venerdì 18 aprile 2025

“Libera Baku ora” ?!!???

"LOTTE DI LIBERAZIONE NAZIONALE" (Medio Oriente, Africa e Asia):
Le sirene mortali del populismo "antimperialista"
di pantopolis.over-blog.com

Di fronte al conflitto permanente che dal 1948 ha opposto gli Stati arabi allo Stato di Israele, la corrente di Bordiga era rimasta internazionalista, insistendo sempre sul fattore "lotta di classe internazionale". Così, in un articolo del giugno 1948 si poteva ancora leggere: «In Palestina non si difende la libertà, l'indipendenza, o un principio eterno: ciò che è in gioco, è il regime internazionale di sfruttamento, di imperialismo e di guerra. Sarà solo per mezzo della rottura rivoluzionaria di questo regime che i proletari arabi ed ebrei otterranno la libertà e la pace, ponendo così fine alla loro "schiavitù"» [*1]. Questa posizione verrà ulteriormente difesa durante la Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967. L'organizzazione, guidata da Bruno Maffi, delfino di Bordiga, era estremamente chiara in un articolo dal titolo: «Non ci sarà pace in Medio Oriente, o in qualsiasi altro luogo, fino a che il Capitale regnerà supremo ovunque» [*2]. Bisogna notare come, in questo articolo, non si trattasse di sostenere il "campo arabo", o di assimilare i proletari israeliani a qualcosa di simile ai "pieds-noirs": «Contro di loro, i proletari arabi e israeliani hanno il medesimo nemico: o essi combatteranno INSIEME per destabilizzarlo, in modo che così i proletari delle grandi metropoli imperialiste – i quali hanno costruito le loro fortune sulla propria carne – saranno i PRIMI ad aver dato l'esempio di una battaglia che non conosce alcun confine di razza, né di Stato o di religione; OPPURE ci sarà la guerra, laggiù come dappertutto, oggi come domani» [*3]. Ma poi, a partire dal 1972, il tono cominciò a cambiare, dapprima "teoricamente", per cui "Il Programma Comunista" ripubblicava un vecchio articolo di Bordiga, dal titolo "Oriente", e poi - esaustivamente - le tesi di Baku, nelle quali si faceva appello alla «guerra santa» contro l'imperialismo anglosassone, sostenuta dalle dichiarazioni di Zinoviev e di altri [*4]. Poco dopo, in ottobre, a seguito del massacro degli atleti israeliani, a Monaco di Baviera, da parte del gruppo terroristico palestinese "Settembre Nero", e la "pesante" risposta militare dello Stato israeliano [*5], Il gruppo bordighista francese si poneva contro entrambi i campi, ma senza condannare esplicitamente "Settembre nero", sottolineando come la violenza terroristica fosse essenzialmente borghese e istituzionale: «Ciò che il mondo borghese disapprova, non è la violenza e il terrore in sé, quanto piuttosto la violenza e il terrore illegali, nel mentre che si affida a una sua legge indistruttibile (quando non la esalta cinicamente), vale a dire, al terrore di Stato e militare sancito dalla legge e dal diritto internazionale». Alle lotte di liberazione nazionale, cui viene concessa un po' di "simpatia", i "programmisti" bordighiani oppongono la cosiddetta "armonia" della «dittatura universale del proletariato»: «La politica proletaria non nega affatto i problemi nazionali, ma non accetta la possibilità di risolverli nel quadro del capitalismo. Non rifiuta la propria simpatia per le minoranze nazionali oppresse in rivolta, ma dà loro il proprio appoggio solo al fine di assicurare il trionfo della concordia internazionale dei lavoratori. Alle soluzioni bastarde dell'imperialismo, oppone le soluzioni armoniose (sic) della dittatura proletaria universale».

   L'espulsione della tendenza di sinistra, raggruppata intorno a Lucien Laugier (Francia) e a Carsten Juhl (Svezia) che difendevano le posizioni "KaPéDiste", accelerò la regressione dei "programmisti" verso le Tesi nazional-populiste difese al Congresso di Baku 1920. Nel corso della guerra del Kippur - nell'ottobre del 1973 - la risposta appariva ora già meno "classista", e pertanto anche meno bordighiana. Il proletariato del Medio Oriente era scomparso sotto l'etichetta assai più populista di «masse rurali e urbane», un modo questo per allontanarsi dalla grande classe operaia dell'Egitto e di Israele: «… non ci sarà pace in Medio Oriente fino a che l'imperialismo mondiale, e insieme a esso le borghesie locali e le classi dominanti che gli sono strettamente legate..., non sarà stato rovesciato da una gigantesca ondata di classe che abbia finalmente unito i proletari delle metropoli capitalistiche dell'Ovest e dell'Est alle masse rurali e urbane, ancora oggi scagliate dai loro sfruttatori l'una contro l'altra in nome del sangue, della razza o della religione» [*6]. Una posizione questa, bisogna sottolinearlo, molto più internazionalista di quella dei trotskisti che invocavano invece l'appoggio delle borghesie arabe, senza neppure menzionare l'esistenza di proletari ebrei e arabi:  «Anche se i rivoluzionari proletari devono essere risolutamente a favore della vittoria degli Stati arabi, poiché una vittoria israeliana rafforzerebbe il dominio imperialista in Medio Oriente, non devono tuttavia lasciare che la gente creda che la lotta antimperialista passi attraverso la guerra contro Israele, e che possa essere condotta dalle borghesie arabe» [*7]. Il PCInternazionalista adottò gradualmente questa posizione trotskista, schierandosi apertamente dalla parte dei combattenti delle milizie palestinesi, i fedayn, «le vere vittime della guerra civile». [*8]. Insomma, venne dichiarata guerra a Israele: «le masse sfruttate del Libano e della Palestina... devono affrontare lo stato "pied-noir" di Israele», che così veniva finalmente paragonato all'Algeria coloniale francese. I lavoratori israeliani e palestinesi venivno così messi da parte, in modo da poter meglio lodare i «magnifici impulsi delle masse sfruttate e povere della plebe» (sic). In effetti, la guerra del Kippur segnò un punto di svolta, che nel gennaio del 1974 venne evidenziato dalla rivista del gruppo "Rivoluzione internazionale" [*9]. Il PCI “programmista”, nella sua retorica, diveniva sempre meno proletario, fino ad arrivare a sostenere, a volte con linguaggio maoista (“marxista-leninista”), le lotte di liberazione nazionale in Medio Oriente e nell'Africa nera, e le “rivoluzioni contadine” nella penisola indocinese, da cui gli Stati Uniti si erano appena ritirati dopo la visita di Nixon in Cina. In un articolo dal titolo «Onore a Luanda e ai proletari dell'Africa nera»[*10], l'organizzazione bordighista francese passava allegramente da una visione marxista, basata sulla lotta di classe, a una visione antimperialista e razzista della storia. "Le Proletaire" si rallegrava per l'intervento delle truppe cubane, supervisionate da consiglieri russi, fatto per respingere le truppe sudafricane e consolidare il nuovo Stato angolano: «La vittoria della giovane Repubblica dell'Angola, e la disfatta delle truppe avversarie su tutti i fronti, rappresenta un evento di notevole significato... Oggi, potentemente aiutato da un forte contingente cubano e da un impressionante contributo di attrezzature e consiglieri russi, l'MPLA (Movimento Popolare per la Liberazione dell'Angola [*11]) non solo mise in rotta l'inconsistente FNLA e respinse le truppe e i mercenari di Mobutu in Zaire, ma respinse anche la colonna di intervento sudafricana.» Sebbene l'articolo di "Le Prolétaire" sottolineasse gli appetiti imperialisti di una Russia che poteva «così collocarsi sulla rotta del petrolio e dei minerali che vanno dall'Oceano Indiano all'Europa e persino all'America», i bordighisti erano a ogni modo entusiasti di questa vittoria del MPLA e dei cubani, considerata "storica". Fu una vittoria "razziale" oltre che morale, e persino "proletaria": «Questa vittoria dell'MPLA sul Sudafrica... supera di gran lunga la limitata importanza dell'impegno militare in sé. È un formidabile incoraggiamento alla lotta degli sfruttati e degli oppressi in questa parte dell'Africa; la più industriale e allo stesso tempo anche la più esplosiva del continente. È una vittoria del movimento per l'emancipazione della razza nera contro l'oppressione secolare perpetrata dalla razza bianca. Il successo militare diventa così una vittoria morale che deve far soffiare su tutta l'Africa oppressa un vento di liberazione, il quale prima o poi arriverà fino allo stesso imperialismo russo. Ma c'è un'altra cosa di cui il proletariato internazionale ha mille motivi per rallegrarsi: sono i primi passi compiuti sulla scena politica dal giovane proletariato di Luanda e delle altre città, dai proletari e dai semiproletari delle piantagioni, e da tutte le masse sfruttate... »[*12]. Concludendo con un inno africanista, in cui vengono convocati tutti i martiri "proletari" della lotta "antimperialista": Patrice Lumumba e l'UPC (Unione dei Popoli del Camerun) [*13], che era stato così definitivamente "vendicato".

   Il Congresso di Baku dei "Popoli dell'Est" (settembre 1920) verrà così trasposto all'Africa nera: «Si apre una nuova era per l'Africa "arretrata", che ha appena dato una lezione all'Europa e all'America "civilizzate". Onore all'Africa»[*14]. La stessa posizione verrà poi assunta dagli scismatici del gruppo fiorentino "Il Partito Comunista" (guidato da Giuliano Bianchini*). Nel febbraio del 1976, quest'ultimo chiamò alla formazione di «nuclei comunisti rivoluzionari», «per partecipare, in modo organizzato e sul proprio terreno di classe, prima alla guerra antimperialista di liberazione, e poi alla rivoluzione comunista antiborghese»[*15]. Pochi mesi dopo, il PCInternazionalista si spinse ancora più in là nella sua lotta antimperialista, allorché i Khmer Rossi, appoggiati dalla Cina, entrarono a Phnom Penh, per  svuotarla della sua popolazione, deportata poi nei campi di lavoro e di sterminio. In tal modo, salutavano così il "terrore rivoluzionario" applicato in modo massiccio dai "sanculotti" Khmer:
«Ogni sincero militante rivoluzionario e antimperialista non può non sentire un dovere elementare nell'essere solidale con la rivoluzione indocinese, e in particolare con il terrore rivoluzionario tramite cui la componente più radicale del movimento indocinese difende e persegue gli sconvolgimenti economici, politici e sociali in Cambogia che - nelle loro manifestazioni più estreme - evocano i movimenti nazional-rivoluzionari che l'Internazionale di Lenin si proponeva di sostenere, spingere e dirigere nelle aree arretrate»[*16]. Il "Partito" sostiene «il terrore rivoluzionario... contro il quale la stampa al servizio dell'imperialismo si scatena con un sicuro istinto di classe, perché sa che non c'è rivoluzione vittoriosa senza dittatura, né dittatura consolidata senza terrore»[*17]. Nel 1979, l'invasione della Cambogia da parte dell'esercito vietnamita avrebbe rivelato la portata del genocidio commesso dal regime dei Khmer Rossi. Ma il PC Internazionale la considerava una semplice "tragedia", proprio come la rivoluzione russa. Ciononostante, la marcia in avanti della «rivoluzione borghese» doveva essere «accolta e promossa», «in quanto era una premessa per la nascita di un proletariato moderno»[*18]. Gli scismatici fiorentini del PC Internazionale (Il Partito Comunista), che dal 1975 al 1979 avevano taciuto sulla “questione cambogiana”, non usarono un altro linguaggio, e assolsero, a loro volta, i Khmer Rossi. Tutti i contadini khmer venivano identificati con i khmer rossi, i quali avevano perpetuato un massacro che veniva imputato alla “rivoluzione agraria” e a un “residuo” di “comunismo primitivo”:
«Combattendo da soli, i contadini Khmer hanno realizzato la propria rivoluzione radicale, una rivoluzione agraria che, come tutte le precedenti nella storia umana, è stata caratterizzata dalla sua violenza e ferocia, dall'odio per la civiltà urbana, ... da un ingenuo egualitarismo che si ricorda  ancora delle forme di comunismo primitivo per lo sfruttamento della terra... Non si trattava di socialismo, ma dell'azione di uno Stato fondato – per di più – su basi socio-economiche agrarie arretrate; si trattava di misure di emergenza necessarie per la sopravvivenza stessa del nuovo Stato, intrinsecamente fragile. La borghesia e gli opportunisti, compresi i vietnamiti, sono indignati per il terrore e la ferocia manifestatisi in Cambogia, quando al contrario tale ferocia era necessaria, proporzionata agli abusi e all'oppressione che i contadini Khmer avevano subito durante i lunghi anni di sfruttamento coloniale e imperialista, da un lato, e l'isolamento e il tradimento della stessa borghesia vietnamita che si dichiarava rivoluzionaria, dall'altro... Crediamo che – mentre tutti condannavano il radicalismo sociale dei Khmer Rossi, presagio disastroso per la borghesia delle rivolte agrarie in tutta l'Indocina – allo stesso tempo tutti (Cina compresa) tirarono un sospiro di sollievo quando le truppe vietnamite entrarono in Cambogia e si dimostrarono i migliori garanti dello status quo sociale»[*19].

   La sanguinosa realtà dell'oppressione, che era tanto sociale quanto razziale [*20], ha coperto tutta questa sanguinosa logorrea antimperialista. Ciononostante, nessuna delle due sezioni del Partito Comunista Internazionale ha mai osato battersi il petto a causa di questo appello al "terrore rosso" che veniva sistematicamente messo in pratica sul territorio Khmer. Avrebbe dovuto essere necessario, contemporaneamente, tanto riflettere in profondità sul fenomeno genocida che era al di là di ogni comprensione, immerso com'era nella formaldeide settaria, quanto mettere in atto una riflessione anche su questi «carnefici ordinari» la cui motivazione non era certo la «vendetta sociale» [*21]. In un ultimo sussulto, prima della crisi finale del 1982, un'assemblea generale "programmatica" del PCI  - nell'autunno del 1979 - arrivò a essere in grado di proclamare «la fine della fase rivoluzionaria borghese nel Terzo Mondo», e pertanto, a partire da questo, anche il vuoto delle "doppie rivoluzioni"[*22]. Si concludeva con un rifiuto de facto delle tesi di Baku, le quali sostenevano «l'unione delle centinaia di milioni di contadini dell'Est con i proletari dell'Ovest». Da allora in poi, si apriva un nuovo ciclo mondiale che avrebbe portato «all'unione delle centinaia di milioni di proletari del vecchio e del nuovo mondo, trascinando dietro di sé, nella lotta contro le fortezze imperialiste e l'intera catena mondiale degli Stati borghesi, le masse altrettanto numerose di contadini poveri e sfruttati dei continenti dominati»[*23]. L'insurrezione della classe operaia polacca contro il capitalismo di Stato, portò il movimento "programmista" a pubblicare un Manifesto in diverse lingue. Riconoscendo che «il ciclo delle rivoluzioni anticoloniali stava volgendo al termine», affermava che «la società (era) assai matura per il comunismo» e che «sarà probabilmente nell'Europa centrale che si vincerà il primo round decisivo della prossima ondata rivoluzionaria, dopo una serie di battaglie combattute in tutti i continenti»[*24]. Alla fine degli anni '90, di fronte all'ascesa del capitalismo cinese, i "programmisti", molto indeboliti, proclamarono la fine delle rivoluzioni "nazional-borghesi" e dovettero inchinarsi alla "giovane talpa" della globalizzazione [*25]. Il processo comunista avrebbe trionfato attraverso «l'istituzione dispotica di un unico piano mondiale che, violando le leggi del mercato, metterà a disposizione di tutto il mondo tutta la ricchezza ora accumulata in un pugno di paesi iper-privilegiati a spese della stragrande maggioranza dei paesi economicamente dominati»[*26].  Questa conclusione, anticipata dal Manifesto del 1981, era in totale contraddizione con la politica "nazional-rivoluzionaria" fino ad allora difesa dal "Partito" riguardo alla questione palestinese.

Pubblicato il 31 Marzo 2025 presso PB/Pantopolis

NOTE:

[1] "Per chi si scannano i proletari ebrei ed arabi", Battaglia Comunista n° 19, 3-10 giugno 1948, p. 1.

[2] "Non vi sarà pace né nel Medio Oriente, né altrove, finché regna sovrano dovunque il capitale", Il programma comunista n° 11, 14-28 giugno 1967, p. 1. Questo editoriale è probabilmente di Bruno Maffi che ne era il caporedattore.

[3] Il giornale francese Le Prolétaire n° 45, luglio-agosto 1967, d'altra parte, sottolineava che "la fondazione di Israele è la falsa soluzione di un problema sociale". Il gruppo del PCI in Algeria, inizialmente composto da un buon numero di operatori umanitari francesi e italiani (come Salvatore Padellaro*), ha chiesto il rifiuto di ogni patriottismo e fraternizzazione sui fronti militari: «A voi proletari palestinesi, arabi e israeliani, diciamo: fraternizzate, gettate le armi, meglio ancora, rivolgetele contro i vostri sfruttatori... Viva la lotta di classe degli operai contro la guerra della borghesia. Viva la lotta per la rivoluzione sociale».

[4] "Le tesi sulla questione nazionale e coloniale al primo congresso dei popoli d'Oriente (Baku, 1920)", Il programma comunista n° 12, 10 giugno 1972; "Il discorso Zinoviev al primo congresso dei popoli d'Oriente", Il programma comunista n° 14, 8 luglio 1972; «Le tesi sulla questione nazionale e coloniale al primo congresso dell'Internazionale comunista», Il programma comunista n° 16, 29 agosto 1972, p. 2.

[5] "Filisteismo della non violenza", Il programma comunista n° 18, 27 settembre 1972, p. 1. Vedi anche: "Dall'attacco di Monaco alla guerra del Libano", Le Prolétaire n° 135, 2-15 ottobre 1972.

[6] Enfasi aggiunta. "Ancora il Medio Oriente", Il programma comunista n° 19, 11 ottobre 1973, p. 1; "Le Moyen-Orient en flammes", Le Prolétaire n° 159, 22 ottobre-4 novembre 1973. La versione italiana aggiungeva come "nemico di classe" "l'ignobile Sinedrio [tribunale religioso e civile] dei loro stessi sfruttatori". Questa frase è scomparsa dalla versione francese.

[7] «Il conflitto in Medio Oriente: perché i rivoluzionari sono nel campo dei paesi arabi", Lutte de classe n° 14, novembre 1973 [Mensile dell'organizzazione trotskista francese "Lutte Ouvrière"]. Ha aggiunto: «La lotta per l'emancipazione dei paesi del Medio Oriente, nell'attuale contesto di dominazione imperialista, può comportare la guerra contro Israele. Ma la guerra contro Israele non è un mezzo per abbattere e distruggere l'imperialismo».

[8] "Face sanglante du Moyen-Orient, cynicisme d'une guerre, cynicisme d'une paix", Le Prolétaire n° 160, 5-18 novembre 1973.

[9] Cfr. l'articolo di Chardin: "La miseria dell'invarianza", che sottolineava l'"abbandono del terreno di classe" dal Medio Oriente al Cile. Questo articolo si faceva beffe dei "piccoli scrittori del proletariato che invocano movimenti 'audaci', 'dispotici' di 'giacobini' e di 'sanculotti'", che "sostituiscono la guerra delle razze alla guerra delle classi" e si aggrappano, come cattivi acrobati, a "una mitica invarianza di un programma invariante che non è mai esistito". L'autore si lascia andare alla fine con una piccola "parola di Cambronne": "a forza di essere stupidi, si diventa odiosi" [Révolution internationale n° 8, Parigi, marzo-aprile 1974, p. 10-16].

[10] "Honneur à Luanda et aux prolétaires d'Afrique noire", Le Prolétaire n° 214, 21 febbraio-5 marzo 1976, pp. 1-2.

[11] Originato dal Partito Comunista dell'Angola, l'MPLA è stato fondato nel dicembre 1956. Stabilendo il suo quartier generale fuori dall'Angola portoghese, sia ad Algeri che a Conakry, ricevette il sostegno dell'imperialismo russo, mentre il movimento rivale del FNLA ricevette il sostegno della Cina, del Congo-Kinshasa di Mobutu e degli Stati Uniti. Dal 1975 al 1992, l'MPLA, sostenuto da Russia e Cuba, governò il paese come un unico partito. Nel 1976, l'MPLA e le truppe cubane (Operación Carlota) costrinsero l'esercito sudafricano a ritirarsi dal territorio angolano, lasciando i suoi rivali UNITA e FNLA senza alcun sostegno se non quello degli americani e dei cinesi. Sotto la presidenza di Ronald Reagan (1981-1989), i sudafricani ricevettero tutto l'appoggio americano necessario per penetrare militarmente in Angola.Sostenuti dal FNLA, furono sconfitti dall'esercito cubano, che consisteva di più di 30.000 uomini, nella battaglia di Cuito-Canavale (12-20 gennaio 1988). Nel contesto del crollo del blocco sovietico e del regime razzista dell'apartheid nel 1991, la "Guerra Fredda" è finita... per un po'. Fu formato un governo di unità nazionale con l'UNITA e il FNLA, in cui giocarono solo un ruolo fantasma. L'MPLA è ora membro dell'Internazionale Socialista. La guerra civile, di fatto una guerra tra le grandi e le piccole potenze imperialiste, in cui sono intervenute tutte le grandi potenze, ha provocato un milione di morti. L'unico "onore dei proletari africani", celebrato dal PCI nel 1976, fu quello di essere stati massacrati per una causa e interessi che non erano i loro.

[12] Ibid. Enfasi aggiunta.

[13] L'UPC, un partito nazionalista camerunense, è stato fondato nel 1948. Sostenuto da Pechino, si ribellò alla potenza coloniale francese nel 1955 e poi ai nuovi leader camerunesi sostenuti dalla Francia. Uno dei capi della guerriglia dell'UPC, Félix-Roland Moumié, fu avvelenato a Ginevra da spie francesi nell'ottobre del 1960. Un altro leader, Ernest Ouandié, fu fucilato il 15 gennaio 1971 su ordine del dittatore Ahmadou Ahidjo, che rimase al potere fino al novembre 1982.

[14] Ibid. Enfasi aggiunta.

[15] "Angola: indipendenza nazionale tra il fuoco incrociato del imperialismo", Il Partito Comunista n. 18, Firenze, febbraio 1976, pp. 2-3; "Angola: La borguesia nazionale rinuncia alla rivoluzione", Il Partito Comunista n° 6, febbraio 1975: "Guerra santa contro l'imperialismo". Enfasi aggiunta.

[16] "La LCR et le Kampuchéa révolutionnaire, une caricature d'internationalisme", Le Prolétaire n° 225, 24 luglio-3 settembre 1976, p. 4. Enfasi aggiunta.

[17] Ibid. Enfasi aggiunta.

[18] "Il socialismo è internazionalista e internazionale o non è", Le Prolétaire n° 286, 24 marzo-6 aprile 1979, p. 1.

[19] "Nella guerra d'Indocina affonda il mito del socialismo vietnamita", Il Partito Comunista n° 54, Firenze, febbraio 1979, p. 2. Enfasi aggiunta.

[20] Cfr. Ben Kiernan, Il genocidio in Cambogia, 1975-1979. Razza, ideologia e potere, Gallimard, Parigi, 1998.

[21] Possiamo leggere questo racconto clinico di uno psichiatra francese, a contatto con i rifugiati Khmer: "(I carnefici) ignorano la dialettica e non riescono a distinguere tra un crimine politico e un assassinio scellerato. Non sono stati formati nella scuola del partito (sic). Molti di loro venivano dalle campagne ed erano soprattutto buoni coltivatori di riso, anche buoni vicini di casa, che condividevano il loro magro reddito con i parenti... Senza odio, senza passione, senza desiderio di vendetta sociale, senza piacere, uccidono molti più uomini, donne, bambini e vecchi di quanti la loro memoria permetta loro di contare oggi. Circa duemila con le sue stesse mani, uno di loro dirà... In effetti, non conosce il numero, se n'è dimenticato". Per quanto riguarda la classe dirigente dei Khmer Rossi, guidata da Pol Pot, essa "considerava i vivi destinati alla distruzione solo come potenziali cadaveri" [Richard Rechtman, "To Kill and Not to Let Live. Osservazioni sulla somministrazione genocida della morte", Revue française de psychanalyse, PUF, marzo 2016, n° 1, tomo LXXX, p. 137-148].

[22] "La fine della fase rivoluzionaria borghese nel 'Terzo Mondo'", Programme communiste n° 83, luglio-settembre 1980, pp. 23-58.

[23] Ibid.

[24] Opuscolo n. 17, Dalla crisi della società borghese alla rivoluzione comunista mondiale. Manifesto del Partito Comunista Internazionale. 1981 (supplemento al n. 332 di Le Prolétaire, 20 marzo-2 aprile 1982). Questo Manifesto doveva essere pubblicato in 10 lingue, tra cui il farsi, l'arabo e il turco.

[25] Questo è stato sottolineato con forza negli anni '90 dall'organo "programmista" italiano: "E' al lavoro la talpa della 'globalizzazione' capitalistica", Il programma comunista n° 11/12, dicembre 1997. In francese: "La talpa della 'globalizzazione' capitalistica è all'opera", Cahiers internationalistes n° 5, Milano, primavera 1998, pp. 1-3.

[26] Ibid.

mercoledì 16 aprile 2025

Antisemitismo, come Ideologia di Crisi !!

Oggi, si parla del movimento sociale degli "Ebrei di sinistra", di internazionalismo e di nazionalismo, di antisemitismo e di lotta contro l'antisemitismo, così come della strumentalizzazione della lotta contro l'antisemitismo.

« La categoria che fa riferimento agli  "ebrei di sinistra", reca in sé un'ambivalenza; come se gli ebrei di sinistra si dovessero scusare di essere ebrei, e pertanto, per apparire pubblicamente, dovessero aggiungere la qualifica "di sinistra".
Mentre invece  gli ebrei di destra, loro, non si scusano affatto, non dicono "io sono un ebreo di destra". Pertanto, la categoria degli "Ebrei di sinistra", somiglia così a un discorso rivolto alla sinistra, per poter dire loro che noi "siamo con voi, siamo con la sinistra; facciamo parte di una umanità comune; perfino noi ci sentiamo responsabili di tutto ciò che sta accadendo laggiù". [...]
Essere ebrei diventa così una condizione difficile da vivere nella società, soprattutto a sinistra, laddove sembra che, per rimanere ebrei, ci si debba giustificare.
In tal modo, gli ebrei di sinistra non sono di per sé ebrei, ma sono ebrei per gli altri. Questa difficile condizione, è dovuta alla visione che la società in generale ha degli ebrei, e che in particolare ha a sinistra, a partire dal 7 ottobre. Definirsi un ebreo di sinistra, o incarnare l'ebreo di sinistra, è pertanto una strategia che dev'essere adattata a questo punto di vista.
Ma allo stesso tempo, "ebrei di sinistra" costituisce anche un'identità politica concreta, positiva e volutamente mobilitata; dal momento che riteniamo che debba essere da sinistra che si può condurre una lotta efficace contro l'antisemitismo.
La lotta contro l'antisemitismo, a nostro avviso, deve prevedere tre livelli di intervento: dove  il primo livello è la formazione, è riconoscere e allenarsi a confrontarsi quotidianamente con l'antisemitismo. A un secondo livello, la lotta contro l'antisemitismo richiede la riscrittura di quelle grandi narrazioni che rendano possibile placare la situazione, in particolare tra ebrei e musulmani. La riscrittura delle grandi narrazioni non solo rimetterebbe al centro la critica materialista, ma impedirebbe ogni appiglio a quelle analisi complottiste che attraggono così tanto la critica sociale. Infine, l'ultimo livello di intervento, esplorato dai pensatori della Scuola di Francoforte e dai loro eredi, affronta l'antisemitismo in quanto ideologia della crisi. Un modo radicale per combattere l'antisemitismo sarebbe quello di costruire una società basata su qualcosa di diverso dai cicli di crisi. Si tratta di pensare a modelli teorici e trovare il modo di testarli. »

- da "L'antisemitismo è un pericolo per gli ebrei e per l'intero movimento sociale". Intervista a Jonas Pardo e Samuel Delor -
- fonti:
https://www.dai-la-revue.fr/ - e: https://www.editionsducommun.org/products/petit-manuel-de-lutte-contre-lantisemitisme -

martedì 15 aprile 2025

L’Alienazione Reale dell’Anticapitalismo feticizzato !!

Note critiche su: Francesca Trivellato, "Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata". Editori Laterza; svolte a partire dalla critica dell'antisemitismo moderno in Postone e Kurz
di @Palim Psao

   In "Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata". Editori Laterza, 2019 ), la storica Francesca Trivellato decostruisce la genesi storica di un mito: quello relativo a una presunta associazione tra gli ebrei e l'invenzione delle prime forme di capitalismo (come le cambiali e le assicurazioni marittime). Il libro, nel seguire la sua traiettoria testuale e discorsiva, evidenzia quali sono stati i diversi e vari circoli intellettuali e commerciali che hanno trasmesso, trasformato e legittimato quest'idea nell'Europa del XVII e del XVIII secolo. L'analisi che viene svolta rimane pertanto ampiamente empirico-storica (rintracciare le fonti, studiare le reti di trasmissione), diffusionista (in che modo una certa narrazione si sia diffusa e adattata ai diversi contesti), decostruttivista (nel senso che mira a confutare una falsa credenza). Ma tuttavia non propone una teoria critica della forma sociale in via di affermazione, rispetto alla quale un tale "mito" assume via via senso, trovando così la sua irrazionale irrazionale.

Per Moishe Postone, l'antisemitismo moderno non è solamente odio, o mito culturale, ma costituisce una forma di anticapitalismo feticizzato. L'antisemitismo moderno proietta sugli Ebrei le diverse dimensioni astratte, sfuggenti e deterritorializzate di quella che è una relazione di Capitale (denaro, finanza, globalizzazione, ecc.). A tutto questo viene opposto un ideale di lavoro concreto, produttivo, radicato, spesso rappresentato nella "comunità nazionale". Postone insiste sul fatto che, nell’antisemitismo moderno, l'ostilità verso gli "Ebrei" è una forma di ostilità verso il dominio astratto del Capitale, senza che però si inneschi una comprensione critica di tale astrazione reale, la quale funziona come un auto-dominio pratico che, sotto il capitalismo, viene situato nel Lavoro. È questo ciò che Postone chiama "anticapitalismo feticizzato".

  L'antisemitismo (e soprattutto il suo culmine raggiunto nel nazismo) rappresenta una rivolta del concreto ipostatizzato e immanente (lavoro, terra, sangue), che comprende anche il capitale produttivo, che si contrappone a ciò che viene invece percepito come astratto, il denaro, il valore; un astratto che qui viene compreso e visto come se si fosse reincarnato, rebiologizzato nell’ "Ebreo”. È l'intera Nazione, compresi i lavoratori e i capitalisti, che dovrebbe sollevarsi, come un unico corpo, contro il capitalismo cosmopolita e finanziario. Lo slogan che riassume assai bene questa posizione, è quello slogan nazista che contrapponeva lo "schaffendes Kapital" – vale a dire il lavoro produttivo/creativo – allo "raffendes Kapital" –  il capitale rapace.  In questo senso, sappiamo che esiste sempre la possibilità che si radicalizzi una visione dell'Ebreo, il quale viene visto come portatore di tutto ciò che è astratto, come il rappresentante del denaro e del capitale finanziario, e si arrivi poi all'identificazione dell'Ebreo come incarnazione dell'astratto, e quindi di tutto ciò che viene inteso come il Male che distrugge il Bene; Bene, che invece si trova nell'economia sana e produttiva. Tutta la civiltà moderna, è segnata da questo dualismo tra concreto (particolare, diverso) e astratto (universale, generale). La creazione delle Nazioni moderne si basa infatti su questi due poli contraddittori.

   Robert Kurz e la Wertkritik insistono anche sul fatto che l'antisemitismo fa parte del nucleo ideologico del capitalismo in crisi, nel senso che costituisce uno dei modi ideologici di affrontare le sue contraddizioni:  la critica del valore, della merce e del soggetto moderno mostra come le proiezioni antisemite nascano pertanto proprio dalla necessità di dare una cifra a ciò che  nella dominazione capitalistica, è astratto e invisibile. L'ideologia antisemita, come il razzismo – ma in modo diverso – è una cristallizzazione pseudo-concreta della crisi del capitale e dell'impotenza sociale di fronte alle sue logiche autonomizzate.

   Si potrebbe infine argomentare riguardo a ciò che, nel libro, la Trivellato sottovaluta: la funzione sociale dell'antisemitismo moderno in quanto struttura ideologica specifica del capitalismo; il fatto che il mito degli “Ebrei e del Capitale” non nasce soltanto dalla diffusione culturale, ma proviene anche da un bisogno sociale di personificare un dominio astratto; e, infine, del fatto che non si tratta di una semplice narrazione falsificante, quanto piuttosto di una forma di “percezione erronea socialmente necessaria”, una falsa soluzione a una Alienazione reale. In altre parole, laddove Trivellato vede un discorso erroneo storicamente trasmesso, Postone e Kurz vedono quella che, nel capitalismo, è una configurazione strutturale della coscienza sociale, un'ideologia spontanea della merce che assume gli Ebrei come base simbolica.

@Palim Psao - 13/4/2025  -

lunedì 14 aprile 2025

È andata male…

Ode a Jim l’Everyman che volle farsi Lord
- di Michele Mari -

«È uno di noi», «era uno di noi»: Conrad lo ripete più volte, a partire dalla proemiale Nota dell’autore: e anche se nella sua visione l’appartenenza e l’identificazione si giustificano con il fatto che Jim [il protagonista del romanzo Lord Jim di Joseph Conrad, Ndr] non solo e` un bianco, non solo un occidentale, ma un inglese degnamente educato, l’afflato ne fa comunque un’allegoria dell’uomo, un «everyman» (che come tale non ha e non deve avere un cognome). Come Adamo, Jim nasce puro e innocente: fin dalla primissima descrizione viene connotato nel segno del candore: «Era di eleganza immacolata; dalle scarpe al cappello era attillato in un bianco candido»; la sua innocenza e` tutt’uno con la sua ingenuità (che per via di testardaggine rasenta in alcuni momenti l’ottusità, come nel Michael Kohlhaas di Kleist). Su questa ingenuità riposa un senso di incolumità che e` forse quanto più somigli in lui a una hybris: «Sentiva di non doversi più preoccupare di nulla che potesse accadergli fino alla fine dei suoi giorni», e non per mancanza di immaginazione, ma al contrario per un suo eccesso, suscitato dai racconti orali e scritti di avventure marinare: «Dimentico di se´, conduceva già in mente sua la vita di mare intravista nei romanzetti. Si vedeva salvare le persone da navi che affondavano, abbattere pennoni durante un uragano, nuotare fra la schiuma con un salvagente […], esempio costante di dedizione al dovere, indomito come l’eroe di un libro».

  In realtà, e nel sottolinearlo Conrad e` spietato, il destino di Jim e` già scritto, cosi` come la delusione e` fisiologicamente insita nell’illusione. Questo destino è tutto alle spalle di Jim, e` l’atto fondativo della sua vita: un peccato veniale che, ingigantito dalla sua coscienza e dal suo masochismo, lo inseguirà per tutta la vita, costringendolo ogni volta a spostarsi per centinaia di miglia, a cambiare attività e a rinunciare a quel po’ di quiete che era riuscito a procurarsi. Scottato dal connubio con gli uomini, Jim vuole uscire dall’umanità, rendersi anonimo e invisibile, e da questo punto di vista il suo primo tormentatore e` proprio Marlow, che pur stimandolo e cercando di aiutarlo con ogni mezzo lo insegue a propria volta riportandolo all’episodio fatale. La curiosità di Marlow e` effettivamente «malsana», come egli stesso sembra ammettere («se volete, potete chiamarla una malsana curiosità»), ma ciò che più conta e` che anche il lettore viene trascinato in questa temperie voyeuristica. Jim un po’ c’è e un po’ non c’è; un po’ parla direttamente, un po’ parla attraverso il racconto di Marlow, un po’ e` l’oggetto delle congetture di Marlow o dei commenti della gente; è sfuggente, indecifrabile, magnetico, ma il sospetto e` che possa essere anche un mero contenitore del pensiero di Marlow, che incessantemente lo interpreta come potrebbe fare un cartomante o un ventriloquo. Il «fatto», allora. Il fatto dura appena ventisette minuti, durante i quali Jim e` preda di una strana passività (cui pero`, orgogliosamente, non vorrà appellarsi). Nell’ultimo di questi ventisette minuti, il salto fatale che crea il suo destino (tale episodio, scrive Conrad nella citata Nota, «era inoltre un evento che in un personaggio semplice e sensibile poteva a buon titolo dar colore al “sentimento dell’esistenza”»), ma per circa cento pagine il lettore non ne viene informato, perché il romanzo procede per programmatiche dilazioni, con un lento avvitamento dall’esterno all’interno, verso il suo nucleo di senso. Dopo l’agnizione, la parte centrale del romanzo e` dedicata alle conseguenze quasi meccaniche del disonore e della vergogna, che Jim potrebbe obliare e al contrario enfatizza retroattivamente; nella terza parte si celebra invece il riscatto, cosi` luminoso da sembrare esemplato, a sua volta, sulle gesta eroiche e romantiche che tanto avevano acceso l’immaginazione del protagonista, ma ascendere a tanta altezza si rivelerà funzionale alla catastrofe delle ultimissime pagine, dominate dal diabolus ex machina Brown e caratterizzate dal passaggio di Marlow dal racconto orale al racconto scritto. Rinato nel protettivo esilio di Patusan, Jim è assurto a leggenda vivente, e infatti non ha più passato, non e` più Jim: e` Tuan Jim, che circondato dalla stima e dalla fiducia degli abitanti di questo Nuovo Mondo «sembrava finalmente vicinissimo a dominare il suo destino». Ancora una volta l’illusione tradirà, ma se la vocazione di Jim e` immolarsi come l’agnello sacrificale (atteggiamento già chiaro nelle scene processuali dei primi capitoli), il coronamento paradossalmente trionfale del proprio destino e` nella morte: «Nemmeno nelle sue visioni giovanili più violente avrebbe potuto immaginare la seducente forma di un successo cosi` straordinario! Potrebbe infatti benissimo essere che, nell’attimo breve di quel suo ultimo sguardo fiero e impavido, avesse scorto il volto di quell’opportunità che, come una sposa orientale, velata era sopraggiunta al suo fianco».

   Lord Jim appartiene a quella ristretta lista di libri che colpiscono, oltre che per la loro bellezza, per la loro grandezza. Ed e` grande non perché sia il libro più complesso e ambizioso di Conrad, ma perché e` un libro disperato con la pretesa di essere moralmente esemplare, perché e` un libro impietoso animato da una straordinaria pietà, perché pur costituendo una gigantesca requisitoria contro le illusioni non si rassegna a perderle, perché come un giocoliere Conrad lo ha tenuto in equilibrio sull’unico punto in cui viltà ed eroismo si intersecano; finalmente, perché come i libri possenti e di profondo respiro ammette in se´ il saggio e la biografia, il documento e l’avventura, tutti omogenei e continui a quest’ultima. Al pari di quasi tutti i protagonisti dei libri di Conrad, Jim e` un reietto devastato dal senso di colpa: ma, diversamente da tutti, ha nei confronti della colpa un rapporto conflittuale e contraddittorio. Morbosamente egli rivive in continuazione quel famoso salto dal Patna [la nave di cui era primo ufficiale e che abbandonò temendo che affondasse, Ndr] e fobicamente lo fugge, cambiando lavoro e scomparendo ogni volta che la sua persona e` messa in relazione a quell’incidente; teme che il passato lo raggiunga e fa di tutto per restarvi ancorato; e in questo dibattimento non osa nemmeno immaginare un riscatto, al quale, pure, tutte le sue fibre tendono ciecamente. Cosi` quando incontrerà il riscatto non lo riconoscerà: sarà diventato il leggendario Tuan Jim, e ancora si permetterà l’indolenza e il fatalismo di Jim, ciò che lo condurrà all’ultima rovina (perché la contrapposizione non e` fra Lord Jim e Tuan Jim, ma fra Jim e Lord-Tuan Jim, fra il giovane titubante che trema e il grand’uomo cresciuto sopra e contro e nonostante e per quella debolezza). Segno di tanta irresoluzione e` il continuo variare e intersecarsi dei piani narrativi e dei punti di vista, dato che la narrazione e` per lunghi tratti demandata a quel Conrad personaggio che e` Marlow, e dato che lo stesso Marlow incarna differenti stati di conoscenza dei fatti (perlopiù la sua funzione e` quella di congetturare e spargere dubbi, avvolgendo il racconto nelle spire di un criticismo ancora più morboso del carattere di Jim).

   E` stato scritto più volte che Conrad scaricava le proprie pulsioni suicide infierendo sui propri personaggi, tutti traditori di qualcosa come lui avrebbe tradito la Polonia per l’Inghilterra. In questo caso pero` Jim e` già «morto», e fin dall’inizio e per sempre un ex uomo di mare: tutto il romanzo si svolge infatti lontano dal mare, che pure, per la centralità dell’episodio del Patna, sembra essere lo sfondo costante. Ogni cosa detta di Jim e su Jim, così, ha il crisma del commento: un punto solo, quel salto! decide di una vita, consegnandola al tormento e all’elucubrazione. Eppure, grazie a un amore dell’avventura esotica più forte di quanto l’autore ammettesse, la seconda parte del romanzo e` anche una parte epica: c’è uno scenario salgariano, c’è un popolo in lotta, un regno, un amico indigeno ucciso dal bieco aggressore. Senonché l’errore, vissuto per coazione come colpa, trasforma immediatamente l’epica in tragedia, anzi in sacra rappresentazione: Tuan Jim si immola come Cristo, cioè come una figura assolutamente non romanzesca. In quella morte trova la pubblicità e il riconoscimento che nel suo cuore di ragazzo erano l’inseparabile corteo della gloria: ma a regalarglieli non è la gloria, è ancora una volta l’onta, come se egli non potesse liberarsi della sua colpa se non celebrandola come una divinità. Assumono allora un più cupo significato le parole di Marlow che aprono il capitolo XVI: «Si stava avvicinando il tempo in cui l’avrei visto amato, creduto, ammirato, in quella leggenda colma di vigore e coraggio che si andò creando attorno al suo nome come se avesse stoffa da eroe». Come se: un’ipotetica che solo il volto tormentato di Peter O’Toole poteva esprimere.

- Michele Mari - Pubblicato su Robinson del 23/6/2024 -

domenica 13 aprile 2025

Un Rivoluzionario ?!!???

«Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno», disse il digiunatore. «E noi infatti lo ammiriamo», rispose il custode con affabilità. «E invece non dovreste ammirarlo», replicò il digiunatore. «D’accordo, allora non lo ammireremo, – disse il custode, – ma perché poi non dovremmo ammirarlo?» «Perché io devo digiunare, non posso farne a meno», continuò il digiunatore. «Ma guarda un po’, – disse il custode, – e perché non ne puoi fare a meno?» «Perché, – disse il digiunatore, sollevando un poco la testolina e parlando, con le labbra arricciate come per un bacio, proprio all’orecchio del custode cosí che nulla andasse perduto, – perché non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, credimi, non avrei fatto tante storie e mi sarei abbuffato come te o chiunque altro». Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non piú fiera, convinzione di continuare a digiunare.

- FRANZ KAFKA, Un digiunatore ("Ein Hungerkünstler", letteralmente "Un artista della fame"), 1924 -

sabato 12 aprile 2025

Orsù !!!

 

(non) scusate il gioco di parole
- Parole in gioco/1. Un testo di Paolo Albani per le minuscole edizioni di fuocofuochino. Un modo per riflettere sugli usi e le ambiguità della lingua e su come (r)esistano modi per amarla ludicamente -
di  Paolo Albani

Non ne posso più. Sono al limite della sopportazione. Sto perdendo la pazienza. Oggi alla radio, per l’ennesima volta, ho sentito il conduttore di una trasmissione culturale (e sottolineo culturale) affermare candidamente dopo aver masticato un’allitterazione involontaria: «Scusate il gioco di parole». Ma scusarsi di che? Di un gioco di parole? E perché mai uno dovrebbe vergognarsi di aver fatto un gioco di parole? Ma siamo impazziti! Ha qualcosa di sconveniente, di volgare, di stupido il gioco di parole? Chi non perde l’occasione di far uscire dalla propria bocca un piagnucoloso «Scusate il gioco di parole», sa quel che dice? Ha coscienza della bestialità di cui è vittima? Fosse per me, adotterei provvedimenti drastici, in ogni circostanza, contro i responsabili della diffusione di una frase tanto disonesta e inopportuna. Fastidiosa persino all’udito. Multe salate, carcere preventivo, punizioni corporali, confino su un’isola sperduta in mezzo all’Oceano Atlantico, a circa 1.900 km dalla costa dell’Angola.
Lo so che non è politicamente corretto, ma dopo aver sentito per la milionesima volta il ritornello «Scusate il gioco di parole», affibbierei al pentito di turno, all’odioso autoscusatore, se l’avessi a portata di mano, un sonoro scappellotto sulla nuca. Che gioia! La misura è colma: stilerò una petizione, un Manifesto per sensibilizzare l’opinione pubblica contro l’uso della bieca formuletta, così da metterla al bando. Niente più «Scusate il gioco di parole». Vietato pronunciarla. Legittimarla. Canonizzarla. Spero vi aderiranno gli intellettuali più sensibili e fuori dal coro, pagherò a mie spese, grazie a un prestito bancario o a una colletta fra amici e parenti, lo spazio sui più importanti quotidiani nazionali per far conoscere la mia battaglia.
Aveva ragione Giampaolo Dossena a dire che «il gioco resta circondato dal discredito in molti ambienti». Questo discredito ha un’eco ben rintracciabile, si riflette, in modo chiaro, nella codarda affermazione di chi, scivolato su un gioco di parole non previsto, si affretta vigliaccamente a chiedere scusa. Uno è lì che parla in pubblico – supponiamo al microfono di una radio –, snocciola tranquillo un discorso sulla sessualità nei giovani e gli scappa di mettere in fila queste parole: «Ammesso e non concesso che il sesso ecc. ecc.», dopo di che fa subito marcia indietro, sfodera l’imbarazzante e non più tollerabile rituale fraseologico, «Scusate il gioco di parole», o «Scusate il bisticcio», che è la stessa cosa, una variante che nulla cambia al senso del rammarico, del tutto futile. Provate a dirlo a Gino Patroni (1920-1992), il più grande epigrammista italiano, che vi scusate per un gioco di parole, lui che fece arrabbiare il premio Nobel Salvatore Quasimodo con questi versi: «Mensa popolare» Una / zuppa / di / verdura ed è / subito / pera. Una volta Patroni è con Gianni Brera, assistono a una partita di calcio, entrambi sono giornalisti sportivi. A un certo punto Patroni si avvicina a Brera e gli sussurra all’orecchio: «Orsù!». Brera lo guarda stranito, si aspetta che all’esortazione segua un concetto. Non segue nulla. «Orsù cosa?!», lo incalza Brera. E Patroni: «Una famiglia di orsi recentemente scoperta in Sardegna».
Ditelo a Patroni, se avete il coraggio, che vi scusate per essere caduti nella trappola diabolica di un gioco di parole, e vediamo come reagisce lui. E se vi sembra troppo di parte o partigiano Patroni (qui sento il sopraggiungere al galoppo di un nuovo mortificante «scusate il gioco di parole»), chiedetelo pure all’Orbo Veggente, Gabriele D’Annunzio, che riempie «Di spruzzi, di sprazzi» la poesia L’onda, o scomodate, se preferite, il compassato Eugenio Montale, il cui anagramma è uomo inelegante, che si lascia prendere la mano e sforna nella poesia I nascondigli II, echeggiando il Vate di Pescara, il verso «e solo la spuma entrava a spruzzi e sprazzi». Credete che i due, D’Annunzio e Montale, sommi poeti, si scuserebbero per questi -uzzi e questi -azzi che stridono fra loro, che fanno scintille? Manco per il cazzo, mi verrebbe da dire, se mi passate il gioco di parole.

- Paolo Albani - Pubblicato su Domenica del 16/6/2024 -

venerdì 11 aprile 2025

La Grande Buffonata

Trump, i dazi e il mercato azionario
di Lefteris Tsoulfidis [*1]

La recessione che ha avuto inizio nel 2007 è ancora in corso. In maniera analoga, a quanto accadde durante la Grande Depressione - nel periodo tra le due guerre - anche l'autoritarismo, l'isolazionismo e il protezionismo sono diventati la politica ufficiale dei governi, anche se non necessariamente di tutti i paesi. Negli anni '20 e '30 , furono in particolare l'Italia, la Germania, la Spagna e la Grecia. Ma tale politica andò ben oltre: nel 1930, gli Stati Uniti, con lo Smoot-Hawley Act, quadruplicarono i loro dazi, dapprima solo per i prodotti agricoli, poi anche per i beni industriali. Oggi, tuttavia, il protezionismo e l'isolazionismo non riguardano solo le politiche statali. Anche le aziende private stanno cercando di ridurre la loro dipendenza dalle catene di approvvigionamento internazionali, e di trovare pertanto dei fornitori nazionali. Questa tendenza, è iniziata con la pandemia e si è poi intensificata ulteriormente con le guerre in Ucraina e a Gaza. Tutto ciò nasce a partire da una situazione internazionale  che appare imprevedibile: le dinamiche della globalizzazione sono cambiate. Ciò può essere visto nel rapporto tra, da un lato, la somma dell'insieme delle esportazioni e delle importazioni internazionali, da un lato, e dal prodotto interno lordo globale, dall'altro. Tra il 1982 e il 2007, la  percentuale era aumentata in media dell'1,88% all'anno, mentre tra il 2007 e il 2023 essa è diminuita dello 0,07% all'anno: fino al punto che, a partire dal 2007, il commercio estero è cresciuto più lentamente di quanto ha fatto tutta l'intera economia globale. La politica di Trump non è stata affatto come un fulmine che arriva a ciel sereno, ma corrisponde a una tendenza in atto non solo negli USA. La domanda da porsi, rimane tuttavia quella che chiede di sapere se una simile politica riuscirà ad avere successo. Ricordiamoci che nel suo primo mandato, Trump ha fallito più volte con i suoi "grandi progetti"; sia che si trattasse della costruzione di un muro al confine con il Messico - che avrebbe dovuto essere pagato dal governo messicano - o dell'abolizione dell'Obamacare, o dell'introduzione di tariffe elevate sulla Cina, o della rinegoziazione dell'Accordo di libero scambio nordamericano "NAFTA" (il cui unico cambiamento consistette nel ribattezzarlo "Cusma").

La parola più bella... Dazio
A causa delle interazioni internazionali in quello che è un sistema di squilibri generali, gli effetti del nuovo protezionismo messo n atto dagli Stati Uniti non possono essere previsti con precisione. Un aumento delle tariffe, forse del 25%, dovrebbe portare sicuramente a un aumento dei prezzi. Cosa che avrà l'effetto di aumentare il gettito fiscale. Parte di questo aumento, si rende necessario al fine di riuscire a pagare gli interessi sul debito pubblico, il quale si attesta attualmente sul 124% del PIL. L'ultimo aumento di quello che costituisce limite del debito - ammesso dal Congresso alla fine di dicembre 2024 - ha mostrato quanto fosse già grave la situazione dei bilanci pubblici. Uno sguardo al mercato azionario dovrebbe destare maggiore preoccupazione: come è ovvio, l'indice S&P 500 si è allontanato dai parametri fondamentali, calcolati in base all'andamento degli utili societari negli Stati Uniti. A differenza di quanto avvenne nel 1929, oggi questa bolla viene ora alimentata, non solo dagli investitori statunitensi stessi, ma anche dagli investitori internazionali. I dazi annunciati da Trump, aumenteranno i prezzi negli Stati Uniti. Di conseguenza, aumenteranno anche i tassi di interesse, e il che servirà a rendere più attraenti per gli investitori quegli investimenti sicuri come i titoli di Stato, di modo che così il debito sarà ancora più costoso, e ridurrà a sua volta la domanda di azioni. Quelle più colpite, saranno le aziende altamente indebitate. Se questo scenario dovesse verificarsi soprattutto negli Stati Uniti, è certo che il mercato azionario di New York subirà una significativa battuta d'arresto. Di conseguenza, il presidente Trump dovrà ripensare la sua politica. All'inizio del 2018 la Fed, la banca centrale statunitense, è intervenuta alzando gradualmente i tassi di interesse (“tapering”). Sia Wall Street che le grandi aziende informatiche - le "Glorious 7": Apple, Microsoft, Nvidia, Google, Amazon, Meta e Tesla – hanno sostenuto l'elezione di Trump. Il governo degli Stati Uniti sta sostenendo il "Project Stargate" (una nuova società che mira a fare investimenti per 500 miliardi di dollari in infrastrutture di intelligenza artificiale). Sia l'intervento che gli investimenti del governo sono essenziali poiché - secondo Elon Musk - il settore privato non ha il capitale per iniziative simili, come sempre è avvenuto per le innovazioni fondamentali. Un aumento dei prezzi delle azioni rafforzerebbe coloro che sono coinvolti nel progetto, e le aziende che rafforzano lo scatto di crescita, reinvestono i loro profitti. E i dazi? La minaccia di aumenti tariffari ha lo scopo di esercitare pressioni sui concorrenti. Tuttavia, l'implementazione di aumenti tariffari minaccerebbe il mercato azionario statunitense, costringendo a una rapida variazione dei prezzi.

Lezioni dal passato
Per coloro che li sostengono, gli aumenti delle tariffe garantiscono una situazione vantaggiosa per tutti: minori importazioni da un lato, maggiore produzione e posti di lavoro in patria dall'altro. Ma l'aumento dei prezzi, negli Stati Uniti, porterà a un aumento dei tassi di interesse, attirando capitali da tutto il mondo. Questo rafforzerà il dollaro - e indebolirà l'effetto degli aumenti tariffari dal momento che i prodotti importati diventeranno più economici nella valuta americana. L'onere degli aumenti tariffari sarà quindi in parte condiviso con i partner commerciali. Inoltre, il dollaro forte potrebbe provocare reazioni da parte dei Paesi BRICS che vorrebbero sviluppare un sistema commerciale alternativo per ridurre la loro dipendenza dal dollaro. L'attuale politica tariffaria degli Stati Uniti,rappresenta più un segno di debolezza, che di forza. Nel XIX secolo, sotto la Dottrina Monroe, gli Stati Uniti hanno protetto la loro nascente industria per mezzo di tariffe elevate. Quando poi sono riusciti a dominare il mercato mondiale, allora hanno seguito una politica di libero scambio, poi propagata in tutto il mondo, prima attraverso il GATT, a partire dal 1948, e poi con l'OMC, dal 1995. Oggi, gli Stati Uniti stanno cercando di riguadagnare la loro forza perduta attraverso il protezionismo. Con l'aumento dei dazi, gli Stati Uniti ammettono di aver perso la loro competitività, un tempo superiore. Ma è discutibile se, nella diversa situazione di oggi, la ricetta funzionerà di nuovo. L'attuale protezionismo non è altro che un tentativo di proteggere, dalla concorrenza internazionale, l'industria nazionale e i posti di lavoro. Le politiche neoliberiste perseguite finora - come la pressione salariale e i tagli alle tasse - non hanno avuto successo. Ecco perché oggi gli Stati Uniti si stanno rivolgendo alle nuove tecnologie, all'intelligenza artificiale, ai computer quantistici, e forse alle energie rinnovabili. Queste tecnologie hanno il potenziale per riuscire a cambiare interi settori, e aprire così nuovi mercati. Gli Stati Uniti vogliono ottenere vantaggi competitivi in questo campo. Tuttavia, la concorrenza è agguerrita, e il successo è tutt'altro che certo. Pertanto, non passerà molto tempo prima che le conseguenze della nuova politica estera e doganale diventino visibili, i primi effetti sono già evidenti. L'esperienza storica dello Smoot-Hawley Act del 1930 mostra chiaramente come questi grandi aumenti tariffari non impediscono affatto la recessione, ma anzi, piuttosto l'approfondiscono. Nella situazione attuale, intensificheranno le tensioni geopolitiche, e avvieranno un ciclo di azioni di ritorsione che peseranno ulteriormente sulla stagnazione dell'economia globale.

- Lefteris Tsoulfidis [*1] - Pubblicato il 10/04/2025 su Economia e Complexidade -

[*1] Lefteris Tsoulfidis è professore presso il Dipartimento di Economia dell'Università della Macedonia a Salonicco, in Grecia.

Quasi per Caso…

Quel che sembra infastidire Susan Sontag - nella scrittura dei suoi saggi - è il bisogno di certezza: in una voce del settembre del 1975 dei suoi Diari, scrive che «un problema, lo si può trovare solo laddove c'è un avversario»! Nel momento in cui «tutto è affermazione», ecco che non si può più essere «uno scrittore buono, o uno scrittore utile» (come esempio di una simile scrittura affermativa, la Sontag usa Gertrude Stein). Il Diario, è pertanto il laboratorio di una scrittrice la cui principale sfera di attuazione è il dubbio, l'ambivalenza, l'incertezza, l'intervallo esistente tra la scelta e la non scelta di un determinato tema, o percorso: «Devo piantarla di scrivere saggi, poiché tutto questo finisce sempre per trasformarsi inevitabilmente in un'attività demagogica», scrive nel maggio 1980, sempre nei Diari. «Appaio sempre come se fossi quella portatrice di  tutte le certezze che non posseggo, e che non sono nemmeno vicina ad averle». Sono innumerevoli, i momenti nei quali la Sontag si rammarica di quelli che sono i suoi propri obblighi: «Devo rinunciare», «Devo scrivere», eppure, tuttavia, quante volte si è sottratta, facendo poi esattamente il contrario? Dal suo confrontarsi con questo dilemma nel corso degli anni, ne deriva tuttavia un'opera che, quasi per caso, sembra lì proprio per essere letta e rivisitata.

giovedì 10 aprile 2025

La caduta dell’impero…

USA e Cina: governo, potere ed egemonia
- di Luiz Carlos de Oliveira e Silva -

Al centro della guerra commerciale e tariffaria scatenata da Trump, c'è la Cina: un dato, questo, che è diventato ancora più chiaro oggi quando il governo degli Stati Uniti ha annunciato un altro straordinario aumento dei dazi (ora al 125%) nei confronti del gigante asiatico, insieme una riduzione globale al 10% per tutti gli altri Paesi. Con gli Stati Uniti e la Cina all'epicentro della "guerra", vale ora la pena chiedersi quali siano le condizioni politiche interne, di ciascun contendente, per affrontare lo svolgersi della crisi. Sotto questo particolare e importantissimo aspetto, non si può negare – credo – che, rispetto ai loro avversari americani, i cinesi si trovino in una posizione di vantaggio. Nella politica statunitense, sembra si stia instaurando, in maniera coerente e crescente, una crisi di egemonia, che non ha precedenti dalla fine della Guerra Civile. L'emergere del fenomeno Trump, e del trumpismo, è simultaneamente tanto un sintomo di questa crisi di egemonia, quanto un fattore per far sì che essa aumenti. A livello interno, le misure tariffarie adottate da Trump esercitano il potenziale di approfondire ulteriormente la già profonda divisione esistente all'interno della società americana, e che l'attraversa da cima a fondo, dalla borghesia ai lavoratori più poveri. Tutto questo mentre, sul piano esterno, si esporta nel mondo la sua crisi di egemonia. In Cina, accade qualcosa di ben diverso, dal momento che non c'è traccia alcuna di una crisi di egemonia in Cina: l'equazione delle tre variabili (governo, potere ed egemonia) sembra sia stata risolta in maniera chiara assai meglio di quanto ciò sia avvenuto negli Stati Uniti, giocando così un ruolo assai importante importante nello sviluppo della crisi. Nel bel mezzo della decadenza dell'Impero, negli Stati Uniti, tutto sembra essere sotto il segno dell'instabilità e del provvisorio. Mentre tutto, in Cina, sembra essere sotto il segno opposto. Da un lato, non c'è consenso sul quella che dovrebbe essere la via d'uscita dalla decadenza dell'Impero. Mentre, dall'altro, appare, in tutto il suo vigore, quale sia progetto in corso per la nazione...

- Luiz Carlos de Oliveira e Silva -  9/4/2025 - in https://utopiasposcapitalistas.com/ -

Colonizzare l’Europa !!!

La strategia di Trump per colonizzare l'Europa
- di Alonso Romero -

La Storia dei Paesi, è strettamente legata all'utilizzo dell'energia che si ha a disposizione, e alla ricerca di ciò che non si ha. Ogni grande scoperta dell'umanità è stata resa possibile dalla scoperta e dall'uso di una nuova forma di energia; i paesi che sono riusciti a essere autosufficienti con queste risorse hanno poi stabilito lo standard per le varie fasi dello sviluppo umano. Relativamente a tutti i paesi del mondo esiste una chiara relazione tra la quantità di energia consumata e lo sviluppo umano, sociale, tecnologico ed economico. Rivoluzioni industriali, guerre e politiche secolari sono state sempre attuate per raggiungere la sovranità energetica e l'indipendenza delle nazioni. Tra le altre cose, la rivoluzione industriale è nata in Inghilterra perché la loro principale fonte di energia, il legno, si stava esaurendo, e avevano vaste riserve di carbone che permettevano loro di sostituire, con esso, quel combustibile, e svilupparsi come volevano. Anche la crisi petrolifera degli anni '70, è stata un grande esempio della vulnerabilità che i paesi (comprese le grandi potenze) affrontano quando dipendono da un'altra nazione per l'energia. Da questa crisi in poi, tutti i paesi del Nord del mondo hanno guardato alla sovranità energetica come base per una politica di sviluppo sovrana. Gli Stati Uniti lo hanno fatto da quando Nixon era presidente, negli anni '70, e fino a quando Trump è entrato in carica per la prima volta nel 2017. Proprio nel 2017, gli Stati Uniti hanno raggiunto questa sovranità, e ciò ha permesso loro di modificare la propria politica di "dominio energetico", una politica che è diventata centrale nel secondo mandato di Trump, che ha creato un "Consiglio" a tal fine, ed emettendo diversi ordini esecutivi, tutti con l'obiettivo esplicito di utilizzare l'approvvigionamento energetico come arma di controllo sullo sviluppo e sulle politiche di altre nazioni. Molti degli attuali movimenti geopolitici, possono essere spiegati a partire da una prospettiva energetica. Il controllo dell'offerta di un paese, ti dà la possibilità di controllare tutto il suo sviluppo economico e tecnologico. Il miglior esempio di tutto questo è proprio ciò che sta accadendo in Europa. L'approvvigionamento di gas naturale proveniente dalla Russia, è sempre stato visto con sospetto dagli Stati Uniti. Tuttavia, l'accesso all'energia a basso costo, vista la mancanza di risorse naturali dell'Europa, era talmente importante che negli anni '80 l'Europa occidentale si era alleata con l'Unione Sovietica per poter realizzare la costruzione di un gasdotto, e ciò malgrado l'intervento degli Stati Uniti e le massicce sanzioni che vennero imposte per fermarlo. È stato così che l'Europa, e in particolare la Germania, ha costruito il suo modello economico basato sull'importazione di energia a basso costo dalla Russia, e che, secondo loro, non avrebbe mai avuto fine. Questa dipendenza, è poi ulteriormente aumentata con la chiusura delle centrali nucleari avvenuta negli anni 2000 e con la sempre più schiacciante dipendenza da fonti di energia elettrica "intermittenti", le quali - secondo il National Bureau of Economic Research - richiedono 1 MW di capacità di gas naturale per ogni 0,8 MW di potenza intermittente installata, in modo da mantenere tutto l'equilibrio del sistema. L'intero sistema è però crollato nel 2022, nel momento in cui  sono stati chiusi i gasdotti (e il gasdotto Nordstream II è esploso), a seguito del conflitto russo-ucraino. L'impatto è stato immediato: la deindustrializzazione in Germania è stata drastica, con la perdita di quasi il 20% della sua industria manifatturiera e di quasi il 30% della sua industria energivora. Le sanzioni europee e americane hanno reso ancora  più cari i prezzi dell'energia, e la popolazione ha affrontato una crisi senza precedenti. Si stima che nell'inverno 2022-223 siano morti circa 68.000 europei poichè gli alti prezzi dell'energia hanno impedito loro di riscaldarsi; oltre all'aumento dei livelli di povertà dovuto a causa dell'inflazione alimentata dall'energia. Nonostante tutto questo, e nonostante i paesi europei abbiano espresso pubblicamente il loro pieno sostegno all'Ucraina, la realtà è stata quella per cui la loro dipendenza energetica è diventata tale che dall'inizio del conflitto hanno speso il 54% in più per importare energia dalla Russia (205 miliardi di euro) di quanto abbiano dato in più all'Ucraina, in aiuti (133,9 miliardi di euro). Ora, Trump ha minacciato i diversi leader con tariffe e sanzioni, se non acquisteranno più gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti e sostituire in tal modo qualsiasi dipendenza dalle fonti energetiche russe. Ciò consentirebbe agli Stati Uniti di controllare lo sviluppo economico e tecnologico dell'Europa, in modo che essa non possa competere con quello degli USA. Secondo Deloitte, il 67% delle aziende che hanno delocalizzato le proprie attività, come fattore principale  hanno addotto l'alto costo dell'energia. Se la dipendenza dagli Stati Uniti per quanto riguarda le questioni energetiche si dovesse materializzare, l'Europa non sarà mai in grado di sviluppare alcun settore senza che gli Stati Uniti lo permettano. Gli USA non dovranno fare altro che minacciare di aumentare i costi, o tagliare le forniture. Ciò costringerebbe l'Europa a creare delle politiche che abbassino i salari, vedendolo come un modo per "competere" nel mondo.

   Controllare l'energia in modo sovrano e indipendente - cosa che è alla base di qualsiasi economia - è nell'interesse di qualsiasi governo, specialmente di quello di un governo che cerca di avvantaggiare la propria popolazione al di sopra e a spese degli interessi ambientali. Non c'è da stupirsi, questo tema sarà una delle pietre miliari della "Conferenza sui Dilemmi dell'Umanità: prospettive per la trasformazione sociale", la quale riunirà circa 70 intellettuali e leader provenienti da più di 20 paesi in modo da riflettere collettivamente sulle varie crisi che l'umanità deve affrontare. Come sappiamo, il modello produttivo ha da tempo garantito il continuo saccheggio, da parte dei paesi ricchi, delle risorse naturali, energetiche e agricole. Esiste un bisogno latente di lottare per il controllo sovrano e democratico su queste risorse e per poter garantire che il loro sfruttamento vada a beneficio delle nazioni e delle popolazioni da cui vengono estratte. In caso contrario, non sarà possibile uno sviluppo completo.

- Alonso Romero - Pubblicato il 9/4/2025 su Outras Palavras -

martedì 8 aprile 2025

La crisi si allarga, e va in Brasile…

UN CAPITOLO LOCALE DELLA CRISI: sulla ricezione della "critica del valore" in Brasile
di Marcos Barreira -

C'è una crisi nella Critica del Valore. E il più recente testo di Anselm Jappe, "Lebendiges und Totes in der Wertkritik" [*1] , lo esprime direttamente.
Il contesto tedesco nel quale questo approccio venne elaborato, a partire dagli anni '80 [*2] si è frammentato e, allo stesso tempo, si è ampliata la diffusione della critica del valore in altri paesi, in modo che ha dovuto adattarsi alle circostanze e alle dinamiche di ognuno di questi luoghi. Oggi, tale diffusione sta avvenendo soprattutto in Francia, dove a questo scopo è in corso un recente progetto editoriale, nel quale lo stesso Jappe ha avuto un ruolo importante. In Brasile, la ricezione della "critica del valore" risale invece alla prima metà degli anni '90.[*3]  E anche in questo caso, la teoria ha seguito un percorso diverso da quello della sua matrice originaria. In questo caso, una differenza è stata quella di una presenza più significativa nel dibattito universitario e nei media. Non è certo per caso che uno dei modi in cui, qualche anno fa, la critica del valore in Brasile è stata squalificata, ha consistito nell'affermazione secondo cui l'interesse che suscitava non sarebbe stato altro che una "peculiarità locale", asserendo che Robert Kurz era molto più conosciuto in Brasile di quanto lo fosse nel suo paese d'origine. [*4] Ciononostante, nel dibattito della sinistra locale, la critica del valore, ha di fatto giocato un ruolo rilevante . «Negli anni '90», asserisce Jappe, «quando la situazione economica in Brasile era assai incerta, Kurz godeva di una grande popolarità sui media brasiliani, dove veniva visto come il "profeta dell'apocalisse" (...). Non appena il mercato azionario o la valuta scendeva, il suo telefono subito squillava e un giornale brasiliano gli chiedeva un commento». [*5] La situazione oggi, più di due decenni dopo, è ben diversa. Da un lato, anche dopo il 2008, la teoria della crisi non ha più suscitato molto interesse; mentre dall'altro, negli ultimi anni la critica del valore ha acquisito nuovo slancio, includendo un insieme più variegato di temi e di approcci: dalla crisi del soggetto moderno alla teoria dell'antisemitismo, passando per il dibattito sul ruolo della Cina nell'economia globale, e quello sulla guerra in Ucraina.[*6] Quindi, il Brasile si inserisce tanto nel rinnovato interesse per la diffusione della critica del valore, quanto nel suo generale processo di frammentazione.

     Nel suo testo, Jappe riassume quale sia stata la ricezione della teoria della crisi in Brasile durante gli anni 2000: «quando, durante la prima presidenza di Lula (2003-2010), il Brasile ha sperimentato una ripresa momentanea - e si è diffusa la sensazione di "successo", insieme a quella di non essere più un paese del Terzo Mondo, l'interesse per la critica del valore è diminuito drasticamente, e alcuni dei restanti gruppi di critica del valore hanno esplicitamente preso le distanze dalla teoria della crisi». In questa affermazione c'è qualcosa di sconcertante. Dal momento che essa parte da un dato della realtà, ma tuttavia ne fa derivare, costruendolo, un elemento puramente fittizio. Nel testo di Jappe, nel quale discute molti temi centrali del dibattito in Germania e in Francia, questo frammento ha scarsa importanza. È solo un piccolo dettaglio "periferico", che però, si confonde su quelli che sono stati i nostri ultimi vent'anni di studi e attività, e che quindi, qui in Brasile,  vale anche per altre persone con traiettorie diverse. L'iniziale diffusione della "critica del valore", avvenuta già nella prima metà degli anni '90, è principalmente dovuta a Roberto Schwarz, che  presenta al pubblico brasiliano "Il collasso della modernizzazione". Così come è avvenuto nel suo paese d'origine, questo "libro audace" è uscito dall'oscurità grazie a un rinomato critico letterario, il quale, nel nostro caso, ci ha visto - sulla base della tesi della fine del ciclo di modernizzazione - una breccia per poter smantellare il «mito della provvidenziale convergenza tra progresso e società brasiliana in formazione».[*7] Poi, il libro è stato discusso al CEBRAP, un centro di ricerca collegato all'Università di San Paolo. [*8] Ed ecco che da quel momento in poi, le sue tesi (o ciò che si prendeva per esse) cominciarono a essere piuttosto diffuse, e Robert Kurz divenne così uno tra i più grandi nomi della sinistra, accanto ad autori come Antonio Negri, Slavoj Zizek o David Harvey. Kurz arrivò ad avere  una sua rubrica nella sezione cultura del giornale più prestigioso del Paese (quantomeno lo era per la “classe intellettuale”) e fece commentare, e spesso criticare aspramente, da alcuni dei maggiori esponenti della sinistra brasiliana, il suo saggio sul significato del crollo del “socialismo reale”.  In sostanza, i critici di Kurz si affrettarono a dichiarare la vittoria del vecchio marxismo sulla teoria della crisi basandosi su dei miseri allarmismi di loro creazione. Ciononostante, il confronto tra la sinistra universitaria e i brandelli di questo approccio incompreso non mancò di contribuire ad alimentare il dibattito locale su alcuni aspetti fino ad allora trascurati dell'opera di Marx, come ad esempio il concetto di feticismo della merce. [*9] Questo è stato sicuramente un risultato positivo del confronto con la critica del valore, il quale ha aperto la strada a delle letture più sofisticate, e non immediatamente “politiche”, dell'opera di Marx. [*10] Alla fine degli anni '90, la diffusione della critica del valore in Brasile iniziò a seguire un corso diverso . Apparvero anche altre pubblicazioni, come "Guy Debord", di Anselm Jappe, che si accompagnò a un boom di interesse per la teoria dello spettacolo, e soprattutto il "Manifesto contro il lavoro", del Gruppo Krisis, entrambi pubblicati nel 1999; e quest'ultimo accolto in modo particolarmente allergico in ambito universitario, e dalla sinistra politica. A titolo di esempio, un critico dice che «in termini di spiegazione dei testi [la lettura della critica del valore] è di buon livello», ma subito dopo si lamenta dell'uso miope di quello che sarebbe un testo "iper-teorico" come i Grundrisse, e chiede: «dopo tutto, cosa si vuol dire con l'infantilismo di questi manifesti che chiedono la fine del lavoro?» [*11] La critica del lavoro, che allora appariva ancora in modo ambiguo nel libro di Kurz, ha eretto una barriera tra la critica del valore e quella sinistra formatasi nell'ortodossia marxista e/o nel realismo politico.[*12] Un articolo della stampa illustra questo quadro: «in Brasile, arriva un'altra crisi. Questo discorso tedesco e il danno che intende fare sono solo teorici. È atterrato venerdì scorso a San Paolo, portando nel suo bagaglio una bomba intellettuale: un "Manifesto contro il lavoro". È il gruppo Krisis, formato da intellettuali dissidenti di sinistra in Germania, i quali non militano in alcun partito politico, e vivono ai margini della vita accademica»[*13] Ciononostante, il "Manifesto" è stato ampiamente pubblicizzato ai margini della "compagneria universitaria" e dei media ufficiali; e ancor oggi, più di vent'anni dopo, continua a suscitare interesse in alcuni media.[*14] A quel tempo, in Brasile, c'erano due gruppi di studio direttamente interessati alla teoria della crisi svolta dalla critica del valore. Uno era il Laboratorio di Geografia Urbana/Labur, presso l'USP, formatosi durante la prima ondata di ricezione degli scritti di Kurz; il secondo, formatosi poco dopo, intorno al 1999/2000, era a Rio de Janeiro, senza alcuna affiliazione istituzionale. Quest'ultimo ha anche curato la pagina "Antivalor", e a volte si è presentato come "Coletivo Antivalor". In entrambi i casi, si trattava comunque di una ricezione iniziale, che disponeva solo di scarso materiale proveniente dal contesto teorico originario, e rimaneva orientata allo studio collettivo.[*15] A San Paolo ci furono iniziative specifiche volte alla traduzione dei testi, e inaugurò così un modello di argomentazione il quale diede inizio ad assimilare aspetti della teoria della crisi, ma che, in assenza dei testi fondamentali della critica del valore, rimaneva ancora dipendente da quelle che rimanevano formule "sostitutive".[*16] La congiuntura avviata dal primo governo Lula, nel 2003, ha cambiato ben poco. La teoria della crisi rimase un riferimento per chi era già un ristretto spettro di lettori della critica del valore, sebbene spesso lo era in maniera unilateralmente economica, e sempre "integrata" a elementi provenienti dalla Teoria Critica, o con correnti eterodosse di sinistra. Risale a questo periodo il volume di Kurz, "Com todo vapor ao colapso" (UFJF/Pazulin), pubblicato nel 2004; l'ultima iniziativa di divulgazione portata avanti dal gruppo "Labur". Nessuno dei gruppi menzionati all'epoca aveva una propria elaborazione teorica ben sviluppata, in termini di teoria della crisi, e questo a causa dello status ancora acerbo del dibattito locale. I pochi testi di "critica del valore" emersi in questo periodo, facevano parte di quella che era ancora una fase di apprendimento naturale e - visti oggi - non si distinguono per la loro qualità teorica; cosa che oggi vale anche per la maggior parte di ciò che viene scritto sull'argomento in Brasile. [*17] All'interno di questi circoli, il primo testo a presentare un contributo originale al dibattito locale sulla critica del valore, è probabilmente il commento fatto da Maurílio Botelho a "Le avventure della merce" di Anselm Jappe, un libro uscito in Francia nel 2003 [l'edizione portoghese è del 2006]. Ancora oggi, questo libro è che più si è avvicinato a una presentazione della critica del valore, fatta in termini globali. Nei capitoli iniziali, sulla "merce" e sul "lavoro", Jappe contribuisce all'avanzamento di una lettura filologica dei testi di Marx – in ogni caso, l'obiettivo principale della critica del valore è sempre quello di spiegare la crescente disfunzionalità del capitalismo, piuttosto che produrre una "nuova lettura" di Marx. Contrariamente all'enfasi posta dal Gruppo Krisis - soprattutto durante gli anni '90 - sulla rottura con il "marxismo tradizionale", la ricostituzione della critica del feticismo, svolta da questo gruppo, si può considerare come parte di una tradizione che risale al marxismo critico degli anni '20. In termini di teoria della crisi, d'altra parte, Jappe riprende le argomentazioni di Kurz, nel suo "La crisi del valore di scambio": «il dispendio individuale di forza lavoro, è sempre meno il principale fattore di produzione. Sono le scienze applicate, così come le conoscenze e le capacità diffuse a livello sociale, che diventano direttamente la forza produttiva sociale [...] Queste nuove forze produttive sono opera della società nel suo insieme [...] Determinare il lavoro di ogni produttore, diventa pertanto qualcosa di tanto impossibile quanto inutile». [*18] Il commento a questo testo - scritto intorno al 2008 - nel vecchio contesto di "Anti-valore", è rimasto, tuttavia, limitato alla nostra discussione interna. A differenza della nuova generazione di lettori introdotti alla critica del valore nell'ultimo decennio, e che aveva come riferimento principale "Le avventure della merce", questo testo, che riflette una più ampia comprensione di ciò che è il suo oggetto, già distingueva sia il percorso originario seguito da Jappe nel ricostruire i momenti più attuali della critica marxiana, sia le differenze fondamentali di questa lettura rispetto alla matrice teorica della "scissione-valore". In essa, si sostiene - contro l'idea di un abbandono della teoria della crisi - che «il radicamento della teoria del valore nella crisi costituisce uno dei [contributi] più importanti del libro» [*19]. Vengono poi formulate delle critiche specifiche: in primo luogo, quella attinente al richiamarsi alla formula della circolazione semplice delle merci: «riguardante la comprensione del metabolismo riproduttivo delle società non capitaliste», che nel progetto Krisis era stata abbandonata già negli anni '90; in secondo luogo, «l'assenza di una mediazione tra un concetto di "forma totale" e le sfere divise della relazione». [*20] Durante questo periodo - nel bel mezzo della crisi finanziaria globale - il gruppo di studio Labur aveva sviluppato la sua linea di ricerca sulla «modernizzazione brasiliana in ritardo» sulla base di studi specifici, e aveva persino abbozzato un'interpretazione – poi abbandonata – circa la "condizione periferica" vista come momento di "scissione" dalla riproduzione capitalistica globale. [*21] Già questo, di per sé, ci dà un'idea di quanto fosse ancora rudimentale il tentativo di incorporare il "teorema della scissione" nello studio della condizione periferica. La ricerca svolta nell'ambito di Labur ha poi seguito un percorso peculiare, e ha inteso correggere il focus della critica del valore riguardo ai modelli di accumulazione in periferia.[*22]

     Mentre i contesti del dibattito teorico della critica del valore sono rimasti, per così dire, chiusi e auto-orientati, ha poi avuto inizio una seconda ondata di diffusione a partire da una lettura che sembrava più preoccupata di limitare l'ambito teorico della critica del valore, piuttosto che accoglierlo come un punto di riferimento originale, e svilupparne il contenuto. Negli anni '90, la riduzione della teoria della crisi alla sua dimensione sociologica superficiale - in quanto "crisi del lavoro" - è rimasta estranea ai problemi della "forma" del lavoro e a quelli della "sostanza" del capitale. [*23] Nel decennio successivo, è  stato attraverso la rivista elettronica Sinal de Menos, a partire dal 2009, che sono comparsi alcuni riferimenti alla critica del valore; il più delle volte mescolati ad approcci non solo diversi, ma anche antagonistici. In più di un'occasione, la critica del valore è stata un oggetto da "decostruire". Fin dall'inizio, questa appropriazione ha assunto un aspetto teorico: si è concentrata sulla "forma" merce dei rapporti, la quale era assente nel marxismo tradizionale, ma ciò è avvenuto al prezzo di svuotare in gran parte la dimensione concreta, la quale poteva invece essere dispiegata analiticamente a partire dal principio generale astratto. Per questo motivo, anche le istanze e i processi di mediazione sono stati trascurati. Al posto di un'attenta ricostituzione della struttura teorico-categoriale del nuovo approccio, alcuni dei suoi frammenti sono stati prelevati e gettati in un frullatore teorico; molto nello stile della teorizzazione postmoderna. È evidente che, in queste condizioni, la critica del valore è rimasta solo come un packaging superficiale, diluito in termini di contenuto. Ciò che qui ha prevalso, in contrasto con i gruppi di critica del valore, non è stato un programma di ricerca, quanto piuttosto un'appropriazione di momenti isolati di questa teoria (critica del lavoro, teoria del feticismo, ecc.). Ciò è avvenuto, tuttavia, attraverso uno schema reattivo che si confrontava con la nuova teoria in modo puramente esterno, basato su un'assolutizzazione del "punto di vista di classe". Questa accoglienza è stata fatta a partire da una «apprensione critica di concetti originariamente negativi come quelli del proletariato, della classe e della lotta di classe». [*24] Fin dall'inizio, quel che abbiamo visto è stata essenzialmente una critica della critica del valore. [*25] Non ha avuto luogo qui, un'adeguata elaborazione dei limiti del "punto di vista di classe". Un simile atteggiamento difensivo-reattivo, consisteva essenzialmente nello stabilire come principio assiomatico che ogni lotta sociale è, per definizione, una "lotta di classe", e che la critica di quest'ultima, indipendentemente dal suo contenuto, non può essere che una rinuncia al conflitto sociale. [*26] Nella migliore delle ipotesi, questo "motore della storia" continuava a comparire come "desiderio represso". [*27] Una posizione questa, che dal punto di vista della lettura del testo non può che essere qualificata altro che come teoricamente indigente: non solo è stata incapace di far avanzare il dibattito sulle nuove linee di conflitto – limitandosi a svuotare concrete determinazioni sociologiche basate su un concetto del soggetto sociale omogeneo determinato dalla "forma" – ma non è stata neanche di essere in grado di accogliere per prima la teoria della crisi. Ciò indicava, ancora negli anni '90, che l'antagonismo sociale, nel contesto dell'esaurimento della modernizzazione capitalistica, non poteva più essere uno scontro tra le due classi fondamentali attraverso le quali il capitalismo ha funzionato per due secoli, ma che, invece, tale antagonismo sarebbe stato prodotto da una "dinamica distruttiva ed escludente" di nuovo tipo. [*28] In altre parole, le "tendenze strutturali" del capitalismo in crisi sono molto "più segmentarie che integrative" e sono accompagnate dalla squalifica e da una disoccupazione tecnologica.[*29]. Si tratta, precisamente, del contrario di un processo di formazione della classe, vista nella fase iniziale della modernizzazione. L'assolutizzazione del punto di vista di classe, rimase pertanto solamente una posizione dottrinale, sorda al dibattito teorico che riceveva. Un'altra caratteristica del campo di elaborazione formatosi intorno a "Sinal de Menos" è stata la mancanza, non solo di una teoria della crisi della forma sociale, ma anche quella di un'analisi della crisi svolta in termini empirici/descrittivi, come si può vedere già nei primi volumi della rivista. Questo vale tanto per il dibattito teorico generale sul capitalismo in crisi, quanto per la situazione periferica in Brasile. Non è certo un caso che l'appropriazione di frammenti decontestualizzati della teoria della crisi, abbia attraversato il periodo che ha avuto inizio nel 2008, con un'enfasi che è stata solo letteraria e politico-astratta.[*30] Per quanto, in questa eterna ricerca delle ultime vestigia del "non identico", alcuni testi si siano scontrati qua e là con l'attuale scenario catastrofico, essi non sono mai andati oltre un discorso teoricamente indeterminato e, a volte, perfino apertamente contraddittorio circa la crisi. Nell'editoriale del Sinal de Menos n. 14, ad esempio, si legge che «il capitale è bloccato e minaccia (!) di entrare in una lunga depressione». Tuttavia, se questa "minaccia" -  a quella che fino ad allora sarebbe stata una normale riproduzione capitalistica - si materializzasse, essa allora deve portare a una riproduzione dei rapporti capitalistici «da parte della forza politica dello Stato», o anche a una «transizione verso un altro sistema di dominio», che alla fine però sarebbe già avvenuta. D'altra parte, lo stesso editoriale, che annuncia un mondo già quasi post-capitalista, assicura che «per continuare a funzionare all'infinito» (!) la macchina capitalista ha bisogno «solo di impegno». E conclude: «è questo impegno, quello che non ci manca». Il funzionamento sempre più precario della riproduzione del capitale, viene pertanto descritto come se fosse una «potenza formidabile» per  poter «recuperare e normalizzare qualsiasi situazione». In un simile contesto, appare evidente come non sia stato possibile sviluppare una riflessione sistematica, e teoricamente coerente, sulla "condizione periferica" vista nel contesto della crisi globale. Come già nella precedente, anche questa seconda ondata, ormai già esaurita, della ricezione della critica del valore, è stata legata alla teoria della crisi solo in maniera superficiale.

   Alla luce di  tutto ciò, qual è il rapporto - affrontato di sfuggita nel testo di Jappe - tra il dibattito sulla teoria della crisi e il periodo di crescita economica durante l'ascesa dei governi "progressisti", in America Latina, nell'ultimo decennio? Nel caso brasiliano, questo breve periodo può essere diviso in due momenti. Il primo inizia con la crescita delle esportazioni agricole, già nel 2003, nel pieno del boom delle materie prime trainato dalle economie asiatiche.[*31] A ciò, ha fatto seguito una forte espansione delle attività precarie e poco qualificate nei "servizi", insieme a delle misure che hanno aumentato il potere d'acquisto e il credito delle famiglie a basso reddito; nonché l'espansione su larga scala dei programmi di "reddito minimo". Tutto questo, riassunto nella formula governativa dello "spettacolo della crescita", il quale ha generato un quadro di ripresa economica che ha a sua volta garantito la conseguente rielezione del campo "progressista". A quel tempo, però, era già evidente, non solo a chi era interessato alla critica del valore, ma anche all'approccio "sviluppista", che la natura di queste misure era solo congiunturale, e che esse non potevano certo rappresentare alcun modello di sviluppo a lungo termine. Piuttosto, sono stati associati alla rinascita della produzione, e sono così rimasti totalmente soggetti alla crescente instabilità del mercato mondiale. La crisi del 2008 ha dato inizio a un secondo momento: la congiuntura tra crescita e occupazione doveva essere mantenuta - insieme alla popolarità di Lula - da tutta una serie di misure "anti-crisi" di espansione del credito a tutti i livelli. A partire dal 2010, tali misure di emergenza sono diventate la base dell'ideologia della "nuova matrice" dello sviluppo. Era molto chiaro, quindi, che il "decollo" del Brasile aveva basi precarie, in quanto corrispondeva a un sottoprodotto dei meccanismi di rinvio della crisi. Anche qui non è necessario ricorrere alla teoria della crisi della critica del valore. Poche persone, anche nella sinistra tradizionale, erano veramente convinte del presunto "cambiamento strutturale" dell'economia brasiliana. Questo insieme di domande, durante il breve periodo di crescita della "Era Lula", si era già perfettamente stabilito nel dibattito interno ai gruppi che criticano il valore . In ogni caso, i due gruppi, guidati dalla ricezione sistematica della teoria della crisi, hanno reagito a questa congiuntura  in modo assai diverso tra loro. Questa è anche un'occasione per chiarire, alla luce di ciò, alcune differenze rilevanti tra loro. In primo luogo, l'ex gruppo "Anti-valor" -  allora senza un'identità definita [*32] - si è dedicato a un programma di studi sull'impatto del boom delle materie prime, e della crisi del 2008, sui governi "progressisti" dell'America Latina. Questo studio si è concentrato anche su un aspetto molto particolare della gestione della crisi: la preparazione dei cosiddetti "mega-eventi" nella città di Rio de Janeiro, idealizzati per mezzo di un'incoronazione internazionale del modello lulista di pacificazione sociale.[*33] Qui, tuttavia, la scelta del piano locale visto come riferimento centrale - cosa che non si è verificata senza una forte opposizione fatta per mezzo di idee generiche a proposito della "crisi di civiltà" del capitale - e che ha aiutato a comprendere parte del sottosuolo sociale di quest'epoca di crescita in quanto economia periferica di saccheggio in ascesa,[*34] D'altra parte, la cosa ha impedito che ci fosse un approccio direttamente mirato alla teoria della crisi. Certo, non mancano i riferimenti al contesto di crisi, nel testo "Fino all'ultimo uomo", apparso nel 2013, nella raccolta "Stato d'assedio", fatti a partire dall'idea centrale di un'avanzata della «amministrazione armata della vita sociale», che puntava il dito sulla disgregazione della regolazione politica a livello locale. D'altra parte, è ovviamente un malinteso presentare tutto questo insieme di riflessioni locali sotto l'etichetta di "critica del valore". Anche perché ciò richiederebbe una trattazione del tutto diversa di quello che è il contesto della mediazione sociale, la quale dovrebbe essere formulata da un punto di vista non immediatamente empirico e "concretista", ma piuttosto mediato teoricamente. [*35] Da questo punto di vista, il problema del limite interno della riproduzione capitalistica - per definizione - non può più essere formulato secondo una «prospettiva empirica ristretta».[*36] Un tale schema del "limite interno", il quale si dispiega in quanto parte del processo globale del capitale, non può essere correttamente posto nemmeno in termini "locali", o sulla scala dell'economia nazionale [*37] Né può essere stabilita una teoria generale del contesto della mediazione sociale, in relazione alla scala nazionale che invece viene "applicata" solo ai casi particolari. II problema del limite interno – e del processo feticistico nel suo complesso – deve essere quindi delineato in termini categorici, e progressivamente confrontato con altri piani di analisi. D'altra parte, è chiaro che i fenomeni descritti a livello empirico "ristretto", fanno anche parte della "fattualità" di una catena di crisi sempre più visibile, e non sono affatto trascurabili. Ciò che si può escludere a priori, è il tentativo di cogliere immediatamente in termini empirici il movimento sostanziale del valore. La comprensione di questa dimensione sostanziale richiede pertanto un complesso di mediazioni, svolte a partire dal rapporto tra essenza e apparenza, le quali non coincidono sul piano empirico-immediato. Questo rapporto, a sua volta, è teoricamente mediato con altri piani: l'analisi della realtà, la costituzione storico-sociale dei processi sociali, e degli stessi processi categoriali, la critica dell'ideologia. Nessuno di questi piani - ad esempio l'analisi del mercato mondiale nel suo insieme o di alcuni dei suoi segmenti e i diversi modi di "digestione ideologica" delle crisi "empiriche" - può sussistere separatamente, né tantomeno ciascuno di essi può essere immediatamente fuso con gli altri livelli. Quando abbiamo iniziato il nostro programma di studi sulla crisi del "patto sociale" lulista, da un lato era già maturata  una diagnosi della crisi mondiale, che seguiva, in termini generali, l'argomento di base della teoria della crisi, mentre, dall'altro, c'era la comprensione del modo in cui il Brasile si inseriva in questa dinamica generale;[*38] tuttavia appariva chiaro che la posizione dell'economia brasiliana nelle filiere produttive globali era un punto di riferimento assai limitato ai fini dell'analisi di qualsiasi aspetto rilevante dello scenario globale: le esportazioni brasiliane, oggi la decima economia mondiale, occupano una piccola fetta del PIL mondiale. Questo è vero a livello di relazioni di scambio globali, ed è ancora più vero quando consideriamo il processo di desostanzializzazione in termini categorici. In questo caso, nessun appello diretto alle condizioni immediate di produzione (perdita di posti di lavoro, ecc.) potrebbe fornire un'indicazione realmente rilevante del processo di crisi in termini globali. Non c'è infatti modo di stabilire una differenza categorica tra una tendenza alla "desostanzializzazione" della produzione e ciò che invece è un processo di crisi locale, il quale si verifica anche nel quadro perfettamente normale della riproduzione del capitale. Pertanto, ci concentriamo sulle dinamiche interne della gestione particolare della crisi – dal modello di crescita ai modelli ideologici, e ai conflitti distributivi che ha generato – piuttosto che sulla sua relazione diretta con il processo sociale capitalistico generale. Qui, la dinamica generale della crisi potrebbe essere un elemento presupposto, ma non immediatamente tematizzato come tale. Ciò ha comportato, ad esempio, un dibattito in termini locali sulla riduzione della politica a meccanismi di gestione della povertà di massa, dove ora le metamorfosi del sindacalismo "finanziario" le politiche sociali di mercato e l'ascesa delle ideologie fondamentaliste: dopo la crisi del 2008 [*39], il nuovo ruolo dei militari e dei meccanismi di deficit sono alla base della "nuova matrice". Questo insieme di elementi, ci ha permesso di valutare la relazione tra le particolari dinamiche sociali ed economiche e le tendenze generali del capitalismo di crisi [*40] In termini generali,il nostro obiettivo era quello di documentare le misure di emergenza, il cui esito disastroso, in un futuro non troppo lontano, sembrava essere certo. In questa radiografia del patto sociale dell'epoca Lula, sia il modello di crescita che l'ideale della "pacificazione sociale" sono stati presentati fin dall'inizio come dei fallimenti annunciati. Anche il successo dell'economia dell'esportazione, è stato descritto soprattutto a partire dai suoi aspetti catastrofici dal punto di vista sociale e ambientale. [*41] Il processo di crisi, tuttavia, non ha tenuto conto del nostro calendario di pubblicazione. In modo schiacciante, nel mezzo di un'aperta regressione economica [*42], le fondamenta del "patto sociale" sono state smantellate, una dopo l'altra. In termini di analisi della realtà, tuttavia, ciò che ci interessava era trattare questo caso particolare nella sua dinamica, e non come mera espressione di una crisi generale, che non può essere formulata nemmeno su questo piano. Questo programma di studio del modello dell'"epoca Lula" è diventato, pertanto, a causa della dinamica stessa dell'oggetto, un insieme di analisi frammentarie sullo smantellamento sociale visto a tutti i livelli: dalla drammatica corrosione del mercato del lavoro alla distruzione delle mediazioni politico-istituzionali. [*43]

     Il gruppo Labur, di "critica della scissione del valore", ha seguito un'altra strada. Una volta abbandonato l'iniziale impulso alla divulgazione, che aveva contraddistinto la sua prima generazione, [*44] il gruppo dell'USP si impegnò in un programma di studi sulla realtà nazionale, presentato, simultaneamente, tanto come uno sguardo particolare sull'accumulazione nelle periferie, e quanto come una «difesa enfatica delle tesi di Kurz». [*45] Un'elaborazione questa, che però fin dall'inizio è apparsa mischiata con l'esigenza della "ricerca empirica", la quale attribuisce grande peso ai singoli capitali. Questa versione locale della crisi, è costituita da un insieme di casi di studio localizzati, che vengono poi articolati per poter fornire un'interpretazione della "particolarità nazionale". Per Kurz però, d'altra parte, «il modo in cui tutto accade, nel caso di un qualsiasi capitale individuale empirico e casuale, è assolutamente irrilevante e non avrebbe alcun valore informativo; ciò che è conta è soltanto il capitale globale». [*46] A prima vista, sembra che, all'interno e all'esterno del contesto di Labur, questa evidente contraddizione sembra non sia stata notata . Nel 2011, uno studio standard del gruppo, di Fábio Pitta, intendeva «verificare se la ripetuta necessità di un intervento statale attraverso crediti agevolati con la produzione del settore [zucchero-alcol di San Paolo] indicasse, o meno, una crisi dell'accumulazione capitalistica (!) vista nella sua forma attuale, rispetto a quello che Marx chiamava capitale fittizio». [*47] Formulata in questi termini, la "ricerca" potrebbe così  essere solo un'applicazione sul caso particolare della diagnosi generale della teoria della crisi o, al contrario, un tentativo di contribuire alla diagnosi generale a partire da «un capitale individuale empirico e casuale». Bisognava trovare una soluzione a questa contraddizione. Era questo il ruolo svolto dalla "teoria" nei confronti della «mediazione del capitale fittizio», che Pitta presentò in un lungo testo sulla crisi brasiliana. [*48] La contraddizione, però, si risolse in modo solo apparente, dal momento che la presunta "mediazione", trasformata in argomento standard nella ricerca Labur e replicata in serie, aveva ancora un carattere totalizzante. Questa innovazione, quindi, non fece che sostituire, su nuove basi, quello che era il dilemma iniziale, e non fece altro che ripetere, in modo mascherato, la medesima posizione deduttivista. Oltre tutto, i dati particolari casuali determinati dalla "mediazione generale del capitale fittizio" potrebbero così essere ancora descritti come delle espressioni immediate della crisi generale. Le successive pubblicazioni di Labur, si basarono comodamente sulla "scoperta" della mediazione generale applicata ai singoli "casi", per poi tornare al punto di partenza, sulla base di dati "assolutamente irrilevanti", se visti dal punto di vista del capitale generale: «il capitale fittizio ha promosso, pertanto, la finzione della riproduzione dell'agrobusiness zucchero-energia, perché tale finzione ha servito a dispiegare irreversibilmente l'espulsione, nel settore, della sostanza del capitale – il lavoro – a partire dall'aumento della composizione organica del capitale ivi investito». [*49] Secondo questo punto di vista, le tendenze del processo generale potevano essere perfettamente svelate da un «capitale empirico e casuale», il quale, a sua volta, non faceva che riprodurre, come altrove, la stessa dinamica generale. Il problema, con questa tautologia, risiede nel concetto stesso di mediazione. [*50] Questo rimette in discussione tutta la lettura che Labur fa di un aspetto elementare della formulazione proposta da Kurz in "Denaro senza valore". Pitta comprende in modo erroneo e del tutto ingenuo l'argomento secondo cui “il valore è, per principio, non empirico”, una “determinazione essenziale”[*51] che si manifesta solamente attraverso la relazione di mediazione. Anziché pensare alla mediazione come a un'approssimazione indiretta della dinamica della crisi, egli intende invece stabilire un'identità immediata tra la determinazione essenziale non empirica e la "particolarità concreta". In altri termini, ciò che egli intende come mediazione è proprio l'opposto di questa approssimazione indiretta svolta attraverso l'analisi del reale. Da questo punto di vista, "reale" è solo ciò che coincide, qui e ora, con la determinazione generale non empirica. Le categorie che, secondo Kurz, «non possono manifestarsi immediatamente in quanto tali», [*52] diventano qui immediatamente empiriche (riferendosi ai programmi sociali di distribuzione del reddito, Pitta parla addirittura, ad esempio, di «politiche di distribuzione del capitale fittizio», ecc.). Ciò va così a significare che tutto questo programma di studi sulle "particolarità" alla fine si basa su un'inversione dell'argomento, secondo cui «teoria ed empirico non possono fondersi l'uno con l'altro». [*53] Da questa confusione elementare, ne derivano due conclusioni: a) le congiunture della crescita economica devono essere dichiarate false o puramente "simulate", poiché la crescita materiale, perfettamente reale, non può essere definita a livello locale, immediatamente, come produzione di valore – sebbene, secondo una tesi di Kurz, questo problema possa essere posto solo dal punto di vista del capitale globale; b) dal momento che non c'è più nulla di "reale", ma solo simulazione, ecco che la riproduzione capitalistica stessa diventa fittizia. Pitta ci offre poi un secondo contributo originale per mezzo del concetto di «riproduzione fittizia», il quale però non ha praticamente nulla a che vedere con l'analisi concreta delle dinamiche della crisi. [*54] Un altro aspetto, di questo secondo modo di interpretare la teoria della crisi consiste nel trascurare la riproduzione sociale. Pitta pone l'accento esclusivamente sulle categorie economiche, dalle quali poi intende derivare la sfera sociale. [*55]  Nel far questo si incorre in due implicazioni: da un lato, la scissione del valore, che viene espressa in termini puramente formali, ricade completamente al di fuori di quella che è la sua "analisi economica", e appare solo come se fosse un effetto secondario del processo di crisi [*56] Del resto, questa noncuranza nei confronti delle dinamiche sociali, si manifesta anche nell'assenza di una trattazione teorica del problema della crisi delle forme di mediazione politica. Questa lacuna viene poi colmata con la vecchia procedura sostitutiva: anziché analizzare, dal punto di vista della critica del valore (e della scissione del valore), le contraddizioni specifiche a questo piano, e il modo in cui esse si relazionano con la crisi della riproduzione capitalistica, Pitta fa appello alla formula sostitutiva della "gestione della barbarie", la quale ha in comune con il suo approccio economico primario, un modo problematico di affrontare la relazione esistente tra il particolare e il generale; in questo caso, la diluizione del particolare in un approccio del tutto vago e indeterminato. Il tentativo di analizzare un caso particolare di gestione della crisi, fatto a partire dall'idea generica di "gestione della barbarie", pertanto non è solo un altro esempio di discrepanza nella mediazione tra il generale e il particolare, ma appare anche, ancora una volta, come un'inversione della posizione originaria, la quale si suppone rappresentata dalla "ortodossia" di Pitta: «la nozione di barbarie, è in qualche modo impotente.Nemmeno io, ne ho un'altra da usare al suo posto, ma credo che la teorizzazione finisca lì. E quando siamo noi stessi che entriamo gradualmente nello stato di barbarie, a quel punto, naturalmente, cessa anche la teorizzazione». [*57]

   Per quanto sia un dato di fatto che la barbarie, nella sua forma di progressiva dissoluzione della socializzazione a causa del valore, ed è quindi uno "Stato" sociale sempre più presente, ciò non significa che, a partire da questo quadro, sia possibile elaborare una "economia politica della barbarie", e neppure un'analisi di situazioni particolari di gestione della crisi, svolta a partire da questa nozione generica e "impotente". Questo contrasto, tra quelle che sono state le diverse ricezioni locali della teoria della crisi, ci aiuta a porre in primo piano il problema delle mediazioni. Fino ad oggi, nella ricezione della critica del valore, hanno prevalso dei tentativi, teoricamente improvvisati, di aggirare questo problema fondamentale. Si è così prodotta una convergenza tra due tipi principali di immediatezza: l'applicazione diretta di una teoria economica generale, sebbene mascherata da teoria della mediazione rispetto a casi particolari e, dall'altra parte, la riduzione del rapporto strutturale tra democrazia di mercato e processo di imbarbarimento, a una pura e semplice identità. A queste due forme di immediatezza se ne aggiunge una terza, la quale consiste nel ridurre la critica del valore e la teoria della crisi a un'esposizione infinita delle categorie teoriche generali, da cui spesso ne deriva un gesto "anti-politico" non mediato [*58] di rifiuto, ovvero, un tentativo di spiegare le dinamiche di crisi derivate direttamente dalla "logica della merce", senza tenere alcun conto dei processi storici. Tutto ciò fa parte di una traiettoria già relativamente lunga di quella che è stata una ricezione intensa, ma estremamente superficiale, di una nuova teorizzazione, i cui fondamenti rimangono in gran parte incompresi. Chi ha criticato questa teoria, ha spesso indicato tali distorsioni, denunciandole in quanto forme caricaturali di analisi del reale, e certamente non depone a favore della critica del valore il fatto che i loro rappresentanti locali abbiano spesso assunto la caricatura come se fosse qualcosa di positivo. Il risultato è un dibattito del tutto guidato da dei falsi problemi e da una sorta di bricolage teorico. Oggi, nella ricezione della critica del valore, guardarsi dalle trappole dell'immediatezza è probabilmente il compito più importante. E insieme ad esso, è necessario avanzare in un'attenta ricostituzione dei momenti principali di questa elaborazione, la quale richiede un'attività paziente e non orientata una "applicazione" immediata, che trascuri tanto l'attivismo superficiale quanto una produzione seriale di "tesi". Gli immensi deficit teorici relativi alla ricezione della critica del valore, non sono affatto un puro problema teorico. Jappe afferma che «la critica del valore non può essere utilizzata per avviare una carriera o per ottenere finanziamenti». Negli ultimi anni, però, il suo sviluppo in Brasile è stato segnato proprio dall'integrazione della teoria nell'apparato universitario, e dalla massificazione della "ricerca" in senso positivista. Questo si è reso possibile proprio solo perché essa, la critica,  di fatto, «ha tradito sé stessa e la sua specificità» [*59] Spesso le esigenze della teoria, e quelle della ricerca istituzionale, si scontrano direttamente, e lo fanno sempre a scapito della prima, e ciò perché i criteri burocratici dei finanziamenti, la pressione per avere dei risultati e il "fare rete" parlano più forte. Ciò contribuisce in maniera decisiva all'insieme delle distorsioni relative al modello locale di ricezione della critica del valore che ho descritto. La contraddizione più evidente è quella tra il piano teorico generale della teoria della crisi, e la ricerca di casi particolari. Mentre «il vero movimento del capitale reale globale può essere osservato empiricamente solo sulla base dei suoi effetti sociali»,[*60] qui, in modo inverso, si è cercato di associare direttamente i dati economici empirici al movimento globale, scartando invece proprio gli effetti sociali empirici. In questo senso, il percorso che cercava un'approssimazione indiretta con la teoria della crisi attraverso i suoi "effetti sociali" si è rivelato più coerente, anche se non ha ancora adeguatamente stabilito una mediazione tra gli sviluppi sociali autoritari e le dinamiche generali del processo feticistico.[*61] Da questo punto di vista, la mediazione dell'empirico può pertanto apparire, insieme alla critica dell'ideologia, come un elemento di "concretizzazione" dell'analisi del reale, ma di per sé però essa non fornisce alcun "accesso" diretto al contesto sociale globale. Malgrado tutte le differenze di approccio, rimane tuttavia il fatto che nessuna di queste vie di ricezione della critica del valore ha abbandonato la teoria della crisi. Piuttosto, è stato cercato invece di spiegare un successo economico congiunturale proprio a partire da questa teoria. Si tratta, pertanto, di un falso problema. E' vero che c'è stata un'oscillazione di interesse per la teoria della crisi, che corrisponde, in una certa misura, alla situazione economica locale e mondiale; ma, in questo contesto,  ridurre l'assenza di un'ampia teorizzazione sistemica della crisi a una riflessione dell'economia, significa trascurare fattori decisivi come il modello ideologico di ricezione della teoria, e la particolare dinamica dei nuclei coinvolti in questa ricezione. La descrizione abbreviata, fatta da Jappe, del caso brasiliano, perde di vista, pertanto, ciò che deve essere spiegato: perché, in fin dei conti, in Brasile i "gruppi di critica del valore" non si sono realmente sviluppati, e questo nonostante l'influenza diffusa di quelle idee, e un rilevante insieme di pubblicazioni in portoghese che circolano da tempo? Una prima risposta implica il riconoscimento dei limiti dell'analisi dottrinale basata sulle "categorie fondamentali", senza però che ci sia un trattamento adeguato della riproduzione sociale. Non c'è dubbio che tutto ciò finisca per portare a un approccio deduttivista e unilateralmente "economico", privo di reale capacità esplicativa. Da un lato, il contesto sociale generale non è “accessibile” alle parti; dall'altro, non è in grado di informare direttamente la situazione relativa a ciascuna particolarità. Dal punto di vista dell'analisi dei contesti locali, una soluzione è quindi quella di enfatizzare gli "effetti sociali" che non possono più essere pensati come delle forme secondarie di manifestazione. Ciò implica, innanzi tutto, la rinuncia alla pretesa positivista di stabilire un'identità tra il locale e il generale. Questo percorso rappresenta una soluzione non immediata del rapporto tra teoria ed empirismo; ovvero tra l'analisi teorica del processo di crisi e la dimensione della particolarità. Questo ci consente anche di ragionare sulla relazione teoria-pratica in maniera meno dicotomica, ma senza tuttavia cadere nell'immediatezza. Né tantomeno, l'articolazione delle iniziative a livello locale e immediato può fare a meno dell'elaborazione teorica, né ha bisogno di essere completamente dissociata dalle dinamiche locali. Al contrario. In ultima analisi, si tratta di una disputa pratica, piena di compiti concreti, volti all'interpretazione del senso della crisi attuale e delle sue implicazioni. Come questa interpretazione possa diventare "prassi" nel senso della sua appropriazione da parte delle forze sociali, questo è qualcosa che, tuttavia, sfugge ai limiti della teorizzazione stessa.

- Marcos Barreira - Pubblicato il 28/3/2025 su Zero à Esquerda -

NOTE:

1 -     Anselm Jappe, Vivi e morti nella critica del valore. Alcune tesi affrettate sullo stato attuale della critica del valore. Zero a sinistra, 2024.
2    - Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, "È necessaria una nuova prospettiva di emancipazione sociale" – intervista a Marcos Barreira e Javier Blank (2018), in: https://www.krisis.org/2018/preciso-uma-nova-perspectiva-de-emancipao-social/.
3    - Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell'economia mondiale. Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1993.
4    -     In ogni caso, il suo libro del 1991, Il collasso della modernizzazione, aveva già trovato in Germania un pubblico più ampio rispetto alle prime pubblicazioni di quella che allora veniva chiamata “critica fondamentale del valore” e, alla fine degli anni Novanta, anche Il libro nero del capitalismo di Robert Kurz ebbe un'ampia ripercussione in quel Paese.
5    - Anselm Jappe, op. cit.
6    - Alcune pubblicazioni rilevanti:  Robert Kurz, A crise do valor de troca (Consequência, 2018), Grupo Krisis, Manifesto contra o trabalho – edição de 20 anos (Krisis/Igra Kniga, 2019), dossiê “Valor” em Margem esquerda n. 35, com textos de Norbert Trenkle, Ernst Lohoff, Tomasz Konicz (Boitempo, 2020), Anselm Jappe, Sociedade autofágica, coleção Crise & Crítica (Ed. Elefante, 2021), Moishe Postone, Antissemitismo e nacional-socialismo (Consequência Ed, 2021), Tomasz Konicz, Ucrânia: o “grande jogo” (Consequência, 2022) e a coletânea No rastro do colapso. Reflexões sobre a obra de Robert Kurz, organizada por Marcos Barreira e Maurílio L. Botelho (Consequência 2024).
7    - Roberto Schwarz, "Ancora il libro di Kurz", Novos Estudos – CEBRAP, n. 37, nov. 1993, p. 137.
8    - Per un'analisi del dibattito CEBRAP intorno al libro di Kurz, si veda Maurilio L. Botelho, "A theoretical mismatch: notes on the initial reception of The collapse of modernization in Brazil"; per un commento sul rapporto tra Kurz e Schwarz, si veda Cláudio R. Duarte, "La campana che suona e la critica che resta: tra due Robertos – un incontro nell'avamposto della crisi globale", entrambi in No rastro do collapso.
9    - Il concetto marxiano di feticismo è stato per lungo tempo legato a letture soggettiviste, che denunciavano la "falsa coscienza", o il consumismo esagerato degli individui nel capitalismo, se non addirittura legati alla lettura puramente filologica dei testi di Marx. In entrambi i casi, questo problema è rimasto avulso dall'analisi delle dinamiche sociali reali e delle loro tendenze distruttive.
10    - Si veda il crescente interesse per la "Nuova lettura di Marx".
11    - Ruy Fausto, Marx: Lógica e política, vol. III, Ed. 34, SP, 2002, p. 34.
12 -    Non si tratta di una "peculiarità locale". Questa reazione ha seguito, in termini generali, lo stesso modello di argomentazione di fronte alla diffusione del "Manifesto", ad esempio, in paesi come la Francia e l'Italia e anche in Germania, come si può vedere nella risposta di Norbert Trenkle ai critici del "Manifesto" in Krisis 28 (2004).
13    - Cfr. "Krisis arriva in Brasile", Folha de São Paulo, 1999.
14    - Il Manifesto controil lavoro apparve inizialmente in una piccola tiratura pubblicata da Labur-USP e, poco dopo, nella collezione Baderna della casa editrice Conrad. Un'edizione commemorativa di vent'anni, come nuova traduzione, è apparsa nel 2019 [Krisis/Igra Kniga, trad.: Javier Blank e Marcos Barreira].
15    - Allo stesso tempo, un terzo gruppo, a Fortaleza, ha sviluppato un approccio paradossalmente "politico" a questo dibattito sulla crisi del capitalismo, presentandosi come un "partito di emancipazione".
16    - Un vecchio testo di Claudio R. Duarte, "Il punto aporetico e il non ritorno", che commenta le tesi del "Manifesto", ne fa un esempio: esso opera sostanzialmente con elementi frammentari della teoria della crisi, letti in una certa misura nel quadro della Teoria Critica, senza che ci sia un'adeguata comprensione delle differenze di fondo tra i due approcci. Non si è trattato di un caso isolato. Per qualche tempo, la comprensione della teoria della crisi come una versione "di fine linea" della Teoria Critica, cioè una "Teoria Critica" per i tempi di crisi, che trascurava la specificità di molte analisi della critica del valore, ha prevalso nella ricezione brasiliana.
17 -    Potremmo citare, in ogni caso, un primo tentativo come quello di Célia Nunes, che, partendo dall'esempio del Mozambico, ha interpretato la fine delle illusioni di sviluppo in una società periferica dall'idea di un esaurimento della società del lavoro. Célia Nunes, Una trappola, RJ, Educam/Clacso, 2000.
18    - Anselm Jappe, Le avventure della merce, Antigone, Portogallo, 2006, p. 140-1.
19    - Maurílio Botelho, "Su 'Le avventure della merce'". Mimeo.
20    - Ibid.
21    - "Formação do Trabalho e Modernização Retardatária no Brasil". Questo testo, inizialmente prodotto per il dibattito tra i Gruppi di Studio per la Critica della Dissociazione del Valore (SP, Brasile) e l'Exit! Anche questo è rimasto inedito.
22    - Toledo, C. de A., Boechat, C. A., & Heidemann, H. D. (2012). “Vinte anos de um grupo de estudos do Labur – crise e crítica do sistema fetichista produtor de mercadorias e da modernização retardatária brasileira”. Revista Do Departamento De Geografia, 154-170.
23    - Si veda, ad esempio, Ricardo Antunes, che avvicina in modo quasi casuale la critica del valore alle teorie della "perdita della centralità del lavoro" di Offe, Habermas e Gorz. "Addio al lavoro? Saggi sulle metamorfosi e la centralità del mondo del lavoro", Campinas, SP, Editora Cortez, 1999.
24    - Vedi l'editoriale di Sinal de Menos No.1.
25    - In effetti, i pochi articoli nel contesto della critica di valore tedesca pubblicati su Sinal de Menos sono sempre rimasti corpi estranei e non mediati con il contenuto principale della rivista.
26    - Questo ragionamento circolare è stato "formalizzato" per la prima volta da Daniel Cunha in "Penúltimos combates", Sinal de Menos, vol. 1., e diventando in questo contesto, da allora in poi, un modello di "anticritica". Questo modello è stato poi applicato in modo quasi identico alla "critica del soggetto".
27    - Un caso parzialmente discrepante è lo studio di Joelton Nascimento, "Crítica do valor e crítica do direito" (SP, Perse: 2014), che contrappone la "critica di classe" a una critica determinata dal problema della forma merce. D'altra parte, segue lo stesso schema del progetto collettivo di Sinal de Menos, che intende la "critica del valore" non come un campo teorico specifico, ma come un insieme ampio e differenziato di analisi della "forma" della merce e del valore. Così, egli ritiene, che la "nuova" critica tedesca del valore sia una propaggine della "nuova lettura di Marx" degli anni '70, e che entrambe in qualche modo risalgano, in questa analisi delle forme, ai "precursori" degli anni '20 come Rubin e Pachukanis.
28    - Roberto Schwarz, "L'audace libro di Robert Kurz", sequenze brasiliane. Test. São Paulo: Companhia das Letras, 1999, p. 186.
29    - Roberto Schwarz, "Fim de século", Folha de São Paulo, -4/12/1994.
30 -    D'altra parte, l'incoerenza di questa posizione è esemplificata dal fatto che, in Sinal de Menos, i riferimenti quasi onnipresenti alla "lotta di classe" e a un proletariato "selvaggio", derivati dall'operaismo o dalla tradizione del comunismo di sinistra, si sono trasformati molto rapidamente, senza transizione, nella difesa della gestione politica "realistica" della crisi, che la sinistra tradizionale e il sociologo denunciavano come "conciliazione di classe". La posizione politica di classe rimaneva quindi senza alcuna conseguenza in termini analitici.
31    - Per un'analisi della crescita delle economie asiatiche dal punto di vista della critica del valore, si veda Norbert Trenkle, "Labor dependent on the injection of fittitious capital" (ciclostile), Tomaz Konicz, "Il crollo della modernizzazione 30 anni dopo" e Marcos Barreira e Maurilio L. Botelho, "Asian capitalism and global crisis", entrambi in "No rastro do collapso".
32    - Questo è stato anche un periodo in cui il gruppo di Rio de Janeiro attraversò una forte tendenza allo scioglimento. Al suo interno c'erano due posizioni antagoniste: una orientata allo sviluppo sistematico dell'approccio critico al valore e alla teoria della crisi; e l'altra orientata alla dispersione dei contenuti in un amalgama di approcci diversi, dalla teoria critica alle interpretazioni marxiste tradizionali della crisi, culminando nel rapporto immediato con i movimenti sociali. Da questa biforcazione è emerso, da un lato, un progetto sistematico di ricezione della critica del valore e, dall'altro, una tendenza fortemente associata al "modus" universitario individualizzato e all'improvvisazione teorica. Ad esempio, la versione sostitutiva "teorico-critica" della teoria della crisi centrata sul rapporto tra civiltà e barbarie. Alcuni esempi di questa formulazione sono apparsi nella prima parte del volume "Crítica da imagem e educação", organizzato da Roberta Lobo (Rio de Janeiro, EPSJV, 2010) e che forniscono un esempio di questa direzione. La posta in gioco, in sostanza, era il "diritto di cittadinanza" della critica del valore in Brasile, che dopo due decenni di ricezione superficiale era segnata dalla sua appropriazione da parte di letture sostitutive, e dalla tendenza a dissolversi nell'eclettismo universitario. La risoluzione di questa tensione è stato un momento decisivo per la formazione di un progetto capace di ricostituire con cura il percorso riflessivo e la struttura teorico-concettuale della critica del valore.
33    - Vedi, "Fino all'ultimo uomo: visioni carioca dell'amministrazione armata della vita sociale", Boitempo, SP, 2013.
34    - Marcos Barreira, "Città Olimpica: sul nesso tra ristrutturazione urbana e violenza nella città di Rio de Janeiro", in "Fino all'ultimo uomo".
35    - Questo punto, che è stato sottolineato da Kurz in "Denaro senza valore", del 2012, è già presente nei primi scritti della critica del valore, anche se non senza contraddizioni. In The Crisis of Exchange Value, del 1986, Kurz sottolinea, ad esempio, la contraddizione tra il punto di vista dei capitali individuali e la comprensione della dimensione sociale totale della riproduzione capitalistica: «il capitale non può realmente apparire come capitale totale, ma solo – quali che siano le sue forme – come capitale individuale in concorrenza» (Robert Kurz, "La crisi del valore di scambio", [trad. André Villar Gómez e Marcos Barreira] Consequence, RJ, 2018 p. 64).
36    - Denaro senza valore. Linee generali per una trasformazione della critica dell'economia politica, Lisbona, Antígona, 2014, p. 267.
37    - Il problema delle "particolarità nazionali", d'altra parte, non è affatto estraneo al dibattito della critica del valore, come nei saggi di Kurz sulla crisi dell'unificazione tedesca (si veda, Robert Kurz, "Il ritorno della Potëmkin. Capitalismo de fachada e conflito distributivo na alemão", Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1993.) nei primi anni '90, o il libro di Ernst Lohoff sul crollo dell'ex Jugoslavia, che illustrava le nuove linee di conflitto e le forme di decadenza della mediazione politica in via di crisi. Tali incursioni nel campo della particolarità, che hanno portato elementi storico-sociali di concretizzazione dell'analisi della crisi e della critica dell'ideologia, d'altra parte, non contenevano, in sé, una chiave di lettura del fondamento teorico del processo di crisi.
38    - A questo proposito, è necessario confrontarsi con la lettura secondo cui il Brasile sarebbe stato integrato nel processo di industrializzazione su larga scala dei paesi emergenti, come la Cina e l'India, sulla base dell'espansione globale del capitale fittizio (si veda, ad esempio, Lohoff/Trenkle, La Grande Dévalorisation, Post-éditions, 2014). La nostra tesi, invece, è che l'economia brasiliana si è spostata verso un ruolo di fornitore di materie prime come conseguenza dell'impennata dell'industrializzazione della Cina, che ha soppiantato gli Stati Uniti come nostro principale partner commerciale dopo il boom delle materie prime (si veda, ad esempio, Marcos Barreira e Maurilio L. Botelho, L'implosione del "patto sociale" brasiliano, Blog Giugno, Maggio/2016). Questa forma di inserimento – come sottolineato in molte analisi – ha intensificato il processo di ri-primarizzazione dell'economia brasiliana in corso dagli anni '90.
39    - Maurilio L. Botelho, "I lavoratori nel mercato dei capitali: 'capitalismo per pochi' e sindacalismo finanziario dei fondi pensione"; André Villar Gómez, "Il potere del Brasile? Le illusioni di sviluppo in Raúl Zibechi e Giovanni Arrighi"; Marcos Barreira, "Dai tuoi frutti li riconoscerai: sul nuovo vangelo del 'capitalismo popolare'" (i testi fanno parte di una raccolta ancora in preparazione).
40    - Anche dal punto di vista delle dispute ideologiche c'è una differenza fondamentale tra il contesto latinoamericano e il centro del capitalismo. Nei paesi centrali, il discorso neoliberista ha lasciato il posto a un "nuovo keynesismo" di crisi, in cui le banche centrali hanno sostituito i "portatori di speranza" nell'economia privata e hanno inondato i mercati di credito a buon mercato. Questa stessa pratica, anticipata dal governo brasiliano prima della crisi del 2008 con misure di attivismo statale, ha innescato forti proteste di massa basate su idee radicali di mercato. Queste proteste hanno unito i politici liberali e gli agenti dei mercati finanziari in una guerra ideologica contro qualsiasi "deviazione" nella politica economica e monetaria Vedi, Marcos Barreira, Terra scorada, Blog da Boitempo, 28/11/2016.
41 -     Marcos Barreira, André Villar Gómez, La catastrofe come modello. Agroalimentare, crisi ambientale e movimenti sociali nel periodo 2003-2013, Sinal de Menos n. 11, vol 1, 2015.
42    - Marcos Barreira e Maurilio L. Botelho, L'implosione del "patto sociale" brasiliano, cit.
43    - Maurilio L. Botelho, Guerra ai "vagabondi": sulle basi sociali della militarizzazione in corso. Boitempo Blog, 02/12/2018; Marcos Barreira, Il Brasile in tempi di declino sociale, Margem Esquerda n. 35, Boitempo, 2020.
44    - A metà degli anni 2000, la maggior parte dei membri di questa prima generazione aveva abdicato a una prospettiva critica del valore e, in generale, aveva seguito lo schema di reazione della sinistra tradizionale, a volte criticando l'assenza di "pratica politica", a volte "confutando" la teoria della crisi a partire da frammenti isolati. Ad esempio, il tentativo di "superare" i deficit della critica del valore, prima ancora di ottenere una visione coerente di questa teoria e del suo sviluppo, "politicizzando" il dibattito sul capitale fittizio con un tradizionale "argomento di sinistra" svolto intorno alla "riproduzione permanente" della "accumulazione primitiva" e alla funzione determinante dello Stato nella riproduzione capitalistica. Si veda, Caio B. Mello, "Un contributo allo studio del credito nel Capitale di Karl Marx". 2007. Tesi (Dottorato in Storia Economica) – Università di São Paulo.
45    - Toledo, C. de A., Boechat, C. A., & Heidemann, H. D. (2012). "Vent'anni di un gruppo di studio Labur". Giornale del Dipartimento di Geografia, 154-170.
46    - Robert Kurz, Op. cit., p. 254.
47    - Vedi Fábio T. Pitta, "Modernizzazione ritardataria e agroindustria della canna da zucchero a San Paolo: Proálcool come riproduzione fittizia del capitale in crisi", Tesi di Master, FFLCH, USP, 2011.
48    - Fábio T. Pitta, "La crescita e la crisi dell'economia brasiliana nel XXI secolo, come crisi della società del lavoro", Sinal de Menos n. 14, vol. 1, 2020.
49    - Cássio Arruda Boechat, "Capitale fittizio e conflitti nella riproduzione critica del gruppo francese Tereos nell'agrobusiness zucchero-energia di San Paolo", p. 170, in Cássio A. Boechat (Org.), Geografia da crise no agronegócio susugarenergético, Consequentia, RJ, 2020.
50-     Per un'analisi più dettagliata di questo peculiare trattamento della teoria della crisi, si veda: Marcos Barreira, Il gergo della mediazione. Appunti su "La crescita e la crisi dell'economia brasiliana", di Fábio Pitta. Inedito [Questo testo, scritto inizialmente per Sinal de Menos, sarà pubblicato in una raccolta ancora in preparazione sulla teoria della crisi].
51    - Denaro senza valore, p. 163.
- 52    - Ibidem, p. 29.
53    - Ivi, un'eccezione degna di nota è la ricerca svolta da Ana Carolina Gonçalves Leite, nel volume "Geografia da crise no agronegócio susugar-energético" (Geografia della crisi nell'agrobusiness della canna da zucchero), che affronta un caso particolare di espansione dell'agrobusiness senza condondere i piani di analisi presenti negli altri autori.
54    - Nella sua critica a Pitta, in Sinal de Menos, n. 15, Claudio Duarte ha giustamente sottolineato che l'idea di "riproduzione fittizia", inesistente nella teoria della crisi della critica del valore, si riferisce direttamente alle teorie postmoderne della riproduzione desostanzializzata della società. Secondo Pitta, una volta raggiunto il "limite assoluto" del capitale, tutto diventa immediatamente fittizio. Come ho osservato nel commento già citato al testo di Pitta, questa critica di Cláudio Duarte incontra anche alcuni problemi: pensa all'attuale dinamica capitalistica, senza ulteriori giustificazioni, come a un insieme di processi simultanei e interconnessi di simulazione e valorizzazione reale. Da questa "giustapposizione", tuttavia, si perde il fatto che la mediazione creditizia in realtà si sovrapponga sempre più alla creazione di valore su scala globale. Se in Pitta c'è il puro e semplice paradosso di una riproduzione fittizia-reale della società, che però ha già raggiunto un limite assoluto, la critica banalizzata di questa formulazione come rapporto di alternanza tra momenti a volte più "reali" e a volte più "speculativi" porta direttamente all'idea che la riproduzione capitalistica segua un corso del tutto normale. Si tratta, quindi, di una negazione implicita (o non così implicita) della crisi fondamentale, allo stesso modo in cui l'idea di una "riproduzione fittizia" nega, in un altro modo, il processo di crisi. Inoltre, il critico sembra non avere la minima idea del modo in cui Pitta inverte gli aspetti centrali della teoria della crisi e, quindi, intende farne un legittimo rappresentante dell'"ortodossia" di questa teoria, che si riduce quindi alla sua inversione nell'ambito della ricerca di Labur. Sebbene contenga elementi parzialmente corretti per quanto riguarda gli aspetti più crudi del saggio di Pitta, questa posizione è anche un ulteriore esempio del deficit teorico del dibattito sulla teoria della crisi nel contesto di Sinal de Menos.
55    - Questo è stato giustamente osservato anche da Cláudio Duarte nella sua critica.
56    - Nel suo testo sulla diagnosi del collasso e la teoria della scissione del valore, Agnès de Oliveira Costa ha delineato una formulazione che rompe con questo schema e sottolinea la relazione intrinseca tra il piano della scissione e la dinamica della crisi. Vedi, La diagnosi del collasso e la critica della scissione dei valori" in No rastro do collapso...
57    - Cfr. Intervista con Robert Kurz, Geführt am 26.07.1994 in Exit-online
58    - La Critica Radicale, ad esempio, si costituì come un movimento sociale locale immediatamente "antipolitico", senza avanzare in un'iniziativa di elaborazione teorica. Invece della rigida separazione tra teoria e pratica che appare nel recente testo di Jappe, egli è guidato dall'intenzione opposta, cioè dall'uso a breve termine delle tesi sulla crisi del capitalismo a scopo di agitazione.
59    - Vivi e morti nella critica del valore, cit.
60    - Robert Kurz, Denaro senza valore, p. 159
61    - Questo, tuttavia, è completamente diverso dall'interpretare la scissione come un effetto secondario dei processi economici, poiché la "scissione" fa parte del modo in cui si strutturano le dinamiche sociali nel loro complesso.