martedì 5 agosto 2025

Lo Spensierato Antisionismo della Sinistra !!

L'anti -imperialismo e l'ideologia di crisi antisemitica
- di Robert Kurz -

Visto che i regimi petroliferi clericali, completamente anacronistici, così come i regimi petroliferi capitalisti finanziari, sono sempre stati un sostegno troppo precario, nella regione del petrolio centrale c'era bisogno di un'ulteriore potenza di sicurezza; e non era certo un segreto che lo Stato di Israele svolgesse in gran parte - per quanto non senza contraddizioni - questa funzione di stampella per "l'imperialismo collettivo ideale" occidentale, contro gli incerti "cantonisti" dei regimi arabi, minacciati nei loro paesi dal risentimento anti-occidentale, che devono pagare come prezzo amaro per la loro esistenza. È questa la sola ragione per cui Israele è stato protetto dagli Stati Uniti, e abbondantemente equipaggiato con gli ultimi sistemi di armi ad alta tecnologia, e massicciamente foraggiato dagli stati occidentali. Solo con i suoi propri mezzi, non sarebbe di certo economicamente sostenibili, quanto meno non al suo attuale livello di vita, che per i suoi standard Western High-Deploded  si distingue nettamente dai paesi arabi circostanti (secondo quello che, a dire il vero, lo stesso scarto crescente tra ricchezza e povertà in Occidente). Questi fatti economici e politico-militari sono stati - e continuano sempre a essere - ripetutamente invocati contro Israele, con aggressività furiosa, da posizioni "anti-imperialiste" tradizionalmente di sinistra. Queta designazione del nemico trova la sua origine nel contesto di un paradigma della "liberazione nazionale" che viene da lungo tempo evocata come forma della modernizzazione ritardata per la periferia Sud del mercato globale. Fino a oggi, Israele è stata considerata, nel contesto del Terzo Mondo, come uno sbirro imperialista e  come uno "stato poliziotto" che non dovrebbe nemmeno esistere. Il nazionalismo e l'espansionismo israeliano - svolto attraverso il movimento della colonizzazione e della conquista militare -   sono percepiti esclusivamente come l'incarnazione stessa del nazionalismo, mentre l'autodefinizione etno-religiosa dello Stato israeliano (che comprende la discriminazione ufficiale e giuridica dei cittadini non ebrei) viene intrepretata come l'incarnazione stessa del razzismo. La contro-potenza sovietica dei ritardatari storici, alla periferia del mercato mondiale, con la sua ideologia di legittimazione “marxista”, aveva sempre cercato di stringere un'alleanza con i regimi laici arabi modernizzatori e, sotto la rappresentazione del concetto di "sionismo", aveva costruito un'immagine nemica anti-israeliana che rispecchiava l'alleanza di Israele con il capitalismo e con l'imperialismo occidentali - «Durante la Guerra Fredda, Israele era un prezioso alleato militare (degli Stati Uniti), il suo esercito testava sistemi d'armamento, i suoi servizi segreti erano disponibili per quelle operazioni che la CIA non poteva eseguire» (Birnbaum 2002). Durante la Guerra Fredda, la più parte della sinistra politica, in tutto il mondo, ha fatto propria questa immagine nemica sotto il titolo di “antisionismo”. Israele è stato così del tutto assorbito nella costellazione dei conflitti che era allora dominante nei movimenti “nazional-rivoluzionari” anti-imperialisti del Terzo Mondo contro l'impero occidentale della Pax Americana. Il prezzo che Israele doveva pagare all'imperialismo, per la sua esistenza, è stato così trasformato in un argomento “antimperialista” contro questa esistenza stessa. Ciò ha tuttavia comportato l'occultamento di un aspetto del tutto diverso - e di una dimensione molto più significativa dello sviluppo capitalistico mondiale - che l'antimperialismo tradizionale non poteva e non voleva percepire a partire dalla propria prospettiva riduttiva. Questa visione, infatti, trascurava il ruolo decisivo svolto dall'antisemitismo nella formazione dell'ideologia borghese, e pertanto anche quello che costituiva un livello centrale di contraddizione dell'imperialismo stesso. Sebbene la sinistra avesse sempre stigmatizzato Auschwitz e l'Olocausto, come un grande crimine dei nazisti, essa aveva comunque minimizzato il ruolo dell'antisemitismo e - in ogni caso - non aveva voluto considerarlo essenziale, o costitutivo del nazionalsocialismo in particolare, e del capitalismo in generale. In ultima analisi, questa specifica mancanza di concetti può essere spiegata a partire dal deficit generale che ha fatto sì che la sinistra marxista, operaia e antimperialista - sia al centro che alla periferia - rimanesse limitata alle categorie sociali del rapporto capitalistico (del moderno sistema di produzione di merci): vale a dire, proprio a quell'opzione di uguaglianza giuridico-politica dei cittadini, partecipazione e cogestione della “classe operaia” e delle sue istituzioni, da un lato; e all'opzione di una modernizzazione di recupero e di una partecipazione autonoma al mercato mondiale come soggetto economico nazionale e statale, dall'altro. Da questa prospettiva, in cui (sia per i socialdemocratici che per i leninisti), tanto un limite oggettivo quanto una crisi delle categorie sociali capitalistiche apparivano impensabili, ecco che allora l'attenzione doveva concentrarsi sul contenuto e sull'orizzonte degli interessi socio-economici e politici (apparentemente razionali) delle ideologie. In altre parole: l'ideologia veniva attribuita al contesto degli interessi dei soggetti del sistema di produzione delle merci: “classe operaia” contro “classe capitalista”, “liberazione nazionale” contro “imperialismo”. Pertanto, nella migliore delle ipotesi l'antisemitismo moderno poteva quindi essere inteso come una sorta di manovra ideologica secondaria da parte della “classe dominante”, oppure come una specifica ideologia della "piccola borghesia", dovuta a interessi concorrenti, con la quale si voleva distrarre la “classe operaia”, o i “popoli oppressi”, dai loro reali interessi (teoria della manipolazione). Ancora una volta, veniva completamente ignorata la dimensione ideologica di quello che è il comune contesto sociale, trasversale alle classi e alle nazioni, e storicamente oggettivato e costituito da lavoro astratto, dal valore, dalla forma merce, dal denaro, dalla produzione aziendale, dal mercato (mondiale) e dallo Stato. Questo contesto appariva invece, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, come il fondamento ontologico insuperabile della socialità in generale.

   Quello che è rimasto così incompreso, è stato perciò il fatto che il moderno sistema di produzione di merci non solo riveste e maschera ideologicamente, all'interno di questa forma, degli “interessi” apparentemente e superficialmente divergenti; ma anche che dalle contraddizioni e dalle crisi della costituzione moderna che abbraccia tutte le categorie sociali nascono anche delle ideologie comuni e trasversali alle classi, le quali sono molto più significative e pericolose di quanto lo sia la legittimazione trasparente e superficiale degli “interessi” capitalistici nelle diverse classi, strati sociali e funzionari. In tal modo, tutti gli aspetti di quella che è la “visione del mondo”, così come i modelli esplicativi e le idee che guidano l'azione e che non sembravano derivabili dalla sociologia di classe, sono stati invece fraintesi in quella che è la loro portata, e sono stati liquidati in quanto semplici manovre diversive. La sinistra operaia e marxista, così come anche e soprattutto la sinistra radicale (e non da meno la sinistra anarchica), non si era nemmeno resa conto di aver accolto positivamente - in quanto “eredità” dell'ideologia protestante e illuminista, e della storia del pensiero che aveva portato alla formazione del sistema di produzione delle merci - degli elementi essenziali dell'ideologia borghese. Ciò includeva, in particolare, la santificazione del "lavoro" astratto, il quale, nel suo carattere di repressivo fine in sé stesso, si era direttamente trasferito, passando dalle idee del protestantesimo e del cosiddetto Illuminismo del XVIII secolo, nell'ideologia del movimento operaio. Proprio sostenendo il “lavoro” in quanto punto di riferimento centrale apparentemente opposto al capitale, la sinistra non stava facendo altro che contrapporre uno dei due stati del capitale all'altro. In tal modo, il “lavoro” non appariva per quello che è - ovvero la forma di attività specificamente capitalistica (“lavoro astratto” secondo Marx), vale a dire, un concetto che appartiene interamente al capitale, e che corrisponde a una relazione - ma come categoria ontologica dell'umanità. Da questa centralità ideologica condivisa con il capitale - a sua volta definito in modo puramente esteriore e sociologicamente riduttivo in quanto avversario - dovevano inevitabilmente derivare, da un lato, degli ulteriori punti in comune non ammessi, e, dall'altro, una totale sottovalutazione delle ideologie di crisi e di distruzione, trasversali alle classi sociali, rappresentate dal razzismo e dall'antisemitismo. Poiché il movimento operaio occidentale, i regimi orientali in fase di modernizzazione e i “movimenti di liberazione nazionale” del sud del mondo agivano solo ed esclusivamente nell’ambito delle forme sociali comuni al capitale, e affermavano per mezzo del “lavoro” la forma di attività capitalistica, essi potevano formulare solo una critica riduttiva della relazione capitalistica, la quale rimaneva ben al di sotto della concezione marxiana del capitale visto come rapporto feticistico irrazionale. Da un lato si lamentava solo ed esclusivamente la mancanza di capacità di regolamentazione statale del sistema di produzione delle merci, da parte della sua rappresentanza borghese, mentre dall'altro si criticava la subordinazione del “lavoro produttivo” al “capitale finanziario”, senza tuttavia riconoscere il nesso interno mediato (e, oltretutto, su una scala crescente di crisi) tra “lavoro produttivo” e “capitale finanziario” (capitale monetario fruttifero e speculativo). Questa critica al capitalismo, notoriamente riduttiva, ha sempre avuto dei punti di contatto con l'ideologia antisemita. L'antisemitismo, è riuscito ad affermarsi come potente ideologia di crisi della modernità, proprio perché ha esternalizzato e naturalizzato in termini socio-biologici quelle che erano le contraddizioni interne della società capitalistica, e di tutti i suoi soggetti: “Gli ebrei” vennero dichiarati essere rappresentanza negativa del capitalismo finanziario “improduttivo”, e vennero visti come l'incarnazione di tutti i fenomeni distruttivi della società moderna produttrice di merci, riprendendo delle attribuzioni pertinenti che erano già presenti fin dal Medioevo e dall'inizio dell'età moderna. Al contrario, il “lavoro onesto” e il “capitale produttivo” dovevano invece venire considerati come se fossero l'antitesi positiva; com'è noto, i nazisti contrapponevano ideologicamente il capitale “accumulatore” (“ebraico”) al capitale “creativo” (‘tedesco’ o “nazionale”). In tal modo, al posto di una critica delle forme reali, e trasversali alle classi, del sistema di produzione delle merci, subentrò l'attribuzione maligna, riferita a un gruppo particolare di soggetti definiti “razzialmente” e secondo la parola d'ordine: "Lavoro":  Valore, Merce, Denaro e forma del Capitale sarebbero stati meravigliosi e benefici, se solo non ci fossero gli Ebrei! Era questa l'attribuzione che pretendeva di “spiegare” il contesto di per sé irrazionale del sistema, a partire da una dimensione aggiuntiva di irrazionalità secondaria, e che diventava la spiegazione ideologica per eccellenza dell'omicidio.

   L'ideologia del movimento operaio e quella del “movimento di liberazione nazionale” anticolonialista, si sono sempre distinte dalle correnti apertamente antisemite, basandosi non sulla fantomatica “contrapposizione razziale”, ma sulla contrapposizione di classe sociale e  sulla contrapposizione degli interessi nazionali, tra economie coloniali o postcoloniali, tra Stati nazionali e imperialismo occidentale. Ma, come prima cosa, anche questa “ideologia di liberazione” sociale, apparentemente più razionale, rimase però, analogamente all'antisemitismo, sul piano soggettivo dei rapporti di volontà e di potere, senza toccare il piano della costituzione di questi soggetti (cioè, la loro formazione attraverso le categorie del sistema di produzione delle merci). A essere oggetto di critica, non era la negatività del contesto formale comune, e quindi anche la propria forma soggettiva, ma soltanto il “potere” negativo dei “contro-soggetti”: allo stesso modo in cui - nel caso degli antisemiti - si trattava solamente del potere soggettivo e della malvagità che venivano attribuiti alla “contro-razza ebraica”; nel caso del movimento operaio, c'era il potere soggettivo e il presunto “potere di disposizione” della “contro-classe sociale”; infine, nel caso dei “movimenti di liberazione nazionale”, avevamo invece il potere soggettivo e il potere di intervento globale delle potenze imperiali centrali. Dal momento che, come per l'antisemitismo, rimanevano tutti sullo stesso piano logico della soggettività di una volontà che veniva semplicemente “imposta”, e non derivata dal contesto sociale, ma risultante piuttosto da una critica del capitalismo che era altrettanto (sebbene non identica) riduttiva; anche il movimento operaio, il “movimento di liberazione nazionale” e la sinistra radicale non potevano rendersi conto di quali fossero i loro impliciti punti di contatto con l'antisemitismo.  La riduzione dell'orizzonte sociologico di classe, alla forma di interesse costituita dal capitalismo e all'ontologia sovrastorica del “lavoro”, hanno dato origine all'illusione secondo cui la “classe operaia” e i “popoli oppressi” fossero già “di per sé” delle forze trascendenti, indipendentemente dalla loro reale coscienza, il cui potere apparentemente “oggettivo” di superare il sistema doveva solamente essere richiamato attraverso le “lotte” sociali. La forma di concorrenza inerente alla loro forma soggettiva costituita, sembrava che fosse solo un comportamento meramente esteriore, imposto dal “contropotere” soggettivo, “non autentico” e fondamentalmente estraneo; quindi anche l'antisemitismo sarebbe stato perciò un'ideologia “estranea alla classe”, imposta solo per errore o per manipolazione. A questo modo di pensare, doveva sfuggire completamente il fatto che l'emancipazione sociale dal rapporto di capitale, è sì possibile in linea di principio, ma non lo è affatto “di per sé”, e già insita nella posizione “oggettiva” di determinate classi, o di altri soggetti moderni presenti nella struttura del sistema di produzione delle merci; un'illusione oggettivista, questa, così come quella formulata anche da Marx, in contrasto con la sua stessa teoria critica della modernità, vista invece come rapporto sociale feticistico. Piuttosto, bisogna dire che tutti i soggetti di questo sistema, senza eccezioni, e quindi anche la “classe operaia”, i “popoli oppressi” ecc., sono tutti ugualmente lontani dal transitare verso l'emancipazione da questa forma sociale negativa, solo in virtù di quella che è la loro forma (forma di riproduzione e forma soggettiva) costituita a partire dal sistema stesso. Contro questa forma, è possibile lo sviluppo di una coscienza critica radicale (una coscienza che la sinistra radicale non ha ancora raggiunto, per non parlare dei movimenti sociali); ma lo è solo attraverso l'elaborazione negativa delle esperienze di sofferenza e di soppressione che avvengono sotto questa forma, e non per una ragione ontologica positiva. Non esiste alcuna determinazione ontologica, che sia situata “al di fuori” o “al di sotto” del sistema (ad esempio nella forma del lavoro), e che possa pertanto essere utilizzata come se fosse una leva oggettiva per riuscire a rovesciare il rapporto sociale repressivo e distruttivo. Ragion per cui, le “lotte” sociali, e quelle di altro tipo, non sono di per sé emancipatorie, e non lo sono nemmeno le "lotte" della classe operaia, o quelle dei gruppi oppressi, e delle minoranze, ecc.

   Piuttosto, la "lotta" che avviene sotto la forma della concorrenza, è la forma di movimento generale del sistema capitalistico stesso. Ciò vale anche per le varie forme di "prosecuzione della concorrenza con altri mezzi", in particolare la violenza diretta. Superare la forma della concorrenza, cioè anche la propria forma soggettiva, richiede, come disse una volta Marx, una “coscienza enorme”, la quale non viene affatto suggerita dalle circostanze stesse. Quella che invece si sviluppa spontaneamente, è la concorrenza all'ultimo sangue all'interno della forma soggettiva comune costituita. La concorrenza tra lavoratori salariati e rappresentanti del capitale (management, associazioni imprenditoriali, ecc.) costituisce solo un livello all'interno delle molteplici forme di concorrenza. Ciò include naturalmente la concorrenza tra i singoli capitali stessi, tra i diversi settori, tra le fazioni e i gruppi di lavoratori salariati, tra le economie nazionali/gli Stati nazionali, ecc.; ma anche la connotazione “etnica” e razzista dei rapporti di concorrenza e, infine (come reazione estrema), la loro apparente trascendenza antisemita. Ma è proprio questo intreccio di una complessa rete di molteplici linee di concorrenza, a non essere affatto soggettivo-manipolatorio, quanto piuttosto oggettivamente fondato sulla forma soggettiva generale del sistema di produzione delle merci attraverso il lavoro, il denaro e lo Stato, mentre invece la fuga emancipatoria dalla «gabbia di ferro» di questa forma, non può affatto essere oggettivamente fondata nel senso di una determinazione del comportamento. Presupponendo il sistema di produzione delle merci e la sua forma di attività astratta e irrazionale come una determinazione ontologica insuperabile, potrebbe benissimo essere nell'interesse “oggettivo” dei lavoratori salariati caratterizzare la loro concorrenza in maniera nazionalista, razzista, ecc., oppure cercare di sfuggirle in modo fantasmatico attraverso l'ideologia antisemita. Di certo, nella storia del movimento operaio c'è stato anche qualcosa di simile a un desiderio trascendente di liberarsi dal giogo della concorrenza, il desiderio di una società solidale, al di là del sistema moderno. Questi momenti di eccessiva esuberanza, sono però rimasti tutti insoddisfatti, proprio perché i movimenti sociali della modernità non sono riusciti a concepire una tale trascendenza, e pertanto non sono stati in grado di agire di conseguenza. La critica riduttiva del capitalismo, svolto all'interno delle forme stesse del capitale, è rimasta necessariamente bloccata, anche nelle sue forme di concorrenza. Pertanto, il reciproco massacro dei lavoratori salariati nelle guerre mondiali, non è stato un tradimento, né un comportamento contrario alla loro natura ontologica, quanto piuttosto la conseguenza della loro forma soggettiva, affermatasi anziché criticata. Né i partiti politici dei lavoratori, né i sindacati (già questa divisione in una rappresentanza politica e una sociale, rimanda alla costituzione borghese del movimento operaio) sono mai stati in grado di riuscire a sviluppare una forza solidale che andasse al di là dei rapporti di concorrenza. L'abolizione della concorrenza, rimase parziale e limitata al tema dell'uguaglianza borghese, mentre l'integrazione nei rapporti di concorrenza in quanto tali è rimasta universale. Come già nella lotta quotidiana per gli interessi, regolata istituzionalmente, i movimenti sociali erano permeati dalla logica della concorrenza, così come lo erano anche nell'esplosione di violenza delle guerre mondiali tra le potenze imperialistiche nazionali. In questo contesto, il rischio sociale della concorrenza universale si manifestò direttamente come rischio di morte, rendendo così visibile qual era l'ultima conseguenza della moderna forma soggettiva generale. Lo stesso possiamo dire del potere dell'antisemitismo, e della sconfitta del movimento operaio europeo di fronte al fascismo e al nazionalsocialismo. Anche questa catastrofe è stata una conseguenza dell'essersi coinvolti nel sistema della concorrenza universale. Esiste addirittura un nesso diretto tra il proseguimento della concorrenza attraverso le guerre mondiali e l'emergere dell'antisemitismo in tutte le classi e strati sociali.

   I sindacati, i partiti marxisti e persino la sinistra radicale sono stati creati solo per risolvere il presunto conflitto “razionale” di quelli che sono degli interessi nella forma del sistema di produzione delle merci. Anche l'escalation militante della lotta, non ha mai abbandonato questo spazio di razionalità borghese. La sinistra ha ignorato il carattere intrinsecamente irrazionale del sistema, ed è avvenuto sempre per questo motivo, anche durante le crisi, che essa è stata regolarmente travolta dalla potente esplosione di questa irrazionalità. Mentre la sinistra, anche nelle crisi più gravi, voleva mantenere l'interesse “razionale” nella forma borghese, e nonostante il temporaneo crollo oggettivo di questa forma, l'antisemitismo faceva invece valere l'irrazionalità dell'interesse stesso, in quanto volontà di emarginazione e distruzione, e proprio per questo otteneva un potente effetto sociale. L'antisemitismo (a differenza del razzismo comune) non è una forma di concorrenza tra le altre, ma è l'ultima ratio della concorrenza, in una situazione nella quale lo svolgimento immanente e apparentemente razionale della concorrenza diventa senza alcuna via d'uscita. In una situazione del genere, la forma soggettiva borghese generale rischia di crollare. L'antisemitismo, promette una via d'uscita senza mettere in discussione quella forma soggettiva comune del sistema, e lo fa esternalizzando il problema in modo irrazionale e omicida. Così, nonostante, e anzi proprio a causa del  suo primitivismo intellettuale, può esercitare un'attrazione, trasversale alle classi, su quella che è una grande massa di individui costituiti capitalisticamente; dai disoccupati ai manager, dai contadini senza terra del Terzo Mondo ai principi del petrolio, dai meccanici agli investitori bancari, dalle madri single alle modelle, dagli studenti speciali agli intellettuali con formazione accademica. In altre parole: la sindrome antisemita costituisce l'ultima ed estrema "riserva ideologica di crisi del moderno sistema di produzione di merci". L'antisemitismo, si annida nella forma soggettiva borghese generale stessa; esso viene regolarmente richiamato nei momenti di crisi, e tanto più massicciamente quanto più violenta è la crisi. Così, l'epoca delle guerre mondiali e della grande crisi economica globale è stata accompagnata da un'ondata senza precedenti di antisemitismo. La Germania, che, nella sua specifica storia di formazione della nazione capitalistica, aveva incubato una versione particolarmente aggressiva ed eliminatoria della sindrome antisemita, con un particolare profondo impatto sociale, questa ondata aveva travolto le stesse istituzioni statali: qui, nella sua situazione di crisi economica mondiale, l'antisemitismo non venne utilizzato solo come valvola di sfogo per l'aggressività sociale repressa dei rapporti di concorrenza, ma venne elevato a dottrina di Stato, e fu realizzato come crimine contro l'umanità, nell'Olocausto. Non è affatto un caso che il nazionalsocialismo tedesco abbia contemporaneamente costituito una formazione sociale, in cui la pulsione di morte si manifestò in misura senza precedenti a partire dalla forma vuota della soggettività capitalistica. La logica dell'antisemitismo, e l'intrinseca pulsione di morte e distruzione della soggettività capitalistica, sono infatti strettamente correlate; il latente impulso irrazionale alla distruzione del mondo, nel vuoto metafisico del valore e del suo movimento di valorizzazione fine a sé stesso, si esprime nella sua forma più estrema sotto forma di desiderio di sterminio degli ebrei e, allo stesso tempo, come desiderio di autodistruzione, come desiderio di distruzione dell'esistenza fisica in generale. Dal punto di vista puramente esteriore, militare e politico-militare, i nazisti hanno perso la seconda guerra mondiale; ma in quella che finora è stata la realizzazione più ampia del desiderio di distruzione del mondo, che si annida nel profondo del capitale, essi hanno avuto un enorme successo nell'essere identificati con lo sterminio industriale degli ebrei e con l'autodistruzione organizzata. La sinistra - imprigionata in una razionalità borghese superficiale, incapace di criticare le forme capitalistiche di base, e quindi anche di criticare e liberarsi dalla propria forma soggettiva costituita dal capitalismo - non poteva che trascurare il vuoto di questa forma, la potenza demoniaca della pura irrazionalità in essa insita, e le sue conseguenze distruttive, e quindi anche l'essenza dell'antisemitismo moderno. Il rovescio della medaglia di questo deficit catastrofico, dopo la seconda guerra mondiale, è stato l'altrettanto deficitario e spensierato antisionismo della sinistra, la quale non voleva riconoscere lo Stato ebraico - nella sua dimensione storica mondiale e capitalista mondiale,  come conseguenza dell'antisemitismo moderno - ma ha sottomesso Israele al paradigma antimperialista dei movimenti rivoluzionari nazionali del Terzo Mondo, la cui critica al capitalismo era ancora più riduttiva di quella svolta dal movimento operaio occidentale.

- Robert Kurz - da «Der Antiimperialismus und die antisemitische Krisenideologie», in  "WELTORDNUNGSKRIEG. Das Ende der Souveränität und die Wandlungen des Imperialismus im Zeitalter der Globalisierung" - © 2003 Horlemann -

La forza delle Parole !!

«Conosco la forza delle parole
conosco delle parole il suono a martello
Non sono di quelle a cui plaudono i palchi
Sono parole per cui le bare  si slanciano
a camminare sui loro quattro piedini di quercia
Succede che le buttino via senza stamparle senza pubblicarle
Ma la parola galoppa con le cinghie tese
fa risonare i secoli e i treni strisciano
a leccare le mani callose della poesia
Conosco la forza delle parole. Sembra un niente
Un petalo caduto sotto i tacchi della danza
Ma l’uomo con l’anima le labbra le ossa....»

- Vladimir Majakovskij, Frammenti, 14 aprile 1930 -

Genocidio, un grido di propaganda politica
- Perché descrivere ciò che succede a Gaza con criteri moralistici non risolverà il conflitto. Anzi -
di Andrea Graziosi

Il 23 luglio Omer Bartov, uno storico di valore, ha scritto sul New York Times un articolo subito citatissimo in cui ha dichiarato di poter affermare, da studioso dei genocidi, che a Gaza Israele ne sta commettendo uno. Anna Foa si è schierata con lui sabato scorso sulla Repubblica e dichiarazioni dello stesso tipo si moltiplicano, generando sorpresa e angoscia. Avviare una discussione è difficile, e anche deprimente e forse inutile. Si tratta infatti di prese di posizione politiche tese soprattutto a influire sulla politica interna israeliana, che si inseriscono però in una situazione internazionale tesa e priva di luci.

   Avendo studiato a lungo le violenze categoriali di massa (dirette cioè contro gruppi specifici) e avendo dato un contributo agli studi sul genocidio, mi sembra tuttavia di poter offrire degli elementi per riflettere. Penso infatti che queste posizioni, sostenute anche da persone a me diversamente care, siano fondamentalmente sbagliate, soprattutto da un punto di vista scientifico, che è quello a me più vicino, ma anche, e tragicamente, da quello politico. Dal punto di vista scientifico esse rispecchiano la svolta, cominciata negli anni Novanta e oggi dominante nel campo degli studi sui genocidi, che ha portato a definire “genocidi” eventi, sia pure terribili, che non lo sarebbero nemmeno alla luce della sorprendentemente larga definizione che di genocidio hanno dato le Nazioni Unite nel 1948, una definizione che è, ricordiamolo, giuridica e non un concetto intellettuale di interpretazione della realtà. Questa svolta, che è anche il portato di logiche accademiche di espansione dei confini del campo, è testimoniata con chiarezza dalla recente Cambridge World History of Genocide, espressione di un fallimento scientifico causato dall’adozione di criteri moralistici e politici, che hanno a loro volta generato un fallimento che è paradossalmente morale oltre che scientifico.
    Come altro definire il sostenere – seguendo giuristi che fanno un altro mestiere – che sia un “genocidio” la pur tremenda esecuzione di migliaia di maschi bosniaci adulti a Srebrenica? O che lo siano processi storici durati centinaia di anni, con centinaia di attori o ideologie diverse, come quelli, certo disumani, accaduti nelle colonie europee, e non solo in esse? O che sia tale quanto è successo finora a Gaza, dove i morti provocati dalla guerra sono tanti (secondo Hamas 60.000 fino a oggi, di cui 40.000 nei primi 10 mesi seguiti all’invasione), ma dove la stragrande maggioranza dei palestinesi per fortuna vive, sia pure tra sofferenze acutissime, mentre due milioni di israeliani di origine araba vivono, certo magari con angoscia e timore, lavorano e votano nello stato “genocida”? Se questi sono esempi di genocidio, allora qualunque guerra o eccidio di massa lo è. Ma come qualificare allora gli orrori straordinari per cui il termine fu creato? Se Srebrenica e Gaza sono genocidi, cosa sono i quasi sei milioni di ebrei uccisi sistematicamente, ovunque fossero? Come definire i 3,5 milioni di ucraini fatti morire di fame in soli quattro mesi nel 1933; il milione e mezzo di armeni massacrati nella Prima guerra mondiale; i tre milioni di prigionieri di guerra sovietici lasciati morire di fame nel 1941-42 o i dodici milioni di tedeschi deportati e i 300-400.000 linciati del 1945-1946, tutti eventi che hanno evidentemente una natura diversa? E perché non sono genocidi il massacro e l’evacuazione di greci e armeni da Smirne nel 1922 o le tante violenze categoriali di massa, ciascuna con migliaia e anche decine di migliaia di vittime, che hanno punteggiato la storia mondiale degli ultimi secoli? Se tutto è uguale, se si può comparare l’evidentemente incomparabile, si perde ogni capacità di comprensione e discernimento, e l’interpretazione (e quindi la qualifica) dipenderanno solo dai rapporti di forza politico-ideologici, dalle passioni morali e dagli interessi, cosa forse inevitabile ma che conduce una disciplina scientifica appunto alla disfatta intellettuale. La categoria stessa di genocidio è diventata infatti inutile per capire, che vuol dire anche distinguere, tramutandosi in un potente strumento di lotta politica. E, cosa ancor più grave, la sua sacralizzazione si sta trasformando, per esempio in Ruanda (dove pure un genocidio c’è stato), in uno strumento di potere nelle mani della minoranza dominante.
    Prima di discuterne specificamente, ma non solo, di Gaza, va detto che qui è in corso una catastrofe umana che potrebbe avere esiti terribili, e che è anche una catastrofe politica, intellettuale e discorsiva. Le radici (e le colpe) storiche sono chiare e ne faccio un breve sunto, scusandomi per la sua lunghezza necessaria: uno stato palestinese non costituito per la contrarietà dei paesi arabi; paesi arabi che non hanno accolto i profughi palestinesi, al contrario di Israele che accolse invece gli ebrei cacciati da quegli stessi paesi, di numero circa equivalente; l’atteggiamento moralistico e irresponsabile del diritto internazionale dopo il 1948 e poi e soprattutto a partire dagli anni Ottanta; la propaganda sovietica e il comportamento del mondo comunista, che già dagli anni Sessanta gridava quello che ascoltiamo oggi su imperialismo, coloni, lotta di liberazione ecc. (si può leggere a proposito il saggio su Tablet di Izabella Tabarovsky, Zombie Anti-Zionism); le Nazioni Unite, che hanno nutrito e finanziato il problema dei rifugiati, senza fare nulla per risolverlo, anche per convenienze burocratiche oltre che per motivi politici; la destra e l’estrema destra israeliana, che hanno giocato un ruolo crescente e sempre più velenoso a partire dagli anni Settanta; la cecità dell’Olp che rifiutò gli accordi di Oslo del 1993 (definiti una Versailles da intellettuali irresponsabili ma acclamati come Said) e poi le proposte di Clinton nel 2000; Hamas, che è la principale responsabile della tragedia in corso, e Sharon che le consegnò Gaza anche per indebolire l’Olp; l’asse creato da Teheran; gli interessi, gli errori e i crimini di Netanyahu e le ideologie e le pratiche crudeli e perverse di una parte dei coloni, alcuni dei quali si potrebbero definire “aspiranti genocidi”; l’irrealismo di Trump e naturalmente la povertà intellettuale della sinistra moralista che legge la situazione in termini di opposizione binaria, palestinesi=Gaza contro israeliani=estremisti e coloni, ignorando Hamas (di cui sono paesi arabi e Olp a chiedere una resa che porrebbe fine alla fase acuta del dramma), i conflitti interni al mondo palestinese e a quello israeliano, e la posizione dei paesi arabi che sono oggi di fatto i principali alleati di Israele, anche se continuano a non volerne sapere dei palestinesi. Questo cocktail mortale ha condotto all’errore dell’invasione militare di Gaza, errore tuttavia forse inevitabile, dato che il massacro del 7 ottobre – che gridava “se possiamo vi ammazziamo tutti” – aveva chiaramente manifestato la volontà di Hamas di mettere fine allo stato di Israele (come oggi sappiamo, nei mesi precedenti i capi di Hamas tenesse riunioni su cosa fare degli ebrei nella Palestina liberata). Un problema spinosissimo e fonte di continue tensioni e sofferenze, che ha in Hamas il suo nocciolo e che era forse almeno in parte gestibile, si è così trasformato, per il coinvolgimento inevitabile di una popolazione civile che in parte collude con Hamas e in parte la subisce, in un problema dagli esiti potenzialmente catastrofici. Si tratta di una questione che fino al 1948 sarebbe stata probabilmente gestita con un esodo organizzato di massa, come successe nel Caucaso meridionale occupato dai russi nell’Ottocento, a Smirne, nei Sudeti o in Slesia, e in piccolo e in modo diverso anche in Istria, e che oggi rischia di degenerare in sofferenze inaudite a causa del combinato di interessi politici, retoriche nazionalistiche e moralismo irrealistico. Se ci si interroga sulle radici di quest’ultimo, è evidente che esse affondano nel moto di repulsione europea di fronte alla terribile natura delle guerre accese dal nostro continente nella prima parte del secolo scorso, un moto di repulsione diventato “occidentale” con la nascita, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, di un nuovo Occidente guidato da Stati Uniti allora ancora sostanzialmente europei, alle cui convulsioni terminali stiamo assistendo da circa quindici anni.
   Questa spinta iniziale però non basta a comprendere la forza e la pervasività di un fenomeno rivalitalizzato negli anni Ottanta dal collasso del socialismo. Nell’Italia di Berlinguer, come nell’Urss di Gorbachev, la vecchia ideologia fu sostituito da un nuovo insieme che trovava proprio nel moralismo (cioè in un elenco di buone intenzioni prive di teoria e quindi di operatività pratica) il collante che sostituiva il marxismo. Vale la pena di andare a leggere il discorso tenuto dall’allora ministro degli Esteri sovietico Shevardnadze all’Unesco a fine 1988, coi suoi appelli all’unità del mondo, alla scelta libera, al pluralismo politico e culturale, al dialogo e al diritto come sostituti della forza, alla pace attraverso la saggezza, alla forza della politica contro la politica della forza e alla supremazia del diritto internazionale negli affari internazionali. La “moralizzazione” della sinistra, e quindi di buona parte della intelligentsia occidentale derivano quindi dal fallimento ideologico delle sue teorie precedenti. E sarebbe bene ricordare che la benevolente ideologia globalista, che ha trovato nei diritti il suo nutrimento principale, è il frutto della catastrofe intellettuale della sinistra oltre che delle illusioni “neoliberali”. E’ in questo clima che il genocidio, un termine fino agli anni Ottanta riservato solo alla Shoah (era allora difficile persino far accettare che lo si potesse usare per il grande massacro armeno o per la carestia ucraina), cominciò la sua corsa verso una illimitata estensione. Era una corsa alimentata appunto dal moralismo, specie della sinistra; dalla possibilità di scaricare sull’Occidente colpe prima imputate al capitalismo; ma anche dalla pressione delle vittime di comportamenti crudeli che vedevano nel riconoscimento che sì, anche il loro era stato un genocidio, un risarcimento delle loro sofferenze e una potente arma di lotta politica, trasformando così paradossalmente il genocidio quasi in un segno di onore e privilegio.
   In questo quadro, un’Israele in larga parte convinta di essere l’unica vittima di una vero genocidio (in fondo il termine stesso era stato inventato da un giurista ebreo per parlare della Shoah) spicca per la sua quasi totale incomprensione dell’importanza dei discorsi nella politica, e specie in quella internazionale, dove almeno in quel che resta dell’Occidente l’opinione pubblica ha un ruolo di grande importanza. Netanyahu e i suoi alleati al governo, in particolare, hanno commesso un errore dopo l’altro, senza prestare alcuna attenzione ai bisogni della popolazione di Gaza (come è nella natura della loro ripugnante ideologia) ma anche agendo come se un problema discorsivo – vala dire la necessità di spiegare e legittimare le proprie scelte – non esistesse, un errore politico catastrofico che Israele pagherà a lungo. La sottovalutazione del problema ha però radici più profonde, legate alla Shoah e non solo: l’impressione è infatti che dietro vi sia talvolta un comprensibile ma sbagliatissimo atteggiamento che si potrebbe riassumere così: tanto lo sappiamo che ce l’avete tutti con noi (cosa del resto abbastanza vera) quindi che ci importa di voi… Questo atteggiamento, questo disprezzo della necessità di spiegare al mondo e farsi capire da esso porta alla rovina. Ad esso dà purtroppo oggi un contributo importante una sinistra ebraica che, presa dalla sua crisi di coscienza e dal desiderio di abbattere il male rappresentato dall’odiato Netanyahu, usa anch’essa il genocidio come arma politica, senza accorgersi di compiere così una scelta irresponsabile. Dato l’innegabile, fortissimo antiebraismo (un termine che sarebbe ora di sostituire a antisemitismo, per fare chiarezza, visto che semiti sono anche i palestinesi e gli arabi in generale) presente nel mondo, accusare gli israeliani di star commettendo un genocidio – cosa peraltro finora non vera se usiamo il termine in modo rigoroso, come è indispensabile, e non come arma politica – avrà probabilmente conseguenze catastrofiche. Si nutre infatti così un odio che già c’è, e si complica, non si facilita, la soluzione del terribile problema di Gaza.
   Israele rischia così una sconfitta che sarebbe prima di tutto politica e ideologica. E come sta perdendo il sostegno di parte delle élite e delle popolazioni europee potrebbe perdere quello degli Stati Uniti o del Canada. Già oggi, per esempio, nord-americani di origine ucraina cominciano, benché ancora sommessamente, a chiedersi se per ottenere che anche quello russo sia dichiarato un genocidio (cosa che non è grazie appunto alla resistenza ucraina, che ha trasformato un probabile genocidio culturale accompagnato da liquidazioni preventive di gruppi dell’élite ucraina in una sia pur terribile guerra), non convenga sostenere la tesi che ve ne sia uno in corso anche a Gaza. Ritorniamo così alla trasformazione del genocidio da strumento di analisi e interpretazione intellettuale a arma di propaganda politica. Contribuire a una soluzione la più umana possibile della crisi umanitaria di Gaza, impedendo che esso degeneri ulteriormente, richiederebbe quindi abbandonare il moralismo e il falso binarismo Israele-Palestinesi (ridotti a Gaza); vedere Hamas e le sue enormi responsabilità e fare pressioni per la sua resa; premere su Israele perché nutra la popolazione di Gaza e la tratti con dignità; e immaginare soluzioni politiche realistiche che non possono che passare da un accordo coi paesi arabi e dalla realizzazione da parte di Israele che nessuno può agire senza spiegare, se non a suo danno, che vuol dire anche fare i conti coi limiti che la morale – non il moralismo – ci impone.

- Andrea Graziosi - Pubblicato il 4/8/2025 su Il Foglio -

lunedì 4 agosto 2025

O Gassati o Nazisti !!!

"Sadici dal cuore puro. Sull'antisionismo contemporaneo", di Gérard Bensussan

«L'antisemita è un sadico che ha un cuore puro», scrisse Sartre.   
In questo libro, vengono esplorate le varie e diverse ambivalenze derivanti da questa proposizione. Si presenta come una riflessione sulla politica contemporanea, impegnata com'è a meditare sui significati del 7 ottobre 2023, e sugli sconvolgimenti politici, affettivi e ideologici che ne sono conseguiti. Esso intreccia più piani e livelli diversi: a partire dalle idee e dalle visioni storiche e teoriche - resesi necessarie a partire dalle innumerevoli falsificazioni relative alle nozioni di sionismo e di antisionismo, inframmezzate e mescolate alle diverse descrizioni dell'ingiusta solitudine inflitta dopo il massacro, così come dell'abbandono che affrontano oggi gli ebrei -  convoca, a sostegno di tutte queste analisi, anche concetti e nozioni quali la Sostituzione, il Paradigma, la Comparazione, la Biopolitica, la Tragedia, la Colpa, l'Innocenza.    
Il linguaggio filosofico, qui mobilitato, cerca di esprimere la specificità di un evento - gli omicidi di massa e i rapimenti del 7 ottobre – e di ascoltare e comprendere le risonanze di quella che è una Ripetizione eternamente nuova, eternamente inattesa ed eternamente ricominciata; vale a dire, la Ricomparsa e la Ripetizione - in quello che è l'antisionismo contemporaneo -  dell'Antisemitismo, che è in grado di immaginarsi gli ebrei soltanto secondo l'alternativa: o gassati o nazisti!

https://www.editions-hermann.fr/livre/des-sadiques-au-coeur-pur-gerard-bensussan

Fuori dal Lavoro ?!!???

Tempo astratto, lotta concreta
- di Christophe Magis* -

«È l'orologio, e non il motore a vapore, la macchina chiave dell'era industriale moderna.» [*1] Chi non è ancora convinto di questa affermazione, fatta a metà degli anni '30 dallo storico americano della tecnologia Lewis Mumford, probabilmente non ne dubiterà più, dopo aver visto l'ultimo film di Cyril Schäublin, "Unrueh" ("Unrest"). Esplorando la vita quotidiana di Saint-Imier - città a orologiera del Giura svizzero nel 1877 - la sceneggiatura è l'occasione per raccontare i movimenti operai della fine del XIX° secolo, in parallelo con le trasformazioni sociali e tecnologiche che hanno segnato gli inizi del capitalismo industriale. E se il film ci permette di vedere quale sia stata l'importanza progressiva assunta dalla ferrovia, dal telegrafo, dalla stampa, dalla fotografia o dalla pubblicità in tutte queste trasformazioni, è, naturalmente, l'orologio quello che si rivela come lo strumento decisivo, in una mise en abyme particolarmente eloquente. Prendendo come eroina Joséphine, una giovane operaia della fabbrica di orologi del villaggio, Schäublin ci mostra la condizione degli operai impiegati per produrre i meccanismi con cui i loro superiori poi valutano le loro prestazioni... vale a dire, per mezzo della produzione di questi stessi meccanismi. «Dobbiamo lavorare più in fretta!»: è questa la richiesta del caposquadra – prima di dettagliare quale fosse il modo migliore per afferrare le parti meccaniche di un orologio in modo da poter così risparmiare qualche secondo prezioso; cosa che potrebbe riassumere qual è l'ingiunzione generale della modernità industriale.

   Ogni secondo va reso efficace in un tempo che diventa esso stesso una matematica astratta per poter giudicare a cosa serve il tempo impiegato. Ma mentre si sviluppa una simile meticolosa disciplina del tempo, si costituisce simultaneamente e parallelamente un'organizzazione concreta della lotta contro questo dominio progressivo delle categorie astratte sulla vita sociale. Così, nelle officine, gli operai cercano di non essere troppo veloci nello svolgere i loro compiti, in modo da riuscire così a mantenere le ingiunzioni alla produttività, entro un perimetro di intensità sopportabile. Ogni pausa sigaretta, ogni scambio, è un'occasione per mantenere una socialità costruita intorno alle relazioni vissute in un tempo che così riacquista così la sua dimensione qualitativa. Esternamente, i loro movimenti sono organizzati a livello locale, così come fanno parte anche di alleanze internazionali di lavoratori e anarchici. Gli orologiai formarono cori, e misero in scena spettacoli per celebrare la Comune di Parigi, spietatamente repressa circa sei anni prima; si scambiano idee direttamente sulle schede elettorali per le elezioni cantonali; si organizzano lotterie a beneficio degli scioperanti impegnati in varie lotte in tutto il mondo. E tutto ciò che può continuare a essere parte di un'organizzazione tradizionale della società: serve come risorsa contro la svolta della razionalizzazione industriale e la reificazione che l'accompagna.

   Inoltre, tra i personaggi del film, vediamo il teorico anarchico Pyotr Kropotkin, geografo di professione, che esplora la regione per redigere una mappa e che non si accontenta certo della pianificazione territoriale imposta dai direttori della manifattura orologiera. Quando questa pianificazione vorrebbe attraversare l'intero luogo, come se esso fosse un gigantesco magazzino, assegnando a ogni appezzamento di terreno una lettera seguita da un numero, Kropotkin allora cerca di ritrovare, tra gli abitanti, quali invece erano i nomi tradizionali, utili a conservare la testimonianza di significati e di usi concreti. Sappiamo quanto la questione della misura astratta e eguale dello spazio, e soprattutto, del tempo, sia al centro del dispiegamento del capitalismo. La generalizzazione del sistema metrico, basato su uno standard del tutto estraneo alla vita sociale concreta — e che inizialmente corrispondeva a un decimilionesimo della metà del meridiano terrestre [*2] — ha finito per spodestare le antiche unità, che erano molto più legate all'esperienza, in quanto si riferivano in particolare al corpo umano (piede, pollice, cubito, ecc.), ma le cui definizioni - che potevano variare a seconda delle particolarità regionali - le avevano rese inadatte per essere inserite in un sistema di scambio generalizzato. La stessa cosa vale anche per l'imposizione di un tempo lineare astratto e regolare, il quale è arrivato a soppiantare le concezioni premoderne, le quali invece parlavano di un tempo variabile, a seconda dell'oggetto a cui esso si applica.

   Documentando in che modo la classe operaia emergente del XVIII° secolo abbia resistito a lungo all'imposizione delle nuove convenzioni temporali, lo storico britannico Edward P. Thompson ci ha mostrato fino a che punto la definizione del tempo e la sua organizzazione strutturino anche le dinamiche storiche della lotta di classe. In Europa, è stato l'uso progressivo del lavoro a costituire il passaggio da un tempo "orientato dal compito" in cui, per il lavoratore, «non c'era quasi nessun conflitto tra il lavoro e il passare del tempo della "giornata"» [3*] e il tempo "dell'orologio", indifferente all'esperienza concreta, caratteristico della disciplina industriale che causa il divorzio del lavoro dalle altre sfere della vita. Tutta questa transizione, punteggiata da conflitti, avvenne molto gradualmente – dalla fabbrica tessile del tardo Medioevo, che richiedeva molto manodopera; insieme al rafforzamento della perfezione della meccanica a orologiera, della morale puritana, delle teorie dell'economia politica e degli apparati urbani di repressione. Inoltre, nella Saint-Imier descritta da Unrueh, oltre al fatto che non meno di quattro misurazioni sono in competizione tra loro (l'ora della chiesa, del municipio, della fabbrica o del telegrafo), anche la polizia è onnipresente, nella persona di due gendarmi, la cui simpatica bonomia rende più diffusa, ma comunque patente, l'autorità pubblica di cui sono i custodi. Oltre alle operazioni di controllo e di repressione della popolazione, essi hanno anche il compito di impostare gli orologi della città.

   L'autorità sa anche essere più astratta. E per far sì che il tempo dell'orologio si imponga su larga scala, alla vigilia del Novecento, era necessaria anche la costituzione di una grande burocrazia amministrativa, di cui il film fornisce uno scorcio. In un'enorme sala, alcuni impiegati raccolgono, archiviano e documentano le prestazioni individuali dei lavoratori, progettando quelli che dovranno essere gli indicatori della loro produttività media, in base ai quali viene poi calcolata direttamente la retribuzione. Alcuni di questi dirigenti amministrativi, che misuravano al secondo i propri spostamenti attraverso la città, abbozzarono quella che poi sarebbe stata la figura di Frederick W. Taylor, il quale avrebbe spinto questa idea della razionalizzazione totale del tempo fino al parossismo, nella sua "organizzazione scientifica del lavoro"; e che, già in gioventù, contava ossessivamente perfino i suoi propri stessi passi [*4]. È stato così che la modernità industriale ha perfezionato le sue risposte alle esigenze economiche di prevedibilità del ciclo di rotazione del capitale, accompagnando la standardizzazione del tempo con una centralizzazione burocratica e una regolamentazione della sua distribuzione. E, al loro livello, anche le organizzazioni operaie hanno dovuto partecipare al movimento! Un passaggio del film - che ci mostra gli stessi dirigenti sindacali alla ricerca di nuovi mercati "orologieri" in cui investire (ad esempio, la nascente sveglia) al fine di mantenere la redditività per i datori di lavoro e, di conseguenza, per salvaguardare diversi posti di lavoro, altrimenti minacciati - illustra questa dialettica con finezza. Come ha mostrato Marx nelle prime pagine del Capitale, la produzione di merci, di cui il capitalismo costituisce la generalizzazione universale, induce una logica sociale specifica nella quale le particolari relazioni tra tempo e valore vengono  intessute attraverso la mediatizzazione del lavoro.

   Introducendo la nozione di "tempo astratto", Moishe Postone ha esposto molto chiaramente queste relazioni. Infatti, dal momento che il valore di una merce viene a essere determinato direttamente dal tempo di lavoro socialmente necessario, nella  media per la sua produzione, ecco che allora «il dispendio di tempo di lavoro si trasforma in una norma temporale che non solo è astratta, ma si oppone e determina l'azione individuale» [5].. Tanto più che ogni secondo risparmiato su questo tempo di lavoro medio necessario, è suscettibile di generare importanti guadagni aggiuntivi, aumentando il plusvalore prodotto dal lavoro – e questo, indipendentemente dall'oggetto concreto per la cui produzione il tempo è effettivamente impiegato. Nel capitalismo, svincolato dalle attività e dal loro scopo concreto, il tempo ha cambiato la sua natura, diventando «una variabile indipendente, misurata in unità convenzionali intercambiabili, misurabili, continue, costanti [...] che funge da misura assoluta del movimento».

   Il tempo che l'individuo sperimenta è ora un tempo svuotato di ogni qualità, che gli si oppone permanentemente, ordinandogli semplicemente di rendere proficuo ogni secondo. Probabilmente, questo si materializza in modo più evidente in ciò che la modernità ha chiamato "tempo libero". Organizzando la vita quotidiana intorno al lavoro, senza tener conto del suo scopo - un semplice dispendio di energia misurato dal ticchettio dell'orologio - il capitalismo ha creato un "tempo libero" che dovrebbe essere l'opposto: un tempo nel corso del quale l'attività cessa di essere regolata in questo modo. Ma, a parte il fatto che questo tempo è stato esso stesso catturato dalla forma merce, diventando così a sua volta un luogo di investimento e un'industria del tempo libero - e quindi impegnato nei propri processi di valorizzazione - ecco che la sua semplice definizione in relazione al tempo di lavoro non gli concede più alcuna autonomia. Le attività svolte in un tale contesto faticano quindi a restituire la qualità del tempo, rappresentando così un vero e proprio "fuori dal lavoro"; finendo per essere piuttosto una semplice estensione di quest'ultimo: devono essere pianificati, devono assicurare di massimizzarne l'utilità, insomma bisogna renderli redditizi. Rimangono così sotto il dominio del tempo astratto, che continua a misurarle. Perciò, nel capitalismo, bisogna passare il proprio tempo a usarlo correttamente! Preferibilmente al lavoro. Fatta eccezione per quelle attività  propedeutiche, che sono comunque sempre e solo un'estensione di esso. Il neoliberismo di oggi e i suoi sottoufficiali, tecnocrati e politici, sanno come far obbedire le persone a questo ordine, e sono sempre più ferventi nelle loro azioni volte a standardizzare sempre di più il tempo, svuotandolo delle sue qualità e rubandolo ai lavoratori grazie all'imperativo della sua maggiore valorizzazione!

   L'aumento della durata legale della settimana, da un lato, o dall'altro la "riforma delle pensioni" e la sua retorica permanente sull'urgenza di aumentare sempre l'età pensionabile insieme al numero di anni di contribuzione – qualunque essi siano, tra l'altro – sono esempi tipici con i quali, di passaggio, le classi dominanti finiscono per condannare sé stesse! Perché dietro l'ingiunzione a "lavorare di più" - indipendentemente dall'uso effettivo dell'orario di lavoro, e al di là dell'evidente trucco che mira - per la questione delle pensioni - ad abbassare le pensioni moltiplicando le carriere "incomplete" - troviamo una concezione astratta del tempo che, in pratica, continua a essere sempre più radicata nella società. E questo tempo astratto, egualitario, senza qualità, nella misura in cui ogni attività, anche se ricreativa, è costretta a essere una mera variazione del lavoro, si applica a tutte le categorie della popolazione – compresi i dominanti – nel momento in cui si stabilisce, come norma sociale, che: «Le forme sociali temporali hanno una vita propria e sono coercitive per tutti i membri della società capitalistica – anche se in un modo che beneficia materialmente la classe dominante.» [*6] Roger Ekirch, ad esempio, ha mostrato l'impatto del mondo industriale sulla definizione moderna del sonno e dei suoi cicli [*7].

   Quando ha preso piede la norma di una notte di otto ore, sostituendo così quello che era il modello antropologicamente più radicato delle due fasi del sonno separate dal risveglio, l'intera società ha finito per esserne colpita. … E così l'intera società è stata colpita anche dai disagi che ne derivano: insonnia e stanchezza tipiche della vita moderna. Lo stesso vale per il rapporto con il tempo. Anche se, ovviamente, a seconda della propria collocazione nella scala sociale, gli effetti non si fanno sentire così duramente: l'esperienza di un tempo senza qualità, che si è condannati a perdere, finisce per condizionare la società nel suo complesso. Tuttavia, su questo tema come su altri, non possiamo aspettarci che le classi dirigenti, mentre partecipano al deterioramento delle condizioni di vita di tutti, prendano coscienza di ciò in cui vanno incontro coinvolgendo gli altri. La protesta può venire solo da quegli "altri" per i quali il cambiamento è reso molto più urgente dalla violenza diretta e intollerabile che viene loro imposta. E in particolare, parallelamente a rivendicazioni più chiare e immediate (settimana di 30 ore?; pensionamento a 60 anni?), si dovrà affrontare, a più lungo termine, la ridefinizione dei modi di abitare il tempo. Invitandoci a considerarlo alla luce delle attività concrete che vi si svolgono, piuttosto che farne il giudice di queste attività, alcuni movimenti sociali negli ultimi anni (ZAD e Gilet Gialli in particolare) hanno delineato una direzione in tal senso. Certo, non si tratta in alcun modo di feticizzare questo o quel residuo fantasticato della società tradizionale, ergendola a dogma, come stanno facendo attualmente le correnti reazionarie, sognando forme premoderne di capitalismo "del buon padre". Ma è sempre più certo che una critica del capitalismo – ben al di là dei suoi soli eccessi neoliberisti – mancherà il suo punto finché non attaccherà questa specifica categoria di tempo che induce e che determina gli individui e il quadro delle loro azioni.

- Christophe Magis *- Pubblicato il 30/5/2025 su  "Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme" -

NOTE:
 
*Docente di Scienze dell'Informazione e della Comunicazione, Università di Parigi 8.

[1] Lewis Mumford, Tecniche e civiltà, Routledge & Kegan Paul, Londra, 1934, p. 10.

[2] Va notato che le prime definizioni si riferiscono alla "decimilionesima parte di un quadrante del meridiano terrestre", in un'epoca in cui un meridiano era considerato intorno alla Terra. Cfr. Suzanne Débarbat & Antonio E. Ten (a cura di), Metro e sistema metrico, Observatoire de Paris/Université de Valence, Parigi e Valence, 1993.

[3] Edward P. Thompson, Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale, La Fabrique, Parigi, 2004 [1a ed.: 1993], p. 37.

[4] Cfr. Evelyne Jardin, "Il padre dell'organizzazione scientifica del lavoro", Scienze sociali, n° 120, 2001, p. 30.

[5] Moishe Postone, Tempo, lavoro e dominazione sociale, Mille e una notte, Parigi, 2009 [1a ed.: 1993], p. 318.

[6] Ivi, p. 319.

[7] Cfr. Roger Ekirch, La grande trasformazione del sonno, Amsterdam, Parigi, 2021.

 

domenica 3 agosto 2025

Quelli più diversi degli altri…

È come essere in un film che abbiamo già visto... e che si ripete… 
Lo conosciamo bene, la sceneggiatura è sempre quella. Gli antagonisti sono sempre gli stessi.
Me lo dovreste spiegare, come se fossi un bambino di cinque anni!
Spiegatemi perché mai non sono dei russi a caso, quelli che vengono inseguiti per le strade di Londra, di Toronto o di Melbourne, mentre vengono accusati di quello che sta facendo Putin! Spiegatemi perché nessuno insulta i turisti cinesi a causa di quello che viene fatto nel mondo dal Partito Comunista Cinese! Perché mai nessuno ora, in questo momento, si sta mettendo a distruggere dei ristoranti sudanesi, o sta boicottando negozi di proprietà yemenita? E come mai non c'è nessuno che chieda agli iraniani in cui incappa di firmare dei giuramenti in cui dichiarino di odiare il loro regime?!?? Persino  gli americani, o gli inglesi - con tutte le loro guerre e i loro interventi militari - se ne possono andare tranquilli per il mondo, senza essere disturbati!!

Ma gli israeliani? E gli ebrei??
No. Loro vengono insultati. Picchiati. Minacciati. Licenziati. Cancellati. Boicottati. Banditi.
A Sydney hanno gridato «Gasate gli ebrei!». No, non si tratta più di politica. Non lo è mai stata!
Si tratta dell'unico popolo, su questo pianeta, cui, ripetutamente, viene detto di essere l'eccezione.
I loro bambini morti non contano. Le loro donne violentate sono tutte bugiarde. La loro paura è meno reale.
Se questo non ti riguarda, allora sei parte della follia!!

fonte: @Sarah Tuttle-Singer

sabato 2 agosto 2025

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Ne "La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante 1806-1843", Agamben ritorna alla letteratura, e propone uno studio sul "poeta pazzo". Il primo punto da sottolineare è che non si tratta di una riflessione che riguarda esclusivamente Hölderlin, anzi: il suo percorso viene contrapposto a quelli di Goethe e di Napoleone; il che offre una sorta di retroterra storico a quelli che sono i commenti di Agamben. Inoltre, vengono mobilitati (e messi in discussione nei loro limiti) i generi della "biografia" e della "cronaca", in quanto strumenti per un'apertura della storia e della successione temporale; e infine, vediamo come etichette classificatorie quali "follia" e "ispirazione" ricevano un trattamento di de-naturalizzazione, o di de-automazione, all'interno del quale il caso di Hölderlin viene usato come esempio di un incrocio radicale tra poesia e filosofia. A dare consistenza al progetto, è la dedizione verticale di Agamben ai testi di e su Hölderlin: poesie, biografie, referti medici e lettere, provenienti sia da lui che da altri. Il libro è diviso in quattro parti principali, che iniziano con una Soglia e un Prologo, si estendono poi attraverso una Cronaca (1806-1843) - la sezione più lunga - e si chiudono con un Epilogo. Ancora una volta, a guidarci è la figura di Walter Benjamin, riferimento costante in tutta la carriera intellettuale di Agamben: Benjamin appare proprio all'inizio della Follia di Hölderlin, e serve ad aiutare Agamben a riflettere sulla differenza tra "cronaca" e "storia critica". La dicotomia, però, viene ben presto sfatata, dal momento che Agamben sostiene che la scelta apparentemente "neutra" della cronaca (esporre fatti ed eventi all'interno di una struttura cronologica) presuppone già una posizione, uno scrutinio, un progetto. A partire da Benjamin, Agamben arriva a un'ambivalenza che guiderà il suo libro fino alla fine: "cronaca" e "storia" sono generi diversi, ma tuttavia complementari, che consistono in dei procedimenti che si rafforzano a vicenda attraverso il contrasto. «Il cronista non inventa nulla», scrive Agamben, eppure «non ha bisogno di verificare l'autenticità delle sue fonti», alle quali, tuttavia, lo storico non può, al contrario, «in ogni caso, rinunciare». L'«unico documento» che interessa al cronista «è la voce», la sua e quella a partire dalla quale gli è venuto in mente di ascoltare, a sua volta, «l'avventura, triste o gioiosa, a cui si riferisce». Ed è questa "voce" che, nel caso di Hölderlin, si cerca di recuperare, per quanto le "fonti" (lettere, biografie, atti notarili) siano pur sempre presenti.

   Nella sua cronaca su Hölderlin, le riflessioni di Agamben  possono essere collocate nel contesto più ampio di quella che è la sua preoccupazione filosofica per il linguaggio. In vari momenti della sua opera – come, ad esempio, in "Infanzia e storia" – Agamben mette in primo piano la preoccupazione per il linguaggio. Come può la lingua "esistere"? Come vi si può accedere, cosa significa dire «io parlo»? In "Che cos'è la filosofia?", il linguaggio è affrontato soprattutto a partire dalla prospettiva della "esperienza", dalla prospettiva di un'indagine circa l'"avere-luogo" del linguaggio, ed è per questo motivo che i due libri recenti di Agamben sono complementari: la cronaca della vita di Hölderlin esemplifica e rende più palpabile l'insieme astratto di proposizioni del libro di filosofia. Per Agamben, la filosofia è un evento ontologico reso possibile dal linguaggio: "l'evento" riguarda ciò che è collettivamente riconosciuto, mentre "l'ontologico" riguarda la possibilità dell'essere che si riconosce durante l'uso del linguaggio. Parlare, ascoltare, scrivere sono attività ambivalenti, che operano sulla linea sottile che separa l'unico dal molteplice, il soggetto dalla comunità. Nel primo saggio del libro "Che cos'è la filosofia?", intitolato "Experimentum vocis", seguiamo la descrizione della strategia di accoppiamento del linguaggio con la "metafisica occidentale", il discorso che regola ciò che può essere immaginato al di là della realtà. L'individuo può riconoscersi solo attraverso il linguaggio, ed è questo che articola il rapporto tra mondo e parola, ontologia e logica, "io" e "altro".

fonte: Um túnel no fim da luz

venerdì 1 agosto 2025

Tempeste per un Altro Sogno

Il Continente Américo
di Sébastien Navarro

Sir William Walker, è un retore tanto formidabile quanto affascinante. Di fronte a un areopago di coloni portoghesi vestiti con il loro abito della domenica, davanti a questi signori, egli ha appena paragonato quali sarebbero per loro i vantaggi derivanti dal mantenere una donna mulatta «pagata a cottimo», piuttosto che una donna della loro classe sociale, a un costo assai più alto. Scioccati e solleticati, gli uomini ridono. Poi, lasciato il terreno caro ai lascivi, per quello degli economici, Sir William Walker si fa serio e chiede: «E allora, signori, ditemi, secondo voi, che cosa è più redditizio: uno schiavo o un lavoratore salariato?». Ci troviamo all'inizio dell'Ottocento, a Queimada, un'isola "immaginaria" dei Caraibi che viene sfruttata attraverso la sua monocoltura di canna da zucchero. E siamo in un film – Queimada – diretto da Gillo Pontecorvo e uscito sugli schermi nel gennaio del 1971. Qualche anno prima, sempre lo stesso Pontecorvo, aveva diretto "La battaglia di Algeri". Su di lui, la questione coloniale deve aver lavorato parecchio; così come deve aver fatto questo suo corollario: il mito della liberazione nazionale. Queimada, è un film esteticamente e politicamente brillante. Nel film vediamo l'intrigante Sir William Walker – interpretato da un subdolo e magnetico Marlon Brando – che fomenta una rivoluzione indigena al solo scopo di fare in modo che la Corona britannica spodesti l'Impero portoghese, mettendo così le mani sulle risorse di zucchero presenti sull'isola. Abolire la schiavitù, per scardinare le regole del "libero mercato": il cinismo dei funzionari del Capitale è senza limiti. Pertanto, Walker-Brando spiega ai coloni quali sarebbero i termini dell'accordo: «E allora, cos'è meglio per voi? Il dominio portoghese, con le sue tasse, la sua legislazione e il suo monopolio commerciale, oppure preferite l'indipendenza, con un governo e un esercito vostro, con un'amministrazione vostra, e con la libertà di commerciare con tutti coloro che obbediscono solo alle regole, e al prezzo, del commercio internazionale?». I coloni appaiono sedotti, e l'idea di essere a capo di una nazione indipendente sembra piuttosto allettante. Ma uno di loro, tuttavia, è titubante: «E se il nostro lavoratore, nel momento in cui cessa di essere uno schiavo e, anziché diventare un lavoratore, volesse invece diventare un datore di lavoro?» Walker-Brando coglie l'occasione: non era certo interesse, né delle imprese internazionali né del futuro Stato insulare , che il processo rivoluzionario arrivasse fino alle sue "estreme conseguenze". Facciamoci a capire: gli schiavi, i futuri lavoratori "emancipati", dovranno rimanere comunque al loro posto. Cambiare tutto affinché non cambi nulla, l'adagio promosso da un altro regista italiano – Luchino Visconti con il suo Gattopardo – incontra la sua ennesima fredda illustrazione nella Queimada di Pontecorvo.

Il funambolo mozambicano
Il caso ha fatto le cose piuttosto bene. La sera prima di vedere "Queimada", avevo appena finito di leggere "Orages pour un autre rêve": l'impero portoghese, la questione coloniale, la fuorviante liberazione nazionale, il medesimo filo storico. Perfino le stesse domande attraversano queste due opere. Con il sotto-titolo "Dal terzomondismo alla sinistra comunista, e oltre", il libro di Américo Nunes dipinge il ritratto del suo autore, nato nel 1939 in Mozambico, poi trovatosi ancora sotto la dominazione portoghese, e infine morto nel gennaio 2024 in Francia. "Américo" - quel nome - non c'è da stupirsi che con una fiammata del genere la vita del giovane mozambicano assomigli a un continente! «Per lui, la strada da percorrere contava più della meta», riassume Freddy Gómez in una prefazione che tenta di dipingere il ritratto di un amico che non può essere incasellato, accampato com'era su una base "marxista-bakuniniana", di una ricchezza così tanto necessariamente complessa, e francamente eterodossa. Quel che c'è di sicuro nel leggere un libro che si presenta sotto forma di una lunga intervista, è il piacere ineffabile che esso dà. È come se il testo stesso venisse indossato, si subisce una sorta di stupefacente incarnazione: ci immaginiamo le voci, i silenzi, i volti che poi invece, tutt’a un tratto, improvvisamente si calmano, si sorridono l’un l’altro, complici, oppure sprofondano nella concentrazione. Se la pasta testuale appare come se fosse stata oggetto di un lungo e paziente lavoro di omogeneizzazione letteraria, "Orages pour un autre rêve" mantiene il fascino spontaneo di una lunga discussione, nel corso della quale il tempo si allunga e si contrae, quasi nel tentativo di cogliere il più possibile la sostanza di un viaggio in cui si viene sballottati dalle accelerazioni della Storia. Sentiamo domande che ne preannunciano altre, e risposte che richiedono a loro volta lunghi sviluppi, fughe controllate, derive, e nuovi punti di fuga. A partire da questa dinamica, condivisa tra i due relatori – Yann Martin come interrogante, e Américo Nunes come testimone di una vita –, il lettore viene coinvolto in un gioco in cui immagina di essere lui  il terzo avventore. La Guerra Fredda, le lotte anticoloniali, il maggio '68, la rivoluzione conservatrice: Américo ne ha passate talmente tante... La sua memoria chirurgica raschia con precisione gli strati di sedimenti storici, alternando un approccio soggettivo a una prospettiva globalizzante. In bilico su una linea sottile, il funambolo mozambicano ripercorre la propria storia, camminando sull’orlo tra la febbre filosofica e la ricerca di una prassi rivoluzionaria. E se il libro si aggrappa a una cronologia, questo avviene però a condizione che essa non serva a raffreddare - sporgendosi da quello che sarebbe uno sguardo invecchiato o mandarino -  le braci di ciò che invece è stato un "evento". Il passato è come la memoria; in movimento, sempre. Ed è sempre il passato che abita il presente, e che lo rafforza a partire dalla sua volontà trasformatrice. Da qui, il magnifico motto enunciato di Américo: «Tutto dev'essere sempre riformulato, eternamente e senza rimorsi».

A proposito del "male coloniale" visto come matrice politica
Tutto ebbe inizio in quel pezzo di Africa australe colonizzato dai portoghesi durante la seconda metà del XIX secolo. Il Mozambico è stato la "colonia-discarica", altamente segregata, in cui è cresciuto Américo, «figlio di una madre analfabeta e di un padre supervisore doganale». L'impronta coloniale non divideva solo le "razze" tra di loro, ma anche all'interno del blocco colonizzatore manteneva gli strati sociali emersi dalla matrice metropolitana. È a partire da questa posizione sociale "inferiore", che Américo continua a nutrire un tenace "rancore" - persino un tenace "odio"  - verso le "alte caste". Molti decenni dopo, ammetterà sempre di provare ancora un "odio" rimasto del tutto intatto nei confronti di tutto quanto riguarda la borghesia, qualunque siano le latitudini globali in cui essa infuria.. Ma è stato al liceo che la sua coscienza politica si è cristallizzata, e si è scontrata con il cosiddetto "ethos coloniale". Mentre, con i suoi compagni, accompagnava un giornalista in una piantagione di canna da zucchero, scopre l'infamia del lavoro forzato: «Quello che abbiamo visto lì, è stato terribile: gente in catene, bambini con gli occhi malati coperti di mosche. Eravamo letteralmente inorriditi. Tutto questo lo sapevamo già, ma in astratto. Lì abbiamo constatato de visu questa realtà. E una simile visione ci ha reso per sempre consapevoli di quale sia l'estensione del "male" coloniale, della sua fondamentale disumanità e delle torture che infligge alle anime e ai corpi mutilati.» Lettore bulimico, è grazie ai libri che il giovane mozambicano infittisce e rafforza la propria cultura politica. Américo divora tutto ciò che gli capita sotto tiro. Il giovane ha già capito che una cultura a compartimenti stagni è una cultura atrofizzata. L'ideologia – «il luogo patologico del potere» – è la trappola in cui cadono le visioni bidimensionali: bene/male; il dominante/il dominato; Bianchi/Neri. Il pensiero binario è assai comodo; è anche pigro, funziona come un riflesso pavloviano. Per Américo, è fuori questione lasciarsi bloccare in un simile impoverimento dello spirito. Per lui, l'incontro con un libro è sempre una promessa dell'espansione dell'io intimo. In questo c'è potere e divertimento. Senza mai crogiolarsi nell'esposizione, possiamo intuire qual era l'evidente piacere che egli provava nel citare autori fondamentali che avevano segnato la sua giovane vita: Roland, Istrati, Kazantzakis, Kafka, Proust, Musil, Malraux, Serge, Babeuf. Panoramica non esaustiva. Il giovane Nunes venne anche segnato dall'acme fraterno della Rivoluzione francese. La Comunità degli Uguali è l'universale che ci consente di potersi abbeverare al "romanzo dell'utopia". Va tutto bene, presto leggeranno anche i cosiddetti socialisti "utopisti". Il passato non è più un'inafferrabile zona grigia, ma è l'affresco su cui ci arrampichiamo per misurare il mondo e le sue molteplici possibilità. L'utopia - per tornare ad essa -non ha nulla a che vedere con un futuro congelato in un equilibrio perfetto. Non è una stasi di felicità condivisa - che poi diviene l'altro nome adulterato per le future repubbliche "socialiste" - dove l'altro lato della scena alla fine non è altro che baraccamento, e purghe incessanti. Quella che ci viene così rilevata, è l'effrazione. L'attrito insieme all'alterità. Bisogna pensare contro di esso. Anche contro sé stessi. Più che il loro confronto, è il superamento degli opposti: «Solo la tensione tra vero e falso, è vera, perché è dialettica»; così teorizza brillantemente il mozambicano. E poi, quando i libri si stancano, c'è il Ciné-Club de Beira, una "calamita culturale" che salda una "comunità". Il cinema francese, il neorealismo italiano, il realismo sovietico, i film sono in versione originale e a essi segue un dibattito. Il giovane Américo scopre il mondo attraverso le immagini; socializza, discute degli argomenti che costituiscono la società. La cinefilia non lo avrebbe mai  più abbandonato.

Da Algeri alla Comune di Censier
Nel luglio del 1961, il Portogallo era ancora sotto lo stivale di Salazar, Américo si rifiuta di prestare servizio militare, fugge e si stabilisce in Francia. Iscritto a un corso preparatorio alla Sorbona, legge filosofi e si batté per l'indipendenza del Mozambico. Nel luglio del 1963, attratto dal "canto delle sirene del socialismo autogestito", attraversa il Mediterraneo e sbarca ad Algeri. Liberata dal dominio francese, l'Algeria, da poco indipendente, intende incarnare una terza via tra le democrazie liberali e il socialismo autoritario. Ahimè, Algeri, "capitale delle rivoluzioni" e faro terzomondista dei paesi non allineati, cela male una realtà in cui il Partito-Stato si dichiara egemonico. Essendo che la geografia è capovolta, è ad Algeri che incontra Cuba. Américo diventa traduttore per l'agenzia cubana "Prensa Latina". Nel febbraio 1965, durante i lavori preparatori per la Conferenza afro-asiatica, incontra il Che. Nonostante la sua aura, l'argentino è già ormai "un uomo solo". Il guerrigliero è colui che impedisce ai rivoluzionari di capitalizzare sulla rivoluzione, in altre parole, di mettere il culo sulle loro nuove sedie di leadership. Américo afferma che, pur essendo cresciuto con il marxismo-leninismo, il Che appare sempre più dubbioso nei confronti del processo rivoluzionario cubano. Peggio ancora: è a conoscenza del carattere mercantile e "imperialista" del cosiddetto "aiuto sovietico a Cuba". Ma il Che può ben capire che la Guerra Fredda è il "glacis"! che impedisce l'emergere di  ogni e qualsiasi rivoluzione veramente autonoma, e tuttavia si blocca nel suo obiettivo rivoluzionario in Sud America. Una testardaggine che causerà la sua caduta e la sua futura trasformazione in un'icona. Ad Américo si fa sempre più chiara la consapevolezza che c'è qualcosa che non va nel bel sogno della liberazione nazionale: come se, appena decolonizzati, i popoli stessero solo cambiando gli oppressori. La frase inesauribile del Gattopardo. Più in generale, è il processo rivoluzionario a mostrare i suoi limiti, e il potere la sua natura fondamentalmente conservatrice e corruttrice. «La tragedia delle rivoluzioni», egli giustamente sottolinea, «è che, una volta esaurito il loro momento aurorale e romantico, questa parentesi in cui si articolano rispetto al sensibile, al mondo umano del sensibile, e al sensibile del mondo umano, si rivoltano contro sé stesse e finiscono per distruggersi». Pochi mesi dopo il colpo di Stato di Boumediene, nel giugno 1965, Américo lascia l'Algeria e torna in Francia. Due anni dopo, la morte del Che segnò la fine della sua "attrazione per il 'donchisciottismo' rivoluzionario terzomondista", il quale, alla fine, fa sempre il gioco degli stati-nazione e delle oligarchie; sia imperialiste che patriottiche.» A Parigi, Américo frequentava la libreria "La Vieille Taupe", "una vera e propria cantina del tesoro" (questo era ben prima della deriva negazionista del suo padrone di casa). Si unisce al "Potere Operaio", una scissione da "Socialismo o Barbarie", e cuore galattico di quello che si chiamava "comunismo di sinistra". Parallelamente al suo attivismo, si iscrive alla "École pratique des hautes études" e scrive una dissertazione su "Ricardo Flores Magón e la rivoluzione sociale in Messico". Basti pensare che, quando scoppia il maggio del '68, egli era un ventinovenne che si rivelò essere abbastanza "armato" da poter pretendere l'impossibile insieme ai disselciatori. Il Maggio '68 è una costellazione. All'interno di essa, la Comune di Censier è una delle stelle incandescenti attorno a cui gravita Amèrico. Censier rappresentava il «controesempio rispetto alla Sorbona, la quale si trovava come immersa nello spettacolo rivoluzionario». Censier vuole tenere a distanza le sette di sinistra e gli ideologhi dei piccoli passi. Censier se ne fotte del programmatismo e delle figure tutelari. «Era uno spazio in movimento, in cui cercavamo di poetizzare le nostre vite, le nostre esistenze in divenire, verso delle relazioni inter-individuali e inter-collettive senza precedenti». «Poetare», prosegue Américo, «per quell'epoca significava accrescere la vita di ciascuno attraverso tutte le altre vite, attraverso discussioni senza alcun preconcetto ideologico, attraverso dibattiti in cui ciascuno potesse esporre, senza alcun tipo di costrizione, ciò che sentiva riguardo al movimento, all'essere compagno, alla verità umana, alla nostra verità in azione, la quale, alla fine, avrebbe potuto realizzarsi solo nella relazione con gli altri.» "Orages pour un autre rêve", è assai più di un'intervista nel corso della quale si rivela un uomo e il suo viaggio. È un'eredità. Un continente. Un'esperienza condivisa per mezzo della quale misuriamo tutto ciò che è andato perso per strada; tutto ciò che ha finito per essere come una sorta di "non trasmissione di pratiche e di conoscenze". Un'eredità, un pensiero, a partire dal quale, l'urgenza ci impone di riconnetterci per smentire i cinici oracoli di Queimada e del Gattopardo. Una storia in cui  alla fine tutto cambi, in modo che, davvero, tutto cambi!

- Américo NUNES, "ORAGES POUR UN AUTRE RÊVE. Du tiers-mondisme à la gauche communiste, et au-delà" Conversations avec Yann Martin. Édition et avant-propos de Freddy Gomez. L’échappée, 2025, 304 p.-

- Sébastien Navarro - Pubblicato  su https://acontretemps.org/

giovedì 31 luglio 2025

Satana contro “il Dittatore” !!

La fortuna critica di Minuetto all’Inferno fu irta di ostacoli. Avversato da Elio Vittorini che dirigeva da Einaudi la collezione dei “Gettoni” dove poi uscì nel 1956, nei tre anni precedenti era passato al vaglio di Calvino, Fruttero, Fenoglio e altri lettori editoriali rischiando di venir rispedito al mittente inedito. Vinse lo Strega per l’opera prima e la buona stella del «giovane in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo» sfolgorò quella sera. Qualche altra volta si sarebbe oscurata per ribrillare ancora mentre la vita di quel giovane, che nel frattempo non era più tale, correva verso il suo fine e la sua fine. Chi legge o rilegge, oggi, questo romanzo opera prima vive la doppia esperienza di transitare per un’epoca senza contatto col mondo odierno incontrandovi tipi dalla consistenza di larve, ma anche di scovare lì dentro gli indizi, i presagi dello scrittore e del pensatore che Zolla sarebbe diventato quando le croste della blanda infezione che fu per lui la scrittura narrativa cascarono via. E con essa le tracce degli esercizi di pittura e al pianoforte, in una casa dove il padre faceva il pittore e la sorella, la madre e la nipote erano tutte per la musica, e degli studi di Legge e Psichiatria all’Università di Torino.

(dal risvolto di copertina di: Elémire Zolla, "Minuetto all’inferno", Aragno editore,2004, € 14)

Lo scrittore torinese che esordì "sataneggiando"
- di Mario Baudino -

Che mai potrebbe succedere se due polarità supreme, poniamo Dio e Satana, unissero le loro forze per danneggiare (o educare, non ci sarebbe molta differenza) i protagonisti di un romanzo?  È un'idea del tutto fantastica, o cela una segreta analisi del nostro vivere?
Se lo chiese un Elémire Zolla ventiduenne e ne nacque, anche a cagione di una malattia e quindi di una lunga e forzata inattività fisica, il romanzo d'esordio, destinato anche a essere sostanzialmente l'unico. Vide la pubblicazione nel 1956, dopo anni di incertezze e serrati confronti einaudiani, nella collana dei Gettoni, guidata da quel Vittorini che "Minuetto all'inferno" detestava, e dal suo punto di vista non aveva nemmeno torto. Il giovane Zolla era agli antipodi rispetto alle poetiche correnti, legate al neorealismo, in quel tumultuoso dopoguerra.  Il suo era un romanzo fantastico nutrito (anche) dal decadentismo d'inizio secolo; persino, volendo, un romanzo snob, dal tono supremamente distaccato, dal linguaggio raffinato e ironico increspato da termini arcaici o semidimenticati, come il «rugliare» attribuito a un ladro o le «pareti imporrite sotto la tappezzeria», o una dantesca «burella» per indicare un cupo corridoio; ma anche solcato da potenti inserzioni di dialetto piemontese. Vinse lo Strega-giovani - un premio istituito allora per pochi anni, diverso dall'attuale - , un po’ a sorpresa. Vittorini lo aveva pubblicato con un risvolto in cui manifestava tutta la sua incomprensione per gli scrittori che «amano sataneggiare». E che Zolla «sataneggiasse» un poco, ma non nel senso dell'esoterico, del mistico e del magico, è indubbio.
"Minuetto all'inferno", prezioso incunabolo, ha avuto una lunga vita; è entrato sicuramente nel canone del Novecento, a poco a poco, talvolta ristampato. Ora lo propone Cliquot, con introduzione di Grazia Marchianò, la compagna dello scrittore, estetologa e custode della sua eredità culturale, scomparsa nell'aprile scorso: che lo situa storicamente e fornisce anche qualche materiale d'archivio sulla vicenda editoriale. Il romanzo è diviso idealmente in due parti. Nella prima si sviluppa per capitoli alterni la vicenda dei due protagonisti, Lotario e Giulia, fino al loro fatale e altero incontro, un amore ben presto privo della volgare «tetraggine della passione». Nella seconda compaiono Satana e «il Dittatore», ovvero un Dio prepotente e brutale nella tradizione gnostica e dualistica, cara all'autore, che vede la creazione come l'effetto di un demiurgo malvagio e beffardo. Satana è più simpatico: è un anziano, elegantissimo dandy che cita volentieri Seneca, mentre il Dittatore è un beone corpulento, a cavalcioni di un tavolo macchiato di birra, torso nudo e mammelle grasse, calzoni da cavallerizzo e cinturone di cuoio, circondato da una soldataglia di angeli; che semmai ricorda Mussolini. Sono com'è ovvio in conflitto (il Dittatore brutalizza Satana a più non posso) ma anche complementari. Uniscono le forze, se pure in gara tra loro, ai danni di Lotario e Giulia, per portarli alla rovina (e quindi sottometterli finalmente ai loro voleri, ciascuno dal proprio punto di vista più o meno infernale). Le invenzioni narrative e linguistiche sono veloci, imprevedibili. Il disprezzo per i luoghi comuni, per la socialità insensata, per i vizi privati e le pubbliche virtù disegna personaggi piuttosto emblematici sia di una volgarissima Torino fascista, dove anche gli intellettuali e artisti sembrano caricature, sia di un'altrettanto insignificante Italia del primo dopoguerra.
Il romanzo fu anche un gesto di ribellione. Era antimoderno e fuori tempo, ma davvero fuori da ogni tempo, al di là degli umori francesi o britannici che traspaiono nella prosa di Zolla, da Baudelaire a Huysmans, forse a un William Beckford, senza dimenticare un italianissimo Pitigrilli. Lo si rilegge ora come fosse stato ieri, o nel Settecento. Zolla, di formazione britannica, studiò legge ma divenne anglista alla scuola di Mario Praz, di cui poi ereditò la cattedra alla Sapienza di Roma: frequentava le lezioni il giovane Roberto Calasso, che poi pubblicò o ripubblicò gran parte delle sue opere per l'Adelphi, da "Lo stupore infantile" alle "Uscite dal mondo", alla "Storia dell'alchimia". La vocazione narrativa durò poco e si mutò nella saggistica dei grandi viaggi  nelle religioni, nell'antropologia, nella storia della spiritualità. Ma senza questo romanzo, forse, non capiremmo del tutto i mille risvolti dello studioso scomparso nel 2002, la sua sorridente elusività, il senso del suo essere molto problematicamente anti-moderno ma attentissimo alle nuove tecnologie informatiche, la critica feroce alla borghesia, un certo straniamento, quasi una forma di sonnambulismo. Il libro, al di là dei modelli goticheggianti, ha forse un solo lontano parente in Italia, e cioè "Gli indifferenti" di Alberto Moravia, o al più, curiosa coincidenza anche temporale, un racconto di Guido Morselli scoperto qualche anno fa dall'editore De Piante, dove lo scrittore varesino, poi suicida nel '73 dopo reiterati rifiuti editoriali, immaginava un incontro segretissimo tra Stalin e il Papa Pio XII, «viventi emblemi per innumerevoli moltitudini»: quasi un minuetto a San Pietro.

- Mario Baudino - Pubblicato su TuttoLibri del 13/7/2024 -