloro che si oppongono al fascismo trumpista possono sentirsi isolati. Ma una cosa che è successa il 14 giugno, è che le proteste sono avvenute in questo tipo di aree. Ad esempio, nella piccola città rurale di Glens Falls, New York, c'è stata una manifestazione abbastanza grande. Le persone anti-Trump in quelle aree, dove tutto ciò che vedono sono i poster e gli adesivi di Trump, ora si rendono conto che non sono così pochi. La gente affronta molta repressione – guardate cosa è successo al senatore della California Alex Padilla che è stato trascinato fuori dalla conferenza stampa e ammanettato... Questo spaventa le persone. Ma pensate a tutte le persone in una piccola città dove la maggior parte dei datori di lavoro sono repubblicani e tendono ad apprezzare Trump: quindi vai a quel raduno in una piccola città, ti esponi e anche se indossi una mascherina, se si tratta di una città di 15.000 persone, capiranno comunque chi sei Le persone dovranno affrontarlo sul lavoro, venendo licenziate, soprattutto i giovani. Ci siamo già passati, ma mai su questa scala. L'attuale situazione con l'Iran ci sta creando molte difficoltà perché sta risucchiando una parte del Partito Democratico per sostenere ancora di più Israele e, allo stesso tempo, sta alimentando le parti più campiste della sinistra. Dall'altra parte, c'è un'ampia fascia della popolazione, compresa la base di Trump, che si oppone a una terza guerra in Medio Oriente. Come si può dire che gli Stati Uniti dovrebbero essere coinvolti, e che però questa volta andrà diversamente? Questa mattina ho sentito un esperto militare della NPR dire che per raggiungere le strutture sotterranee bisogna effettivamente inviare dei commando, e che potrebbero essere dei commando statunitensi. Penso che non viviamo ancora sotto un regime fascista, ma considererei il trumpismo un movimento fascista, anche se non ha preso completamente il sopravvento sulla società. Si sta muovendo rapidamente però, anche l'opposizione sta uscendo in piazza. Non fare nulla non è un'opzione, quindi, sia che si abbia o meno una reale possibilità di successo, dobbiamo comunque farlo.

fonte: https://www.posle.media/

sabato 12 luglio 2025

Calcolatrici Meccaniche Burroughs !!!

«Gli scrittori sono tutti morti e tutta la scrittura è postuma». Nessun altro, eccet­to Burroughs, avrebbe osato proclamarlo, ed è soltanto una delle affermazioni para­dossali e dissacranti che costellano i saggi qui raccolti, estratti dallo sciame meteorico che, durante una mitica stagione, inve­stì le pagine delle riviste internazionali, letterarie e non. Burroughs porta il letto­re oltre i cordoni della polizia militare fino al cancello di aree classificate «top se­cret», e gli fa intravedere cose insospetta­te, di bruciante attualità, quali il control­lo della mente – con ogni mezzo legale o il­legale – da parte di politici, scienziati, gior­nalisti, medici, santoni e altri spacciatori, la parola come virus, la scrittura come tec­nica e magia, all’occorrenza nera. Con il suo humour vitreo composto in egual misura di lucidità e follia, rude buonsenso e visionarietà, e oltraggi a ripetizione, ci por­ge scampoli fulgenti di «atroce presunzio­ne». Insegna la lettura creativa. Libera la mente dalla sudditanza e dall’assuefazio­ne a ogni conformismo. Condisce invetti­ve, dissezioni e profezie con raccontini ad hoc, sconci e spassosi. E intanto disegna u­na singolare, illuminante galleria di autori letti, incontrati, amati, detestati: da Kerouac a Beckett, da Graham Greene a Conrad, da Fitzgerald a Hemingway, da Maugham a Proust. Leggerlo è fare un corso accele­rato di disintossicazione dall’acquiescen­za agli zelanti manipolatori del Potere. Burroughs ha scritto la sceneggiatura del film che chiamiamo realtà. Peccato sia la nostra.

(dal risvolto di copertina di: WILLIAM S. BURROUGHS, "La calcolatrice meccanica", ADELPHI, Pagine 305, €24)

La calcolatrice dà lezioni di furto
- di Vanni Santoni -

   «Gli scrittori sono tutti morti e tutta la scrittura è postuma», si divertiva a provocare William S. Burroughs, e la sentenza è ancora più arguta se si pensa che viene da uno degli scrittori più avanti che ci siano mai stati: il suo capolavoro, Pasto nudo, uscì nel 1959 e lo rese all’istante il padrino della Beat Generation, anticipò la rivoluzione psichedelica e si posizionò all’avanguardia anche rispetto alle future ibridazioni tra i generi e all’avvento del new weird. Tanto avanti era Burroughs, che anche il suo molteplice status di autore di culto, autore maledetto, autore di riferimento per generazioni di altri autori, nonché di oracolo pazzerello, sarebbe esploso solo alla fine degli anni Sessanta, per durare poi tutti i Settanta e gli Ottanta. Ciò ebbe anche ragioni strutturali, come ricorda James Grauerholz nella prefazione a La calcolatrice meccanica, raccolta dei saggi brevi di Burroughs appena uscita presso Adelphi nella traduzione di Andrew Tanzi. Grazie all’attenuazione della censura editoriale, negli anni Sessanta proliferarono le riviste patinate, più o meno pruriginose — «Playboy» su tutte — che per legittimare le immagini di ragazze svestite sceglievano contenuti testuali di alto profilo letterario; a queste si affiancavano le riviste di musica, ben finanziate dalle etichette discografiche, e in parallelo all’editoria ufficiale c’era anche un ricco panorama underground, non di rado dotato di ottime capacità di diffusione, come era il caso della rivista «High Times», dedicata alla canapa e ai suoi estimatori. Fu in questo contesto che Burroughs, fin lì solo romanziere, trovò spazio per la propria vena saggistica beffarda e antimoralista, spesso vaticinante, a volte messianica. I temi sono variegati quanto gli interessi e le passioni dell’autore: frontiere spaziali e psicanalisi, controllo mentale e underground criminale, libero arbitrio e spie, fake news e neuroscienze, oppio e orgoni, Parigi e Tangeri, escatologia, sessualità e misoginia, proibizionismo e armi da fuoco… E soprattutto letteratura, un sacco di letteratura. Nei quarantatré brevi saggi contenuti nella Calcolatrice meccanica — il titolo viene dalle Calcolatrici Meccaniche Burroughs, prodotte dall’azienda di famiglia con cui lo scrittore aveva rotto ogni ponte — l’Uomo Invisibile (questo il soprannome affibbiato all’autore dai ragazzini di Tangeri, dove visse a lungo e inventò la tecnica del cut-up, con la quale scrisse Pasto nudo) ci parla di William Somerset Maugham e Jean Genet; degli amici Jack Kerouac e Allen Ginsberg; di giganti come Samuel Beckett, James Joyce e Marcel Proust; di autori più popolari come Graham Greene e Frederick Forsyth; smonta Mario Puzo, sfotte Samuel Coleridge (esilarante il racconto dei suoi tentativi di superare la dipendenza da laudano, che lo portò ad assumere facchini per bloccarlo ogniqualvolta tentasse di entrare in una farmacia), celebra Joseph Conrad e mette in riga Ernest Hemingway. E forse ancora più gustoso del Burroughs critico è il Burroughs insegnante di scrittura creativa. Le sue indicazioni per sbancare il mercato, contenute nel saggio La bella e il bestseller, meritano di essere riportate:

«Se volete fare un sacco di soldi con un libro o un film ci sono da osservare alcune regole. […] È buona norma non aspettarsi mai che il grande pubblico faccia esperienza di qualcosa che non vuole esperire. Non vi conviene spaventarlo a morte, farlo cadere dalla poltrona e soprattutto sconcertarlo. […] Ci sono certe formule per scrivere un bestseller o sbancare il botteghino. Ad esempio, qualcosa di cui il pubblico sa qualcosa o di cui vuole sapere di più: la mafia, la gestione di un albergo, cosa succede alla General Motors, nella pubblicità, a Hollywood. Ma se non sanno nulla di un certo tema, non importa quanto sia bello, per loro non sarà bello. […] L’altra formula è la minaccia e la sua risoluzione […] La minaccia può essere un’epidemia, un nemico che sta per spargere un gas nervino su New York o addirittura un mostro preistorico riportato in vita. Ma occorre fare attenzione: il grande pubblico non vuole essere davvero spaventato o troppo scosso, solo un po’. La formula del film dell’orrore comporta in una certa misura l’estorsione: si paga per non vedere qualcosa di veramente orribile; si paga per vedere i simpatici ratti del film Willard e non per vedere i ratti che si mangiano i genitali di un neonato urlante».

    Agli aspiranti scrittori, anche al di là della volontà eventuale di diventare bestselleristi, Burroughs consiglia prima di tutto di non mettersi proprio a scrivere. Di fare altro: diventare un medico o un idraulico e vivere tranquilli, dedicando il tempo libero alla tv o alla caccia al cervo, nella certezza che di malati e di tubi rotti ce ne saranno sempre (ma di lettori dei tuoi romanzi, magari, no). A chi insiste, e decide che vuole comunque provare a scrivere, Burroughs, dopo aver spiegato che serve molto carattere per affrontare gli inevitabili fallimenti che arriveranno, e le porte in faccia, e il senso di inadeguatezza, suggerisce prima di tutto di rubare, nel saggio non a caso intitolato Les Voleurs («I ladri», in francese), e candidamente ammette i propri furti, come il dialogo-intervista tra Carl Peterson e il dottor Benway in Pasto nudo, ricalcato su quello tra Razumov e il consigliere Mikulin in Sotto gli occhi dell’Occidente di Joseph Conrad. Alla fine, Burroughs mette da parte anche provocazioni e sarcasmo per ricordare a tutti (non solo aspiranti scrittori, ma anche semplici lettori), che uno scrittore, dopo i primissimi libri, ha solo due strade davanti a sé: o inventa qualcosa di nuovo o si mette a far le cose con lo stampino. Non ci sarà bisogno di ricordare che Burroughs scelse la seconda strada, e dopo quel rinnovato periodo di popolarità ottenuto grazie alle riviste entrò nella sua «terza fase»: dopo l’autobiografia realistica di Checca e Junky, e dopo il cut-up weird di Pasto nudo, Nova Express e Il biglietto che esplose, arrivò alla sintesi con la sua trilogia finale scritta negli anni Ottanta, quella composta da Città della notte rossa, Strade morte e dal capolavoro conclusivo Terre occidentali, la cui ripubblicazione in casa Adelphi con nuova traduzione sarebbe peraltro assai urgente.

- Vanni Santoni - Pubblicato su La Lettura del 7/7/2024 -

venerdì 11 luglio 2025

Lungo l’”Acquedotto Felice”…

Penso spesso allo scrittore che Juan Rodolfo Wilcock avrebbe potuto essere e non è stato; questo genere di esercizio mentale non vuole rappresentare solo un lamento del tipo «avrei voluto che egli avesse affrontato questo o quel tema», quanto piuttosto un esercizio di secondo grado che spinga a riflettere su quali sono state le ragioni per cui Wilcock abbia voluto scrivere in quel suo modo, selezionando i temi da lui scelti, e risultando alla fine uno scrittore estremamente fantasioso, che spesso si è spinto fino a toccare il surrealismo, l'assurdo, il grottesco, il delirante. Cosa che, peraltro, è direttamente correlata al suo insolito talento per i linguaggi, laddove, per poter esercitare questa capacità, è naturale che Wilcock si rivolgesse agli eccessi semantici e sintattici, e non alla documentazione "documentaria" o "etnografica".  Negli anni '70, Wilcock viveva a Roma, al civico 54 di via Demetriade, di fronte alle tombe della via Latina, che oggi si trova all'interno del parco archeologico dell'Appia Antica. Wilcock ha camminato esaustivamente per i vicoli più nascosti di Roma: un'esperienza cittadina che, nei romanzi (soprattutto ne "I due allegri indiani"), esce invece trasformata; rispetto alla alla succitata prospettiva surrealista tipica dell'autore (mentre nei testi per i giornali, invece, Wilcock è più diretto: parla addirittura delle precarie baracche di lamiera allestite lungo l'Acquedotto Felice). Se si guardano le fotografie di Franco Pinna, fatte in vicolo del Mandrione, si può vedere una sorta di mondo parallelo, come un documentario/etnografico, rispetto a quello di Wilcock (le fotografie di Pinna sono del 1956, un anno prima che Wilcock si trasferisse definitivamente in Italia; Pinna e Wilcock sarebbero morti nello stesso anno, il1978). Così, similmente nella sua rubrica, sulla rivista Vie Nuove, nel maggio del 1958, Pasolini scriveva: «Ricordo che un giorno, attraversando il Mandrione con due amici bolognesi, rimasi sgomento alla vista di alcuni bambini che giocavano nel fango sporco. Erano vestiti di stracci; correvano avanti e indietro, senza seguire le regole di nessun gioco: si muovevano, agitati come ciechi, in quei pochi metri quadrati dove erano nati e dove erano sempre rimasti, senza sapere nient'altro al mondo, se non la casetta dove dormivano [...] La pura vitalità che è alla base di queste anime significa un miscuglio di puro male e puro bene: violenza e bontà, male e innocenza, nonostante tutto».

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 10 luglio 2025

Allucinati dalla Shoah !!

Il fantasma della Shoah
- di Sandrine Aumercier -

«Guardati allo specchio. Io sono te, sono il tuo passato, e uccidendo me stesso è te stesso che stai uccidendo.» R. Alareer

Contro il potere del significante, non c'è nulla che possa essere fatto! Già, il solo fatto di menzionare la parola “Gaza”, evoca le camere a gas.. Saranno in pochi, probabilmente, ad avere il coraggio di pronunciare apertamente questa sinistra omofonia, ma non lo faranno senza tuttavia lavorare inconsapevolmente su un'equazione assunta da alcuni secondo cui: «Gaza è Auschwitz» (Thierry Ardisson). Consentiremo che l'orrore di Gaza si lasci assorbire all'interno della memoria delle camere a gas? Che cosa hanno mai fatto i palestinesi al Cielo, per meritare che la loro tragedia venga sistematicamente giudaizzata? E cos'hanno fatto al Cielo i gassati di Auschwitz, perché ottant'anni dopo si continui ancora, nelle circostanze più remote, a invocare la loro memoria?

   Ma questa associazione è così talmente intima, così onnipresente -  da essere spesso suggerita dagli stessi israeliani o palestinesi, come fa il poeta palestinese citato in epigrafe e ucciso in un attacco israeliano il 6 dicembre 2023 – da essere in grado di dire qualcosa che noi non riusciamo a vedere. L'attuale situazione sta svelando quello che prima sembrava un'allucinazione antisemita: tutti gli abitanti ebrei e arabi della regione, la cerchia dei loro rispettivi sostenitori, dei loro osservatori e dei critici internazionali - tutti quanti noi, alla fine - continuiamo a essere allucinati dalla Shoah. La storia che gira intorno alla morte di Refaat Alareer, ci porta al cuore della questione: una "fake news" raccontata dal presidente di una ONG israeliana, secondo cui il 7 ottobre sarebbe stato trovato  un bambino «bruciato in un forno», ha raggiunto quindici milioni di visualizzazioni, e ha dato vita a una battuta di pessimo gusto, da parte di Alareer, su X: «Con o senza lievito in polvere?». Si racconta che a causa di questa battuta egli sia stato preso di mira dall'esercito israeliano. Questa storia rivela il vorticoso meccanismo che intrappola ognuno di noi in quelli che sono i significanti della Shoah. Refaat Alareer, ha altresì paragonato l'attacco di Hamas alla rivolta del ghetto di Varsavia. Si potrebbe pensare che le persone coinvolte nella tempesta appaiano accecate, ma noialtri, estranei alla scena, capiamo la differenza. Chi ci dice che non siamo noi che li stiamo trascinando in una spirale sterminatrice curando a loro spese quella che è la nostra cattiva coscienza? Se grattiamo la superficie dei dibattiti sul «conflitto israelo-palestinese», in primo luogo vedremo come stiano cercando tutti di mettersi al sicuro dallo spettro della Shoah.

   È come se ci fosse un odore che non va via, un soffio di mostruosità che si attacca alla nostra pelle. Non prendiamo posizione su Israele, prendiamo posizione sulla Shoah. Le traiettorie di dislocamento sono sottili, numerose e non immediatamente evidenti. Servono a organizzare l'intero discorso sul conflitto israelo-palestinese. Per ciò che è contemporaneo, risulta insopportabile venire associato al semplice ricordo di un evento storico che non smette mai di sfidare la rappresentazione, e "smascherare tutti i fondamenti etici e politici della modernità". Come ci si potrà mai liberare da un evento simile? Non che sia l'unica manifestazione del male moderno! Ma esso costituisce il nucleo incandescente di quella che costituisce la lunga lista di atrocità del XX secolo. Ha finito per assumere il significante paradigmatico del male radicale. Prima di allora, mai l'omicidio era stato organizzato su una tale scala e con una simile precisione industriale, eseguito con la complicità di tanti Stati e Istituzioni a partire dal semplice motivo di appartenere a un gruppo umano. E tuttavia, nel mondo laico, raramente Auschwitz viene collocato all'interno del sistema di relazioni che lo ha reso possibile. Il più delle volte si tratta di isolare Auschwitz, collocandola nello spazio evocativo di un evento separato che poi servirà come standard supremo della crudeltà umana. A partire da quel luogo speciale, qualsiasi male può essere misurato. Così, la sua eccezione metafisica non è affatto incompatibile con il suo abuso quotidiano. Si può solo trattare di sbiancare moralmente sé stessi, misurandosi con questo ideale negativo. "Il sistema che ha reso possibile tutto ciò", e il posto speciale che l'antisemitismo occupa in esso, possono quindi continuare entrambi a funzionare liberi dalla morale borghese. I rituali di memoria e di commemorazione, trasformati in mormorio universale, non attestano il fatto che la rimozione sia stata portata a compimento. Operano come un nuovo strumento di rimozione della relazione tra l'individuo e la colpa. Al servizio del regolare funzionamento della valorizzazione capitalistica - "la quale non conosce alcun limite etico" - la politica contraddice a ogni istante i suoi propri autoproclamati ideali egualitari e universalisti. Questa civiltà ha fatto crollare tutte le vecchie barriere simboliche in grado di contenere la diffusione della violenza. È questo è il motivo per cui la sua violenza è senza limiti. Ma per la soggettività borghese, i propri "valori" valgono in sé e per sé, senza che essi pregiudichino loro trasgressione strutturale. L'elenco delle fosse comuni e delle distruzioni di cui questa civiltà - e nessun'altra - si è resa colpevole può continuare ad allungarsi sempre più, all'ombra della sua immaginaria purezza: niente riesce a smentirla. Le citate dichiarazioni di intenti vengono ritenute sufficienti. Questa soggettività sopravvive ad ogni e qualsiasi orrore, attribuendoli tutti a una malvagità di fondo che viene poi incarnata in atti e in gruppi umani isolati dal loro contesto generale. Mai e poi mai, attribuisce queste distruzioni ai principi strutturanti quella civiltà di cui pretende di essere custode. Se lo facesse, Auschwitz cesserebbe allora di essere un oggetto metafisico banale e abusato e diventerebbe un elemento chiave del campo storico che include pienamente la democrazia liberale, e non la sua esteriorità. Lasciamo quindi la parola agli «ipocriti della civiltà» (Sigmund Freud), a coloro che non mettono mai in discussione i fondamenti della loro civiltà.

   Tuttavia, la coscienza borghese si misura con la colpa collettiva i cui effetti si stanno chiaramente accumulando intorno ad essa. Qualunque cosa essa sia, sa di essere legata al sistema che ha realizzato tutto questo - la colonizzazione di tre quarti del pianeta e la distruzione di tutte le società precedenti, lo sterminio industriale degli ebrei d'Europa, la bomba atomica, il riscaldamento globale, la distruzione di ogni base della vita, ecc. Sa di non essere così pura come insiste a proclamare. Freud aveva già rilevato ne "Il disagio nella civiltà" la crescita storica del senso di colpa, le cui conseguenze vedeva nello sviluppo di un “super-io culturale”. Essendo morto nel 1939, egli non ebbe l'opportunità di vivere in prima persona il parossismo dell'antisemitismo che sterminò il suo popolo (sebbene due sorelle di Freud siano morte nei campi di concentramento). Lo ha persino sottovalutato! Né vide quei patrimoni di rispettabilità che furono esibiti all'indomani della guerra per poter ristabilire i diritti inalienabili della coscienza borghese infranta. Ma egli aveva correttamente individuato la connessione - in ogni caso particolare - del super-io individuale a un super-io culturale che si trasmette attraverso il super-io genitoriale, "nonostante gli ideali genitoriali consapevoli". Ecco perché, mentre la famiglia borghese continua a vantarsi di trasmettere alla propria prole i valori cardinali dell'Illuminismo, "la formazione del super-io obbedisce invece a una logica di trasmissione completamente diversa". La negazione del coinvolgimento di tutti nel buon funzionamento della macchina di morte capitalista, si svolge dietro il paravento della moralità civile e della buona coscienza borghese. Ciascuno si vede costretto a gestire - "indossando la maschera della sua propria morale borghese" - la trasmissione di una colpa collettiva che viene continuamente negata da quella stessa morale borghese, dal momento che quest'ultima vuole una sola cosa, vale a dire, stare dalla parte giusta della storia. È facile capire il motivo per cui sia Auschwitz il punto dolente di tutta questa impalcatura. Dato che Auschwitz è diventato il paradigma del male radicale, ecco che allora tutto ciò che ricorda Auschwitz, rischia di far saltare la costruzione della morale borghese. Ma che cos'è che ricorda Auschwitz, se non l'esistenza reale degli ebrei, l'esistenza di Israele, l'esistenza del conflitto geo-politico a esso associato, e la figura contigua dei palestinesi? L'intero conflitto israelo-palestinese, così come tutto ciò che a esso è connesso, anche se rappresenta solo una contiguità immaginaria, è permeato dell'odore e della puzza del ricordo di Auschwitz. Subito, immediatamente, possiamo sostenere che Israele è nato realmente, e non in maniera immaginaria, sulle ceneri di Auschwitz, e che ha accolto molti dei suoi sopravvissuti. Ma non esiste tuttavia alcuna relazione causale diretta tra Israele e la Shoah. Qui, bisogna distinguere tra cause finali, cause materiali, contingenze storiche e, infine, quella che costituisce la loro dialettica. E se in questo insieme di "cause" si rimane interessati al segmento delle cause soggettive, ecco che allora si deve dire che prima della guerra la maggioranza degli ebrei non era favorevole alla "soluzione" sionista, e che il sionismo è stato, simultaneamente, tanto una risposta all'antisemitismo quanto alla moderna crisi di identità dell'ebraismo, così come attestato da quei cinquant'anni di dibattiti sionisti che precedettero la creazione di Israele.

   Materialmente, stavolta Israele deve la sua esistenza tanto al sionismo cristiano, alla morsa coloniale delle potenze europee nella regione così come al voto di spartizione dell'ONU, quanto alla determinazione del movimento sionista. Infine, è probabile che - senza alcuni eventi imponderabili come la caduta dell'Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale, o senza l'inaspettato voto dell'URSS alla decisione dell'ONU - questo piano di spartizione non avrebbe mai visto la luce. E cosa sarebbe accaduto allora? La negazione di questo groviglio di cause dirette e indirette, trasforma l'esame dei fatti storici in ideologia. Senza trascurare l'antisemitismo come una motivazione del sionismo, è impossibile ridurre la creazione di Israele solo a questo attore causale. Anche una volta riconosciuto dalla comunità internazionale, questo Stato non poteva fornire “sicurezza” agli ebrei se non con le armi, e quindi a prezzo di sacrifici patriottici. Infine, il fatto che la creazione di Israele abbia agito da calamita per i sopravvissuti alla Shoah o per le vittime di persecuzioni ed espulsioni dai Paesi arabi può essere tutt'al più un ripensamento. Le persone fuggono dove possono e se possono; la creazione di Israele non è, ad esempio, la prova a posteriori che avrebbero dovuto o potuto fuggire in Israele, se Israele fosse esistita prima, se non altro perché i ghetti e le leggi antiebraiche in tutta Europa hanno gradualmente reso impossibile tale fuga. Oppure, si deve difendere l'ideologia sionista secondo la quale l'unica patria legittima degli ebrei è ora Israele; e che fa giustamente replicare agli ebrei scettici che il popolo ebraico sarà ancora più vulnerabile se metterà tutte le uova in un solo paniere. Nel suo libro Être un peuple en diaspora (Essere un popolo in diaspora), Richard Marienstras ha sostenuto che è stata proprio la diaspora a permettere al popolo ebraico di sopravvivere storicamente. Per tutte queste ragioni, l'affermazione di un legame univoco tra Israele e la storia dell'antisemitismo merita di essere definita ideologica, in quanto non si basa sull'analisi di fatti contraddittori, ma sul discorso di legittimazione sionista. Questa osservazione non è rivolta ai sentimenti delle persone che possono giustamente sentirsi legate a Israele o che vi hanno trovato rifugio, per non parlare di tutti coloro che sono israeliani in virtù del fatto di esservi nati. Si tratta della traduzione di questo sentimento soggettivo in un discorso di legittimazione politica. Tuttavia, poiché questo discorso non si basa sulla legittimazione politica ma su quella morale, esso attira immediatamente la sua controparte palestinese: anche i palestinesi rivendicano l'infinita sofferenza della Nakba (termine scelto per rispecchiare la Shoah). All'ombra della Shoah, la contabilità dei pregiudizi suggella finalmente un gioco a somma zero. Il riconoscimento reciproco di due aspirazioni politiche che possono essere formulate nei termini del diritto internazionale del dopoguerra - se è ancora valido, ma questo è un altro livello di analisi - dovrebbe oggi costituire la base per una soluzione che abbia la massima probabilità di sfuggire a queste insidie ideologiche. Almeno dal punto di vista giuridico. Non si può quindi fare affidamento sul vantaggio morale di questo o quel pregiudizio storico soppesato rispetto ad altri pregiudizi, tutti segretamente tarati sul significante di Auschwitz. D'altra parte, anche se Israele è svincolata da un nesso causale inequivocabile con la storia dell'antisemitismo moderno, resta il fatto che Israele non cessa di concentrare su di sé tutte le associazioni immaginarie legate all'Olocausto. È la superficie di proiezione del complesso di colpa genocida. Appare nella coscienza collettiva, che non si preoccupa di esaminare i dettagli, come la logica conseguenza dello sterminio degli ebrei d'Europa. Questo potente legame è costituito da contiguità cronologiche, demografiche, ideologiche e affettive che continuano ad agire in tutti i tipi di configurazioni. In un certo senso, ci permette di immaginare che gli ebrei abbiano effettivamente ricevuto una qualche forma di riparazione per gli atti mostruosi che avevano subito; o che si siano dati i mezzi per evitare il ripetersi della stessa storia. Questa visione ignora completamente le realtà della diaspora ebraica e le realtà israeliane e palestinesi, dove gli individui si arrangiano con la loro storia come meglio possono – perché la vita va avanti – senza mai compensare l'irreparabile. Anche il “mai più” rimane un incantesimo senza garanzia. Si può quindi scegliere di avvicinarsi a Israele attraverso le associazioni mentali che sorgono dalle tragiche circostanze della sua creazione o, più sobriamente, di avvicinarsi al sionismo come a un'utopia nazionalista nata dal grande movimento dei nazionalismi del XIX secolo. Questa seconda opzione ha il merito di politicizzare la creazione di Israele, e di collocarla nel movimento generale delle aspirazioni alla sovranità dello Stato, senza pregiudizio delle sue giustificazioni morali. Una tale comprensione della politicizzazione implica la presa in considerazione dell'intero contesto di fattibilità e non del semplice desiderio soggettivo. Prendere in considerazione l'intero contesto di fattibilità porta agli approcci delle impossibilità sistemiche del mondo moderno, le cui promesse sono commisurate alle sue lacune. Questa scelta metodologica libera Israele dalla prelazione morale che la storia moderna degli ebrei sembra imporle. Libera anche gli ebrei dal loro status di vittime assolute, prendendoli al livello della loro molteplice azione politica e ideologica (il sionismo è solo una delle risposte politiche adottate dagli ebrei). Rifiuta di assegnare paternalmente al sionismo una quasi-irresponsabilità di principio. Infine, allenta l'analisi degli eventi in Medio Oriente dell'associazione automatica tra Israele e la Shoah, alla quale ora mostreremo a quali aberrazioni conduce. Il moderno complesso di colpa non vorrebbe niente di meglio che continuare a “inchiodare” Israele alle sue circostanze traumatiche, facendo di Israele il suo oggetto elettivo per procura. Non è solo la propaganda israeliana che continua a raccogliere tali benefici secondari. L'associazione affettiva della coscienza borghese giudica tutto ciò che circonda Israele con il metro del significante organizzatore, ma per lo più nascosto, della Shoah ; Lacan lo direbbe un significante maestro. E questo vale per tutto ciò che circonda Israele per contiguità metonimica: lo Stato di Israele, la storia del sionismo, la storia del popolo ebraico, la storia della colonizzazione, le guerre moderne, l'antisemitismo, la Shoah, gli ebrei, i palestinesi... Israele, appare allora come il supporto della coscienza storica. Si offre come un mezzo affettivo, per la coscienza borghese, per poter affrontare in una volta sola, spostata su un'unica costellazione oggettuale, la sua oscura relazione con tutti gli orrori moderni di cui la Shoah è diventata il significante cardinale. Dal sostegno incondizionato al rifiuto viscerale e passando per l'ossessione filo-palestinese, la sindrome del senso di colpa genocida viene declinata in un'ampia varietà di posizioni, il cui l'oggetto centrale ha talvolta subito trasformazioni irriconoscibili. E si avrebbe torto a  credere che la cosa risparmi gli ebrei, i quali, pur essendo vittime storiche della Shoah, non sono meno costretti a collocarsi al loro posto e secondo quelle che sono le loro presunte conseguenze.  Si vedrà pertanto un considerevole numero di ebrei dimostrare un odio per Israele che farebbe diventare verdi di invidia i peggiori antisemiti. La cosa importante è che queste proiezioni non sono mai interessate a distinguere la morale dalla politica. Quale trionfo morale più grande di quello che accusa di genocidio la vittima storica paradigmatica del genocidio; dell'israeliano identificato con i discendenti delle vittime della Shoah? Quale trionfo più grande che accusare di genocidio o di intento genocida - in uno di quei rovesciamenti morali per i quali la logica della colpa ha un segreto - il palestinese che sottoporrebbe così gli ebrei alla continuazione ininterrotta della loro storia di antisemitismo? Mentre le due tragedie continuano a rafforzarsi a vicenda in immagini speculari, offrono a ciascuno la scelta della superficie di proiezione più adatta alla propria fantasia. Una fantasia che è sempre il risultato di una serie di modifiche sintattiche, di cui Freud ha dato un esempio in Un enfant est battu. Chi viene picchiato? Chi lo picchia? Qual è il rapporto tra l'osservatore della scena e il bambino picchiato? Allo stesso modo, le inversioni e le trasformazioni dell'identificazione proiettiva legate al conflitto israelo-palestinese sono tutte radicate nella coscienza di colpa di cui il genocidio degli ebrei è il paradigma e la cui matrice è la civiltà di cui non smettiamo mai di celebrare il progresso. Non si tratta quindi mai di un sentimento “puro” di giustizia disprezzato dallo spettacolo dell'ingiustizia. Questo sentimento è esso stesso un prodotto storico che viene espresso con una sintassi che spesso rende l'oggetto irriconoscibile. Rimane inseparabile dal significante storico della Shoah, che da ottant'anni tiene in ostaggio il teatro delle operazioni in Medio Oriente.

   A partire dal 7 ottobre il fenomeno ha raggiunto il suo apice. Mostrerò una sequenza significativa. Il 2 novembre 2023, la rivista comunista in lingua francese Contretemps ha pubblicato la traduzione di una lettera di dimissioni, inviata ai suoi superiori il 28 ottobre 2023, da Craig Mokhiber, direttore dell'Ufficio di New York dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. L'autore della lettera ha definito Gaza “un caso da manuale di genocidio” e ha chiesto che venga preso in considerazione “uno dei genocidi più atroci del XX secolo, quello della distruzione della Palestina”, perché ingiustamente dimenticato. Un caso da manuale è un caso incontrato nella realtà che corrisponde esattamente al suo concetto. Secondo questo esperto di genocidi, il “genocidio palestinese” del 28 ottobre 2023 corrisponde pertanto esattamente al concetto di genocidio. Che cos'è il genocidio? È lo sterminio pianificato e sistematico di un popolo a causa della sua identità. Tre settimane dopo il 7 ottobre, la risposta israeliana alla dichiarazione di guerra costituita dal massacro di Hamas è stata quindi definita “genocidio”. Certo, questa risposta poteva già essere considerata sproporzionata, ma qual è stata la portata del giudizio che ha permesso di definirla “genocidio” in questa fase della guerra? La frase seguente lo spiega: i palestinesi hanno subito un genocidio per quasi ottant'anni. Non è la situazione attuale di Gaza a essere definita genocida, ma la creazione di Israele. L'elenco delle colpe imputate a Israele, nella lettera di Craig Mokhiber e altrove, è impressionante. Oltre a essere essenzialmente “genocida”, Israele è anche “razzista”, “imperialista”, “etno-coloniale”, “teocratica”, “apartheid”, e così via, e concentra su di sé tutte le critiche del mondo contemporaneo.

   È straordinario avere tanti orrori in un unico luogo. Se potessimo eliminare questo luogo tutto in una volta, il mondo sarebbe certamente un posto migliore. Non dobbiamo più interessarci agli orrori in cui siamo immersi e che partecipano pienamente alla distruzione del mondo. Perché, ad esempio, non strappiamo i nostri passaporti, la cui esistenza è responsabile di tanta sofferenza umana ai confini dell'Europa, dell'America e altrove? Sarebbe meglio incolpare Israele per sempre di un problema di rifugiati reso insolubile dal rifiuto dei Paesi arabi di concedere la cittadinanza ai discendenti dei rifugiati del 1948 (a seguito di una risoluzione della Lega Araba del 1952). No, davvero, l'elenco delle carenze israeliane sopra citate è ancora troppo lungo. In effetti, le parole stanno finendo. Rima Hassan, che non è nata apolide a causa di Israele, ma a causa dello Stato siriano - cosa che non dice mai - non ha forse descritto Israele come una “mostruosità senza nome”? Ora l'altra metà della sequenza. Due giorni dopo, il 30 ottobre 2023, il rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, si presentò a una riunione del Consiglio di Sicurezza con una stella gialla sulla giacca con la scritta Mai più. Per protestare contro l'imbarazzo del Consiglio di Sicurezza nel qualificare e denunciare gli eventi del 7 ottobre, Gilad Erdan sostenne quel giorno: “Come i miei nonni, e i nonni di milioni di ebrei, d'ora in poi io e la mia squadra indosseremo stelle gialle”. È stata una cosa talmente grossa che il presidente Yad Vashem lo ha rimproverato. Ciò che è considerato inaccettabile e antisemita in qualsiasi altro contesto, ad esempio nelle manifestazioni anti-Vax, qui viene sfacciatamente esibito. Con questo atto, Gilad Erdan ritiene che il 7 ottobre costituisca la continuazione dello sterminio hitleriano e invoca esplicitamente la memoria di tutti i discendenti degli ebrei europei. Così facendo, riprende il discorso dell'estrema destra israeliana, che paragona il 7 ottobre a una mini Shoah al fine di legittimare politicamente non solo l'annientamento di Hamas - impossibile con i soli mezzi militari, data la natura stessa della sua struttura terroristica - ma anche quello del popolo palestinese, che ostacola il completamento della Grande Israele. Poiché nessuna risposta può essere troppo forte, nell'immaginario nazionale israeliano, contro un evento come la Shoah. La continuazione della Shoah sotto la maschera di Hamas richiedeva quindi una risposta almeno equivalente: Gaza non è altro che un enorme cumulo di polvere, rovine e sangue, dove vagano milioni di persone affamate. Dal giorno successivo al 7 ottobre, il governo israeliano ha iniziato a tenere in ostaggio la memoria e l'identità di tutti gli ebrei del mondo, in nome dei quali viene portata avanti la sua politica. La posta in gioco sarebbe la sopravvivenza del popolo ebraico malgrado le azioni di Hamas, ma secondo la dottrina della “negazione della diaspora”, formalizzata con il Programma di Gerusalemme del 1951 e rafforzata nel 1968 al XXVII Congresso sionista, Israele è il custode - avendo fallito magistralmente - di tale sopravvivenza. Si potrebbe obiettare che il legame tra la Shoah e il 7 ottobre è soprattutto un effetto di alcune persone che hanno vissuto entrambi gli eventi, loro stessi o i loro genitori. Le associazioni individuali sono inevitabili: è impossibile impedire a chiunque di associare certe esperienze ad altre. Tuttavia, non costituiscono una prova di identità tra i due eventi che possa essere utilizzata come base per un discorso politico. Raffigurandosi come vittima di un pogrom in previsione di un genocidio, il governo israeliano ha potuto liberare gli ultimi argini e sterminare i gazari, se necessario, fino all'ultimo uomo, con tutte le giustificazioni di sicurezza, intensificando al contempo l'occupazione e l'oppressione dei palestinesi in Cisgiordania. Non è insignificante che Craig Mokhiber e Gilad Erdan si rivolgano entrambi agli organi dell'ONU, che ha creato il problema – o che ha ratificato il problema creato dal suo predecessore, la Società delle Nazioni – e che da allora ha continuato a voler ritrattare moltiplicando vane dichiarazioni. L'ONU si configura come un grande Altro che dovrebbe decidere nell'accusa reciproca di genocidio. Il "conflitto israelo-palestinese" intrappola così i suoi protagonisti e le loro camere di risonanza ideologiche globali in un'equazione vittimistica che blocca qualsiasi compromesso politico. In questo contesto, il riferimento cospirativo al genocidio nazista funge da paravento per gli atti genocidi israeliani, così come il termine "genocidio" è diventato l'invocazione rituale della sinistra morale, che sta solo aspettando di cogliere Israele nell'atto di genocidio per confermare ciò che ha sempre saputo. Intanto, i protagonisti del conflitto stanno risalendo la scala delle atrocità per mettersi al livello del loro referente storico, sotto gli occhi dell'opinione pubblica mondiale. Le atrocità riecheggiavano negli infiniti commenti che questo conflitto provoca. Come in una sala degli specchi, il mondo moderno, alla fine della sua traiettoria di crisi, sta rispecchiando la propria mise en abyme sulle spalle di israeliani e palestinesi. La memoria dell'Olocausto è strumentalizzata; o per sussumere la causa palestinese sotto un'eredità nazista che traccia una linea retta tra Hitler, il Gran Mufti di Gerusalemme e Hamas (cosa che il popolo tedesco anti-tedesco fa senza complessi), o, al contrario, per fare di Israele stesso uno stato essenzialmente nazista fin dal suo primo minuto di esistenza. In entrambi i casi, l'avversario politico deve essere nazificato. Due modi che servono anche per negare le due aspirazioni alla sovranità statale in un mondo che tuttavia riconosce solo questa forma di "emancipazione politica" (checché se ne pensi altrove). Il conflitto viene così ridotto al suo minimo comune denominatore morale: il significante del genocidio. L'Olocausto continua a distillare il suo veleno attraverso l'interminabile sforzo di localizzarlo su nuovi colpevoli, se possibile legati al complesso israelo-palestinese preso come superficie sostitutiva. La mostruosità morale che perseguita la soggettività moderna è alla ricerca di un portatore di responsabilità per il quale il significante "Israele" è il centro di gravità.

   Che nessuna soluzione politica possa emergere da una simile spirale ideologica è ovvio. Ma è ancora più disastroso che i non israeliani e i non palestinesi che sono coinvolti in questa spirale non riescano a vedere il loro contributo criminale ad essa, quando non stanno nemmeno vivendo il conflitto in prima persona. D'ora in poi, il “conflitto israelo-palestinese”, comprese le sue dimensioni storiche, non dovrà essere affrontato sulla base di una legittimazione morale, diretta o inversa, legata al nazismo e ai suoi significati. Questo nonostante la schiacciante realtà dell'antisemitismo negli eventi del XX secolo. Il fatto che il sionismo abbia legittimato il suo progetto statale attraverso la persecuzione antisemita o che molti ebrei, alcuni dei quali non erano affatto sionisti, abbiano trovato rifugio nella Palestina mandataria, e poi in Israele, non deve più essere invocato come argomento politico a favore di Israele. Come tutti i migranti per secoli, gli ebrei andarono ovunque potessero. Alcuni non tardarono a partire nella direzione opposta. Conosciamo tutti il witz ebraico sulle due barche che si incrociavano in direzioni opposte nel porto di Giaffa durante il periodo mandatario, e i cui passeggeri giravano le dita sulla fronte, in segno di follia, rivolti alla barca di fronte... Quando si tratta di considerare politicamente le prove del caso, la realtà dell'antisemitismo non rappresenta alcun privilegio morale. Come è stato detto, questa storia non ha alcuna attinenza con l'obiezione palestinese: come potrebbero gli ideali politici sionisti (la fede in una soluzione sionista alla "questione ebraica") o la persecuzione e l'emigrazione ebraica giustificare l'espropriazione della sovranità degli abitanti della Palestina? È sufficiente che una coscienza palestinese storicamente arretrata nella competizione delle aspirazioni nazionali trascuri l'orizzonte politico di questa esistenza palestinese? Questo nesso storico è l'unico che merita di essere chiamato politico, perché tratta le due aspirazioni - e l'impossibilità originaria di risolverle nello stesso territorio - come ugualmente legittime da un punto di vista politico, indipendentemente dai loro discorsi di legittimità. Ma la legittimità non è fattibilità. Questa impossibilità si riflette nel fatto che lo Stato proclamato nel 1948 era di fatto uno Stato binazionale. La logica degli eventi non poteva che portare, e necessariamente, alla pulizia etnica per adeguare il concetto di Stato ebraico alla sua realtà demografica. Gli arabi palestinesi potevano solo essere sottoposti a una sovranità straniera, inevitabilmente percepita come coloniale, o essere espulsi. Non esisteva una terza possibilità materialmente realizzabile nel contesto di questo piano di spartizione. Affermare il contrario è ancora una volta puro pensiero borghese. Benny Morris è uno dei pochi storici che lo dice apertamente. Il costante riferimento alla storia nazista distorce pertanto la valutazione politica delle azioni di Israele, e delle azioni di Hamas o Hezbollah, così come distorce il bilancio di un secolo di conflitti regionali. L'Olocausto non può essere un argomento incriminante per i palestinesi, e un argomento di difesa per gli israeliani. E viceversa. Non costituisce una giustificazione morale per la creazione di Israele, dal momento che il sionismo è inteso come un movimento politico, giudicato a partire dalle sue condizioni di fattibilità politica e non dal metro di una franchezza morale fornita dalla tragedia degli ebrei d'Europa. Né questa tragedia ci permette di screditare moralmente il rifiuto del piano di spartizione del 1947 da parte dei paesi arabi, nonostante la collaborazione del Gran Mufti con i nazisti e nonostante tutte le ideologie antisemite panarabe e islamiste. Questo rifiuto merita la stessa considerazione politica dell'aspirazione alla sovranità dello Stato ebraico. O entrambe le posizioni vengono riconosciute come politicamente legittime all'interno della lotta per gli interessi capitalistici, o nessuna delle due, il che sarebbe molto curioso in un mondo organizzato da stati-nazione. Questa trattazione teorica renderà più evidente l'impossibilità storica di risolvere le due aspirazioni in questione sullo stesso territorio. In altre parole: era impossibile evitare un'ingiustizia. Da questa impossibilità reale non ne consegue che l'una o l'altra delle aspirazioni politiche sia inammissibile per il diritto, come gli eserciti di ideologi di ogni colore tendono a dimostrare. La sovradeterminazione ideologica offusca questa dichiarazione minima di trattamento politico. Sia che cerchi di costruire moralmente gli ebrei di oggi come vittime permanenti della Shoah, sia che cerchi di costruire i palestinesi come vittime permanenti, viste “come conseguenza” delle ex vittime del nazismo diventate cinici coloni (come se i palestinesi non fossero anche vittime dei Paesi arabi e dei movimenti islamisti che promettono loro la salvezza divina usandoli come scudi umani, e come se i palestinesi non fossero anche responsabili delle loro disastrose scelte politiche), non vuole avere nulla a che fare con una posizione politica sul problema. Si aggrappa al suo feticcio storico, il significante nazista. Ma non si può discutere - per una valutazione equa del conflitto - di concedere ad alcuni la franchezza morale che è negata ad altri, qualunque sia il “campo” in cui si pretende di individuare il grande tema dell'oppressione. I palestinesi non sono mai stati consultati sulla loro autodeterminazione. Per più di un secolo, sono stati coinvolti in una spirale di manipolazione araba e sionista. Ma non possono aspettarsi una soluzione politica dal perpetuarsi di una disputa che nega l'esistenza di Israele come Stato: Israele si è affermato nella pratica, si è consolidato nel tempo e ha sviluppato una cultura nazionale. L'ingiustizia su cui si basa non è più riparabile dell'ingiustizia di cui il sionismo si dichiara responsabile.

   Si può anche trovare l'esistenza di Israele odiosa e lontana da una reale emancipazione, come fanno molti ebrei nel mondo: questo è un altro discorso. Questa valutazione non cambia il fatto che il sionismo è un'espressione tra le altre delle aspirazioni nazionali moderne, che deve essere trattata alla luce della matrice politica che ha visto la sua nascita e non alla luce di principi di giustizia derivati da un'idealizzazione dell'ebraismo. Anche i palestinesi vedono allontanarsi l'evento fondante da cui traggono la loro identità politica. Anche in questo caso, la trasmissione del trauma non è una franchigia morale perpetua. In Portées du mot “juif” (2005), Badiou ha descritto la prelazione nazista del significante ebraico nel mondo contemporaneo. Ma si è limitato a diagnosticare la perversione del “nome ebraico” al servizio di una rendita morale derivata dal nazismo per meglio negare sia il carattere specificamente antisemita dello sterminio hitleriano sia l'esistenza di un significante “ebraico” che resiste alla definizione hitleriana degli ebrei. Proponendo di dissolvere il “nome ebraico” nell'universalismo paolino, Badiou non fa che ripetere la più antica accusa degli antisemiti, secondo cui gli ebrei coltivano una specificità ebraica inassimilabile, aperta o nascosta, decuplicata dalla loro storia di persecuzione. In breve, Badiou prescrive agli ebrei di essere buoni cristiani. Ma possiamo rifiutare l'eccezione morale legata al nome ebraico nel contesto di una discussione politica senza negare agli ebrei il diritto di gestire soggettivamente e nella pluralità delle risposte - come qualsiasi altra minoranza - le contraddizioni identitarie nate dall'incontro tra ebraismo e modernità. Badiou non è antisemita quando chiede la fine dell'eccezionalismo morale degli ebrei, ma quando sgombra il mondo europeo, e lui stesso con esso, dal complesso di colpa che sovra-determina il “nome ebraico” e “Israele” al di là del pathos ebraico e israeliano. Lo fa dissolvendo la storia dell'antisemitismo in quella delle esazioni razziali e smussando la dimensione paradigmatica del male radicale aperta da Auschwitz. Ma sottrarre il “nome ebraico” all'eccezionalismo morale non significa negare la particolarità della sua storia all'interno della storia europea. Si tratta di due linee di argomentazione diverse, una prescrittiva, l'altra descrittiva. È molto lontano dal concludere che la Shoah sia stata eccezionale (nel senso di un'estremizzazione del normale funzionamento capitalistico), ovvero assumere l'eccezionalismo morale di Israele o degli ebrei o dei palestinesi che, per inversione, sono talvolta visti come gli “ebrei” degli israeliani. Nella competizione per la memoria, tra la storia dell'antisemitismo e la storia della colonizzazione, l'intenzione non è quella di esaminare criticamente le rispettive storie, quanto piuttosto di assegnare il titolo di vittima assoluta a una delle figure identificative del conflitto israelo-palestinese. Questo conflitto diventa così automaticamente il tribunale della storia; per la gioia degli antisemiti e dei razzisti che tengono il conto. Il compito è ora quello di liberare i veri israeliani e palestinesi da questo sequestro collettivo. Questo vale per tutte le sinistre che non hanno altro progetto politico se non quello di dimostrare la propria innocenza morale, cospirando unilateralmente contro l'imperialismo “sionista”. E vale anche per i nuovi guerrafondai che sostengono che Israele e l'Occidente hanno il diritto di difendersi dagli “infami” - l'islamismo o il regime iraniano - a costo di gettare il mondo intero nell'inferno. La vittimologia sionista e il martirologio palestinese - e la loro miriade di inversioni e configurazioni identificative - devono essere identificati come componenti a sé stanti della mancata politicizzazione del conflitto. Alla fine, si risolvono in una lotta all'ultimo sangue che esegue nella realtà l'impossibilità inscritta fin dall'inizio in un atto di forza basato sul ricatto morale. Spetta a noi rompere con questo approccio, non cercando di legittimare gli attori, facendolo con i mezzi con cui essi stessi spiegano le loro azioni. In particolare, è sbagliato attribuire la sovra-rappresentazione geopolitica di questo conflitto all'antisemitismo onnipresente. Questa sovra-rappresentazione si presta a ogni tipo di aggancio antisemita, certo, ma è soprattutto radicata nel complesso di colpa occidentale. È tempo di portare Israele nel mainstream culturale. Ed è una rinuncia pesante per la coscienza ebraica. Ma è una rinuncia ancora più grande per la coscienza occidentale. Questa precauzione metodologica ripristinerebbe le condizioni per un trattamento politico del conflitto, depurandolo dalla riserva emotiva che deriva dalla memoria storica. Il fatto che la costellazione delle crisi mondiali metta in dubbio una tale soluzione politica, non deve portare a una cancellazione paternalistica della responsabilità degli attori. Né l'astratto israeliano né l'astratto palestinese, sono le vittime assolute a cui aspira la nostra fantasia di colpevolezza. Dovremo pertanto rinunciare all'idea di “dimostrare la Shoah” in ogni cosa che facciamo. Per noi che non viviamo lì, il conflitto deve prima essere liberato dalle grinfie di una coscienza di colpa che rimarrà aperta, incurabile. Non sarà lavata via dalla posizione che assumiamo - spesso con malizioso piacere - nel denunciare gli orrori perpetrati in loco gettando nel dibattito parole enormi che comprendiamo a malapena, che non ci costano nulla e che non rendono servizio a nessuno, come “il pogrom del 7 ottobre” o “il genocidio”. Abbiamo tutti notato il modo in cui qualcuno ha recentemente annunciato di aver finalmente adottato il termine genocidio con un tono di “ora è deciso”, come se dopo una lunga riflessione interna si fosse arreso all'orrore inconfutabile delle immagini. Dato il ruolo ideologico che questo termine svolge specificamente in questo conflitto, e che abbiamo appena delineato, è più opportuno resistere a questo appello. Alla parola è negato lo status di metafora. Significa solo sé stessa nella costellazione inconscia del discorso: “Gaza è Auschwitz”. Possiamo perciò lasciare questo termine agli storici e ai giuristi, i quali avranno il compito di descrivere i fatti. Gli eventi non sono meno mostruosi solo perché viene loro negato un termine che funge da diversivo morale e da divieto di pensare. Questa riserva - temporanea - non ci impedisce di vedere il livello stupefacente di distruzione e di barbarie scatenato a Gaza, come tenta di fare Jean-Pierre Filiu, per esempio, nel suo resoconto di una visita di un mese a Gaza alla fine del 2024, anche se non parla di genocidio. Ci vorrà molto tempo per trovare le parole e le analisi giuste per descrivere questo episodio storico in modo adeguato e dignitoso.

- Sandrine Aumercier- , luglio 2025 Pubblicato su GRUNDRISSE. Psicoanalisi e capitalismo -