mercoledì 5 marzo 2025

“Eliminazionismo” !?!!

In che modo i marxisti si sono sempre opposti al sionismo
- Un estratto di “Dove falliscono gli schematismi e le semplificazioni”, un testo scritto da Jacob Gorender nel 1998 come prefazione alla prima edizione di “Marxismo ed ebraismo”. -
- di Jacob Gorender -

In effetti, come suggerisce il titolo di questo libro ("Marxismo e Judaismo"), l'approccio del marxismo alla questione ebraica non è stato facile. Accanto a una raccolta di studi illuminanti, indubbiamente preziosi, il marxismo registra anche non pochi scivoloni, quando teorici e ricercatori adepti del suo metodo cercarono di spiegare che cosa fossero e siano gli ebrei, le cause dell'antisemitismo, e le proposte socialiste per la questione ebraica. Frutto di una tesi di master, approvata con lode dal Dipartimento di Storia dell'Università di San Paolo in Brasile, il lavoro di Arlene Elizabeth Clemesha offre un'escursione straordinariamente interessante che attraversa le sinuose complessità della materia. Il testo, snello e accessibile, si distingue per erudizione e un frequente uso di fonti originali (ad eccezione di quelle in lingua yiddish), ivi compresa una bibliografia aggiornata e ricca. Il punto di partenza dell'escursione è relativo alla prima manifestazione di Marx sull'argomento: un'opera del 1843 intitolata "Sulla questione ebraica". Quando la scrisse, Marx non aveva ancora dato una formulazione conclusiva alla teoria del materialismo storico, poi associata al suo nome. Ma il suo lavoro procedeva bene e “Sulla questione ebraica” è stato considerato come uno dei più importanti contributi alla rivoluzione, che il suo autore ha dato nel campo delle scienze storiche. Il libro ha poi acquisito anche un altro significato; cosa che lo rende ancora più importante, se visto nel contesto della ricerca di Arlene Clemesha. Alcuni autori lo considerano un'espressione di antisemitismo, e lo vedono persino come una proposta genocida, la quale anticiperebbe addirittura la "soluzione finale" nazista. E visto che Marx stesso era di origine ebraica, questi autori spiegano il suo antisemitismo come se fosse stato una reazione psicologica estrema di ripudio delle radici della sua identità.

 L'autrice si impegna così a dimostrare quali sono gli equivoci e gli errori grossolani di una simile interpretazione. Marx, infatti, svolge una dura critica dell'ebraismo in quanto religione, caratterizzandolo come la religione che assegna priorità alla necessità pratica, all'interesse egoistico. Simultaneamente, egli afferma anche che la società borghese ha assorbito lo spirito dell'ebraismo, dando anch'essa priorità alla necessità pratica. Nella società borghese, il cristianesimo si era giudaizzato. In questo modo, l'emancipazione civile degli ebrei, sebbene costituisse un importante passo progressivo, non li avrebbe liberati dalle limitazioni e dalle oppressioni insite nella condizione borghese. Il fine supremo, pertanto, non avrebbe potuto essere l'emancipazione civile, bensì l'emancipazione umana. L'articolo si concludeva con l'affermazione secondo cui emancipare socialmente l'ebreo, equivale a emancipare la società dall'ebraismo. Vale a dire, liberarlo dai suoi vincoli con l'egoistico bisogno pratico immanente ai rapporti mercantili. Ora, come ci avverte H. B. Davis, Marx non dice nulla sulla religione ebraica che non dica anche della religione cristiana. Creatore della concezione filosofica materialista più radicale, Marx è stato un critico intransigente di tutte le religioni. Il periodo storico in cui ha vissuto Marx ebbe a segnare, nell'Europa occidentale, un forte declino dell'antisemitismo. Gli ebrei lasciarono i ghetti, e cominciarono a godere dei diritti civili e politici. Dopo l'articolo sopra citato, Marx allora non era più tornato a trattare la questione ebraica, in una sua qualche opera particolare. Si era limitato a fare alcuni riferimenti scarsi e occasionali, come quello che si legge nella prima delle "Tesi su Feuerbach", in cui critica il filosofo tedesco per aver concepito la prassi in una forma in cui essa si manifesta in modo eccessivamente ebraico. In questo passaggio egli ribadisce l'idea di una necessità pratica egoistica quale fondamento della religione ebraica. Essendo sopravvissuto a Marx per dodici anni, Engels fu testimone dell'ascesa dell'antisemitismo sul finire del XIX secolo. Anche se non vi dedicò uno studio speciale, Engels espresse più volte il più deciso ripudio dell'antisemitismo, sottolineando in particolare lo schiacciante sfruttamento a cui erano sottoposti i lavoratori ebrei a Londra. Da allora in poi, il movimento socialista europeo non poté fare a meno di dover affrontare la questione ebraica.

   L'antisemitismo è un'ideologia di destra, che non ha bisogno di essere dimostrata come tale. Tuttavia, esiste anche un antisemitismo di sinistra, e uno dei meriti di questo libro è il concentrarsi su di esso; cosa che forse sorprenderà molti lettori. L'identificazione dell'ebreo con l'usuraio, con il più spietato sfruttatore mercantile (personificato in Shylock, nel dramma di Shakespeare Il mercante di Venezia), è stata interiorizzata dalla massa dei lavoratori, ed è stata assunta dai partiti operai, come se fosse un approccio socialista. Arlene Elizabeth Clemesha cita l'antisemitismo di Fourier, di Proudhon e di Bakunin e registra il rifiuto dei socialisti francesi, guidati da Jules Guesde, di partecipare alla campagna a favore della liberazione del capitano Dreyfus e, di conseguenza, anche alla lotta contro l'antisemitismo, in quella che era stata la sua prima manifestazione esplosa nell'Europa occidentale. Sarebbe spettato a Jean Jaurès, come avrebbe detto poi Rosa Luxemburg, assumersi la missione di salvare l'onore del socialismo francese. La Seconda Internazionale si mostrò enfatica nella sua condanna dell'antisemitismo, ma anche questa posizione non venne assunta senza ambiguità. Pertanto, sarebbe stato sintomatico che Victor Adler, uno dei principali teorici della Seconda Internazionale, ed egli stesso di origine ebraica, sostenesse una posizione contraria sia all'antisemitismo che al filo-semitismo, ponendoli entrambi in termini equivalenti. Karl Kautsky e Otto Bauer, invece, superarono questa esitazione e non ebbero riserve nel condannare l'antisemitismo. Entrambi hanno dato un contributo primario all'analisi della situazione degli ebrei nel groviglio etnico europeo, in particolare rifertendosi all'Impero austro-ungarico. Tuttavia, anch'essi ritenevano che la cosiddetta questione ebraica sarebbe stata risolta tramite il processo di assimilazione, e si rifiutarono sempre di concedere un'autonomia culturale alle popolazioni ebraiche. Questo non poteva non scontrarsi con le pretese delle numerose e dense popolazioni ebraiche delle regioni della Polonia, della Russia e della Galizia, quest'ultima appartenente all'Impero Austro-Ungarico.

   Lenin fu un avversario radicale e appassionato dell'antisemitismo, insistendo più volte sul suo contenuto ultra-reazionario. Tuttavia, Lenin ebbe a polemizzare con il partito socialista ebraico noto come Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei di Russia, Polonia e Lituania); (in yiddish il termine può essere tradotto come "unione", "associazione"), il quale rivendicava l'autonomia culturale per i lavoratori ebrei, e che venisse riconosciuta la loro identità all'interno della lotta del proletariato. Lenin assunse il punto di vista secondo cui la questione nazionale doveva essere subordinata agli interessi di classe, e quindi il proletariato dell'Impero russo non poteva essere suddiviso a partire da quelle che erano caratteristiche nazionali. Il leader bolscevico, inoltre,  adottò anche l'opinione secondo cui il problema ebraico sarebbe stato risolto a partire dal processo di assimilazione, che era già in corso nella stessa Russia. Non si rese conto del fatto che l'antisemitismo ostacolava tale processo di assimilazione e che gli ebrei dell'Europa centrale e orientale stavano creando, proprio in quel momento, una letteratura di alto livello estetico in lingua yiddish. La storia dell'Unione Sovietica dimostra, o quanto meno suggerisce, come il socialismo non possa essere una soluzione automatica alla questione ebraica. La dittatura del proletariato, non implica necessariamente l'estinzione dell'ideologia antisemita. I pregiudizi millenari non si dissolvono solo con il cambio di regime. L'adozione di soluzioni corrette, dal punto di vista degli stessi principi marxisti, richiede una conoscenza fattuale e una profonda elaborazione teorica, che non sempre è disponibile. A causa della loro dispersione, della loro integrazione, in varia misura, in molte nazioni, delle loro tradizioni e della loro cultura, gli ebrei non possono essere compresi mediante schemi e semplificazioni, dalle quali il marxismo non sempre è esente. A questo proposito, Arlene Clemesha cita Abraham Léon, autore di un saggio sulla questione ebraica, egli stesso ebreo polacco e aderente al trotskismo, assassinato all'età di 26 anni ad Auschwitz. Risalendo all'antichità e al Medioevo, Léon mostra come l'antisemitismo abbia rappresentato una stigmatizzazione degli ebrei a causa della loro specializzazione commerciale e usuraia, in mezzo a popolazioni agrarie che producevano principalmente beni d'uso. Con uno sguardo al futuro, il giovane saggista sostiene la libertà degli ebrei di decidere senza coercizioni tra l'assimilazione e la conservazione della propria identità.

   Pur dedicandosi con impegno allo studio della questione ebraica, i marxisti vennero sorpresi da due eventi interconnessi e imprevisti: l'Olocausto e la creazione dello Stato di Israele. L'Olocausto non viene affrontato da Arlene Clemesha, le cui ricerche si fermano alla Prima Guerra Mondiale. Ma annuncia che la cosa sarà oggetto di ulteriori studi, promettendo di concentrarsi su di essi, ponendo la questione sotto il prisma della possibilità o dell'impossibilità di spiegarlo attraverso la concezione secondo cui la storia sarebbe fondamentalmente la storia della lotta di classe. Alla luce di ciò che lei ci offre in questo libro, dobbiamo aspettarci un nuovo contributo sostanziale alla comprensione di questa tragedia paradigmatica del XX secolo. I marxisti si erano sempre opposti al sionismo e, fino alla seconda guerra mondiale, la cosa aveva coinciso con il sentimento della maggioranza degli ebrei in tutto il mondo. I marxisti vedevano nel sionismo un'ideologia nazionalista borghese, e consideravano inammissibile l'ambizione di creare uno Stato ebraico in un territorio già abitato da secoli da una popolazione araba, giudicando l'intera proposta sionista come un'utopia che per definizione era irrealizzabile. Non c'è dubbio che rimasero sorpresi dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948, legittimato da una decisione dell'ONU condivisa dall'Unione Sovietica e dai paesi socialisti dell'Europa orientale. Dal momento che Israele ha costituito, nei cinque decenni della sua esistenza, un centro di guerre e tensioni costanti in Medio Oriente, e oggi molti marxisti rimangono perplessi e disorientati o fuorviati dalla giovane entità politica; la stragrande maggioranza dei partecipanti alla Conferenza Tricontinentale, tenutasi nel 1967 a L'Avana, approvò una risoluzione che raccomandava l'estinzione dello Stato di Israele. Come si può vedere, quando si tratta degli ebrei, c'è una propensione alle soluzioni finali eliminazioniste. A destra e a volte anche a sinistra..

- Jacob Gorender - 1998 - fonte: Blog da Boitempo -

[Nota]: La presente edizione di "Marxismo ed ebraismo", oltre a essere stata completamente rivista, amplia l'ambito temporale dello studio fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, includendo un capitolo sugli ebrei nelle brigate internazionali della guerra civile spagnola (1936-1939), e un altro sulle idee di Leon Trotsky (1879-1940).

martedì 4 marzo 2025

Come la mano dell'estrema destra lava la mano della democrazia !!

Il sudiciume sotto il tappeto della libertà
- Sul legame interno tra democrazia liberale e nuovo estremismo di destra -
di Robert Kurz

Ad ascoltare i democratici certificati, sembra di avere a che fare come con un religione manichea: per cui, nel mondo, ci sarebbe come un principio buono e uno cattivo. Il bene per eccellenza è la democrazia, insieme all'economia di mercato che l'accompagna; mentre invece Il male è la dittatura, il totalitarismo, il fascismo, il razzismo, ecc. Gli umori e le atrocità dell'estrema destra  devono per forza provenire tutte da "fuori", da quello che è stato il primitivo background della "bestia umana", prima della civilizzazione, o forse la cosa è dovuta solo a cattiva educazione. Questo ingenuo pensiero democratico omette il fatto che, storicamente, democrazia e totalitarismo non hanno mai avuto, storicamente, alcuna relazione esterna l'uno con l'altro. Le dittature di modernizzazione, più o meno totalitarie di ogni sorta - da Cromwell a Hitler - non sono state delle semplici aberrazioni rispetto al "buon" principio della democrazia, ma esse costituivano piuttosto una sorta di stadio larvale della democrazia stessa. Dopo la seconda guerra mondiale, la democrazia occidentale diventa indissociabile dalla storia che porta fino alla situazione attuale, e tale storia è stata sempre e ovunque scritta con il sangue. Potrebbe sembrare strano considerare le dittature moderne, piuttosto che come in opposizione alla democrazia, come se esse rappresentassero invece le forme storico-genetiche di imposizione che ha avuto la democrazia stessa. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la democrazia è anche, a partire dal suo stesso nome, una forma di dominio: vale a dire, l'auto-dominio dell'uomo attuato nel nome di principi astratti, l'auto-sottomissione alle leggi del mercato totale. Sono state le dittature della modernizzazione, quelle che (usando differenti nomi ideologici) hanno istituito socialmente questo nucleo del dominio della democrazia: la sottomissione a delle norme temporali astratte, alla disciplina di fabbrica e di ufficio, alla necessità di un "lavoro" alienato svolto per denaro. In nessun altro luogo, gli uomini hanno accettato così tanto volentieri, e di buon grado, di piegarsi a queste esigenze. La democrazia, nel senso attuale del termine, significa innanzitutto l'interiorizzazione di questi obblighi e legami, a tal punto che gli uomini, diventati monadi astratte del lavoro e del denaro, eseguano da sé soli tutto ciò che un tempo veniva loro imposto. Il totalitarismo, la logica della produzione di merci che è stata così generalizzata, non è più una forza esterna, ma essa risiede negli individui stessi. Ed è essenzialmente qui che si esaurisce la differenza tra la dittatura totalitaria (aperta) e la democrazia totalitaria (interiorizzata) nella modernità. Persino il nazionalsocialismo, come ha sottolineato Ralf Dahrendorf, possedeva ancora numerose caratteristiche proprie di una rivoluzione modernizzatrice: non solo per quel che riguardavano le nuove forme di consumo industriale di massa (Volkswagen, autostrade), che vennero commercializzate dopo il 1945 e che portarono al "miracolo economico", ma anche mediante il rimodellamento e la messa in riga dei vecchi circoli sociali.

   In astratto, il “Volksgenosse” in uniforme era, per così dire, al pari della Volkswagen, il prototipo dello scapolo di oggi, altamente individualizzato e completamente omologato, come descritto da Ulrich Beck nel suo “La società del rischio”. Pertanto, tra il nazionalsocialismo e la democrazia del dopoguerra esiste quello che è un complesso legame interno, il quale è  poi stato represso dai democratici brevettati solo perché essi non volevano riconoscere il momento totalitario della democrazia stessa. Le provocazioni naziste, i graffiti con la svastica e gli atti barbarici dei bambini violenti di oggi, mostrano cinicamente, mettendolo in luce, ciò che è stato represso. Nei suoi ragazzi ribelli, la democrazia vede soltanto il proprio riflesso, nel quale ricompaiono le brutte cicatrici, altrimenti nascoste, prodotte dalla sua stessa storia di imposizione. Tuttavia, a diventare visibili non sono solo le cicatrici del passato, ma anche le conseguenze, altrettanto orribili, del presente democratico. Infatti, la libertà della democrazia liberale è identica al suo nucleo di dominio, dal momento che questa libertà è sempre e solo la "libertà economica" di comprare e vendere sé stessi, la libertà delle persone solvibili. Non è prevista alcun'altra libertà. La forma di azione di tale libertà è la competizione, la concorrenza, la quale, essenzialmente, vuole essere totale: "Ciascuno per sé, Dio contro tutti". E nella democrazia dell'economia di mercato,  la concorrenza non viene forse elogiata in quanto principio superiore che, solo, può garantire "l'efficienza"? La democrazia è una società di performance pura, laddove nessun handicap viene visto di buon occhio, e la quale non tollera (in linea di principio) alcuno slancio di umanità che non possa sottomettersi al criterio della "redditività". In tal modo, gli estremisti di destra, in realtà, proprio nel momento in cui rinunciano a ogni solidarietà umana e attaccano i rifugiati, le minoranze, le persone con disabilità e i senzatetto - in quanto scomodi "fattori di costo" -  stanno solo parlando apertamente di quello che è il principio più intimo della democrazia stessa. Pertanto, è proprio a tal proposito che i democratici non dovrebbero essere sorpresi o indignati dal fatto che i nuovi estremisti di destra si considerino democratici, e vogliano essere riconosciuti come una componente legittima della democrazia. In particolare, questo vale per tutte le nuove forme di estremismo di destra, come il miliardario Ross Perot o la star repubblicana Newt Gingrich negli Stati Uniti, o il Gruppo Berlusconi [N.d.T: sta per, “Forza Italia”]o la "Lega Nord" in Italia, e il partito di Jörg Haider (significativamente, il "Partito della Libertà") in Austria. Ciò che qui ci colpisce,  è l'odore nauseabondo di un darwinismo sociale tutto occidentale e universalista, il quale predica un individualismo asociale, che in nome dei "forti" vuole sbarazzarsi degli "improduttivi", per poter semplicemente gestire la povertà in uno Stato di polizia. Il mondo democratico,nel quale le persone vengono suddivise in vincitori e vinti dell'economia di mercato, alimenta tale darwinismo sociale secondo i propri criteri. Questi demagoghi populisti, trovano un'eco anche tra i perdenti, ai quali viene suggerito di far parte del gruppo dei "forti", ai quali viene offerta una posizione vincente fantastica, da cui, in nome della competizione, diventa lecito attaccare i più deboli . E anche i piromani, gli attentatori e gli assassini dell'estrema destra clandestina: cosa fanno se non "perseguire la concorrenza con altri mezzi"? Se la democrazia ha fatto un idolo, della capacità di imporsi con forza nella società della performance totale, allora non dovrebbe affatto stupirci che questa mentalità - che essa stessa ha coltivato - proliferi al di là di ogni limite riguardo alle "regole del gioco" giuridicamente codificate. In fin dei conti, la democrazia dell'economia di mercato non possiede una sua propria morale, che derivi dai suoi principi immanenti e che non sia stata introdotta dall'esterno secondo dei criteri artificiosi, di fatto estranei ai suoi meccanismi. In ogni caso, lo stato sociale, così tanto invocato al fine di sopperire ai deficit sociali strutturali della democrazia di mercato, nel mondo non è mai stato altro che un prodotto di lusso per una manciata di paesi vincitori dell'OCSE. Finché si continuerà a illudersi che questi “legami sociali” costituiscano un obiettivo alla portata di tutti i Paesi, il lato brutto della democrazia rimarrà sommariamente oscurato. Ma dal momento che il “sistema di sfruttamento” economico della democrazia - vale a dire la macchina sociale per la trasformazione del “lavoro astratto” in denaro - minacciava di bloccarsi, si è reso necessario scatenare il diluvio del male. Sono stati proprio i risultati della così tanto decantata concorrenza ed "efficienza" ad aver generato, a partire dagli anni '80, la disoccupazione di massa su una scala senza precedenti: secondo gli studi dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) di Ginevra, il tasso di disoccupazione della popolazione attiva mondiale supera ormai il 30%.

  La razionalizzazione e l'empowerment resi possibili dalla rivoluzione microelettronica, il ridimensionamento delle linee organizzative ("lean production") e la globalizzazione dei mercati finanziari e delle materie prime, nonché la frammentazione internazionale dei processi produttivi, rendono economicamente "superflua" una massa sempre più crescente di persone, anche nei paesi centrali della democrazia occidentale. Le finanze pubbliche vengono ostacolate, lo stato sociale si sta riducendo e sta perdendo credibilità, lo stato democratico si sta ritirando perfino dalla cultura. La democrazia stessa sta cominciando ad abbandonare le conquiste della civiltà, poiché essa viene soffocata dal suo stesso criterio di "vitalità finanziaria". Ancor prima di qualsiasi occupazione ideologica del fenomeno, il meccanismo sistemico oggettivato della democrazia di mercato ha iniziato ad escludere, automaticamente, sempre più persone. I partiti democratici, compresi socialdemocratici e verdi, così come la burocrazia statale democratica, diventano gli agenti politici di questa esclusione, anche se se se ne lavano le mani e vogliono rendere "socialmente accettabili" le atrocità, per usare una frase del dizionario del diavolo. Questa ipocrisia è talmente insopportabile che ora fomenta apertamente il darwinismo sociale di estrema destra. L'insicurezza esistenziale, che sta crescendo a una velocità vertiginosa, genera un tale potenziale sociale, a causa della paura per cui qualsiasi persona sfortunata vorrebbe disperatamente far parte della "élite" e dei famigerati "benestanti", anche se questo si traduce nelle irrazionali esplosioni di violenza contro quelli che sono i concorrenti sociali, reali o percepiti come tali. Non si può fare a meno di sospettare che, per i coraggiosi democratici, il terrorismo di strada e gli attacchi terroristici di destra non siano del tutto inopportuni. In modo che così possono usarli come una cortina fumogena, sotto le pie parole di "indignazione di fronte alla disumanità", per poi lasciarsi trasportare dallo stato d'animo popolare dell'estrema destra e attuare, con legittimazione costituzionale, misure in termini di legislazione sociale e di diritto d'asilo che siano del tutto allineate al "male", dichiarandole anche ora come se fossero una sorta di difesa omeopatica "contro il pericolo della destra". È così che la mano dell'estrema destra lava la mano della democrazia.

  Anche la rinascita dell'antisemitismo ha le sue origini nel medesimo potenziale sociale di paura generato dalla democrazia stessa. All'odio per i deboli, razzialmente etichettati come inferiori, corrisponde l'odio contro il fantasma di una super-intelligenza malevola e delirante che, in quanto "ebreo", si nasconderebbe dietro i poteri incompresi del denaro, provenienti dalla sua stessa forma di feticcio sociale. La crisi del sistema di mercato, e dei suoi criteri di redditività, si manifesta non solo come una crisi del mercato del lavoro, ma anche, in ultima istanza, come una crisi dei mercati finanziari: sotto la pressione della razionalizzazione, sempre più capitale monetario non poteva più essere investito nell'espansione e nell'occupazione, e ha dovuto migrare verso i settori speculativi dei derivati. Negli anni '80, gli yuppies della finanza venivano celebrati e i giovani della simulazione democratica fiorivano, e tutto ciò avveniva in quella che era un'atmosfera di capitalismo da casinò. Da quando la festa è finita, i postumi della sbornia si fanno sentire, e l'inevitabile scoppio della bolla finanziaria e speculativa globale si profila sotto forma di fallimenti bancari (Barings), di scandali finanziari e di crisi valutarie; ed è stata la stessa opinione pubblica democratica ad aver cercato dei capri espiatori, anziché ammettere i limiti del sistema industriale basato sull'economia di mercato:  sentiamo ipocritamente ripetere sui giornali che "Gli Speculatori" stanno distruggendo "la nostra bella economia di mercato". Questa zelante caccia all'uomo portata avanti dai democratici, che all'improvviso mimano la serietà economica, si differenzia solo di poco da quella della folla antisemita che, assetata di denaro sino al midollo, sospetta che dietro al crack finanziario ci sia una “cospirazione giudaica globale”. È impossibile negare che a generare, alimentare e fa crescere il "male" dell'estrema destra, sia il processo di decomposizione sociale e di civiltà della stessa democrazia di mercato. Ecco perché è assurdo voler difendere la democrazia, così com'è, contro la "destra". Se la democrazia non è capace di un'autocritica radicale, e di un'auto-abolizione della sua macchina economica, non ci potrà mai più essere alcuna pace interiore. O le regole del gioco vengono cambiate radicalmente, o la democrazia stessa si trasforma in barbarie, ed ecco che allora l'estrema destra non è più nient'altro che una componente di una stessa e unica forma di evoluzione. Una critica fondamentale della società, non è mai stata altrettanto drammaticamente necessaria così come lo è oggi. Ma la sinistra, che ha sempre considerato sé stessa come portatrice di una critica radicale ed emancipatrice, è rimasta in un silenzio imbarazzante. Il crollo del socialismo di stato stalinista, che non è mai stato altro che una dittatura di "modernizzazione di recupero", con i suoi burocratici "mercati pianificati", è stato invece erroneamente interpretato come se rappresentasse la presunta confutazione di qualsiasi critica fondamentale dell'economia di mercato. Nel vuoto ideologico lasciato dal fallimento della sinistra democratica, il fondamentalismo e l'estremismo di destra, che non hanno nulla di emancipatorio, si stanno diffondendo in tutto il mondo, attraverso la crisi. Ad agire senza ritegno, è una miscela di pseudo-critica radicale, sia della modernità che, simultaneamente, quella della brutale estensione dei moderni criteri di performance e di concorrenza, che ha sempre caratterizzato il populismo demagogico di destra. Se una nuova critica emancipatrice della società non riuscirà a sviluppare delle forme di sicurezza sociale che vadano al di là del mercato e dello Stato (nazionale), e a estrarre risorse dai meccanismi di mercato in funzione, radicalizzando la trasformazione socio-ecologica, anziché cedere invece sempre più ai dettami del mercato mondiale, allora la democrazia diventerà il becchino di sé stessa.

- Robert Kurz - Pubblicato in EuropaKardioGramm (ECG) nell'ottobre 1995 - 
- fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -

lunedì 3 marzo 2025

Con ansia, aspettando la fine!!

Aspettando la fine: sulle Cooperative !!
- di Robert  Kurz -

[...] «Considerata nella sua totalità, la proprietà statale non è altro che una forma paradossale di proprietà privata. Quando questa proprietà statale non viene amministrata dallo Stato borghese, ma da uno "Stato operaio" guidato dai soggetti metafisici della "classe operaia" e del "partito dei lavoratori" (politico) non cambia nulla. Le relazioni strutturali che derivano dalla proprietà statale rimangono le stesse, indipendentemente dai loro depositari sociali. In tal senso, l'analisi estremamente controversa del socialismo di Stato fatta da Charles Bettelheim negli anni '70 era inadeguata, ed era ancora prigioniera dell'orizzonte concettuale del marxismo del movimento operaio. Bettelheim concepiva gli elementi della sfera privata in modo sociologicamente riduttivo, come se si trattasse di una mera strategia soggettiva messa in atto da un certo gruppo sociologico – i manager aziendali – nell'uso del loro "potere". Non percepiva che la forma della proprietà privata, indipendentemente dalle dichiarazioni sociologiche di buona volontà, è inerente a qualsiasi modo di produzione basato sul valore. Quale particolare soggetto storico sia costituito dai rispettivi sistemi di produzione di merci non ha alcuna importanza: questo sistema produce sempre dei tipi analoghi di élite funzionali corrispondenti alle forme assunte dalla "valorizzazione del valore". In questo senso, ogni Stato è, per definizione, uno Stato borghese, poiché ogni nazione è, nella sua essenza, una nazione borghese, tutto il denaro, come forma universale di mediazione, è denaro borghese, e la produzione di merci, come forma universale di riproduzione sociale, è una produzione borghese di merci. Il predicato è, a rigor di termini, superfluo; Ha rilevanza solo per una coscienza che può pensare solo all'interno delle categorie borghesi e tenta di risolvere le contraddizioni del modo di produzione capitalistico sul terreno di queste categorie borghesi reali. Il problema risiede in ultima analisi nelle relazioni strutturali, nel modo in cui queste ultime sono dettate dalla forma sociale feticistica del valore, e non negli interessi sociologici secondari (legati a priori a tale struttura) di gruppi, categorie o classi sociologiche, la cui stessa esistenza è un prodotto storico della forma valore.La proprietà cooperativa non fa meglio della proprietà statale in questo senso, quando è un'impresa produttrice di merci che assume la forma di una cooperativa. Il proprietario di questa proprietà non è, infatti, un'astratta universalità giuridico-politica della società, ma un particolare soggetto collettivo. Poiché questa collettività rappresenta un'unità che può essere afferrata dall'individuo, l'idea di cooperativa è sempre stata legata alla forma embrionale di una riproduzione liberata dal capitalismo.

Lo stesso movimento alternativo all'inizio degli anni '80 ha diffuso l'idea di "produzione significativa" in "strutture egualitarie senza padroni" come elemento di un modo di vita alternativo ed emancipatore. Fin dall'inizio, tuttavia, il suo carattere alternativo è stato limitato allo spazio sociale interno di una nascente produzione di merci. La sua mediazione sociale, al contrario, finiva "ovviamente" sul mercato, dove i prodotti della cooperativa o dell'impresa alternativa dovevano essere venduti. Naturalmente, un'operazione di questo tipo non porta al superamento della forma merce. Le imprese alternative fanno ancora parte dell'economia di mercato universale, che può esistere solo come sfera di realizzazione del capitale. Di conseguenza, essi costituiscono ancora una parte della riproduzione capitalistica e si sottomettono alle leggi coercitive della concorrenza. In quanto "percettori di denaro", i membri di tali imprese continueranno a sottomettersi, indipendentemente dalle loro intenzioni, alla forma economica dell'interesse privato. L'universalità astratta del denaro deve essere imposta, in ultima istanza, come determinazione del loro modo di vivere e di produrre. Per questo motivo, le imprese cooperative o alternative affondano o nuotano a forza di "autosfruttamento", per essere infine trasformate, con il pretesto della "professionalizzazione", in officine piccolo-borghesi sotto la più rigida disciplina, con padroni, pressioni per aumentare la produzione, ecc., per poter beneficiare di prestiti bancari. È quindi chiaro che ogni mediazione sociale per mezzo della forma del valore economico conduce necessariamente alla corrispondente forma giuridica della proprietà privata, in qualsiasi forma essa possa assumere. Ciò è particolarmente vero quando lo zelo emancipatore riformista osa tentare di includere, in apparenza, la propria forma di mediazione, ma, invece del superamento del valore, propone solo di inventare una sorta di sostituto del valore. Ciò diventa assolutamente evidente nelle "fantasie monetarie" – come le chiamava Marx – di, per esempio, di un Proudhon o di una setta economica come quella rappresentata dai seguaci di Silvio Gesell. Poiché la loro critica della forma capitalistica di mediazione si limita al capitale fruttifero, tutto ciò che tentano di fare è introdurre una sorta di "denaro senza interessi" come compensazione diretta per le unità di produzione, senza percepire il problema della forma astratta del valore in quanto tale. Una critica così riduttiva della forma capitalistica di mediazione non riesce nemmeno a raggiungere il livello della critica della proprietà privata fatta dal vecchio marxismo: poiché la soluzione sembra loro, esclusivamente, il "denaro onesto", per Proudhon, Gesell e i suoi seguaci la proprietà privata dei mezzi di produzione è particolarmente sacra. Ciò che hanno in mente non è più, in nessun modo, l'emancipazione sociale, ma una società di piccolo borghese e la riduzione della socializzazione attraverso la forma merce a un capitalismo di micro-imprese, con tutta l'ottusità repressiva del feticismo del lavoro e della produzione.» [...]

- da: "Anti-economia e anti-politica: sulla riformulazione dell'emancipazione sociale dopo la fine del "marxismo" - di Robert Kurz  -
fonte: https://libcom.org/article/anti-economics-and-anti-politics-reformulation-social-emancipation-after-end-marxism-robert

Continuare a ... parlare !!

 Amicizia, comunismo e conversazione infinita: una prospettiva senza compromessi in tempi di crisi
- di Comunismo Gotico -

1. L'amicizia come spazio per una conversazione infinita
Maurice Blanchot - ne "L'Amicizia"e ne "La conversazione infinita"-  parla dell'amicizia come di uno spazio di riconoscimento reciproco, il quale non si riduce all'appartenenza, o al possesso dell'altro, bensì all'apertura di una relazione senza chiusure, in un movimento senza fine. In tal senso, la conversazione tra amici è un flusso che non cerca delle conclusioni definitive, ma serve a mantenere viva la possibilità del pensiero, dell'immaginazione e della disputa fraterna. In questi tempi di radicalizzazione della destra e di confusione della sinistra, quando i discorsi sembrano essere come chiusi in quelle che sono delle identità rigide, o rinchiudersi in un cinismo paralizzante, ecco che l'amicizia appare come una forma di resistenza. Non si tratta di resistenza morale, quanto piuttosto della di creazione di spazi all'interno dei quali il politico non riguardi solo un confronto con il nemico, bensì anche un'esplorazione del possibile. È nell'infinita conversazione, che rimane aperta la questione di che cosa significhi essere comunista oggi, senza cadere nel feticismo delle parole, o nella vuota strumentalizzazione del passato.

2. Il comunismo, più che un'idea, è una pratica di incontro
Il comunismo, una volta spogliato del suo carattere programmatico, o della sua conversione in parola d'ordine, diventa un modo per esperire l'immanenza del comune. Georges Bataille intendeva la comunità, non come un'entità data, ma come un eccesso, come una zona in cui l'individuo deborda e si ritrova nell'altro senza che ci sia bisogno di una fusione o di una subordinazione. In un'epoca in cui la sinistra appare come frammentata tra la difesa dei diritti all'interno del capitalismo, da una parte, e la nostalgia paralizzante per le forme di lotta del passato, dall'altra, ecco che allora la conversazione comunista non può più limitarsi semplicemente a gestire l'esistente, o a idealizzare ciò che è perduto. L'amicizia, nel suo carattere inattuale, ci ricorda come il comune non sia un'essenza quanto piuttosto una possibilità in costruzione. Non si tratta più di organizzare le masse a partire da un'avanguardia illuminata, bensì di sostenere la conversazione comunista laddove si resiste alla mercificazione totale della vita.

3. Contro la confusione di sinistra e la radicalizzazione di destra
La confusione della sinistra è dovuta, in larga misura, alla sua paura di essere intransigente. Nella sua smania di essere inclusiva e plurale, ha spesso finito per dimostrarsi incapace di segnare dei limiti netti nei confronti del capitale, riguardanti le forme riformiste che lo sostengono, e le logiche del potere che lo perpetuano. La destra, d'altra parte, non ha esitato a radicalizzarsi, a costruire narrazioni unificanti, e a presentarsi come se fosse il polo della certezza in un mondo incerto. Avere una prospettiva comunista intransigente, non significa chiudersi alla differenza, ma affermare che ci sono delle verità che non possono essere negoziate. In tempi in cui tutto diventa opinione, quando il mercato delle idee viene governato per mezzo della spettacolarizzazione e della viralità, ecco che mantenere aperta la conversazione infinita non è relativista, ma significa sostenere la possibilità di una verità comune, la quale non sia chiusa nei dogmi, ma che nemmeno si dissolva nell'indifferenza.

4. Il comunismo, e la conversazione come orizzonti di esperienza
In " Egress: on Mourning, Melancholy and Mark Fisher", Matt Colquhoun ritorna sull'importanza avuta da Mark Fisher, nella costruzione di quegli spazi in cui la disperazione non diventa rassegnazione, ma il modo di cercare delle uscite. Fisher aveva capito che il capitalismo non espropriava solo i beni materiali, ma anche il tempo, l'immaginazione e la possibilità di pensare oltre ciò che viene concesso. La "conversazione infinita" diventa così un modo per recuperare quel tempo espropriato, per aprire degli spazi dove il comune si costruisce non solo in quanto programma, ma anche come pratica quotidiana. In questo senso, l'amicizia è comunista, dal momento che resiste alla logica dello scambio e dell'equivalenza; è una relazione che non si basa sul calcolo, ma sulla gratuità della condivisione del pensiero, del tempo e della vita. Di fronte a quella che è l'atomizzazione neoliberista, nella quale ogni legame è strumentalizzato, e ogni conversazione viene misurata in termini di utilità, ecco che l'amicizia comunista appare come un gesto di insubordinazione.

5. Per l'intransigenza del Comune
Se la sinistra vuole uscire dalla sua paralisi, bisogna che reimpari a essere intransigente riguardo tutto ciò che conta davvero: l'abolizione del capitale, la negazione dello sfruttamento e la costruzione dei beni comuni. Ma una tale intransigenza, non può essere solo una semplice negazione, quanto piuttosto l'apertura di un orizzonte nel quale la conversazione comunista viene mantenuta viva, senza paura della differenza, e senza però perdere la chiarezza del suo scopo. Nei momenti bui, quando la reazione viene vista come se fosse l'unica via d'uscita, l'amicizia comunista e la conversazione infinita non sono né un lusso né un rifugio estetico, bensì diventano la condizione stessa della possibilità di un'altra vita.

6. L'amicizia come insurrezione silenziosa
Nella misura in cui l'amicizia comunista rappresenta una Resistenza contro la logica del capitale, allora essa è anche un'insurrezione silenziosa contro i tempi morti del capitalismo. In un mondo dove tutto dev'essere produttivo, e nel quale ogni interazione è mediata dalla performance e dall'accumulazione, smettere di parlare senza alcun altro scopo che non sia quello di sostenere la possibilità del Comune diventa un atto di insubordinazione. Maurice Blanchot intendeva l'amicizia come una relazione che non si esaurisce nel riconoscimento reciproco, ma che si sostiene nell'interruzione: l'amico non è colui con cui si è d'accordo in tutto, ma è colui che consente un'apertura infinita, una differenza che non sia un ostacolo ma un impulso. In tal senso, la conversazione infinita finisce per essere la struttura stessa dell'amicizia comunista: non un'identità chiusa, bensì una comunità in continua ridefinizione, uno spazio in cui il possibile viene esplorato senza che ci si arrenda alla logica del presente. Proprio nel momento in cui la sinistra teme il disaccordo interno, e la destra lo strumentalizza per presentarsi come se fosse un blocco omogeneo, ecco che il recupero dell'amicizia in quanto insurrezione silenziosa diventa essenziale. Non si tratta di uniformare la militanza, o di evitare il conflitto, ma di sostenerla sul piano della possibilità, e non su quello della frammentazione definitiva. La conversazione infinita non è uno spazio all'interno del quale tutte le idee appaiono ugualmente valide, ma è dove la verità comunista può essere affinata a contatto con la differenza
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7. Il comunismo, la malinconia e la necessità di una nuova intransigenza
Matt Colquhoun, in "Egress", analizza il dolore e la malinconia, visti come affetti che possono essere sia produttivi sia paralizzanti. Mark Fisher intendeva la nostalgia come una trappola, allorché essa diventava un rifugio estetico senza alcun potere trasformativo. In questo senso, la sinistra è stata vittima della sua stessa malinconia: la nostalgia di un passato rivoluzionario senza la capacità di aggiornare il suo orizzonte comunista. Ma la malinconia non dev'essere un freno, bensì un punto di partenza. Walter Benjamin parlava del materialista storico come di chi “sfiora la storia andando contromano”, cercando nel passato non tanto un ritorno all'uguale, ma delle scintille che possano illuminare un futuro possibile. L'intransigenza comunista di cui parliamo non è dogmatica o nostalgica, ma consiste nel rifiuto radicale di accettare che ciò che c'è sia l'unica cosa possibile. La destra ha compreso meglio della sinistra il potere dell'immaginazione politica, anche se lo ha usato per costruire delle mitologie reazionarie, dei sogni di supremazia razziale e delle paranoie identitarie. Di fronte a tutto ciò, il comunismo deve recuperare il proprio immaginario, ma non a partire dalla nostalgia, ma dalla possibilità della rottura. La conversazione infinita rappresenta lo spazio nel quale si mantiene viva l'immaginazione, laddove il lutto per ciò che è andato perduto non diventa rassegnazione, ma apre piuttosto alla ricerca di quelle che possono essere delle vie d'uscita.

8. Comunismo senza compromessi: oltre il programma, oltre l'identità
Essere comunisti oggi non significa aderire a un programma chiuso, o definirsi a partire da un'identità fissa. L'intransigenza di cui stiamo parlando non è l'intransigenza della rigidità ideologica, ma quella del rifiuto assoluto di accettare che il mondo debba continuare ad andare avanti così come va. È l'intransigenza del pensiero che non si lascia addomesticare dal realismo capitalista, l'intransigenza dell'amicizia che non si trasforma in una rete di contatti, l'intransigenza della conversazione che non si piega all'utilità immediata. In tempi di crisi, quando la confusione diventa la norma, la tentazione della certezza assoluta si fa grande. La destra offre delle soluzioni semplicistiche a quelli che sono problemi complessi, e la sinistra, nella sua paura di apparire dogmatica, diventa sempre più incapace di affermare chiaramente i suoi principi. Ma in tempi di reazione, non c'è niente di più pericoloso di una sinistra che ha paura di affermare ciò che essa veramente vuole. Comunismo intransigente non significa chiudere alla possibilità di un dibattito, bensì vuol dire aprirlo nella giusta direzione. Significa rifiutare quella moderazione che trasforma la politica in un'amministrazione dell'esistente e affermare che la lotta comunista non è un'opinione tra le tante, ma rappresenta, al contrario, l'unica via d'uscita realistica dalla catastrofe capitalistica. La conversazione infinita non è un gioco di parole senza conseguenze, quanto piuttosto lo spazio in cui il comunismo può ridefinirsi senza tradirsi.

9. Amicizia, conversazione e rottura
L'amicizia comunista non è un rifugio sentimentale, né una consolazione per la sconfitta. Ma è una prassi politica in sé, uno spazio nel quale la conversazione infinita serve a mantenere viva la possibilità di un altro mondo. In tempi di radicalizzazione della destra, e di confusione della sinistra, mantenere questi spazi è diventato più urgente che mai. Essere comunisti oggi, significa non solo lottare contro lo sfruttamento economico, ma anche contro la cattura della nostra immaginazione, contro la privatizzazione della conversazione, contro la logica che trasforma ogni legame, ogni relazione, in un mezzo per qualcos'altro. L'amicizia comunista, nella sua gratuità e intransigenza, è già di per sé un embrione di ciò che verrà. Non si tratta solo di resistere. Si tratta di continuare a parlare, di continuare a immaginare, di continuare a costruire il Comune. Poiché è nella conversazione infinita, nell'amicizia che non si piega alle logiche del mercato, nel rifiuto radicale di accettare questo mondo come se fosse l'unico possibile, che il comunismo rimane reale.

- Comunismo Gotico - Pubblicato il 28/2/2025 -

domenica 2 marzo 2025

Lavorare stanca…

Produci o muori! La debolezza maschile sotto il capitale: virilismo, lavoro e lotta di classe
- di Comunismo Gotico -

Il capitalismo, ha forgiato una specifica rappresentazione della mascolinità, vale a dire, quella del soggetto forte, produttivo e dominante. Questa figura è stata costruita sulla legge del valore, sulla necessità di trasformare l'uomo in un ulteriore ingranaggio nella macchina di produzione e riproduzione del capitale. Il patriarcato, lungi dall'essere una struttura separata, si intreccia con il modo di produzione capitalistico, generando pertanto una mascolinità funzionale allo sfruttamento e all'accumulazione. Il virilismo inter-macho è il modo in cui, nella competizione e nella guerra simbolica, si riproduce la mascolinità tra gli uomini stessi. Ci si aspetta che il maschio incarni forza, resistenza e produttività incrollabile. La precarietà del lavoro, la disoccupazione e la proletarizzazione non solo incidono sulle condizioni materiali di vita, ma generano anche delle crisi identitarie in coloro che sono stati socializzati a partire dall'idea che il loro valore dipenda dalla loro propria capacità di generare ricchezza e dominio. Ma sotto la legge del valore, non tutti gli uomini sono egemonici. Ci sono mascolinità che non si adattano allo stampo della virilità dominante, le quali, nei rapporti di produzione sono state escluse o degradate. Uomini depressi, malati, neuro-divergenti, disoccupati cronici, precari, razzializzati, dissidenti di genere, disabili, migranti impoveriti, carcerati, espulsi dall'organizzazione della produzione e della riproduzione. Tutti coloro che, non potendo o non volendo soddisfare al mandato della mascolinità funzionale al capitale, sono stati emarginati, segregati e condannati all' isolamento strutturale. Il capitale ci vuole forti per sfruttare i nostri corpi e le nostre menti, ma quando ci logoriamo ci scarta. Esige una produzione costante, ma quando le nostre patologie mentali, i nostri esaurimenti nervosi o la nostra incapacità di sostenere il ritmo produttivo ci rendono soggetti non redditizi, ci espelle. Non si tratta solo di un problema individuale, ma di una struttura di dominio che si regge sullo sfruttamento del lavoro e sulla necessità di produrre soggetti docili ai suoi ritmi. È per questo che, quanto meno, nella guerra di classe dobbiamo combattere contro il mondo delle merci. Nonostante la depressione, nonostante le deformazioni che ci vengono inflitte, nonostante la precarietà e il dolore. Perché se è stato il lavoro a costituire le fondamenta della nostra oppressione, sarà la sua distruzione a costituire la base della nostra liberazione. Rompere con la produzione, rompere con la produttività, smettere di misurarci con gli standard della performance. Distruggere il patriarcato, significa anche distruggere la mascolinità capitalista e il suo mandato di dominio, la sua indiscutibile volontà e la sua forza disumana. Si tratta di abolire non solo il capitale, ma anche tutte quelle forme di soggettivazione che esso ha imposto, in modo che non si possa costruire alcuna identità in base all'utilità all'interno del sistema di sfruttamento. Che la guerra di classe non sia solo una battaglia per la redistribuzione della ricchezza, ma che distrugga anche la mascolinità virilista, il lavoro come missione, la legge del valore come elemento organizzatore delle nostre vite e dei nostri corpi. Questo perché, dopo il capitale, l'unica mascolinità possibile sarà quella che non ha bisogno di esistere.

- Comunismo Gotico - Pubblicato il 27/2/2025 -

sabato 1 marzo 2025

Le Analisi, quelle corrette: non ci serviranno a molto, se non a... capire!!

Conferenza sulla sicurezza di Monaco: il peggio deve ancora venire
- da "BATTAGLIA COMUNISTA" -

Stiamo ancora esaminando solo i preliminari, ma le linee guida sono già state elaborate. Prima che iniziassero i negoziati di "pace" tra Russia e Ucraina, le parole di JD Vance, che riecheggiano quelle del suo volubile presidente, sono chiare e inequivocabili. Prima, però, bisogna spiegare il quadro di tutto ciò che sta per accadere, sia dal punto di vista dei nuovi equilibri imperialisti, sia per il clima di guerra che si sta aggravando mentre si parla di pace. Questo quadro è la crisi strutturale che il capitalismo mondiale sta attraversando; Una crisi che sta trascinando le economie delle maggiori potenze imperialiste verso un'economia di guerra sempre più oppressiva. Si tratta di un riarmo, anche a costo di tagliare quel poco che resta di sociale e di avvicinarci a una catastrofe umanitaria senza precedenti, con il rischio devastante di un conflitto più ampio. A Monaco di Baviera, con l'Ue, più Zelensky come presidente dell'interessato, presente solo come "ascoltatori", il vicepresidente americano si è subito lanciato in minacce e ultimatum, affermando che gli Usa non spenderanno un solo dollaro in più per la difesa dell'Ucraina. Se vuole continuare la guerra contro la Russia, che è in Europa e non in America, allora l'Europa deve pensare a come farlo e aumentare le tasse per il necessario riarmo (dal 2% al 5% del PIL). È finita l'epoca in cui l'ombrello americano della difesa europea (NATO) era sempre aperto. Ora tocca ai 27 Paesi del vecchio continente mettere mano alle proprie tasche. Eppure è abbondantemente chiaro che la guerra nell'Europa orientale non è tra Russia e Ucraina, ma tra Russia e Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno prima fatto pagare al popolo ucraino le conseguenze della guerra, poi alla Russia stessa: costringendolo a una lunga guerra di logoramento armando l'Ucraina. Successivamente, i paesi europei hanno dovuto pagare in termini di costi energetici e di altro tipo, comprese le restrizioni al commercio e alle transazioni finanziarie, mentre gli Stati Uniti perseguivano il loro duplice obiettivo di sostituire le forniture russe di gas e petrolio e continuare a rendere l'Europa dipendente dal dollaro diminuendo il ruolo dell'euro. Tra l'altro, un megawatt di gas in America costa 7 dollari, in Europa 40 dollari, portando enormi profitti alle aziende americane, nonostante i costi di trasporto. Come a dire: "prendere o lasciare", altrimenti la minaccia dei dazi non sarà solo un deterrente ma una pesante punizione per chi non si adeguerà. Trump trova conveniente avere un'Europa economicamente debole e politicamente sottomessa. Non sarà invitato al tavolo dei negoziati poiché la sicurezza dell'Europa non è più una priorità degli Stati Uniti. Se necessario, i dazi minacciati colpiranno anche i vecchi alleati. Una volta scaricato Zelensky, i negoziati di pace, ruoteranno attorno al principio di garantire a Putin il raggiungimento di tutti quegli obiettivi che non è riuscito a raggiungere sul terreno. La penisola di Crimea non è più in discussione, è territorio russo e rimarrà tale. La regione del Donbass con le sue terre rare, in quanto territorio di lingua russa, farà parte della grande Russia. Questa proposta sembra in conflitto con le ambizioni americane di avere un diritto di prelazione su questi giacimenti, ma Trump prima "spara" e poi guarda per vedere che effetto ha. Infine, l'ingresso dell'Ucraina nella NATO, che è stata una delle cause dello scoppio della guerra, non è più all'ordine del giorno.

All'Ucraina non resta che la "sicurezza" dei suoi confini, un processo di ricostruzione fisica ed economica, a cui gli Stati Uniti hanno aderito, ma a condizione che una parte significativa degli investimenti (cioè dei costi) sia pagata dagli europei mentre i profitti speculativi (derivanti dalle costruzioni) siano americani. Tutto questo è come aggiungere la beffa al danno, perché in pratica lascerà Kiev con un debito complessivo insostenibile. Se queste linee guida saranno seguite, la politica di Trump scagionerà la Russia dal suo ruolo di "aggressore malvagio", dopo essersi ripresa dalle sanzioni commerciali e finanziarie (anche queste saranno sul tavolo dei negoziati di "pace") e essersi indebolita militarmente al punto giusto, tanto da non rappresentare più una minaccia imminente alla supremazia imperialista americana. Una Russia debole significherebbe un indebolimento dell'asse Mosca-Teheran-Cina che ha dato a Biden e a tutte le precedenti amministrazioni, a partire da quella di Obama, molte notti insonni. Nell'area chiave del Medio Oriente, abbiamo lo stesso schema: Israele agisce come un poliziotto armato in Palestina e nei paesi vicini (Libano, Iraq e Siria), lasciando gli Stati Uniti liberi di concentrare tutti i loro sforzi sulla Cina e le sue ambizioni imperialiste. In cambio, Netanyahu ha ricevuto in dono l'abbandono della "soluzione dei due Stati", con la promessa di deportare circa 2 milioni di palestinesi in luoghi ancora da determinare. Una prospettiva difficile, ma a Trump non interessa, sapendo benissimo che Israele sarà in grado di trovare la propria soluzione con la forza. Tutte queste concessioni a Mosca non sono "sciocchezze" o contraddizioni con la precedente linea politica degli Stati Uniti. Nella strategia di Trump c'è probabilmente spazio per il tentativo di staccare e/o indebolire il rapporto della Russia con la Cina. È improbabile che gli Stati Uniti riescano a recidere completamente il legame che lega l'imperialismo russo e cinese, ma le concessioni concesse a Mosca potrebbero fungere da narcotico leggero, anche se solo a breve termine, per consentire a Trump di concentrarsi sul suo nemico più pericoloso: Pechino. In una recente dichiarazione, Trump ha chiaramente espresso il suo disinteresse per il costoso sostegno a Zelensky, cioè abbandonarlo al suo destino. Per quanto riguarda l'Europa, gli Stati Uniti hanno bisogno di concentrare le risorse economiche e finanziarie sullo sviluppo militare nell'area di maggiore interesse strategico e cioè l'Indo-Pacifico. Ma perché ciò avvenga, c'è bisogno di un'Europa debole e vassalla, oltre che di un alleato fidato in Medio Oriente, di una Russia avversaria, ma indebolita, e in debito con gli Stati Uniti per i vantaggi ceduti. Solo allora gli Stati Uniti potranno essere liberi di concentrarsi sulla vera questione di Taiwan e su tutto ciò che è ad essa collegato. Queste connessioni non coinvolgono solo Taiwan, che produce il 60% dei microchip mondiali. Sono anche legati al fatto che Pechino prevede di diventare la prima potenza mondiale in termini di commercio, produzione high-tech e intelligenza artificiale per scopi civili e, soprattutto, militari entro il 2035, il che è già abbastanza grave da allarmare l'imperialismo americano. A ciò si aggiunge il tentativo della Cina di creare la Via della Seta come spina dorsale strutturale della sua tanto decantata superiorità economico-produttiva con una scadenza altrettanto precisa del 2035 (cioè tra soli dieci anni). Soprattutto, a quadrare il cerchio dei progetti imperialisti contrapposti delle due maggiori potenze mondiali, è il dominio del mercato valutario. In altre parole, in cima all'ambiziosa lista dei progetti imperialisti della Cina c'è la lotta contro la supremazia quasi assoluta del dollaro. Questo dominio permette agli Stati Uniti, nonostante la loro crisi produttiva, nonostante il loro enorme deficit della bilancia dei pagamenti, e con un debito pubblico che supera i 35 trilioni di dollari, di dirottare un'immensa quantità di capitali nelle casse federali di tutto il mondo. Il sistema è semplice.

Dopo il 1971, quando il governo Nixon dichiarò l'inconvertibilità del dollaro in oro, il biglietto verde continuò ad essere il coefficiente di scambio universale tra le merci su tutti i mercati mondiali, creando ufficialmente un "dollaro standard", anche se non più basato su una quantità fissa di oro. Qualsiasi paese che volesse commerciare doveva farlo in dollari. Se volevano comprare tecnologia, gas o petrolio, dovevano prima comprare dollari che la Banca Federale non aveva difficoltà a stampare come se fossero biglietti da visita. Inoltre, questa superiorità ha beneficiato anche i titoli di Stato americani che hanno agito come ulteriore elemento di drenaggio dei capitali internazionali. Il primato del dollaro ha largamente permesso (e permette) alle varie amministrazioni americane di sopravvivere, nonostante debiti e deficit. Per fare un esempio, oggi 23 Stati dell'Unione non sarebbero nemmeno in grado di pagare i dipendenti pubblici, se non ci fosse un intervento finanziario da parte dello Stato federale. La musica, infatti, non è cambiata e il timore americano è che possa cambiare progressivamente con l'ingerenza cinese sostenuta dai paesi BRICS, a cui si è recentemente aggiunto l'Iran. Così Trump, o meglio gli Stati Uniti, sono ossessivamente preoccupati per la Cina. Qui, le dichiarazioni del nuovo presidente sono ridotte al minimo, mentre la mobilitazione militare è al massimo. La Cina non è il Messico o il Canada, tanto meno la Groenlandia, che Trump ha proposto di acquistare con un pugno di dollari. La Cina non può essere ricattata minacciando sanzioni. Per contrastare gli obiettivi di Pechino bisogna armarsi fino ai denti. Nel frattempo, Trump ha fatto pressione sul governo di Panama minacciando di occupare il Canale, costringendolo a ritirarsi dalla Belt and Road Initiative e promettendo di rivedere i contratti con le aziende cinesi che gestiscono i porti del canale. E lo scontro tra i due imperialismi continua nel Mar Cinese Meridionale e nello Stretto di Taiwan, dove le flotte militari dei due imperialismi si confrontano quotidianamente con "esercitazioni" per uno scontro che potrebbe essere imminente o rinviato, a seconda delle propensioni bellicose delle due potenze. Questa è la loro posizione. La prima missione degli Stati Uniti sotto il presidente Trump si è svolta tra il 10 e il 12 febbraio, quando le navi della Marina degli Stati Uniti, il cacciatorpediniere Ralph Johnson e la nave da ricognizione Bowditch, hanno navigato nell'area contesa dello Stretto di Taiwan. Pochi giorni dopo la Cina ha risposto con pattugliamenti nella stessa area, dimostrando di essere pronta e preparata per ogni evenienza, in qualsiasi luogo, nel conteso Mar Cinese Meridionale. Il comando militare di Pechino ha anche annunciato ufficialmente che le sue forze navali e aeree hanno effettuato operazioni di pattugliamento preventivo. Questo pattugliamento era legato a una dimostrazione di forza occidentale in cui, per la prima volta, una portaerei francese navigò nell'Indo-Pacifico come parte di una "esercitazione" con gli Stati Uniti e il Giappone. Il pattugliamento è stata la risposta immediata della Cina. Inoltre, secondo un rapporto dell'Amministrazione per la sicurezza marittima di Hainan, alcune esercitazioni sono state svolte anche dalla marina di Pechino con navi da guerra pakistane nel Mar Cinese Meridionale. Così, per la nuova amministrazione americana, spetta all'Ucraina accettare i diktat americani e alla Russia trovare una soluzione di pace favorevole, anche se questo la mette in debito con la Casa Bianca per i "regali" ricevuti. L'Europa deve cavarsela da sola, perché gli Stati Uniti devono fare il loro gioco con la Cina e questo comporta tagliare, e/o terminare completamente, le spese a sostegno di chiunque altro per concentrare tutte le loro risorse economiche e finanziarie sull'obiettivo militare primario: la "minaccia da Est".

- Battaglia Comunista - 17 febbraio 2025 -

venerdì 28 febbraio 2025

Bolsonaro è preoccupato. Dovrebbe esserlo anche Trump!!

Scoperto un complotto omicida
L'ufficio del procuratore generale del Brasile, ha presentato alla Corte Suprema del paese delle accuse contro l'ex presidente Bolsonaro. Oltre a una dettagliata strategia per l'attuazione di un colpo di stato, durante le loro indagini, le autorità avrebbero anche trovato dei piani per l'assassinio del presidente Luiz Inácio "Lula" da Silva .
- di @Marcos Barreira -

Rio de Janeiro. L'onere della prova appare schiacciante. Il 18 febbraio, il procuratore generale Paulo Gonet ha depositato la tanto attesa accusa contro l'ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro, e altri 33 imputati, presso la Corte Suprema Federale (STF). Tra gli accusati, ci sono generali e ministri. Le accuse, formulate nell'atto d'accusa, includono il tentato colpo di Stato del 2022, dopo che Bolsonaro aveva perso le elezioni presidenziali, la distruzione di beni culturali pubblici e la formazione di un'organizzazione criminale. Nel corso delle indagini, la polizia si è anche imbattuta in delle prove che suggeriscono come l'imputato avesse pianificato di assassinare l'attuale presidente Luis Inácio "Lula" da Silva, il giudice Alexandre de Moraes e il vicepresidente Geraldo Alckmin. Durante il suo mandato (dal 2018 al 2022), Bolsonaro aveva ripetutamente cercato il conflitto con l'STF, e aveva incitato i propri sostenitori contro le istituzioni democratiche, e contro l'STF in particolare. Si è temuto fin dall'inizio che Bolsonaro stesse accarezzando l'idea di continuare a  mantenere il suo incarico, dopo quattro anni, anche senza alcuna legittimità democratica. Più volte, egli ha espresso il suo disprezzo per le istituzioni democratiche. Nel luglio del 2021, l'indice di gradimento di Bolsonaro è crollato, a causa della sua disastrosa gestione della pandemia di Covid-19. Precedentemente, nel marzo 2021, il suo principale avversario politico, l'ex presidente Lula da Silva - tornato in carica dal 1° gennaio 2023 - aveva riguadagnato i propri diritti politici, in modo che non ci fosse più nulla a ostacolare la sua candidatura presidenziale. A un simile sviluppo, Bolsonaro ha reagito attraverso una campagna volta a delegittimare il sistema elettorale. Così, ad esempio, in occasione di un incontro con gli ambasciatori stranieri presso la sede del governo nel giugno 2022, aveva affermato che il sistema di voto elettronico del Brasile era suscettibile di manipolazioni e, a livello generale, ha diffuso la voce che fosse imminente una frode elettorale nei suoi confronti. Aizzate da queste narrazioni cospirative, dopo il primo turno delle elezioni presidenziali, ci sono state ripetute manifestazioni davanti alle caserme dell'esercito, dove i manifestanti richiedevano l'intervento militare a favore di Bolsonaro. Arrivando, a volte, al punto che questa dinamica si diffondesse anche all'interno delle caserme. Il 30 ottobre 2022, Bolsonaro è stato sconfitto al ballottaggio, e a dicembre ha lasciato il Paese, in direzione degli Stati Uniti, ancor prima dell'insediamento di Lula Da Silva. E lì si trovava, ancora l'8 gennaio, allorché, nella capitale Brasilia una settimana dopo la cerimonia di giuramento, sono scoppiati dei disordini; migliaia di sostenitori di Bolsonaro, provenienti da diverse regioni del paese, erano arrivati su convogli di autobus per bloccare le strade e assediare le sedi dei tre poteri statali. Alcuni sono anche riusciti a fare irruzione negli edifici governativi e giudiziari, e a devastarli. Allo stesso tempo, abbiamo visto anche attacchi minori alle stazioni di polizia. In quel momento, Lula non era a Brasilia e dichiarava lo stato di emergenza nello stato del Distrito Federal. Il suo governatore Ibaneis Rocha veniva temporaneamente rimosso dall'incarico, e il ministro della sicurezza della capitale, Anderson Torres, è stato arrestato.

Nel 2023 le indagini hanno preso velocità
Nel corso del 2023, le indagini, svolte dalla polizia federale, sulle presunte menti esistenti dietro i disordini, hanno preso slancio. In queste indagini, due figure chiave sono state: Anderson Torres, ministro della Giustizia sotto Bolsonaro, e Mauro Cid, un ufficiale dell'esercito, aiutante di campo personale dell'ex presidente e ora testimone chiave nel processo contro di lui. Torres è stato accusato di aver facilitato l'invasione e la distruzione di edifici pubblici. Nella sua abitazione, la polizia ha trovato un documento redatto nella sede del governo che dettagliava quali fossero le "misure legali" che i golpisti intendevano prendere: la sospensione delle elezioni presidenziali e l'arresto dei giudici della Corte Suprema (guidati dal giudice Alexan-dre de Moraes, che era diventato il principale bersaglio dell'estrema destra). Sul documento potevano essere lette le annotazioni personali fatte dallo stesso Bolsonaro. Sul computer di Mauro Cid, gli investigatori hanno ritrovato un video relativo a una riunione del Consiglio dei ministri del luglio 2022 durante il quale Bolsonaro e altri membri del governo discutevano apertamente dell'uso della forza al fine di impedire le elezioni.

Nome in codice "pugnale verde-giallo"
Nel corso di ulteriori indagini, la polizia federale si è imbattuta in un piano che a quanto pare prevedeva anche l'assassinio del presidente da Silva, oltre a quelli del suo vicepresidente Alckmin e del giudice Moraes. Il piano, nome in codice "pugnale verde e giallo", doveva essere attuato da unità militari speciali vicine a Bolsonaro. Nei messaggi audio e di testo pubblicati nel novembre 2023, e che gli investigatori hanno sequestrato, si vedono alti ufficiali dell'esercito che discutono del piano. I documenti che circolavano tra i golpisti sono stati redatti nell'ufficio del presidente il 9 novembre 2022, dieci giorni dopo la sconfitta elettorale. È presumibile che quel giorno, Bolsonaro abbia ricevuto il generale Estevam Theóphilo, responsabile di queste istruzioni per il colpo di Stato. Le indagini si sono svolte in stretta segretezza per tutto il 2023. Nel frattempo, la Corte Suprema ha iniziato a occuparsi dei processi di coloro che erano stati coinvolti nell'assalto agli edifici governativi. Alcuni di loro hanno ricevuto delle dure condanne, fino a 17 anni di carcere. Tuttavia, finora, in questi procedimenti nessun leader politico o militare è stato ritenuto responsabile. Ma per Bolsonaro le cose si stanno facendo sempre più difficili per Bolsonaro. Un anno dopo, nel corso l'incontro con gli ambasciatori, la Corte Suprema Elettorale (TSE) lo ha privato del diritto di candidarsi alle elezioni per otto anni. Il tribunale ha accettato le accuse di abuso di potere e di uso illegale dei canali di comunicazione statali ai fini dell'organizzazione dell'incontro. Ora, la nuova accusa contro Bolsonaro deve essere accettata dall'STF, e arriva nel momento in cui la richiesta di un'amnistia per i golpisti – organizzata dai sostenitori di Bolsonaro – sta diventando sempre più forte. Temendo un'altra condanna, Bolsonaro sta ora usando il proprio potere politico per riuscire a rovesciare la "Lei da Ficha Limpa" (Legge sulla purezza politica), che vieta ai politici condannati di candidarsi. Tuttavia, la sua situazione è assai complicata; in quanto - a differenza del Congresso, dove ha ancora una notevole influenza- nella Corte Suprema, si è formata un'ampia maggioranza che ora resiste a qualsiasi pressione politica.

- @Marcos Barreira - Pubblicato il 27.02.2025 su Jungle.World -

giovedì 27 febbraio 2025

… «E il cuore di simboli pieno»…

La produzione marxiana e l'inconscio freudiano: l'oblio del simbolico secondo Baudrillard
- di Sandrine Aumercier -

Durante gli anni '70, Baudrillard sviluppò una duplice critica di Marx e Freud. Da un lato, rivolta al mito capitalistico della produzione e dei bisogni, da cui lo stesso Marx sarebbe rimasto dipendente. Dall'altro, rivolta alla nozione freudiana dell'inconscio, che sarebbe stata indebitamente estesa dalla psicoanalisi a un'ontologia trans-storica. Viene qui presentato, e sottolineato l'interesse che riveste questa duplice critica [*1]. Mostreremo anche su cosa Baudrillard basi la sua concezione del simbolico, e i limiti dovuti alla sua teoria semiotica post-strutturalista dello scambio che si riflettono sulle critiche, altrimenti giustificate, che egli rivolge a Marx e Freud.

La critica di Baudrillard alla produzione
Ne "Lo specchio della produzione" (1973), Baudrillard descrive la frammentazione funzionale degli oggetti, che la dialettica pretende di riconciliare, facendoli entrare nel movimento della storia. Egli definisce come «proiezione paranoica», l'operazione attraverso la quale i concetti si generano a vicenda seguendo la finalità di una «scienza che vive solo di separazione». Pertanto, la scienza costruisce un'antropologia su misura di quelle funzioni che ha prima separato. Baudrillard analizza alcuni discorsi, come quello di Maurice Godelier: un antropologo marxista che si stupisce del fatto che gli esseri umani primitivi non producano un surplus economico. Godelier risolve questo problema dicendo che tutte queste società senza eccedenze producono solamente per «soddisfare i loro bisogni». Baudrillard vede in questo una naturalizzazione della produzione, la quale va di pari passo con la moderna naturalizzazione dei bisogni. Ma una volta che gli antropologi hanno naturalizzato la produzione, trovano anche difficile spiegare anche gli altri aspetti della "società". Ponendo i cosiddetti bisogni naturali alla base del fatto sociale, essi si interessano in maniera separata alle relazioni sociali; parentela, alleanze, ecc. Così facendo, sul modello della separazione cartesiana di anima e corpo, distinguono artificialmente tra sopravvivenza biologica e significati sociali. Già in "Per una critica dell'economia politica del segno" (1972), Baudrillard aveva sostenuto che non esiste un «minimo antropologico di vita». «L’uomo non è qui, sin dall’inizio, con i suoi bisogni, e destinato per natura a realizzarsi in quanto Uomo. Questa affermazione, propria del finalismo spiritualista, definisce in realtà, nella nostra società, la funzione-individuo, mito funzionale alla società produttivistica. Tutto il sistema dei valori individuali, tutta la religione della spontaneità, della libertà, della creatività, ecc., grondano del peso della scelta produttivistica. Anche le funzioni vitali si presentano immediatamente come «funzioni» del sistema. In nessun senso l’uomo si trova di fronte ai propri bisogni.» (Per una critica dell'economia politica del segno, p. 92). Baudrillard ribadirà questa critica ne "Lo specchio della produzione" affermando che ciò che chiamiamo "società" non esiste al di fuori dello scambio simbolico, il quale è il fatto sociale primordiale. Ne trae il modello dal "Saggio sul dono" (1925) di Marcel Mauss, nel quale Mauss descrive il ciclo del triplice obbligo di dare, ricevere e restituire, vedendolo come fondamento del fatto sociale. In questo senso, la sopravvivenza e la sussistenza non sono principi separati o realtà presociali. «Per i primitivi, mangiare, bere, vivere sono innanzitutto atti che si scambiano, e se essi non possono essere scambiati, allora non avvengono». (Lo specchio della produzione, p. 65). La prima a considerarsi critica, è stata la cultura occidentale; pertanto, essa concepisce sé stessa come universale, e porta così tutte le altre culture nel suo museo, sotto forma di vestigia a sua immagine. In questo modo, le estetizza senza riuscire perciò ad accedere al loro funzionamento simbolico. Le interpreta con le proprie categorie. La critica che inizia con l'Illuminismo non corrisponde ad altro che all'universalizzazione, da parte dell'economia politica, dei suoi stessi propri principi. In tal modo, il suo imperialismo si esprime tanto nel campo geopolitico quanto in quello epistemico. La dialettica viene così denunciata da Baudrillard come il sintomo di ciò che il sistema economico non vede circa la rottura che esso stesso costituisce. Secondo Baudrillard, il fatto di posizionare il capitalismo vedendolo come se fosse il coronamento della successione dei diversi modi di produzione, come il momento dialettico dell'emergere della coscienza critica, permette al sistema capitalistico (anche nella sua variante marxista) di ignorare le proprie categorie. Una lotta politica a un tale livello si trova così condannata a rimanere immanente al sistema. Baudrillard critica l'ideologia del lavoro, mostrando che Marx è comunque rimasto chiuso nelle categorie che voleva superare, dal momento che ha ripetutamente celebrato il lavoro come se si trattasse di un'eterna necessità del genere umano, per poter riuscire a produrre "valori d'uso" o "utilità". Nel corso della storia, secondo Marx, il metabolismo con la natura avrebbe assunto forme diverse, le quali si sono succedute fino ad arrivare alla forma capitalistica, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. La forza-lavoro diventa perciò una merce al servizio della produzione di plusvalore, senza considerare quale sia il valore qualitativo del lavoro e dei prodotti. Secondo Baudrillard, il marxismo non denuncia la categoria del lavoro in sé, ma piuttosto l'alienazione delle forze produttive, che egli vorrebbe semplicemente liberare dal dominio dei capitalisti, e dalla morsa del quantitativo. La conseguenza di ciò è, secondo Baudrillard, che il sistema dell'economia politica produce, non solo un nuovo individuo che vende la propria forza-lavoro, ma anche l'idea stessa di forza-lavoro in quanto definizione fondamentale dell'umano. E questo essere umano si trova a essere destinato a produrre, a produrre e a superare continuamente sé stesso, in un'apologia del progresso e dello sviluppo, consustanziali all'economia. Simultaneamente, egli non cessa mai di idealizzare un oltre fittizio rispetto a questo produttivismo, che si suppone sarà liberato, a un certo punto, dall'imperativo della produzione grazie all'automazione della produzione stessa. La liberazione sociale perciò non mira alla liberazione categorica del lavoro e della produzione in sé, ma solo di quella che è una parte arbitraria del lavoro.

La critica dell'inconscio di Baudrillard
Come abbiamo detto, secondo Baudrillard, nelle società premoderne non esiste qualcosa come il lavoro, e neanche come la produzione, a meno che le categorie dell'economia non vengano retroproiettate. Ora, se questo nuovo individuo, così come questa idea della forza-lavoro sono un'invenzione recente, ciò non è senza conseguenze per quella concezione moderna del soggetto che la psicoanalisi ha reso suo oggetto di indagine. Baudrillard afferma: «Nelle società primitive non esistono né il modo di produzione né la produzione, così come, nelle società primitive non esiste la dialettica, né l'inconscio. Tutti questi concetti trovano applicazione solo nell'analisi delle nostre società regolate per mezzo dell'economia politica. In un certo qual senso, pertanto, questi concetti hanno solo un valore di boomerang. Se la psicoanalisi parla di inconscio nelle società primitive, allora chiediamoci cosa reprime la psicoanalisi stessa. Quando il marxismo parla del modo di produzione nelle società primitive, chiediamoci fino a che punto questo concetto non riesce a descrivere le nostre società storiche - ed è questo il motivo per cui viene esportato. E quando tutti i nostri ideologi cercano di finalizzare e razionalizzare le società primitive secondo i loro stessi concetti e di codificare i primitivi, chiediamoci che cosa li ossessiona nel voler vedere questa finalizzazione, questa razionalità, questo codice che gli scoppia sul viso. Anziché esportare il marxismo e la psicoanalisi (per non parlare dell'ideologia borghese, ma qui non c'è differenza), concentriamo piuttosto tutto l'impatto, tutta la messa in discussione delle società primitive proprio sul marxismo e sulla psicoanalisi.» (da "Lo specchio della produzione", p. 49). E Baudrillard denuncia anche nell'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, quello che vede come un discorso di liberazione che rimane però comunque segnato dall'illusione produttivista. Anche nella liberazione sessuale, vede un'illusione che vorrebbe liberare dei processi primari seguendo quella stessa struttura secondo cui, nel campo del marxismo, si vorrebbe liberare il valore d'uso. I corpi della "de-sublimazione repressiva" (nozione che Baudrillard riprende da Marcuse) allontanano la morte positivizzando la libido secondo il principio dello sviluppo delle forze produttive. «In entrambi i casi, il modello di liberazione è biologico e non simbolico». In epoca moderna, la morte diventa un evento fatale e irreversibile, e la vita un capitale edonistico. In tal modo, abbiamo de-socializzato e naturalizzato la morte facendone un fenomeno biologico, medico e scientifico, nel mentre che per gli uomini primitivi – ancora una volta – la morte è, come dice Baudrillard, una relazione sociale (ne "Lo scambio simbolico e la morte", p. 202). Nelle società premoderne, i vivi e i morti mantenevano tra di loro relazioni simboliche. Mentre noi, da parte nostra, fantastichiamo su uno stato di natura, su impulsi selvaggi e sul loro corollario immaginario: un desiderio che dovrebbe essere liberato, laddove «i cannibali, invece (...) pretendono semplicemente, per mezzo del loro cannibalismo, di vivere in società.» ("Lo scambio simbolico e la morte, p. 212). La morte non ha più il significato che gli è stato attribuito dalla psicologia moderna, vale a dire, quello di una realizzazione del desiderio e di un regolamento di conti. In questo senso, la morte biologica e i significati immaginari a essa collegati sono un'invenzione moderna. La nostra società si basa sull'allontanamento dei morti, i quali vengono posizionati all'esterno rispetto alla circolazione simbolica del gruppo. «Perché oggi non è normale essere morti, e questa è una novità» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 196). Va notato che Baudrillard scriveva questo trent'anni prima dell'irruzione di un transumanesimo disinibito che ha affermato «la morte della morte» (Laurent Alexandre) come  se fosse un obiettivo da raggiungere. Su questa base, Baudrillard invece sviluppò un'antropologia del simbolico, che definì come la circolazione e lo scambio di ciò che noi – vale a dire il mondo dell'economia – abbiamo imparato a separare e ad assolutizzare. Ora, ogni termine separato si riflette nel suo opposto immaginario, pur assumendo la consistenza del suo riferimento immaginario a una realtà. Baudrillard descrive le antinomie insolubili, che ne derivano, tra la parola e la cosa, tra il segno e il referente, tra l'immaginario e il reale, tra il bisogno e il desiderio, tra il vivo e il morto, ecc. È questo il risultato della negazione del simbolico che ne ha assicurato la circolazione. Simultaneamente, Baudrillard afferma anche che questa liquidazione del simbolico è solo apparente; Poiché, non cessando mai di esistere, il debito simbolico può solo essere stato dislocato in un altro luogo. «Paghiamo con la nostra morte continua e con la nostra angoscia della morte la rottura degli scambi simbolici con essi [i morti]. (…) Questo contenzioso enorme, fatto di tutte le obbligazioni e le reciprocità che noi abbiamo denunciato, è propriamente l'inconscio (…) L'Inc è sociale nel senso che è fatto di ciò che non si è potuto scambiare socialmente o simbolicamente.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 208). La legge del padre, la proibizione dell'incesto, il complesso di Edipo, sono i residui privatizzati di questo sfratto dello scambio simbolico. Il simbolico non è un'istanza proibitiva né un luogo di rimozione, come vorrebbe il mito edipico della psicoanalisi, ma è piuttosto la circolazione sociale stessa, la quale mette in gioco l'intero metabolismo del gruppo. Per questa ragione, ogni analogia tra le osservazioni fatte dall'etnologia e quelle della psicoanalisi viene denunciata da Baudrillard in quanto mistificazione. L'economico e il simbolico vengono intesi come esclusivi l'uno l'altro (Lo scambio simbolico e la morte, p. 215). Baudrillard interpreta l'ipotesi freudiana della pulsione di morte, non come una verità eterna ma come un mito che ha qualcosa da dirci sulla nostra cultura e sullo stesso apparato concettuale della psicoanalisi, che renderebbe obsoleta. Questa ipotesi liquida la positività del principio di piacere, che sarebbe perciò così la stessa positività della teoria delle pulsioni e del produttivismo economico. Infine, Baudrillard ci suggerisce un ordine simbolico che non distingua più tra processi primari e secondari. «L'autonomizzazione dello 'psichico' è recente. Essa raddoppia, a un livello superiore quella del biologico. La linea questa volta passa tra l'organico, il somatico e... l'altro. Lo psichico esiste solo sulla base di questa distinzione(…) da cui risulta proprio il concetto di pulsione, che vuole costruire un ponte tra i due e semplicemente partecipa all'arbitrarietà di entrambi. La meta-psicologia della pulsione si riunisce qui alla metafisica dell'anima e del corpo: ne è la riscrittura a uno stadio più avanzato.L'ordine separato dello psichico deriva dalla precipitazione, nel nostro 'foro interiore', cosciente o inconscio, di tutto ciò di cui il sistema interdice lo scambio collettivo e simbolico.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 234). È per questo che egli nega che la psicoanalisi e il marxismo abbiano mai detto qualcosa di rilevante sul simbolico. «Marx crede di ricuperare l'istanza fondamentale nell'economico e nel suo processo dialettico. In realtà ricupera, "attraverso" l'economico e le sue convulsioni, ciò che lo assilla sintomaticamente: la "stessa separazione di questo economico in quanto istanza" (…) "Ma questo è vero anche della psicoanalisi": sotto i termini d'inconscio e di lavoro dell'inconscio, Freud ricupera come istanza fondamentale ciò che, anche qui, è il risultato, sotto forma di psichismo individuale, d'una frattura del simbolico.(…) L'analisi di Marx e di Freud è critica. Ma né l'una né l'altra lo sono in rapporto alla separazione rispettiva del loro campo. Esse non sono coscienti della "coupure" che le onda. Sono sintomatologie critiche che, sottilmente, fanno del loro rispettivo campo sintomatico il campo determinante.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 342). La diagnosi di Baudrillard è corretta solo nella misura in cui essa semplifica sia la teoria del metabolismo di Marx con la natura che la teoria delle pulsioni di Freud. Non c'è dubbio che queste tendenze possono essere trovate in Freud e Marx e nei loro successori. Ma non è meno vero che Marx sviluppi anche una teoria negativa delle categorie del capitalismo, la quale equivale a una critica della totalità sociale, e non solo della sua distribuzione sociologica (e che verrà sistematizzata dalla critica della dissociazione del valore). Allo stesso modo, Freud mira a una concezione non vitalista e non psicologica della pulsione, di cui la pulsione di morte è la formulazione più completa (e che Lacan sistematizzerà). Il verdetto di Baudrillard sulla loro rispettiva ignoranza della rottura epistemologica che li fonda, e li conduce a generalizzazioni trans-storiche, è tuttavia di grande rilevanza. La proposta di valutare il loro contributo critico alla luce di una teoria generale del simbolico andrebbe ripresa in una critica generale della forma sociale capitalistica.

Quale teoria del simbolico in Baudrillard?
Per poter collocare la proposta di Baudrillard in questa necessaria duplice critica di Marx e di Freud, ricordiamo che, per Baudrillard, l'economico e il simbolico si trovano in una relazione di mutua esclusione. L'economia riduce il fatto sociale, le attività umane, il ciclo degli scambi e i significati del corpo a una contabilità vitale, a una «gestione della vita in quanto sopravvivenza oggettiva». Riprendendo con discrezione gli sviluppi di Foucault e di Canguilhem, Baudrillard, a sua volta, afferma: «Come la medicina è quella del cadavere, così lo Stato è la gestione del corpo morto del "socius".» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 221). Il districarsi dei principi di vita e di morte, che Freud osservava nelle manifestazioni cliniche proprie del vincolo alla ripetizione (o pulsione di morte) resta, per Baudrillard, legato a una moderna evocazione del ciclo del debito simbolico. Tuttavia, la critica di Baudrillard richiede una definizione più precisa di che cosa significhi l'ipotesi della pulsione di morte. Alcuni psicoanalisti fanno del vincolo della ripetizione, il luogo stesso in cui viene esercitata la funzione simbolica illustrata dalla famosa storia della bobina. In effetti, la pulsione di morte freudiana non è una pulsione di morte, quanto piuttosto una pulsione a tornare all'inanimato, impigliato e arruolato nella traiettoria dell'eros. L'ipotesi della pulsione di morte dissolve ogni finalità utilitaristica della vita; tematizza una ricerca paradossale di piacere aggiuntivo, il quale non entra nell'economia del principio di piacere, se non addirittura lo contraddice violentemente, ma che tuttavia produce anche, niente di meno che la cultura. Rimane da teorizzare una differenza fondamentale, quella tra un vincolo di ripetizione simbolico e un vincolo di ripetizione che termina invece con la distruzione di tutto ciò che esiste. Il primo crea una società, il secondo rende impossibile farlo. Se gli psicoanalisti post-freudiani interpretano nel primo senso la pulsione di morte – almeno quelli che accettano l'ipotesi –  gli autori che fanno un uso non psicoanalitico del concetto di pulsione di morte spesso lo intendono in modo piatto nel secondo senso, mentre invece i lacaniani insistono sulla nozione di godimento, la quale costituisce una reinterpretazione della pulsione di morte. Però nessuno dei due schieramenti spiega cos'è che faccia la differenza, tra una tendenza simbolica e una tendenza mortale della costrizione alla ripetizione. Secondo Freud, questa differenza clinica sarebbe costituita dal suo grado di legame e di coinvolgimento con la "pulsione di vita". Ma la generalità in cui egli racchiude questa proposizione la rende difficilmente utilizzabile ai fini di una teoria coerente del simbolico. Da parte sua, Baudrillard intuisce che l'espulsione della morte dall'economia simbolica delle società moderne, e la promozione della vita come fine a sé stessa, hanno delle conseguenze in termini di "pulsione di morte". Ma ciò che Freud attribuisce a quello che considera un impulso più fondamentale degli altri, legato alla logica dei vivi, Baudrillard lo attribuisce a un effetto della separazione sociale dei vivi dai morti, la quale pone la vita umana in uno stato di sopravvivenza. «La morte sottratta alla vita, è la stessa operazione dell'economia politica - è la vita residua, ormai leggibile in termini operativi di calcolo e di valore. (…) La vita restituita alla morte, è l'operazione stessa del simbolico.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 201). Come abbiamo visto, Baudrillard prende in prestito dagli antropologhi, la sua teoria del simbolico. Questo indebitamento ha il merito di aprire uno scarto riflessivo riguardo alle categorie economiche - marxiane o freudiane - delle quali realizziamo un'antropologia spontanea, come se gli esseri umani di tutti i tempi non fossero mai stati altro che homo oeconomicus. Ma l'argomento diventa insufficiente allorché Baudrillard, in base a questo standard epistemico, lo applica senza mediazione alcuna alla nostra forma sociale. Egli esita costantemente tra l'osservazione della scomparsa dello scambio simbolico e l'affermazione della permanenza nascosta del simbolico. Il tono viene dato dalla prima frase ne Lo scambio simbolico e la morte: «Al livello delle formazioni sociali moderne, non c'è più scambio simbolico; non più come forma organizzatrice. Sicuramente, il simbolico le ossessiona come se fosse la loro morte.» (pag. 7). L'appassionato riferimento che Baudrillard - mutuandolo da Bataille,  che a sua volta fa una lettura molto riduttiva dell'antropologia di Marcel Mauss – fa alla morte e al sacrificio, lo porta a interpretare le nuove forme di violenza in termini di sacrificio simbolico e di logica del dono. Era questa la sostanza del suo commento all'11 settembre, che definiva come un "evento simbolico", una "sfida simbolica", che sarebbe stata compiuta dai terroristi, ma segretamente voluta da tutti ("Lo spirito del terrorismo"). Tuttavia, la sua analisi riprende parola per parola alcune delle proposizioni contenute ne Lo scambio simbolico e la morte, come se l'attentato al World Trade Center ne costituisse la realizzazione differita – venticinque anni dopo – e la conferma teorica. «Non attaccare mai il sistema in termini di rapporti di forze. Questo è l’immaginario (rivoluzionario) imposto dal sistema stesso, il quale sopravvive solo portando continuamente coloro che lo attaccano a battersi sul terreno della realtà, che è da sempre e per sempre il suo. Spostare invece la lotta nella sfera simbolica, dove la regola è quella della sfida, della reversione, del rilancio. Una lotta tale che alla morte si possa rispondere solo con una morte uguale o superiore. Sfidare il sistema con un dono al quale esso non può rispondere se non attraverso la propria morte e il proprio crollo.L’ipotesi terroristica è che il sistema si suicidi in risposta alle sfide multiple della morte e del suicidio. Perché né il sistema né il potere si sottraggono all’obbligo simbolico — ed è su questa insidia che poggia la sola possibilità di una loro catastrofe. In questo ciclo vertiginoso dello scambio impossibile della morte, quella del terrorista è un punto infinitesimale, ma in grado di provocare un’aspirazione, un vuoto, una convezione gigantesca». ("Lo spirito del terrorismo"). Se, per interpretare il terrorismo, Baudrillard sta chiaramente nuotando nel bel mezzo di una fantasia sul dono e sul contro-dono, ciò è perché egli estrapola i risultati dell'antropologia, portandoli su un terreno storico che non ha nulla a che fare con esso. In altre parole, commette l'errore opposto a quello che rimprovera ai fautori dell'economia: trae dal corpus etnologico elementi di analisi che generalizza e traspone al "sistema" attuale senza mettere in discussione l'assoluta specificità di questo stesso "sistema". Contrariamente a coloro che intendono l'umanità di tutti i tempi a partire da una generalizzazione dell'homo oeconomicus, egli descrive l'umano moderno sul modello trans-storico di un homo symbolicus tutto suo, come se la modernità non avesse prodotto anche un "nuovo tipo umano" congruente con il capitalismo (Theodor W. Adorno) che sfida proprio l'antropologia. Le osservazioni grezze dell'antropologia, non possono semplicemente informarci su ciò che abbiamo "perso", altrimenti finirebbero per costituire solo un discorso reazionario; invece, contrariamente, ci obbligano anche a tentare un'antropologia dei tempi moderni. In assenza di un simile sforzo teorico, il divario differenziale che l'antropologia critica reca in sé si perde in una nuova poltiglia trans-storica: interpretando come "sfide simboliche" quelli che sono atti spettacolari di un puro nichilismo – che certamente fa così loro troppo onore – Baudrillard non ci aiuta in alcun modo a capire che cosa sia diventato il simbolico, nella nostra forma sociale. In particolare, conferisce loro un potenziale per sconfiggere il sistema che essi non hanno: se attaccano il sistema nel punto del suo tallone d'Achille (l'ossessione per la sicurezza e la sopravvivenza biologica), non c'è niente in essi che riduca il loro significato ideologico al ristabilimento di uno scambio simbolico, che altrimenti sarebbe negato. In altre parole, Baudrillard va oltre la validità delle proprie analisi, conferendo al terrorismo un valore simbolico che viene direttamente trasposto a partire da osservazioni fatte su altre società, le quali sono tuttavia estranee al fatto del terrorismo. Egli riduce così la dimensione simbolica della morte – che è tuttavia il cuore del suo ragionamento – a una serie di atti violenti che avrebbero tutti lo stesso significato simbolico. Si potrebbe persino confondere questa proposizione con un'intuizione lacaniana. Ma Lacan era assai più cauto quando diceva: «ciò che viene rimosso nel simbolico, riappare nel reale» [*2]. Insistendo così sulla dimensione di un ritorno al reale di ciò che viene rifiutato (o rimosso, a seconda della formulazione) nel simbolico, egli non si è pronunciato sul quale fosse la qualità simbolica di ciò che ritorna.

Per un'antropologia del mondo moderno, a partire dai criteri del mondo moderno
Pertanto, al di là delle rilevanti critiche al marxismo e alla psicoanalisi, Baudrillard sbaglia in quella che è la sua generalizzazione trans-storica, nella quale, al fine di criticare la critica, sollecita alcune forme sociali primitive che tuttavia, nel mondo moderno, non sono in grado di adempiere a questa funzione critica. In tal modo, così facendo egli ignora i contributi specificamente marxiani e freudiani alla teoria del simbolico, per sostituirli invece con una grande teoria del simbolico, il cui paradigma è stato estrapolato dalle società premoderne. Baudrillard sostiene che il marxismo e la psicoanalisi non dispongono di una teoria del simbolico. Ma non è perché Marx non usi il termine "simbolico", che egli non ha una teoria del simbolico. Per quanto riguarda Freud, tutta la sua opera può essere definita come una rivalutazione della funzione simbolica, presa a livello del soggetto, in una società che collettivamente nega il simbolico. Se Baudrillard può affermare l'assenza di una teoria del simbolico in Marx, lo fa poiché non afferra la teoria marxiana del valore. Egli diagnostica una sorta di mutazione contemporanea che Marx non sarebbe stato in grado di analizzare quando, nella Miseria della Filosofia, descrive il momento in cui il valore di scambio diventa universale al punto da assorbire tutto ciò che fino ad allora gli poteva sfuggire: virtù, amore, opinione, scienza, coscienza e così via. «È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per dirla in termini di economia politica, il tempo in cui ogni cosa morale o materiale, divenuta valore venale, è portata al mercato per essere stimata al suo giusto valore.» (Miseria della filosofia) Questa fase, viene interpretata da Baudrillard come l'inizio di una nuova epoca che rende obsoleta la legge del valore. Da questo punto di vista, Baudrillard è vicino a molti autori post-strutturalisti e post-operaisti che sempre continuato a interpretare la postmodernità come un'epoca di obsolescenza della legge del valore; cosa che permette loro di sostituirla con delle fantasie teoriche a proposito di quelle che sarebbero delle nuove forme di capitalismo. Qui, Baudrillard radicalizza la teoria che aveva sviluppato in "Per una critica dell'economia politica del segno", secondo cui la produzione economica non è una produzione di valori d'uso, incorporata nel processo di scambio, ma che in realtà è una produzione di segni, inconsapevole di sé stessa in quanto tale; o che quantomeno è stata ignorata come tale fino all'avvento dell'era postmoderna. Egli afferma che Marx aveva separato l'astrazione dal bisogno, dal valore d'uso (o dalla produzione per i bisogni) e dalla legge del valore. Dove il primo sarebbe per Marx una relazione trasparente con sé stesso, quella dell'uomo con i suoi bisogni, mentre il secondo atterebbe alla sfera del feticismo propriamente detto. Secondo Baudrillard, invece si tratterebbe di dimostrare, al contrario, che il valore d'uso non è indipendente dalla legge del valore stesso. Pertanto egli rimprovera alla semiologia contemporanea di accontentarsi di una descrizione strutturale della circolazione dei segni; è a questa che egli intende sostituire un'altra teoria del segno, secondo la quale è il segno a essere diventato il reale. La realtà si sarebbe ridotta a una pura circolazione di segni autoreferenziali. Il significato e il riferimento, sotto l'effetto della proliferazione dei segni, sarebbero perciò scomparsi. L'iper-realtà consisterebbe in questa «realtà liberata dal suo principio [il suo principio di realtà, che] diventa, in uno sviluppo esponenziale, integrale» [*3]. Baudrillard voleva pertanto realizzare, per mezzo di quella che lui chiama la "forma del segno", ciò che Marx aveva fatto con la "forma valore"; da cui il titolo magniloquente di "Per una critica dell'economia politica del segno" modellato su quello di Marx. Pertanto, egli analizza la nostra società dal punto di vista della legge del valore di scambio, rifiutando giustamente di ipostatizzare il valore d'uso come momento separato e naturale (quello del bisogno) dalla logica del valore. Ma in questo modo, egli intende produrre una teoria del segno, la quale rompe con la legge del valore, che egli interpreta solo come scambio di equivalenti, in modo che così possa allora opporre, a questa concezione tronca della logica del valore, un'altra logica che trascenderebbe la legge dello "scambio di equivalenti", e che consisterebbe appunto nel superfluo, nella trasgressione, nella sfida alla morte, nell'eccesso... Il problema però è che questa analisi non si basa sulla teoria marxiana del valore in senso stretto, vale a dire, della contraddizione nel processo e della crisi di valorizzazione in esso insita. Baudrillard interpreta la diminuzione della massa globale del valore economico come se corrispondesse a un'abolizione della legge marxiana del valore. Che la valorizzazione del valore si stia frantumando nei suoi stessi limiti, viene interpretato come se si trattasse di un vero e proprio fine della stessa legge del valore, il quale valore ora verrebbe trasmesso solo attraverso una semplice simulazione tautologica dei segni del lavoro. Il lavoro non sarebbe più un punto di forza, ma un segno. Avremmo continuato a lavorare per mantenere i segni del lavoro, mentre allo stesso tempo avremmo lasciato una società che si riproduce comunque attraverso il lavoro. A tutto ciò, non si può che obiettare, chiedendo se allora: «questa società si nutre di amore e di acqua fresca, in modo da poter così trascendere le leggi economiche della produzione?» Così facendo, Baudrillard ha preso alla lettera l'apparenza tautologica del funzionamento capitalistico, attribuendogli il fatto che esso sarebbe realmente diventato un'apparenza pura e nient'altro! Per lui, l'astrazione reale è diventata il reale di una simulazione (vedi Lo scambio simbolico e la morte, p. 53). L'immaginario sarebbe diventato il reale stesso. Come molti altri autori di questo periodo, affascinati dalla nozione di "scambio di equivalenti" e da quella della circolazione (Derrida, Goux, Lyotard, Deleuze e Guattari...), la teoria marxiana, non solo si riduce a una concezione puramente scambiatrice dell'economia, ma inoltre è anche a uno scambio di segni! La realtà dello scambio di segni sarebbe perciò la verità fondamentale del capitale. In questo modo, Baudrillard attribuisce ancora più realtà, - se non tutta la realtà - al cosiddetto processo di equalizzazione dei segni, nello scambio di merci, anziché al processo reale di valorizzazione nella produzione, su cui il sistema economico in quanto tale si sostiene, anche quando questo processo è privo di accumulazione. Solo perché un'auto si guasta non significa che smetta di aver bisogno di un motore per andare avanti. La nozione di astrazione reale (Alfred Sohn-Rethel) descrive meglio il paradosso della produzione partendo dal presupposto inverso di un'astrazione inscritta negli atti reali di produzione, e ciò fin dalle origini del capitalismo. Baudrillard non riesce a vedere che la "differenza assoluta"(quella del plusvalore ottenuto dal lavoro e del processo di valorizzazione che esso mantiene), su cui si basa il capitale,  è precisamente quella che il capitalismo, nella sua auto-spiegazione legittimante, nega costantemente, sostenendo che il lavoro vivo e quello morto sono intercambiabili. Negando simbolicamente la differenza tra esseri umani e macchine, l'economia può continuare a ignorare la fonte da cui vive. Questa negazione è all'origine della dissoluzione di tutti i vecchi sistemi simbolici, che vengono trattati dal mondo capitalistico come se tutto fosse ormai meccanizzabile e quindi commutabile; e come se non ci fosse alcuna differenza assoluta. Ci sarebbero solo differenze procedurali! Secondo Marx, il sistema capitalistico nega quindi che esista almeno una differenza assoluta, ed è proprio questa che ne accelera il collasso. Lacan suggerisce - proprio alla fine del suo seminario sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964) - che la psicoanalisi mira a una "differenza assoluta" [*4]. Infatti, proprio come il capitalismo ignora la differenza assoluta su cui si fonda, anche la psicologia ignora la differenza assoluta tra la logica del significante e la comunicazione. Supremazia dello scambio e uguaglianza nello scambio, sono solo il mito della scienza economica ufficiale. Questo mito copre, maschera e nega la legge del valore su cui invece il sistema economico si basa. La mascheratura è così efficace che perfino Baudrillard può prenderla per buona: non ci sarebbe più una legge del valore (della produzione), e resterebbe solo l'intercambiabilità indefinita dei segni commutabili sul mercato dei segni! Armato di un'interpretazione superficiale dell'era dell'informazione, delle telecomunicazioni e dell'automazione, Baudrillard conferisce al nuovo dell'informazione una qualità di autoconsistenza e di autonomia in relazione alla produzione di valore, il quale rimane così inspiegabile da un punto di vista economico. Per quanto rilevante possa essere la sua critica all'ideologia della produzione, la sua critica all'economia si mostra nella sua ignoranza dell'economia. La nuova supremazia del "segno" dovrebbe rendere obsoleta quella che egli chiama l'epoca della produzione, che era ancora quella di Marx. Quest'interpretazione si basa su una permanente ambiguità intorno al termine "valore", usato a volte in senso marxiano (quello dell'economia politica), a volte in senso morale di "ciò che vale" e che è rappresentato da un segno. Un errore frequente, ahimè, ma fatale a qualsiasi critica all'economia politica. Si passa impercettibilmente dal valore economico al valore del segno senza accorgerci che in Marx il valore economico ha una definizione precisa, che fonda teoricamente la sfera economica propriamente detta. Baudrillard crede perciò di fuggire dall'economia, ma lo fa ignorando la logica economica, sostituendola con una celebrazione astratta dello "scambio simbolico". Tale processo teorico consiste nel cominciare riducendo l'intera sfera economica a uno scambio di equivalenti, per poi decretare che questo scambio di equivalenti è una bufala, dato che nessuna società opera su un simile scambio. Esiste sempre un surplus. La promozione dell'eccesso, da parte sia di Bataille che di Baudrillard, si basa pertanto su una fantasia che riguarda l'economia, e non su un'analisi di quello che è invece il suo reale funzionamento. Così facendo, si può persino credere che si stia sfuggendo all'imperialismo dell'economia semplicemente assolutizzando una nozione antitetica di scambio, vale a dire uno scambio che non sarebbe uno "scambio di equivalenti", ma uno scambio sempre già segnato dall'eccesso. Così, alla fine, le penetranti analisi di Baudrillard sulla disponibilità del corpo produttivo e sulla naturalizzazione della produzione si riducono a essere una semplice ideologia in via di superamento, quella che egli chiama "l'economia politica del segno". L'interpretazione della produzione, vista come ideologia sotto il regime dell'equivalenza generale, gli fa perdere le conseguenze della propria intuizione. dal momento che egli non si pone la questione della sostenibilità materiale del sistema di produzione – che dovrebbe comunque essere analizzato con i criteri dell'economia e non con quelli della semiotica – si trova costretto a interpretare la crisi, non come una crisi materiale della produzione di valore, con il suo corteo di conseguenze sociali, quanto piuttosto come una crisi ideologica del paradigma produttivo, la quale viene colta e sostituita da una crescente incapacità del sistema di riprodursi simbolicamente sotto il regime cibernetico. Ma la cibernetica non è altro che il tentativo di compiere l'indistinzione tra uomo, macchina e natura per mezzo di una teoria sistemica generale degli scambi che Baudrillard non riesce tuttavia a criticare proprio a causa della sua stessa ipostasi di scambio. La negazione del simbolico da parte della cibernetica costituisce la generalizzazione del principio fondamentale dell'economia, vale a dire la presunta sostituibilità del lavoro morto al lavoro vivo. Resta il fatto – e Baudrillard insiste giustamente su questo punto – che, senza una funzione simbolica, nessuna società può esistere in quanto società, a meno che essa non diventi davvero l'alveare di Mandeville.

Il capitalismo ha un principio differenziale fondamentale. E questo principio socialmente operativo – vale a dire, la sua capacità di formare la società – è la legge del valore. L'unica "differenza assoluta" che domina il sistema è pertanto quella esistente tra il dispendio energetico di forza-lavoro umana che crea valore, da un lato, e dall'altro il dispendio energetico della forza-lavoro macchinica che non lo crea. L'intera sopravvivenza del sistema economico, e l'intero sviluppo interno della sua crisi si basano su questa differenza, che viene radicalmente negata dalla scienza economica ufficiale. L'economia si basa sulla negazione del proprio fondamento; Essa estende e moltiplica i suoi giochi di prestigio, trasformando gradualmente tutto ciò che esiste in uno sforzo assolutamente vano di equalizzazione astratta degli scambi, di cui la termodinamica, la cibernetica e i sistemi sono la massima espressione. Quanto più l'intera vita umana viene mercificata - cioè resa monetizzabile e scambiabile (nei termini di Marx: virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc.) - tanto più l'economia finisce per trovarsi messa con le spalle al muro dalla propria legge del valore. In questo modo, la legge fondamentale del capitale (la creazione di valore dal lavoro) assorbe gradualmente l'intera funzione simbolica, senza abolire la legge del valore che ne costituisce il limite simbolico. Raccontando a sé stesso il suo processo come se fosse uno scambio egualitario tra partner contrattuali alla pari, il capitale copre il proprio funzionamento simbolico: la produzione di un aumento di valore proveniente unicamente dal lavoro umano, in una forma sociale che tende a eliminare il lavoro umano dalla produzione. Più l'egualitarismo si afferma nel discorso, più questa legge fondamentale del valore viene mascherata. Lo sforzo di livellare tutte le differenze mira – invano – ad arrivare a quella differenza che governa la produzione di valore. Ciononostante, impone la sua legge ferrea a tutta la società. È simbolico, in quanto è al centro della riproduzione della totalità della società capitalistica e la tiene insieme, anche negativamente. La celebrazione narcisistica, o reazionaria, della piccola differenza, fatta sulle rovine dell'ordine simbolico, non ha nulla da dirci sul simbolico. Il simbolico è costituito proprio dalla differenza assoluta, quella che fa consistere un ordine sociale, e non dalla semplice affermazione di uno scarto processuale, differenziale, che Derrida ha chiamato différance. Nel capitalismo, la differenza assoluta è perciò quella della produzione di valore, omogenea al processo storico di riduzione - di tutti gli esseri e le cose, di tutti i processi -  a delle quantità calcolabili, attraverso una serie di operazioni meccaniche, formalificabili, con cui la macchina simula il vivente, senza mai sostituirlo. La sua completa sostituzione dovrebbe coincidere con il crollo definitivo del sistema, ma anche con l'abolizione della funzione simbolica che avviene sotto lo scatenarsi dell'automatismo della ripetizione (della pulsione di morte). L'automatismo della ripetizione testimonia il fatto che questo unico principio simbolico, che presiede alla creazione del valore economico, assorbe gradualmente l'intera funzione simbolica. La separazione sociologica dei vivi e dei morti diagnosticata da Baudrillard, trarrebbe quindi beneficio dall'essere collocata in questa matrice fondamentale della riproduzione globale del sistema economico. Baudrillard prende alla lettera l'auto-spiegazione del capitale – la promozione di piccole differenze basate sulla negazione della propria differenza fondamentale. Il capitale ci dice che non c'è più alcuna differenza simbolica (che ci sono solo variabili), ma ci nasconde il suo principio simbolico fondamentale, un principio di riproduzione che assorbe tutte le altre funzioni simboliche nella speranza di sopravvivere. Questo è precisamente il punto di intersezione tra la psicoanalisi come critica della psicologia e il marxismo come critica dell'economia politica. Che dire allora della psicoanalisi? Gli psicoanalisti, che Lacan chiamava i «praticanti della funzione simbolica» [*5], si fanno carico delle ricadute individuali di questo ordine capitalista, il cui unico fondamento simbolico è la produzione di valore attraverso il lavoro. La psicoanalisi si occupa delle conseguenze, che per l'individuo ha l'essere un ingranaggio in questo modo di produzione. Si tratta delle vestigia di una funzione simbolica che è in procinto di scomparire. Essa tratta questo ordine simbolico dal punto di vista degli effetti della soggettività che esso implica. Si torna alle conseguenze soggettive di questa differenza assoluta costantemente negata dall'ordine economico, per il quale assolutamente tutto, senza eccezioni – le parole e le cose – è scambiabile sul mercato. Nonostante la promozione post-lacaniana di un'ideologia astratta del “linguaggio”, la psicoanalisi si occupa solo dei residui dell'ordine simbolico da cui è emersa, ossia l'ordine capitalistico, poiché un sistema simbolico è definito dalla sua natura collettiva. Pertanto, come disciplina e come discorso, è soggetta allo stesso progressivo riassorbimento di tutto il resto dell'ordine simbolico nel “soggetto automatico” capitalista. Sebbene possa aiutare alcuni soggetti a cavarsela, non è in grado di resistere da sola a questo rullo compressore. L'ipostasi del singolare, su cui si basa una certa lettura della psicoanalisi, è espressione della tendenza postmoderna a ignorare la natura di questo rullo compressore. Poiché la comprensione della logica economica ha conseguenze anche per la teoria della lotta contro l'economia. Ne lo Scambio simbolico e la morte Baudrillard afferma che "il sistema" (da lui invariabilmente designato in tale forma indefinita) non sarà mai distrutto dall'intervento diretto: il capitale ricicla ogni critica. Sarebbe quindi necessario spostare la lotta sul terreno simbolico. Cosa significa questo, secondo Baudrillard? «Sfidare il sistema con un dono a cui esso non può rispondere, se non con la propria morte e con il proprio collasso». (Lo scambio simbolico e la morte, p. 64) Questa posizione, immutata, attraversa tutto il suo lavoro.Lo troviamo nella sua interpretazione del terrorismo come atto singolare che si oppone al trionfo della globalizzazione, e come sfida alla morte, o sfida alla logica moderna dello sfratto sociale della morte. Questo per conferire agli atti anomici un potere simbolico positivo ed enfatico. Questa interpretazione nasce da un'ipostasi di morte identificata con lo "scambio simbolico" nelle società premoderne, e poi trasposta senza ulteriori indugi nella società capitalistica, il cui "sistema" viene decifrato solo come un sistema di segni commutabili che assorbe ogni riferimento alla realtà. L'interpretazione della morte nel capitalismo rimane quindi inchiodata a osservazioni sociologiche che non riescono a cogliere il rapporto fondamentale tra i vivi e i morti nel processo di produzione capitalistico, nucleo reale di un'autofagia della funzione simbolica in sé.

- Sandrine Aumercier - pubblicato il 16/2/2025*** su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -

*** Questo testo è la versione scritta di una relazione tenuta al seminario "Psicoanalisi e capitalismo" il 15 febbraio 2025 al Café Plume di Berlino, basata sulla lettura collettiva di brani selezionati dai libri di Jean Baudrillard Lo specchio della produzione e lo scambio simbolico e la morte.

NOTE:

[1] Su quel che segue, ci baseremo su Jean Baudrillard, Pour une critique de l'économie politique du signe (Parigi, Gallimard, 1972); Jean Baudrillard, Le miroir de la production, Parigi, Galilea, 1975; Jean Baudrillard, L'échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard, 1976; Jean Baudrillard, Simulacra et simulations, Paris Galilée, 1981.

[2] Jacques Lacan, Da un altro all'altro, Parigi, Seuil, 2006, p. 321.

[3] Raphaël Bessis, Lucas Degryse, "Intervista a Jean Baudrillard", Le Philosophoire, 2003/1, n. 19.

[4] Jacques Lacan, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Paris, PUF, 1973, p. 248 , Parigi, PUF, 1973, p. 248: «Il desiderio dell'analisi non è un puro desiderio. È il desiderio di ottenere la differenza assoluta, quella che interviene quando, di fronte al significante primordiale, il soggetto si trova per la prima volta nella condizione di sottomettersi ad esso.»

[5] Jacques Lacan, "Fonctions et champ de la parole et du langage", in Écrits, Paris, Seuil, 1966, p. 284.