venerdì 19 settembre 2025

La fine del sanguinamento della Testa della Medusa…

Superflui di tutto il mondo, unitevi !
- di Robert Kurz -

   Il capitalismo non è una possibilità, quanto piuttosto una minaccia per l'umanità. E minacciati, cominciano ora a sentirsi anche molti di quelli che guadagnano bene. La logica che sta dietro questo sistema è tanto semplice quanto brutale: alla fine, il diritto all'esistenza ce l'ha solo chi è redditizio. E non basta più il profitto in sé, ma bisogna che esso soddisfi anche alla regola della redditività, che oggi viene posta sempre più in alto, in termini capitalistici finanziari. Ciò significa due cose: in primo luogo, che il capitale è insaziabilmente avido di lavoro umano, il quale deve essere trasformato, secondo quello che è il fine proprio della valorizzazione irrazionale, in sempre più capitale. È a partire da un simile punto di vista che le persone sono perciò solo un materiale, forza lavoro, "manodopera" e nient'altro. Va anche detto che, in secondo luogo, il lavoro è "valido" soltanto a livello di redditività. L'ambizione capitalista di sfruttare la forza vitale umana, è costretta a rispettare questo modello. E questa brutalità essenziale, rimane sempre annidata, in agguato, nell'inconscio dell'ordine del sistema. È così talmente terribile che non c'è nessuno che lo ammetta, nessun manager, nessun ideologo. Ma esiste, e in ultima analisi, per principio, afferma che: «Tutti coloro che non sono in grado di lavorare, sono delle "vite senza valore"». Ne fano parte tutti i bambini e tutti gli adolescenti che non hanno ancora la capacità di lavorare; a meno che non siano già serviti come materiale per il lavoro, non appena sono stati in grado di camminare. Lo è anche tutto ciò che malato, invalido, ecc., e che rappresenta solo un fattore di costo. E ovviamente tutti gli anziani, i quali non sono più in grado di lavorare, e  per i quali vale la stessa cosa, a meno che non siano utilizzabili anche sul letto di morte. Infine, ci sarebbero anche i disoccupati, che pertanto diventano così dei disoccupati inutili. La logica capitalistica emette questa sentenza non solo sui singoli, ma lo fa anche su tutti quelli che costituiscono i loro  rispettivi ambiti e istituzioni: la formazione, l'istruzione, l'assistenza, i servizi sanitari, l'arte e la cultura, ecc., sembrano essere tutti dei costi morti che andrebbero eliminati.

   Ovviamente, qualsiasi società che dovesse mai mettere in pratica una tale logica, collasserebbe immediatamente. Ma si tratta tuttavia della logica del capitale, che in quanto processo fisico è completamente cieco e insensibile. Per far sì che il capitalismo lasci vivere l'umanità, in modo che essa possa essere il materiale per soddisfi le sue richieste insaziabili, bisogna che esso venga, in qualche modo, illuso. Originariamente, la sopravvivenza in un simile contesto, vale a dire quelle che erano le "esigenze non redditizie", erano di competenza delle donne. Ma tuttavia il processo di valorizzazione, di suo, non avrebbe mai disprezzato in alcun modo la carne femminile, ossia "il nervo, il muscolo, il cervello" (Marx). Pertanto, in tal modo, sulle donne avrebbe poi finito per gravare un doppio fardello: non importava se si parlasse di società capitalistiche di Stato dell'ex blocco orientale, dei centri occidentali o delle baraccopoli del Terzo Mondo: dopo la fine del lavoro quotidiano, per loro cominciava il lavoro che riguardava l'opera di riproduzione per quella parte della vita che dal punto di vista capitalista, era "indegna di essere vissuta". Le donne, da sé sole, avrebbero finito col soccombere da tempo sotto questo doppio peso, oppure la società si sarebbe dissolta. È stato questo il motivo per cui lo Stato ha dovuto creare anche nella redditività quelle aree derivate dalla "vita indegna di essere vissuta", per mezzo di imposte, di contributi e di sistemi assicurativi, e perciò, è stato in un certo qual modo, grazie al "sanguinamento" del proficuo processo di valorizzazione. A seconda della sua entità, ciò è stato visto come se fosse più o meno ..."sociale". E la critica storica del capitalismo si è pertanto in gran parte limitata alla quantità di questo sanguinamento, mentre quella che era invece la sua terribile logica fondamentale è rimasta nell'ombra, e del tutto intatta. E questo è stato reso possibile (con delle interruzioni di crisi, mentre il processo di valorizzazione era storicamente in corso, ed è stato pertanto in grado di assorbire quello che funzionava come un Lavoro sempre più redditizio. Ma tuttavia, con la Terza rivoluzione industriale, una tale espansione ha finito per arrestarsi. Il metro di misurazione della redditività è ormai troppo elevato, e sempre più persone valide non riescono a trovare lavoro. Di conseguenza, il sanguinamento che fuoriusciva dalla valorizzazione, per irrorare le aree secondarie, si è esaurito.

   Ridiventa così visibile la testa di medusa della logica capitalista intrinseca, finora rimasta nascosta. In tutto il mondo, i “non redditizi” devono pertanto sperimentare la loro relativa o assoluta “svalutazione della vita”. Con una conseguenza ferrea, vengono colpiti per primi i disoccupati di lungo periodo, i bambini e gli adolescenti, i malati, i disabili e gli anziani. A seconda del paese e della sua situazione rispetto al mercato mondiale, ciò può avvenire con maggiore o con minore velocità, ma ci stiamo tutti muovendo, irresistibilmente, in quella direzione. Anche nella Repubblica Federale Tedesca, che è solo relativamente "ricca", in senso capitalista, come altrove, i pagamenti delle assicurazioni vengono ridotti, l'assistenza sanitaria, e quella ai malati e agli anziani viene ridotta, le pensioni sociali vengono cancellate, gli asili nido vengono chiusi. Nelle scuole l'intonaco cade dalle pareti, il materiale didattico diventa obsoleto e marcisce. E a quanto pare sembra non finire mai, a fronte di sempre nuovi progetti di tagli. In silenzio, viene messa una croce su tutta la riproduzione sociale. (...) Le classi politiche ed economiche si riferiscono solo alla silenziosa fisica sociale capitalista. Di conseguenza, la vecchia e impotente critica al capitalismo, limitata al mero sanguinamento della valorizzazione, è destinata a scomparire. I vecchi esperti del miglioramento sociale hanno cambiato mestiere a causa della limitazione cosmetica che riguarda i danni dovuti al deterioramento. Così, i presunti becchini del capitalismo si sono riciclati come aiutanti del becchino della società umana. Sotto delle circostanze storicamente nuove, il vecchio ruolo sindacale socialdemocratico è diventato, in termini di contenuto sociale, il suo contrario. (...) Laddove la capacità di governare avrebbe dovuto essere sacrificata nel nome della resistenza sociale, vediamo che invece, al contrario è la resistenza sociale a essere sacrificata in nome della capacità di governare. Ma le cose non si fermeranno qui. Ciò che viene proclamato come se fosse un sacrificio per ottenere una presunta manutenzione sostanziale delle aree vitali "non lucrative", non è altro che una parte di un percorso che ci porta verso lo storico vicolo cieco dell'auto-cannibalismo capitalista. Questo sistema non si lascia più ingannare dalla sua stessa biofobia. Ed è proprio l'assurdo principio di redditività ciò che deve essere abolito: "superflui" non redditizi di tutto il mondo, unitevi!

- Robert Kurz - pubblicato come: "Unrentable, vereinigt euch!", pubblicato su Neues Deutschland, il 02.05.2003 -

giovedì 18 settembre 2025

Al di là del Bene e del Male !!!

Israele nella Crisi Globale del Capitalismo
- di Herbert Böttcher -

L'espansione della guerra contro Hamas
Il governo Netanyahu ha deciso di espandere la guerra contro Hamas. Oltre alla presa di Gaza City, i piani riguardano anche la distruzione di Hamas nei campi profughi della Striscia di Gaza. C'è da aspettarsi che i combattimenti per la città di Gaza si concentrino nella zona dei grattacieli a ovest della città. Tanto nella città, quanto nei campi profughi, la popolazione civile, strumentalizzata da Hamas e usata come "scudo umano", viene sempre più coinvolta nei combattimenti. A rischio, sono anche le vite dei ostaggi rapiti da Hamas, che si presume si trovino a Gaza City. Con l'espansione della guerra, aumenterà l'orrore per la popolazione, così come il numero dei morti. I piani per espandere la guerra sono accompagnati da delle forti critiche dentro Israele. Tra i critici si vedono anche alcuni governi europei, ivi compreso il governo federale tedesco, che intende limitare la propria fornitura di armi a Israele. Mentre anche negli altri stati dell'Unione Europa si va sgretolando il sostegno a Israele, vediamo che allo stesso tempo esso è anche oggetto di critiche da parte dell'opinione pubblica internazionale, alimentata dall'antisemitismo che oggi si manifesta a livello globale, e che colpisce direttamente gli ebrei in quelle che sono le loro stesse vite. Inoltre: «Dal 7 ottobre 2023, vediamo che gli ebrei in Europa assistono a come l'antisemitismo sia in aumento, e come essi siano sempre più perseguitati. Il bilancio delle ultime settimane: in Austria, una coppia è stata cacciata via da un campeggio perché parlava ebraico; in Grecia, una nave da crociera con dei turisti israeliani, a causa delle violente proteste, non ha potuto attraccare; in Italia, dei turisti israeliani sono stati espulsi da un ristorante; in Spagna, un intero gruppo di ebrei francesi è stato prelevato da un aereo», scrive Benjamin Graumann, presidente della Comunità ebraica di Francoforte [*1]. Le critiche a Israele vengono legittimate a partire dalla reale sofferenza e dalla situazione disperata della popolazione Palestinese. Nel dibattito su Israele e sui palestinesi, quelle che si scontrano sono delle posizioni identitarie [*2]. Ciò è probabilmente dovuto alla necessità di un chiaro posizionamento in termini di contenuti, e anche a partire dal desiderio di un’univoca identificazione in quella che è l'appartenenza a un gruppo. Si tratta di stare moralmente da una parte, e di appartenere ai corrispondenti ambiti sociali mentre, al tempo stesso, si deve anche essere capaci di agire. In una corrispondente logica di campo, appare pertanto impossibile dare simultaneamente "solidarietà a Israele" e sensibilità verso le sofferenze dei palestinesi. E come ultima cosa, ma non meno importante: sotto la pressione della necessità di essere chiari, vengono perse di vista le contraddizioni sociali e morali. Bisogna riflettere su di esse, anziché ignorarle in modo moralizzante e identitario, dal momento che questo potrebbe costituire un prerequisito essenziale ai fini di una riflessione critica circa l'orrore associato all'attacco portato avanti da Hamas, con l'obiettivo di distruggere Israele, e riflettere anche su quelle che sono state le conseguenze belliche per la popolazione palestinese.

Le duplice natura dello Stato di Israele
Una riflessione critica deve, da un lato, tener conto della duplice natura di Israele, visto in quanto progetto di salvezza per gli Ebrei perseguitati e minacciati di sterminio - e in questo senso esso va visto come progetto contro l'antisemitismo - mentre, dall'altro lato, si tratta di uno Stato capitalistico che va visto in un contesto di crescente crisi globale, insieme a tutte le contraddizioni e le aporie distruttive che questo comporta. Contro le strategie di Hamas, volte alla distruzione di Israele, e contro il sostegno che esse ricevono dagli Stati del cosiddetto Medio Oriente - e dall'antisemitismo relativo a Israele che l'accompagna - nei conflitti attuali, diventa indispensabile difendere Israele. Ciò implica una critica del ruolo svolto da Hamas. Hamas non è un movimento di liberazione, ma abbiamo a che fare con un'organizzazione terroristica che mira alla distruzione di Israele. Della sua strategia fa parte la cinica e minacciosa messa in scena della barbarie contro Israele, la strumentalizzazione della sua stessa popolazione, usata come ostaggio nella lotta contro Israele, e l'oppressione e la fame della propria popolazione. Ancora una volta e nuovamente, la fame e la miseria a Gaza viene attribuita quasi esclusivamente a Israele e al suo attuale governo. Tutto ciò accade in una situazione segnata dal declino del capitalismo, laddove diventa sempre più evidente che anche le ex grandi potenze si trovano coinvolte nei processi di questo declino. Da un lato, tutto questo mette in discussione le cosiddette strategie antimperialiste, che funzionano ancora secondo lo schema personalistico della liberazione degli oppressi dai loro oppressori; e che a partire da questa prospettiva vede la lotta dei palestinesi oppressi contro Israele, vista come una potenza imperiale, o come un rappresentante del Potere nel cosiddetto Medio Oriente. Allo stesso tempo, il crollo del Il dominio capitalistico si trova associato a dei processi di crisi sempre più acuti e accompagnati da dei crescenti processi di imbarbarimento, di pensiero identitario, e soprattutto da un crescente antisemitismo, in quanto modo per affrontare la crisi. Tali processi di trasformazione, che sono stati osservati negli ultimi anni in numerosi Stati  in decadenza, a livello globale trovano sempre più espressione nelle azioni delle vecchie grandi potenze. In un misto di autoritarismo e di militarizzazione, le politiche identitarie e la repressione determinano le azioni degli attori politici – guidate e accompagnate da una "bruta borghesia" e da una feticizzazione della normalità, la quale viene intesa come protezione dal degrado per mezzo di strategie socio-darwiniane. In Germania, il sostegno alla militarizzazione e alla disponibilità alla guerra diventa così il test decisivo per la lealtà politica. Le repressioni sono dirette in primo luogo contro i migranti, e in ultima analisi contro tutti coloro la cui forza lavoro è ora "superflua", se vista nel processo di valorizzazione capitalista, così come anche contro coloro che presumibilmente si sottraggono all'obbligo del Lavoro. Essi, vengono tutti identificati come se fossero una minaccia, nel mentre che le minacce ecologiche, sempre più mortali per le persone, vengono ignorate; così come vengono ignorati i processi di divisione sociale. L'escalation della violenza distruttiva diventa politicamente "accettabile", e viene socialmente accettata e attuata anche nei diversi contesti sociali. Tutto questo è connesso alla crisi della valorizzazione del lavoro, e alla crisi di riproduzione che l'accompagna, alla disintegrazione del lavoro e della famiglia, o a quella dei rapporti sociali, che, nella concorrenza, si trasformano in una lotta barbara e anomica di tutti contro tutti, dove regna il "diritto del più forte". In quanto Stato capitalistico, anche Israele si trova soggetto a questi processi di crisi, e alle aporie e alle contraddizioni che li accompagnano, solo che questo avviene in una situazione nella quale Israele - in quanto "ebreo" tra gli Stati - si trova a essere sempre più attaccato dall'antisemitismo, senza che possa però ricorrere all'antisemitismo, come modo per affrontare la crisi. Dopo la disintegrazione del Partito Laburista, causata anch’essa dalla crisi, in Israele si è instaurato un governo autoritario e fondamentalista di destra, il quale ora scommette sull'espansione della colonizzazione dei territori palestinesi – in Cisgiordania – e protegge i coloni in maniera autoritaria e repressiva. Il governo Netanyahu ha minato lo Stato di Diritto, ha smantellato le strutture democratiche, così come la separazione dei poteri, e questo malgrado la proteste di gran parte della popolazione; concedendo così più potere al fondamentalisti dell'estrema destra, dividendo e frammentando il paese, in modo tale che oggi le persone emigrano da un paese che avrebbe dovuto invece offrire rifugio ai perseguitati. Processi finalizzati alla repressione e alla legittimazione autoritaria, hanno oggi il loro proseguimento in una guerra che solleva dubbi sul fatto che essa sia giustificata come autodifesa contro la distruzione,e che possa essere addirittura associata a dei processi politici interni che minacciano di portare all'autodistruzione di Israele.

I piani attuali del governo Netanyahu
Le decisioni del governo Netanyahu di espandere la guerra si confrontano anche con le proteste in Israele. L'ex primo ministro Olmert, parla di una «guerra [...] senza obiettivi, ovvero di una chiara pianificazione senza prospettive di successo» [*3]. In tal modo, il governo Netanyahu si allinea all'azione irrazionale degli altri attori politici in quella che è la decadenza del capitalismo. Ovviamente, lui è disposto a mettere a rischio gli ostaggi che si trovano nei quartieri alti di Gaza City e nei campi rifugiati, pur di ottenere un obiettivo indefinito e generico come quello della distruzione di Hamas, oltre ad accettare più morti e il peggioramento della situazione della popolazione civile palestinese. In una dichiarazione dell'ufficio di Netanyahu, il gabinetto di sicurezza «ha approvato cinque principi per porre fine alla guerra [...]: la smilitarizzazione della Striscia di Gaza, il controllo militare della zona costiera da parte di Israele e la creazione di un un'amministrazione civile che non sia subordinata né ad Hamas né all'Autorità Palestiniana (AP)» [*4]. Ancora non è chiaro  come questi obiettivi verranno strategicamente raggiunti, e quale sia il significato dei citati termini di rischio per la popolazione civile, per gli ostaggi e per l'invio di Soldati israeliani. C'è da temere che altre persone fuggiranno. I campi profughi sono già sovraffollati e le condizioni igienico-sanitarie sono disumane. Con l'invasione militare delle aree prese di mira, ad aumentare è anche il rischio per gli ostaggi. Il Capo di Stato Maggiore dell'esercito israeliano ha anche messo in guardia contro una conquista totale della Striscia di Gaza [*5]. L'obiettivo legittimo di Israele, vale a dire, di difendersi dalla minaccia di distruzione, senza alcuna mediazione con la questione che ci siano obiettivi e strategie concrete e determinabili, così come le sue prospettive di successo, così facendo rischia di diventare una legittimità nell'ambito della quale ogni mezzo appare come se fosse a priori giustificato. E questo perché in tal modo tutto ciò deriva direttamente dal bisogno di autodifesa. I partner della coalizione fondamentalista di estrema destra, chiedono la conquista dell'intero territorio e l'espulsione di tutti i palestinesi, mentre i partiti all'opposizione rifiutano tutto questo. Queste costellazioni, e il rifiuto di una discussione ponderata, a causa delle posizioni identitarie del governo, probabilmente, continueranno a promuovere la divisione della società israelita. Un progetto militare irrazionale e autoritario come l'occupazione di Gaza, rischierebbe anche di consumare quelle che sono delle risorse necessarie alla coesione sociale, e finirebbe perciò per logorare la società stessa. Anziché considerare tutto questo, sembra che, sotto la pressione di membri estremisti di destra del governo, oltre a una possibile occupazione di Gaza, ci sono anche dei piani per la costruzione di migliaia di unità abitative, e per l'espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Un lato di questa irrazionale attuazione, sembra essere la megalomania nazionale. In un simile contesto, diventa così sempre più difficile riconoscere i limiti dell'azione militare. E tuttavia questi limiti vano sottolineati, come dimostrano tutte le esperienze di guerre di ordinamento mondiale, a causa del fatto che, nel combattere le strategie di guerriglia dei gruppi terroristici, le forze armate possono ottenere solamente un successo parziale.

Crisi globale del capitalismo e dell'antisemitismo
Il terrorismo contro Israele, che mira alla sua distruzione, così come il fuoco delle critiche dentro Israele, non possono essere separati, né dalla crisi globale del capitalismo né dall'antisemitismo, che nel bel mezzo di questa crisi si sta intensificando a livello globale. La teoria critica, nella tradizione di Horkheimer e di Adorno, insisteva sul fatto che il capitalismo e l'antisemitismo sono interconnessi, e questo nella misura in cui l'antisemitismo dev'essere inteso come una reazione proiettiva rispetto alle crisi e alle distorsioni associate al capitalismo. [*6] Nella crisi globale, diventa chiaro come il capitalismo abbia raggiunto i suoi propri limiti logici e storici immanenti. Il lavoro, "eliminato" sotto la pressione della concorrenza, ormai non può più essere compensato, né dall'espansione dei mercati, né dall'accumulazione sui mercati finanziari. Insieme alla produzione di plusvalore, ciò che entra in collasso simultaneamente è la riproduzione, la quale al plusvalore è intrinsecamente legata. Ecco che così, anche la possibilità di una regolamentazione statale va a sbattere contro i propri limiti. Nei cosiddetti Stati al collasso, lo statalismo si dissolve in una lotta tra bande, e persino le ex grandi potenze stanno lottando, in piena crisi, per l'autoaffermazione globale. Tutti quanti, pretendono di compensare la loro debolezza economica per mezzo della militarizzazione. L'imperialismo diventa così un imperialismo dell'esclusione e della delimitazione, che, nella decadenza, ciò che mette in evidenza non è la sua forza, bensì la sua debolezza . Per mezzo dell'antisemitismo, ogni crisi - a causa delle quali oggi le persone soffrono per colpa del decadimento del capitalismo - può essere proiettata sui presunti colpevoli. In questo modo, "gli" ebrei, che dominano il mondo “come padroni del denaro e dello spirito” nell'ambito di una cospirazione ebraica immaginaria, vengono resi responsabili delle crisi; sia per mezzo di un antisemitismo manifesto e strutturale che si esprime attraverso una critica del capitalismo che si è ridotta alla critica del capitale finanziario, sia attraverso fantasie complottistiche e personalizzazioni. Nel contesto della situazione in atto nel cosiddetto Medio Oriente, lo Stato di Israele, in quanto "ebreo" tra gli Stati, viene ora messo sul banco degli imputati, e reso responsabile della desolante situazione, soprattutto a causa di quello che oggi i palestinesi devono soffrire. Gli attacchi contro Israele offrono agli attivisti - così come all'opinione pubblica mediatica nel capitalismo in decadenza - l'opportunità di compensare la propria impotenza, e di processare la crisi, proiettandola. Se il potere di Israele si è rotto, andando in pezzi - secondo quel desiderio di cui si nutre l'antisemitismo redentore dei nazisti –, ecco che ora i palestinesi potrebbero essere liberati, e il mondo corrotto e socialmente lacerato potrà tornare a essere un mondo pacifico. In tale situazione - in cui l'obiettivo del capitalismo, irrazionale e compulsivo, di moltiplicare denaro/capitale per amore della cosa in sé, e dove questa cosa acquista sempre più importanza, e in modo sempre meno regolamentato e sempre più spensierato e allucinato, e dove il tutto avviene nel bel mezzo della disintegrazione -  c’è sempre più bisogno di una discussione ponderata su Israele, ivi comprese le critiche alle forze nazionalisti di destra e fondamentaliste religiose che determinano la politica del governo. La presunta complessità della situazione «sembra suscitare il desiderio di chiarezza e di appartenenza». Nelle posizioni assunte, l'attenzione è meno sull'oggetto e più «sui rituali di inclusione ed esclusione che creano identità e definiscono l'appartenenza un gruppo» [*7]. La riflessione critica è necessaria anche in relazione alla situazione, in modo che Israele, come progetto di salvataggio, non sia oggetto di azioni irrazionali volte alla sua distruzione. In questa riflessione questo dovrebbe essere chiarito, invece di collocare Israele come se fosse un “cattivo speciale”. Anche in Israele si stanno manifestando problemi analoghi a quelli di altri Stati capitalistici in crisi. Esclusione e militarizzazione, tra le altre cose, attuate secondo lo schema amico-nemico, così come la stigmatizzazione irrazionale del "colpevole", la personalizzazione delle relazioni, l'irrazionalismo nelle azioni e nella governance, la corruzione, l'autoritarismo e l'orientamento a destra, insieme alle prospettive do identità nazionali, uniscono tutti gli stati capitalisti nella crisi, nonostante tutte le differenze graduali e socioculturali.

Campi controversi e contraddizioni nella discussione su Israele e la guerra di Gaza
-  "Catastrofe umanitaria" come genocidio...?
Si discute sulla situazione umanitaria nella Striscia di Gaza. E' indiscutibile che la popolazione civile soffra a causa dei conflitti militari, così come per la disastrosa situazione dell'approvvigionamento. Ciò che è controverso riguarda  la "questione della colpa". Il governo israeliano si affida, con ragione, alla difesa contro il terrorismo barbaro e cinico di Hamas e di altri gruppi islamici che mirano alla distruzione di Israele. A Gaza, vediamo anche questo terrorismo che si manifesta come terrorismo contro la popolazione palestinese, la quale viene utilizzata come scudo umano per proteggere i luoghi in cui Hamas si è barricata. I fondi internazionali destinati alla popolazione civile, sono stati utilizzati per la costruzione di bunker [*8]. La popolazione palestinese è stata militarmente trasformata in una massa manovrabile, sfruttata in maniera propagandistica contro Israele, e a quanto pare con successo. Il terrore di Hamas viene ampiamente ignorato, a eccezione di qualche obbligatoria prese di distanza. Secondo i sondaggi, la maggioranza dei tedeschi è a favore di una maggiore pressione su Israele, e questo senza nemmeno mettere in discussione il ruolo svolto da Hamas. Sebbene Hamas esponga al pericolo una parte della popolazione civile, anziché garantirne la protezione, Israele si trova al centro delle critiche dei media e dei movimenti sociali. Si esige la liberazione della Palestina, senza criticare tutte le misure repressive di Hamas, ivi compresa l'oppressione – a volte omicida – sulle donne e sulle diversità di genere. Quelli che sono gli attori più diversi, propagandano una soluzione a due Stati, vista come soluzione universale, in quella che è invece una situazione in cui sempre più Stati sono in "caduta libera" a causa del calo dell'accumulazione di capitale. Di fronte al terrore sterminatore di Hamas, Israele si difende con una guerra che viene combattuta in un'area densamente popolata, dove sono stati scavati tunnel per proteggere i combattenti di Hamas, e dove le strutture civili sono strumentalizzate per essere poste al servizio della guerra terroristica. Il governo di Israele non sembra disposto a riflettere su fino a che punto dovrebbe spingersi l'autodifesa e l'eliminazione di Hamas. L'allucinazione della destra spinge a un  irrazionale e distruttivo "più o meno!", che deriva dal diritto all'autodifesa in maniera astratta e secondo una falsa immediatezza. Come già detto, non si intravede un obiettivo strategico che possa essere raggiunto nella lotta a Gaza. Ciò è stato confermato anche dai critici israeliani, ivi compreso all'interno dello Stato e dell'esercito. In ultima analisi, questo potrebbe aprire le porte alla realizzazione di alcuni piani fondamentalisti di estrema destra, volti allo spopolamento della regione, e che a loro volta creerebbe spazio per gli insediamenti. L'intenzione espressa da Netanyahu, di costringere l'emigrazione volontaria del maggior numero possibile di residenti di Gaza, punta in tale direzione [*9]. Il ministro delle Finanze, di estrema destra, Smotrich, ha dichiarato che Gaza deve essere completamente distrutta, la popolazione concentrata in piccole "aree umanitarie", nel sud, e "motivate" a emigrare. Il Ministro della Difesa, Katz, sogna di costruire una "città umanitaria" sulle rovine del città di Rafah, nel sud di Gaza [*10]. La fame e le malattie, soprattutto le malattie infettive causate da scarsa igiene, si stanno diffondendo. Gli accampamenti sovraffollati sulla spiaggia e nel centro, fanno parte delle zone di evacuazione in continua espansione, le cosiddette zone sicure, che non sono nemmeno al sicuro dalle bombe che vengono sganciate. La responsabilità del disastro viene attribuita principalmente a Israele, e non al terrorismo di Hamas. Si discute se Israele, o il Il governo israeliano, possa essere accusato di genocidio. In tale contesto, vengono utilizzati dei concetti che sono al di là della loro definizione in quanto termini di combattimento, oppure avviene che definizioni comuni vengano ridefinite e adattate a un uso specifico. Questo può soddisfare il bisogno di sfogare la rabbia, esprimere indignazione, e forse anche trasmettere la sensazione di poter agire, malgrado tutta l'impotenza. Nel bel mezzo di un dibattito emotivo, nel quale si lotta confusamente contro dei concetti poco chiari, è ancora necessario sforzarsi di chiarire concettualmente. Così vale la pena ricordare che il termine genocidio – secondo la definizione data dallo specialista in Diritto internazionale Raphael Lemkin – implica «l'intenzione sistematica e duratura di voler distruggere una comunità etnica» [*11]. Pertanto il termine genocidio si riferisce a una distruzione deliberata di un gruppo etnico in quanto tale. È esattamente questo è ciò che significa genocidio, nel suo senso letterale. Però, insistere su delle precisazioni concettuali non è di per sé neanche "innocente" o "oggettivo", perché potrebbe servire al fine di relativizzare una situazione catastrofica, o di dichiarare che poi non è "così grave". Per poter criticare Israele, senza restrizioni, e mantenendo un "cuore puro" in relazione all'antisemitismo, il partito «Die Linke» ha deciso di non basarsi più sulla definizione di antisemitismo dato dall'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), riferendosi piuttosto alla definizione data dal "Jerusalem Declaration on Antisemitism" (JDA) [*12]. Per decisione del Congresso del Partito, Die Linke strumentalizza una definizione che appartiene al contesto di un discorso scientifico e che ha una funzione euristica. Visto nel contesto politico, questo diventa un marcatore di identità. Inoltre, Wolter menziona il problema della reificazione di simili definizioni, e dei loro limiti: essi non possono rendere giustizia ai processi e ai cambiamenti sociali visti nel contesto in cui si articola l'antisemitismo [*13].

- La "fame" come Strategia militare?
Uno dei principali punti di discordia è rappresentato dagli aiuti alimentari. Appare indiscutibile che, dopo il collasso del "cessate il fuoco", a marzo, a Gaza arrivano meno aiuti umanitari urgenti. Al di là di quella che è una disputa sulle statistiche e sulle definizioni su cui esse si basano, si tratta di una situazione disumana e scandalosa. Sebbene Hamas sia il principale responsabile della situazione disperata della popolazione, poiché, da un lato, una simile situazione è conseguenza del suo attacco terroristico e, dall'altro, Hamas strumentalizza la sua stessa popolazione nella lotta per la distruzione di Israele; Israele si trova però di fronte all'accusa di voler affamare la popolazione di Gaza, e di ordinare di spara sulle persone in cerca di aiuto. Philipp Peyman Engel, enumera su "Jüdische Allgemeine", quanto Israele abbia reso possibile e realizzato in termini di aiuti, e critica il fatto che questo non viene preso in considerazione in quella che è la «guerra dell'informazione e delle immagini» [*14]. Centinaia di tonnellate di aiuti umanitari marciscono al sole sul confine con Gaza, perché l'ONU e altre organizzazioni non le hanno raccolte. Inoltre, l'Egitto ha completamente chiuso il confine con Gaza, e da quel lato non consente la consegna di aiuti umanitari a Gaza. Un altro problema, legato al fame, è quello relativo alla distribuzione di cibo e medicine precedentemente organizzata sotto la responsabilità dell'ONU, nel momento in cui gli aiuti umanitari sono stati dirottati da Hamas, per nutrire i propri combattenti, o venduti a prezzi esorbitanti per rifinanziare la propria organizzazione. Per contrastare Hamas e i suoi collaboratori, è stata creata la "Gaza Humanitarian Foundation!" (GHF). Il suo obiettivo è quello di distribuire cibo senza passare attraverso Hamas. Durante la distribuzione si sono verificate ripetutamente scene caotiche che hanno provocato morti. A contribuire al caos, è il sabotaggio da parte di Hamas riguardo la distribuzione attraverso GHF; al fine di rafforzare la vecchia pratica della distribuzione. Per fare questo, mette sotto pressione le persone che ricorrono all'aiuto di GHF. Nelle lotte intorno ai centri di distribuzione, l'esercito israeliano ha ferito a morte delle persone, con colpi di arma da fuoco, in un centro di distribuzione. Nei media tutto questo circola sotto il titolo «Israeliti sparano alle persone che chiedono aiuto». Più vicina alla verità potrebbe essere però la versione secondo la quale i soldati, in una situazione caotica e che sembrava minacciosa – paragonabile ad altre situazioni militari – sono stati sparati dei colpi di avvertimento in direzione di una folla [*15]. Anche questo è più che problematico, e dovrebbe essere criticato, ma è in qualche modo diverso dalle spiegazioni che suggeriscono che l'esercito israeliano spara indiscriminatamente a delle persone che cercano aiuto. Le situazioni sono caotiche e difficili da sbrogliare. Riflettono l'anomia che si può osservare anche in altre regioni in declino del sistema mondiale globale, ma che però difficilmente ricevono l'attenzione dei media. Le "atrocità" sono ovviamente peggiori e più scandalose quando possono essere associate agli ebrei, o allo Stato ebraico. È importante chiarire che, in queste percezioni e rappresentazioni, a essere virulento è lo stereotipo antisemita del "doppio standard". Il problema sorge quando questo è strumentalizzato per giustificare in modo semplicistico le azioni dell'esercito Israeliano. Allo stesso modo, le azioni discutibili di Hamas non possono essere utilizzate come giustificazione immediata per le azioni dell'esercito israeliano, né possono esonerare il governo israeliano dalla sua responsabilità umanitaria. Quest'ultimo ha il la responsabilità di migliorare la distribuzione dei prodotti alimentari e gli aiuti umanitari, ed evitare vittime civili.

Confusione politica
Intanto, su iniziativa del Regno Unito, abbiamo visto i governi di 26 paesi che hanno chiesto la fine immediata della guerra a Gaza. Solo i cinici, possono ignorare l'impulso umanitario che risuona in una simile richiesta. Allo stesso tempo, è degno di nota che altre richieste come quella di «cessate il fuoco», o «il ritorno al vecchio sistema di distribuzione degli aiuti umanitari», «il rispetto del diritto internazionale», «la fine dei piani di reinsediamento», ecc., siano tutte dirette principalmente a Israele. Hamas, con i suoi piani per distruggere Israele, con la sua strategia terroristica a tutti i livelli del conflitto e la sua repressione contro la popolazione palestinese, ne rimane fuori. Anche il governo federale tedesco – che, tra l'altro, notoriamente non è particolarmente scrupoloso per quel che riguarda la fornitura di armi ai regimi terroristici o alla militarizzazione – limita la sua fornitura di armi a Israele, indipendentemente dalla ragion di Stato tedesca. Il diritto internazionale viene invocato all'unisono. Già anche negli anni precedenti, il diritto internazionale veniva trattato in modo molto arbitrario. Ricordiamoci, ad esempio, per esempio, la guerra della NATO nell'ex Jugoslavia, o la guerra degli Stati Uniti in Iraq. Con la progressiva disintegrazione delle strutture egemoniche e con gli associati conflitti tra le grandi potenze, che si contendono sempre più aspramente le rispettive basi economiche e lottano militarmente per la propria influenza politica – sia con la guerra, sia attraverso la militarizzazione, spinte dall'obiettivo di tornare a essere «pronte per la guerra» –, il diritto internazionale diventa sempre più completamente obsoleto [*16]. La stessa cosa vale anche per quel che riguarda la soluzione dei due Stati, ripetutamente richiesta da diversi attori. Il suo potere apparentemente magico può essere sviluppato solo purché non venga demistificato dalla questione della provenienza delle risorse finanziarie per la costruzione di uno Stato nel mezzo di quello che appare come un collasso degli Stati, in un capitalismo in fallimento entro i suoi limiti logici e storici. A rimanere totalmente senza risposta, è la questione di come Israele possa sopravvivere in una situazione globale sempre più anomica, a fronte di quelle che sono tutte le minacce e le strategie di sterminio che continuano ad esistere; e questo nel contesto di una situazione di crisi globale che dà origine ad allucinazioni antisemite, fino ad arrivare all'allucinazione di un antisemitismo redentore. Che cosa induce gli attori politici a prendere posizione contro Israele, per quanto sia nel contesto della società civile, (quasi) senza dire una parola? Gli obiettivi e le strategie di Hamas? Perché non si fa alcuna pressione sui sostenitori del Hamas, per esempio, in Iran e in Qatar? Perché il governo federale tedesco non chiede il rilascio degli ostaggi di Hamas, sebbene tra loro vi sono anche dei cittadini tedeschi? Di fronte all'aumento dei conflitti globali, gli attori politici intendono rimuovere almeno questo conflitto dall'agenda?  È possibile che si possano permettere di agire in modo da ignorare Hamas e le sue vittime, poiché non riescono, o non vogliono, a resistere alla pressione pubblica mondiale dell'antisemitismo visto come forma di proiezione del superamento della crisi? sembra essere stato soprattutto il presidente francese Macron ad aver ceduto alle pressioni post-coloniali dell'opinione pubblica francese, quando ha riconosciuto la Palestina. Forse l'ignoranza su Hamas ha a che fare con il fatto che Israele viene ancora ritenuto responsabile, mentre che Hamas sembra invece essere al di là del bene e del male. In ultima analisi, il focus delle critiche e le delle richieste che vengono fatte a Israele, contribuiscono a legittimare Hamas e a delegittimare Israele. In fin dei conti, la strategia di Hamas funziona. Nel bel mezzo di un tempesta di indignazione antisemita, ottiene indirettamente ragione.  Il suo terrorismo ha pagato, quantomeno sui media, ed è stato premiato. Nell'opinione pubblica, la sua propaganda è stata ben accolta, così come sono state ignorate le sue strategie barbariche.

E alla fine: annientamento del mondo e autodistruzione di Israele?
Robert Kurz, nel suo libro "Weltordnungskrieg" (La guerra d’ordinamento mondiale) - pubblicato per la prima volta nel 2003 -  ha chiarito che «In un clima mondiale di concorrenza finalizzata al reciproco annichilimento, e di minaccia permanente all'esistenza sociale e, simultaneamente, di quella che è una precaria ricchezza monetaria speculativa - che può svanire in qualsiasi momento - quella che fiorisce è una diffusa volontà di annientamento, la quale agisce al di là di tutte le “situazioni di rischio” esterne, ed è altrettanto astratta e vuota di contenuto quanto lo è la forma sociale che costituisce la base del processo di valorizzazione del capitale.» [*17]. Tuttavia, un tale processo di crisi si trascina ormai da quasi 25 anni. La crisi del processo di valorizzazione del capitale, si aggrava nel contesto di tutti le cosiddette crisi multiple. Il motore dell'accumulazione gira a vuoto, dal momento che il Lavoro, visto come Il suo "carburante", si sta esaurendo sempre più. In tal modo, il vuoto metafisico del processo di valorizzazione diventa storicamente tangibile. Ma pur nel suo vuoto, il processo di valorizzazione del capitale continua a essere soggetto alla compulsione di continuare a proporsi nel mondo reale sensibile. Questa contraddizione non può essere risolta; a meno che non si arrivi a un sorpasso emancipatorio del capitalismo, dove questa contraddizione diverrebbe obsoleta. Ma se continua così, il mondo sensibile rischia di essere trascinato nel vortice dell'annientamento. Non è certo un caso che, nei processi di crisi attualmente aggravati e moltiplicati, sono presenti anche diversi temi legati alla morte: a partire dalla morte eroica, sostenuta dal disponibilità a dare la vita per la libertà e per la democrazia, passando per gli attentati suicidi glorificati come martirio, e fino alla delegittimazione dell'esistenza umana, così come avviene nelle discussioni malthusiane sulla politica demografica e sulla delegittimazione fondamentale della vita umana nell'anti-natalismo. La morte non viene limitata solo alle discussioni, ma la vediamo svolgersi realmente in mezzo alle crisi, e viene indirizzata principalmente contro i "Superflui", nel disperato tentativo di gestire la crisi del capitalismo e mantenere simultaneamente in vita il suo vorace cadavere, anche dopo morto. L'allucinazione antisemita, in quanto modo proiettivo di superare le crisi, ha accompagnato il capitalismo in tutte le sue crisi, fino allo sterminio degli ebrei nel nazismo. La crisi attuale, la quale ora si sta aggravando drammaticamente, si accompagna anche a un'allucinazione antisemita diretta contro tutti gli ebrei e, non meno importante, contro Israele in quanto Stato. Questo Stato venne creato per proteggere, a lungo termine,  gli ebrei dall'antisemitismo e dallo sterminio. Si tratta di un vero e proprio progetto per salvare gli ebrei, ma non sta al di sopra delle relazioni capitalistiche, essendo parte di esse ed essendo coinvolto nelle dinamiche della crisi capitalistica e nel suo potenziale di sterminio. In un simile contesto, la difesa di Israele, vista come progetto di salvezza degli ebrei, somiglia in qualche modo al tentativo di salvare il mondo e la vita delle persone dall'essere consegnati al vuoto del nulla. Allo stesso tempo la politica fondamentalista e di estrema destra di Israele rivela le potenzialità che spingono Israele verso l'autodistruzione. Se ciò dovesse accadere, l'autodistruzione di Israele verrebbe così a essere un'espressione dell'autodistruzione del mondo nel capitalismo; promossa a partire da un'allucinazione antisemita, che sogna la distruzione di Israele vedendola come la salvezza del mondo.

- Herbert Böttcher - Pubblicato il 2/9/2025 - fonte: EXIT!

NOTE:

[1] Benjamin Graumann, Die Juden sind allein in Europa [Gli ebrei sono soli in Europa], in: FAZ del 18.8.25, https://www.faz.net/aktuell/politik/inland/antisemitismus-in-europa-juden-fuehlen-sich-bedroht-110642849.html.

[2] Cfr. Udo Wolter, Moralischer Maximalismus [Massimo morale], in: Jungle World 26/2025, https://jungle.world/artikel/2025/29/kritik-des-antisemitismus-israel-solidaritaet-moralischer-maximalismus.

[3] Kölner Stadt-Anzeiger de 6.8.25.

[4] Cfr. Kölner Stadt-Anzeiger de 9.8.25.

[5] Kölner Stadt-Anzeiger de 15.8.25.

[6] Cfr. Herbert per maggiori dettagli Böttcher, Projektiver Antisemitismus, «rohe Bürgerlichkeit» und gesellschaftlicher Wahn [Antisemitismo proiettivo, "borghesia bruta" e allucinazione sociale], in: exit! Krise und Kritik der Warengesellschaft, n. 22, Primavera 2025, 50-85.

[7] Udo Wolter, vedi nota 2.

[8] Cfr. Contantin Wißmann, Tragödie und Farce, in: Publik-Forum n. 15/2025.

martedì 16 settembre 2025

Un po' di sano "benealtrismo" !!?!!! Massì, facciamolo

Nel cuore del Mediterraneo orientale, c'è una terra divisa da più di quarant'anni, dove un popolo è stato scacciato dalle proprie case, i villaggi svuotati, le chiese ridotte a stalle, il patrimonio culturale distrutto o trasformato in resort low-cost.
No, tranquilli, non stiamo parlando della Giudea o della Samaria. Ma, piuttosto, di Cipro, la terra dimenticata d’Europa, laddove l’occupazione è così talmente stabile oramai, che l’ONU ci ha costruito sopra il suo campo estivo. Nel 1974  – in una mossa piena di amore fraterno e di precisione militare – in risposta a un colpo di Stato sostenuto dalla giunta greca, la Turchia invase il nord dell’isola. È da allora, che il 37% del territorio cipriota si trova inesorabilmente sotto occupazione turca, e da allora sono stati sfollati più di 200.000 greco-ciprioti. Solo che ai tempi, non c’era alcuna telecamera di Al Jazeera, e così è come se la cosa non fosse davvero avvenuta. Fatto sta che, i greco-ciprioti, purtroppo per loro, non sono come i palestinesi...
Eppure, se Israele avesse fatto una cosa simile, sarebbe stato come se avesse occupato una fetta di Stato sovrano europeo, deportato la popolazione locale, e riempito la zona con dei coloni portati dal continente.
Pertanto, si sarebbe allora dovuto parlare di "apartheid", di "pulizia etnica", di "genocidio culturale". Ma invece, chissà perché, con Ankara, il massimo ottenuto, è stata una dichiarazione preoccupata da parte dell’Unione Europea, seguita poi, però, solo da una stretta di mano e un accordo sui migranti!
Visto che, a conti fatti, l’Europa, sì, è un po' preoccupata… ma certo non fino al punto di far saltare il patto che riesce a tenere i Siriani fuori da Vienna!
La Repubblica Turca di Cipro Nord, è l’unico Stato al mondo che neppure Google Maps prende sul serio!
Oh, certo, c'è anche un’entità statale - la Repubblica Turca di Cipro del Nord - riconosciuta però solo dalla Turchia, e da qualche appassionato di geopolitica alternativa.
Una specie di Disneyland ottomana, dove le regole internazionali sono assai facoltative, i monasteri bizantini diventano moschee (o casinò) e i giornalisti stranieri sono accompagnati gentilmente alla porta; con volo diretto per Istanbul.
Nessun embargo, nessuna risoluzione ONU! Le truppe turche ci sono lì da 50 anni, e ci rimangono in forze, ma gli è che a quanto pare, loro non sono “occupanti”, ma sono solo, come dire, affezionate al paesaggio.
Fatevi una domanda; ma così, solo per gioco: se domani - per esempio eh -  Israele mandasse 40.000 soldati a occupare Ramallah, progettando di rimanerci per i prossimi cinquant’anni, e ci piantasse sopra delle colonie, con tanto di bandiere e di supermercati kosher, quale pensate che sarebbe la reazione internazionale? Ma a Cipro, invece, la NATO si limita solo, durante le esercitazioni congiunte, a farsi i selfie, nel mentre che l’UE continua ad aprire nuovi fondi per “l’integrazione” del nord; e in questo scenario, gli attivisti per i diritti umani sembra che abbiano smarrito la loro bussola (o magari l’hanno messa in vendita su eBay per vedere se riescono a finanziare un altro documentario sul colonialismo israeliano.    
Va detto che, in questa situazione, i greco-ciprioti non tirano razzi, non scavano tunnel e non gridano slogan in TV.
Al massimo scrivono delle lettere indignate a Bruxelles, che poi vanno a finire nel cassetto “varie ed eventuali”. Forse dovrebbero imparare a gridare “libertà” in inglese o in arabo, e costruire qualche ONG grazie ai fondi del Qatar.
Magari, forse, allora li ascolterebbero. In fondo, la lezione è assai chiara: le occupazioni non sono tutte uguali. Anche fra di esse, ce n'è qualcuna che è più uguale delle altre.
Alcune riescono a indignare, mentre altre le si tollerano, e certe, come quella turca a Cipro, vengono perfino dimenticate.
Ma si sa, la morale internazionale è un po’ come le connessioni Wi-Fi in una tenda dell’ONU: c’è, ma va a intermittenza!

lunedì 15 settembre 2025

La Speranza !!

«Chi non ha visto la strada all’alba tra due file di alberi, tutta fresca, tutta viva, non sa cosa sia la speranza. La speranza è una determinazione eroica dell’anima, e la sua forma più alta è la disperazione sormontata. Si pensa sia facile sperare. Ma spera solo chi ha avuto il coraggio di disperare delle illusioni e delle bugie in cui ha trovato una sicurezza che erroneamente prende per speranza. La speranza è un rischio da correre, anzi è il rischio di tutti i rischi. La speranza è la vittoria più grande e più difficile che un uomo possa ottenere sulla sua anima... La speranza può essere raggiunta solo attraverso la verità, a costo di grandi sforzi. Per incontrare la speranza, bisogna essere andati oltre la disperazione. Quando si va al termine della notte, si incontra un’altra alba.»

- GEORGES BERNANOS, "Conférence aux étudiants brésiliens", Rio de Janeiro -

«La postura decoloniale non è forse il culmine di un’alienazione che non vuole morire? Rifiutare di rompere con il paradigma del padrone e dello schiavo non significa forse perpetuarne la logica? Come uscirne, se non rivendicando “a qualunque costo” – ed Elgas usa questa espressione deliberatamente – la possibilità di essere liberi? Essendo sé stessi e l’altro, particolare e universale, in un unico movimento? Rifiutando il rifugio di incerte consolazioni per essere pienamente nel mondo senza negare i tempi e i luoghi da cui proveniamo? “O mio corpo, fai sempre di me un uomo che si interroga!”, scrive Fanon alla fine del suo capolavoro "Pelle nera, maschere bianche". A leggere il suo "I buoni risentimenti", appare chiaro che Elgas ha imparato la lezione.»

- Dalla Prefazione di Sophie Bessis a: Elgas* "I Buoni Risentimenti. Saggio sul Disagio Postcoloniale", Traduzione dal francese di Lorenzo Alunni. Edizioni E/O 2023 -

* El Hadj Souleymane Gassama, noto come Elgas, è giornalista, scrittore e dottore in sociologia. Nato a Saint-Louis, è cresciuto a Ziguinchor, in Senegal, e vive da oltre quindici anni in Francia. Le sue ricerche si concentrano in particolare sulle questioni di identità, demografia e democrazia nel continente africano e sulle sue relazioni con la Francia.

domenica 14 settembre 2025

IO LI ODIO I "NAZISTI dell'ILLINOIS" ?!!??? (foto I.A.)

Credo che questa domanda ce la dovremmo porre tutti!

Oggi, il mondo sembra somigliare un po' troppo da vicino a quelli che furono i primi momenti a partire dal 12 dicembre 1969 (minchia, se ne è passato di tempo!), quando allora, che le bombe le mettevano gli anarchici, si doveva, vittime di un PCI che contribuiva a "creare il mostro", cercare di trovare il modo - sganciandosi da un Valpreda che li per li apparve essere troppo compromesso e in odore di provocazione - di salvare capra e cavoli.
«Un compagno non può averlo fatto!»; così cantò la prima canzone di risposta (si sarebbe dovuto aspettare, di li a poco, "La strage di stato", per riuscire a dire qualcosa di sensato da usare contro la marea...) Figuriamoci che per affermare che no, che anche i "compagni" possono fare cose terribili, abbiamo dovuto aspettare la voce sensata di Oreste Scalzone a ricordarci, in epoca facebook, che anche i compagni "sbagliano" (qui la faccina, se è il caso, mettetecela voi, ché il mio senso dell'umorismo è terribile!) e fanno cazzate. Oggi, invece,abbiamo a che fare con un altro "pilastro" novecentesco. Quello dell'odio. Trascorsi gli anni di Sanguineti (Edoardo, quello con una "t" sola, beninteso) e del "diritto all'odio" - che ci veniva ricordato persino sulle magliette di Derive Approdi (ne conservo anch'io una, e ogni tanto la indosso, per andare a dormire!) - oggi ci viene ripetuto da ogni dove che no, che "odiare" (il concetto viene espresso anche e soprattutto in inglese) non è cosa buona da praticare, in alcun modo. Sembra che su questo siano tutti d'accordo ormai, quasi una sorta di campagna antifumo, ma per il benessere del fegato! Piuttosto che dei polmoni…
Per poter sostenere la loro tesi, secondo cui Tyler Robinson non può essere un compagno (su Mangione - nella foto con Tyler fatta dalla A.I. hanno preferito calare il silenzio, per mancanza di argomenti e per manifesta coda di paglia, come a suo tempo hanno fatto in Italia per Cospito) arrivano così a propinarci persino brutte vignette fatte in proprio - come se fossero documenti storici accademici - per dimostrare la loro tesi, arrivando ad asserire che in una famiglia di destra nascono e crescono necessariamente tutti di destra, fino alla morte. Dimentichi, come sono, che questa cosa, mentre vale manifestatamente per personaggi come Di Battista, è stata, e viene continuamente, smentita dalla verità della Storia, laddove non è affatto raro che si diventi "compagni" proprio per reazione all'avere una famiglia fascista; anche perché di compagneria figlia di operai ne conosco ben pochi, e la cosa la dico in un consapevole empito di "individualismo metodologico", e da figlio di operaio! Insomma, la chiudo qui, vi sto dicendo che, contrariamente a quanto dicono Veltroni & Gad Lerner, quello che ha sparato "senza sbagliare", uccidendolo, su un "fascista dell'Illinois" (scommetto che il film è piaciuto a tutti, haters e non!!), ha fatto ciò che la sua coscienza gli ha suggerito, e che fareste bene a guardare ai precedenti, in tal senso. Volendo, potete pensare anche a voi stessi, e a tutte le volte che, per convenienza o altro, avete inghiottito l'ingiustizia - la frase sbagliata detta da qualcuno sul treno, al bar, sul posto di lavoro,dovunque - e ve ne siete stati zitti. Niente di più, niente di meno.

sabato 13 settembre 2025

Dedicato agli Irregolari !!

Vi racconto una storia. Prendetela così, come vi viene, in questi tempi... irregolari...

«Viva quel comunista che la fece così bella, impugnò la rivoltella contro Casalini…..»

  ...Nemmeno in questi pochi versi arrivati in qualche modo fino a noi - parte di una canzone, probabilmente scritta a caldo - si fa menzione del nome di Giovanni Corvi.
Destino comune, con ogni probabilità, a chiunque sia un senza-partito ("cani sciolti", verranno chiamati più tardi quelli come lui, in un'altra epoca) ed è per questo, forse, che continuerà a rimanere un senza-storia. Oggi, nel Web, a fare una ricerca, accade di leggere che la qualifica di "comunista", o di "socialista", è stato il "nemico" ad affibbiargliela. I comunisti, gli anarchici, i socialisti hanno preferito - ogni volta che ne hanno accennato - considerarlo come un esaltato, se non propriamente uno squilibrato.
E per lo più è stato cancellato, quel Giovanni Corvi, operaio, carpentiere, nato a Teglio, in provincia di Sondrio, nel maggio del 1898. S'era fatta tutta la Grande Guerra, e oltre. Congedato nel 1920, si era trasferito a Roma in cerca di lavoro.
Ma si vede che all'inizio non gli sia andata proprio benissimo - la ricerca di un lavoro -  tant'è che dalla schedatura della polizia risulta anche qualche reato minore contro il patrimonio e le persone. Ma è il 12 settembre del 1924, quando assurge agli onori della cronaca: su un autobus, estrae una pistola e fa fuoco contro Armando Casalini, deputato fascista e importante esponente delle Corporazioni, uccidendolo. Arrestato, dichiarerà di aver voluto così vendicare Giacomo Matteotti.

   Definito "comunista" dalla stampa, non ci sarà nessun partito politico, od organizzazione di sinistra, che se ne farà carico, così come nessun partito politico, od organizzazione di sinistra, s'era prima fatta carico di dare seguito alle proteste popolari che, in tutta Italia, erano sorte spontaneamente a partire dall'assassinio del deputato socialista. Così, un irregolare, incontrollabile, aveva anticipato di vent'anni le azioni dei gappisti. E farà la fine di tanti altri irregolari che avevano sfidato il regime. Di lui, ne viene disposto l'internamento presso il manicomio provinciale di Roma. Assolto dall'imputazione di omicidio «per totale infermità mentale», continuerà a essere continuamente dimesso e internato. Fra manicomi criminali e confino di polizia, fino a quando non sparirà, dopo essere stato prelevato dalla polizia nazista, in uno di quei tanti campi di concentramento repubblichini, venendo trasferito «verso ignota destinazione». Era Giovanni Corvi.

giovedì 11 settembre 2025

Marx: Il Manifesto 2.0 !!

La "Critica del Programma Gotha": un manifesto 2.0 !!
- di Gabriel Teles -

Nel 1875, Karl Marx scrisse un documento unico. Non si trattava di un trattato filosofico o di un saggio giornalistico,bensì di una critica approfondita, chirurgica, schietta e, ancora oggi, rimasta spesso trascurata. Mi riferisco alla "Critica del programma di Gotha", scritta come fosse una lettera-commento al progetto di unificazione, dei socialisti tedeschi, attorno a un programma comune. A prima vista, potrebbe sembrare quasi un episodio minore nella traiettoria del pensiero marxiano. Tuttavia, come sostiene il marxista indiano Paresh Chattopadhyay, si tratta di un vero e proprio «secondo Manifesto del Partito Comunista»: più maturo, meno pamphlet, ma non per questo meno rivoluzionario. Per comprendere la portata di questa formulazione, è necessario tornare al contesto. Nel 1875, i seguaci di Marx e i seguaci di Ferdinand Lassalle - una figura centrale dello Stato tedesco e del socialismo riformista - cercarono di fondere le loro organizzazioni nel neonato Partito Socialista Operaio di Germania (in seguito SPD, acronimo di Partito Socialdemocratico di Germania). Il programma che avrebbe sintetizzato questa fusione, era stato scritto per lo più da dei lassalliani, e recava in sé profondi segni di un socialismo statalista, legalista e conciliante. Marx, dopo aver letto il testo, rispose con la "Critica del programma di Gotha", inviato tramite una lettera a Wilhelm Bracke, ma che non venne mai pubblicato integralmente per tutto il corso della sua vita, e venne reso noto pubblicamente soltanto nel 1891. Ciò che Marx offriva in quel testo, non era solo una critica congiunturale. si trattava piuttosto della riaffermazione radicale dei fondamenti della sua teoria dell'emancipazione. In esso, Marx contestava, ad esempio, l'idea che «il lavoro sia la fonte di tutta la ricchezza e di tutta la cultura», sottolineando come una tale formulazione - cancellando l'apporto della natura e del contesto sociale - non facesse altro che ripetere feticisticamente il discorso borghese sul valore del lavoro. Ma più di questo, Marx rifiuta l'idealizzazione del lavoro, così come esso esiste sotto il capitalismo. Non si tratta di riscattare il lavoro salariato, ma di abolirlo!

Il lavoro come prigione (e non come virtù)
Marx ribadisce che il lavoro, nella forma in cui esso viene organizzato sotto il capitale, rimane inseparabile dall'alienazione. L'emancipazione umana, pertanto, potrà avvenire solo con l'abolizione della forma sociale del lavoro astratto, subordinato com'è alla produzione di valore. Ecco perché egli rifiuta la formula lassalliana dell'«equa distribuzione dei frutti del lavoro», dal momento che tale formula conserva, alla sua base, la struttura dello sfruttamento. Il punto è cruciale, e molte letture riformiste del marxismo insisteranno sulla difesa della redistribuzione del prodotto, ma senza mai toccare la struttura della produzione. Marx, al contrario, denuncia il nocciolo della dominazione capitalistica: la separazione tra produttori e mezzi di produzione, il controllo del tempo della vita attraverso una logica di valorizzazione cieca e disumana, la subordinazione del fare all'avere. Nella fase più alta del comunismo – che egli si limita ad abbozzare – Marx propone che il lavoro cessi di essere "un mezzo di vita" e divenga la "prima necessità vitale". Ciò significa, in termini concreti, la riconciliazione tra attività e pienezza, tra il fare umano e la libertà. Un lavoro che non sia più dettato dalla sopravvivenza, o dalla coercizione del valore, ma dall'autorealizzazione degli individui. È importante sottolineare: in Marx non troviamo esattamente alcuna distinzione tra "socialismo" e "comunismo"; come se essi fossero due regimi, o due modi di produzione distinti. Questa scissione, molto presente nelle letture successive – specialmente in quella del marxismo sovietico – non corrisponde affatto alla concezione marxiana originaria. Ciò che Marx propone è una distinzione tra due fasi del comunismo: una fase iniziale, ancora segnata da alcune tracce della vecchia società (come il principio distributivo di "uguale diritto" proporzionale al lavoro), e una fase superiore, dove il principio di uguaglianza formale viene superato a partire dal soddisfacimento dei bisogni reali. Entrambe le fasi appartengono al processo di superamento del modo di produzione capitalistico, e alla costituzione della nuova socievolezza comunista. Pertanto, ciò che in Marx viene solitamente chiamato "socialismo", in realtà, no è altro che lo stadio inferiore del comunismo; uno stadio ancora condizionato dalle limitazioni ereditate dalla società borghese. Non si tratta di un sistema autonomo o permanente, quanto piuttosto di una fase necessariamente transitoria, che si completa solo con l'estinzione della forma-valore, dello Stato e della divisione del lavoro così come la conosciamo.

Il socialismo non è la gestione statale del capitale
Uno dei bersagli più duri della critica di Marx, è la concezione lassalliana dello Stato. Per Lassalle e i suoi seguaci, lo Stato poteva essere uno strumento neutrale di giustizia distributiva. Marx, tuttavia, mette in guardia: lo Stato non è un arbitro al di sopra delle classi, bensì una forma politica che corrisponde a certi rapporti di produzione. Nella società capitalista, lo Stato moderno è una forma di riproduzione della dominazione borghese. Aspettarsi che sia esso l'agente dell'emancipazione, sarebbe un'illusione fatale. In tal senso, la Critica del Programma di Gotha anticipa molti di quei dibattiti che sarebbero poi fioriti soltanto nel XX secolo, specialmente tra i marxisti critici dello statalismo sovietico. La denuncia del feticismo di Stato, la difesa dell'autogestione dei produttori associati, il rifiuto della centralizzazione burocratica vista come via al socialismo; tutto questo lo si trova, in embrione, in questo breve testo del 1875. Questo aspetto della Critica del Programma di Gotha appare essere particolarmente scomodo per quei progetti "di sinistra" che ancora ripongono speranze nella conquista dell'apparato statale, visto come via di trasformazione. Marx non solo rifiutava la neutralità dello Stato; ma egli denuncia la sua forma strutturale, in quanto separata e contraria all'autodeterminazione popolare. Lo Stato, nella società capitalistica, esiste per garantire la riproduzione delle condizioni di sfruttamento, per quanto ciò avvenga sotto le spoglie del cosiddetto "interesse generale". La sua burocrazia, le sue leggi e i suoi meccanismi di coercizione non sono strumenti vuoti, bensì forme sociali specifiche che esprimono la scissione tra lavoro e controllo, tra produzione e decisione. Marx anticipa, in questo breve scritto, una delle impasse storiche della modernità politica: la tendenza dei movimenti di emancipazione a istituzionalizzarsi all'interno delle forme statali, che si supponeva che invece essi superassero. La critica di Marx allo Stato non è funzionalista, non si limita a sottolineare che lo Stato è "controllato" dalla borghesia,  ma va più a fondo, affermando che lo Stato è - nella sua forma stessa - la negazione dell'autogestione e della libera associazione tra gli individui. Il problema, perciò, non sta solo in chi occupa lo Stato, ma consiste proprio nel fatto che esso separa strutturalmente i produttori dall'esercizio collettivo del potere. Quello che abbiamo visto, in molti casi, è stata solo la sostituzione della borghesia con una nuova élite politico-burocratica, mantenendo intatta la separazione tra popolo e potere. In nome del socialismo, sono stati ricostruiti gli stati autoritari, i partiti unici, la pianificazione verticale e la repressione del dissenso. E tutto questo in nome di un progetto che, per Marx, poteva invece essere realizzabile solo attraverso la fine dello Stato in quanto tale. Il cosiddetto "comunismo di Stato" rappresenta la negazione pratica di tutto ciò che la Critica del Programma di Gotha afferma: la necessità di un'autogestione generalizzata, la soppressione della divisione tra leader ed esecutori, la dissoluzione delle forme sociali ereditate. Leggere oggi la "Critica" significa quindi affrontare una sfida teorica e politica di prim'ordine. In tempi di ricostruzione della critica anticapitalista, la tentazione di salvare lo Stato, visto come strumento di giustizia, riappare in nuove forme: come "Stato sociale", "neo-sviluppismo" o "governo progressista". Ma Marx avverte: senza la trasformazione radicale delle forme sociali che sostengono lo Stato – il lavoro alienato, la proprietà privata dei mezzi di produzione, la divisione tecnica e politica del lavoro – non c'è emancipazione. C'è solo la gestione della barbarie.

Perché lo ignoriamo (ancora)?
La domanda che sorge spontanea è: perché questo testo, che possiede una tale densità teorica e politica, viene così poco letto? Una possibile risposta è scomoda: la Critica del Programma di Gotha non offre illusioni, non promette scorciatoie istituzionali, non si fida dello Stato, non addolcisce il lavoro. In tempi di politiche "di sinistra", che generano solo miseria capitalistica con una patina umanista, il testo di Marx suona come una provocazione. Inoltre, la Critica richiede una lettura più rigorosa della teoria del valore, del lavoro e dello Stato; temi che vengono spesso sostituiti da degli approcci moralistici o culturalisti da parte del marxismo contemporaneo. Non c'è modo di leggerlo senza affrontare la radicalità del comunismo, visto come una rottura totale, non solo con il mercato, ma anche con la forma statale, la forma lavoro e la forma legge. Forse è per questo che la Critica del Programma di Gotha rimane, ancora oggi, quasi una sorta di "documento maledetto" all'interno del corpus marxista. A differenza di testi assai più popolari - come il "Manifesto del Partito Comunista" o la Prefazione a "Per la critica dell'economia politica" -  questo scritto non si presta a interpretazioni concilianti né a usi istituzionali. Spinge il lettore e il movimento operaio a confrontarsi con le proprie illusioni: sullo Stato, sulla legalità borghese, sul lavoro in quanto virtù morale. È un testo che disarma le fantasie del riformismo. La difficoltà della sua ricezione è legata anche al fatto che esso richiede una rottura non solo politica, ma anche ontologica. Marx propone non solo nuove politiche o nuove istituzioni, ma un nuovo modo di vivere: un mondo senza lavoro alienato, senza valore, senza Stato, senza capitale. Questo radicalismo, ancora oggi, continua a fare paura, spaventa anche quei settori che si dicono marxisti, ma che si limitano a una gestione progressiva dell'esistente. È più comodo parlare di redistribuzione del reddito, o di espansione dei diritti, piuttosto che affrontare ciò che Marx ha effettivamente proposto: l'abolizione delle forme sociali fondamentali del capitalismo. Inoltre, il testo sfugge alle consuete categorie della politica moderna e non si inserisce né nel quadro della socialdemocrazia né in quello del marxismo-leninismo classico. La sua critica allo Stato lo rende indigesto a tutti coloro che credono nella via istituzionale; il suo rifiuto della pianificazione autoritaria lo allontana dalle esperienze del "socialismo reale". Ciò che rimane, è una critica tagliente e una scommessa strategica sull'autorganizzazione dei lavoratori, un'idea che è stata soffocata. tanto dalle armi del Capitale quanto dai decreti del Partito-Stato. Per tutte queste ragioni, rileggere la Critica del Programma di Gotha è più di un esercizio filologico. È un atto di reincontro con la dimensione più radicale del comunismo marxiano: quella che non cerca di migliorare il mondo del capitale, ma di superarlo. Nell'epoca della precarietà strutturale, della finanziarizzazione della vita e dell'automazione gestita dagli algoritmi, Marx ci ricorda che nessuna tecnica o Stato può sostituire l'azione cosciente e organizzata dei lavoratori stessi. L'emancipazione sarà opera loro – o non lo sarà.

Un Manifesto oltre il Manifesto
Definendo la Critica del Programma di Gotha il «secondo Manifesto del Partito Comunista», Chattopadhyay non suggerisce una ripetizione, bensì un approfondimento. Il Manifesto del 1848 era un grido di battaglia, scritto nel pieno della rivoluzione. D'altra parte, la Critica, quasi trent'anni dopo, è una sintesi riflessiva e matura dell'esperienza del movimento operaio e delle insidie della prima istituzionalizzazione. Se il Manifesto proclamava che «i proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene», la Critica mostrava dove ora si nascondono queste insidie: nel lavoro alienato, nello Stato burocratico, nell'ideologia dell'uguaglianza formale. Ecco perché va letto, studiato, dibattuto e riportato al centro delle formulazioni socialiste del XXI secolo. Nell'era dell'automazione e dell'intelligenza artificiale, quando la promessa della liberazione dal lavoro nasconde l'intensificazione della sorveglianza e dello sfruttamento, il gesto di Marx ci interpella nuovamente: non basta ridistribuire i frutti del lavoro, ma è necessario trasformare il lavoro stesso, abolire la sua forma alienata e liberare il tempo umano dall'orologio della produzione di valore. Gli ingranaggi del capitale, si adattano rapidamente: gli algoritmi sostituiscono i capi, le piattaforme frammentano i legami e l'illusione dell'autonomia nasconde il controllo totale del tempo, del corpo e della soggettività. In un simile scenario, la Critica del Programma Gotha riemerge come un faro concettuale. Non è nostalgia, ma necessità: ci ricorda che l'emancipazione non riguarda l'espansione dei consumi, ma la distruzione dei meccanismi sociali che ci costringono a vivere per produrre. Una società comunista, come quella delineata da Marx, è una società in cui il fare cessa di essere uno strumento di sopravvivenza, e diventa espressione di una vita piena, nel corso della quale il tempo libero non è solo tempo di ozio, ma diventa tempo per sé stessi, per gli altri, per il creato. L'intelligenza artificiale, lungi dall'essere un nemico in sé, potrebbe essere un'alleata di un'umanità liberata dalla costrizione produttiva. Ma questo sarà possibile solo se si spezzerà la forma sociale che converte tutta l'innovazione in un’intensificazione dello sfruttamento. Ciò che è in gioco, quindi, non è la tecnologia in sé, ma la struttura sociale che la comanda. E questa struttura – fondata sull'estrazione del plusvalore, sulla separazione tra produttori e mezzi di produzione, sulla concorrenza e sulla proprietà privata – è precisamente ciò che la Critica ci insegna a identificare e combattere. Svuotando il lavoro di ogni significato, il capitalismo digitale ci dà paradossalmente l'impulso a pensare al suo superamento. Se le macchine svolgono già parte del lavoro necessario, perché mai continuiamo a essere sottoposti alla logica della scarsità e del sacrificio? Perché non riorganizzare la vita sociale sulla base dei bisogni umani e dei poteri collettivi? Questa è la domanda alla base della Critica del Programma di Gotha, che ritorna con forza in un'epoca in cui il lavoro perde centralità economica mentre acquista, simultaneamente, centralità esistenziale. Senza tale rottura non ci sarà alcuna rivoluzione. E non ci sarà rottura senza ascoltare, ancora una volta – e con la radicalità che richiede – il secondo manifesto. Un manifesto silenzioso, senza slogan, ma che pulsa in ogni riga della critica marxiana: liberarsi dal lavoro del capitale, liberare il tempo dalla merce, liberare la vita dall'astrazione della legge del valore. Leggere oggi la Critica del Programma di Gotha significa aprire, ancora una volta, la possibilità di Comunismo; non come un progetto di governo, ma come uno stile di vita a venire.

- Gabriel Teles - Pubblicato il 9/9/2025 su https://blogdaboitempo.com.br/

mercoledì 10 settembre 2025

Bloccare Tutto ?!!???

Il 10 Settembre, Critiche temporanee
- Il seguente testo è stato diffuso dai compagni di "Temps Critiques" alle 10 del mattino del 10 settembre 2025. Il testo si rivolge alla campagna per "Bloccare tutto il 10 settembre",costruita, con molta fanfara, per tutta l'estate. Mentre andiamo in stampa, le azioni si stanno ancora svolgendo in tutto il paese.
- by Ill Will -

L'appello a "Bloccare tutto" il 10 settembre 2025 è molto diverso dall'appello dei Gilets jaunes a occupare le rotatorie nell'ottobre-novembre del 2018. La sua origine non è chiaramente identificabile, anche se "Les essentiels", un piccolo gruppo freixista, sembra essere alla sua origine. Soprattutto, non contiene alcun riferimento che possa significare una o più collettività attorno a un emblema riconoscibile, come potrebbero essere stati i gilet gialli o gli ombrelli di Hong Kong. È come se l'umore attuale fosse di rivolta, o almeno di rabbia o indignazione (è un discorso molto ampio), come se fosse tutto ciò che serve per trasmettere l'appello e abbracciare ogni possibile richiesta e modalità di azione, dalle più limitate, come staccare la spina dai dispositivi, alle più estreme, come circondare Parigi. In tutta questa vaghezza e gassosità, è facile dimenticare che non c'è un solo nemico dall'altra parte (chiunque sia il nemico principale: lo Stato e la sua polizia, il governo, Macron), ma tutta un'organizzazione di relazioni sociali a cui partecipiamo, volenti o nolenti, con la loro disposizione di dipendenza e sedimentazione reciproca gerarchica, e che struttura il dominio in un modo molto più complesso di quello che opporrebbe "loro" e "noi", come se ci fossero solo due forze che si fronteggiano e fosse sufficiente che "noi" prendessimo l'iniziativa, da un momento all'altro, quindi – e perché non il 10 settembre?
    A posteriori, il movimento dei Gilets jaunes ha mostrato una sorprendente capacità di designare obiettivi che tenevano conto delle posizioni geografiche e sociali dei suoi partecipanti. Erano consapevoli della loro incapacità di bloccare veramente qualsiasi cosa, perché erano consapevoli della loro relativa estraneità al rapporto tra sfruttamento e produzione. I luoghi scelti per l'occupazione costituivano quindi non un nodo di produzione ma un luogo di circolazione di cui chiunque poteva appropriarsi, anche solo temporaneamente, o almeno deviare la propria destinazione (da scambi di flussi a scambi di parole, senza che ciò fosse formalizzato nel discorso fine a se stesso, come talvolta accadeva per Nuit debout, né nel gergo caro ai "radicali"). In breve, hanno trasformato concretamente la loro debolezza in un punto di forza, piuttosto che semplicemente esibire questa debolezza sotto gli occhi di tutti, come fecero all'epoca i fautori della falsa "convergenza delle lotte". La forza dei Gilets jaunes è stata, tra le altre cose, quella di mantenere un equilibrio tra l'azione diretta, la libertà di parola ma misurata (le questioni divisive sono state il più delle volte messe da parte o secondarie) e la riflessività quotidiana del movimento su se stesso. Non si è mai persa nelle erbacce del discorso, né si è impegnata in un dialogo con le autorità o i media – da qui la sua relativa irriducibilità, e il fatto che non c'è mai stato nulla da negoziare.
    Qual è la situazione oggi? I motivi per essere arrabbiati sono ancora lì, e persino amplificati. Non abbiamo molte informazioni affidabili sulle persone dietro l'appello del 10 settembre, ma quello che sappiamo per certo è che non hanno modo di "bloccare tutto", a meno che i camionisti non entrino in azione. Al contrario, durante la crisi sanitaria, abbiamo visto che le frazioni di dipendenti o altri lavoratori improvvisamente designati come essenziali lo erano proprio perché la loro attività è continuata durante la crisi e, in confronto, l'attività provvisoria di altri è cessata. Secondo alcuni sondaggi, come quello di Le Monde del 2 settembre 2025, l'iniziativa è particolarmente radicata nelle città di piccole e medie dimensioni, meno nelle metropoli, che sono sia comuni ai Gilets jaunes – un movimento poco urbano – sia diversi da essi, poiché non riguardano essenzialmente le periferie. Gli operai e i pensionati, due gruppi centrali tra i Gilets jaunes, sono sottorappresentati. Al contrario, i dirigenti, gli studenti delle scuole superiori e le persone economicamente inattive sono sovra-rappresentati. E' guidata meno dall'esperienza vissuta della precarietà economica che da una forte politicizzazione della sinistra, anche se vuole essere autonoma dai partiti e non adotta la grammatica dell'azione propria dei sindacati. A questo si aggiunge il desiderio di impegnarsi "per gli altri", che sembra motivare la loro mobilitazione. Ora, anche se realmente esistono degli "altri", essi non costituiscono a priori il "bersaglio" privilegiato della frangia politicizzata, che ragiona solo in termini di "cause" piuttosto che di situazioni concrete (la questione del potere d'acquisto appare solo indirettamente, attraverso la volontà di combattere le disuguaglianze sociali; e la critica allo Stato-consumismo appare rischiosa se, allontanandosi dal suo originario inquadramento di decrescita, finisce per unirsi a una critica più ampia dell'intervento sociale dello stato, come si può vedere con la proposta di nuovo bilancio, la priorità del debito del governo, la restrizione dell'assistenza medica agli stranieri, ecc.). In breve, questa preoccupazione volontaristica rischia di ricevere poca ricompensa: una leadership senza esercito.
    Questa esternalizzazione non si manifesta qui in un appello a bloccare gli spazi pubblici, come nelle rotonde o nelle manifestazioni di piazza, ma piuttosto nell'organizzarci in modo da poter fare tutto da casa e alle nostre condizioni, assecondando l'idea che siamo noi a dominare le macchine piuttosto che loro a dominare noi. L'idea è quella di bloccare individualmente il "sistema" economico, come se fosse qualcosa di esterno a noi. Prima di tutto, è una concezione di un popolo senza macchia che non può fare a meno di evocare brutti ricordi (*1); finge anche che questo "popolo" si sia già messo in moto grazie alla sua capacità di "hackerare" le micro-tecnologie. Mentre alcuni (es. Paolo Virno [*2]) si vantano della presunta "intelligenza collettiva" dei movimenti, che hanno già incorporato l'intelletto generale, e, perché no, l'IA già che ci siamo [*3], basta a far dubitare della sua presunta "autonomia", perché qui siamo ben lontani dalle originarie tesi operaiste che Virno rivendicherebbe come proprie.
    L'appello a uno "sciopero dei consumatori" si aggiunge a questa esteriorità e indica le origini sociologiche dei promotori della campagna, dato che una percentuale relativamente ampia della popolazione ha già "scioperato" contro le vacanze e qualsiasi cosa che non sia l'acquisto di beni di prima necessità. Allo stesso modo in cui l'imposizione dell'articolo 49.3 da parte del governo ha affogato il movimento pensionistico del giugno 2023 sotto un diluvio di argomenti democratici avanzati da forze che hanno poco a che fare con il movimento stesso, il movimento del 10 settembre ha già compiuto l'impresa involontaria di essere affogato, prima ancora della sua possibile schiusa, sotto i tentativi di infiltrarsi nelle forze politiche (i partiti dell'ex "nuovo fronte popolare" e i vari gruppuscoli della "sinistra" di sinistra") o sindacati (SUD), che hanno giurato di non farsi ingannare una seconda volta, dopo la loro cecità nei confronti del movimento dei gilets jaunes.
    La "indeterminatezza" di cui alcuni [*4] parlano è pertanto assai più bassa di quanto non fosse con i Gilets jaunes; per quanto riguarda la questione del suo potere, essa non può essere valutata in assenza di una reale messa in moto di ciò che è, per il momento, solo un appello e non un movimento. Oggi c'è una certa confusione tra quello che un tempo si chiamava "movimento sociale" – anche nelle sue varianti di "nuovo movimento sociale", dal 1986 in poi, per esempio in Francia con il movimento dei macchinisti e degli infermieri, durante il quale il filo rosso delle lotte di classe non era ancora stato tagliato (i coordinamenti hanno temporaneamente soppiantato i sindacati) – e movimenti come quelli emersi dalla seconda metà degli anni 2010 in poi. Seguendo le orme di Stéphane Hessel, l'iniziativa "Nuit debout" ha promosso l'indignazione e il parlare in pubblico attraverso le tendenze cittadine; i Gilets jaunes, dal canto loro, esprimono l'immediatezza di una situazione di stallo e di un'azione diretta, seppur con un graduale riferimento alla Rivoluzione francese che storicizza e politicizza il movimento dall'interno, piuttosto che attraverso l'intervento di forze esterne. Nonostante le critiche che gli sono state rivolte [*5], la promozione del RIC [un'iniziativa per i referendum] in ultima analisi una funzione della tendenza creativa istituzionale del movimento, piuttosto che segnalare una volontà di istituzionalizzarsi; insomma, si cercavano pratiche di democrazia diretta che si trovino al di fuori delle forme custodite nelle lotte proletarie storiche. Questa tendenza controbilanciava una tendenza al degagismo [*6], il quale è presente anche nell'appello odierno, che sembra combinare il cittadinismo e il populismo di sinistra (cfr. il che spiega il suo pieno sostegno da parte di La France Insoumise). Altrettanto dubbia appare l'idea che questa "indeterminatezza" alla fine rafforzi il potere; infatti, il potere presuppone una forte determinazione - come abbiamo visto nella reazione dello Stato -  a qualsiasi forza che lo minacci realmente (i Gilets jaunes in Francia, la criminalizzazione delle lotte altrove). I gilets jaunes hanno acquisito questa forza non dall'indeterminatezza della loro composizione di classe e dall'eterogeneità delle loro rivendicazioni, bensì dalla loro azione, dagli scontri con lo Stato che si sono verificati ovunque i loro vari collettivi di lotta siano intervenuti nello spazio pubblico.
    Come ha scritto Michaël Foessel su Libération il 4 settembre 2025, la mobilitazione virtuale di un "On ne veut plus" [Non vogliamo più] dal basso corrisponderebbe così  a un "On ne peut plus" [Non possiamo più] dall'alto; una situazione che è stata storicamente definita all'inizio del XX secolo come costituente la premessa di una fase pre-insurrezionale, con la differenza che le parole hanno senso solo in un preciso contesto storico. Ci sono ragioni per dubitare di un «non vogliamo più» da parte della base, quando così spesso assomiglia invece a un «non possiamo più» (formare un collettivo, scioperare, ecc.). Per quanto riguarda il «non possiamo più» da parte di chi sta in alto, si tratta di un particolare governo con una propria costituzione e un proprio sistema di voto, che pertanto presuppone due blocchi e non tre. Questo è solo un caso particolare di stallo politico nel contesto più generale di una crisi dei regimi democratici, ma non siamo nella Russia del 1917, quando Lenin pronunciò la sua famosa citazione. Tuttavia, pur criticando i media mainstream, i promotori non esitano a fare affidamento sui loro metodi, così come su quelli dei politici: l'effetto pubblicitario non è reale, ma genera un effetto reale, come avrebbe detto Foucault. Ospedali e cliniche hanno cancellato le operazioni originariamente previste per il 10 settembre. Per quanto riguarda coloro che potrebbero, se volessero, mettere in atto blocchi significativi, essi hanno invece indetto uno sciopero per il 18 settembre, non volendo confondersi, e perdere così la potenziale leadership di ciò che esiste solo come progetto. A prima vista, le speranze che hanno i sindacati di firmare una sorta di nuovo accordo del 13 maggio (1968), quando il movimento (fino ad allora composto essenzialmente da studenti) decise di elemosinare sostegno in cambio di uno sciopero generale, appaiono qui assai scarse; essi sarebbero senza dubbio contenti di una riduzione dei giorni festivi. In effetti, nonostante l'appello incidentale di Mélenchon a uno sciopero generale, le loro tattiche non implicano alcuna inversione sindacale rivoluzionaria, suggerendo piuttosto che hanno imparato la lezione della fallita lotta per le pensioni del 2023. Dalla fine dell'estate del 2023 fino ai giorni nostri, ciò che domina è infatti una paura diffusa da parte dei poteri costituiti, ma anche un sentimento di sconfitta e di disperazione tra coloro che hanno combattuto. In questo senso, il fuoco non sta affatto covando sotto la superficie quotidiana dell'abbandono quotidiano. Contrariamente a quanto sostengono oggi i sostenitori dell'ipotesi autonoma, i movimenti recenti – almeno nei loro risultati – non attestano il divenire autonomo dei movimenti sociali, a cui non hanno mai mirato fin dall'inizio, ma un'autonomizzazione del sociale stesso, nella misura in cui la vecchia questione sociale è stata invisibilizzata (per usare parole d'ordine), il che ha portato all'isolamento dei movimenti che, I media ci dicono che quasi tutti sostengono... a distanza. Qui, i clacson, là, i colpi di pentole e di padelle, non hanno più influenza di quanto lo abbia il tifo dei tifosi negli stadi di tutto il mondo... A meno che non si creda davvero che tutto sia solo uno spettacolo.

- Ill Will - 10/9/2025 - Apparso su https://illwill.com/ -
- Immagine di copertina: Un autobus viene incendiato su un'autostrada vicino a Rennes, in Francia, il 10 settembre 2025 -

Note:
1. Mentre i Gilet Gialli si muovevano in tutti i sensi, l'iniziativa attuale si rivolge a un popolo precostituito: «Il 10 settembre usciremo insieme. Una voce, un popolo. Uniti contro un sistema che ci schiaccia», recita lo slogan finale su un manifesto il cui inizio tradisce l'ideologia intersezionale resa popolare e applicata alle questioni sociali: «Tutti uniti. Non importa la tua religione, il tuo colore, il tuo quartiere, il tuo background. Neri, bianchi, arabi, credenti o no, lavoratori, disoccupati, pensionati, senzatetto, giovani dei progetti... Agricoltori, camionisti... Tutti nella nostra popolazione, mano nella mano».

2. Si veda l'estratto, pubblicato il 1° settembre 2025 su Lundi matin, dal testo di Virno "Virtuosité et Révolution", a sua volta tratto da Miracle, virtuosité et "déjà vu". Trois essais sur l'idée de "monde", L'éclat, 1996 (online qui). https://lundi.am/En-attendant-le-10-septembre-une-miraculeuse-exception

3. I promotori usano Telegram, ma anche Instagram, Facebook, X, Bluesky, Discord... Tutte queste reti consentono la diffusione su larga scala di migliaia di immagini, molte delle quali generate dall'intelligenza artificiale.

4. Vedi Serge Quadruppani, "Vers le 10 septembre ou la puissance de l'indéterminé", Lundimatin, 1 settembre 2025 ( https://lundi.am/Vers-le-10-septembre-ou-la-puissance-de-l-indetermine ); e la nostra recensione (J. Guigou) in: "Hasardeuse prédiction: Remarques sur l'article de Serge Quadruppani..." (online qui : https://blog.tempscritiques.net/archives/5226 )

5. Per queste critiche, si veda Temps critiques, "Dans les rets du RIC", marzo 2019. Online qui: http://tempscritiques.free.fr/spip.php?article397 .