venerdì 16 settembre 2011

Ridere, bisogna …

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Ricordando Abbie
di Howard Zinn

Mi è capitato di recente di raccontare a Kurt Vonnegut di un tipo che conosco, Bill Breeden, un predicatore camionista che abita nelle foreste dell'Indiana assieme alla moglie e ai figli. Quando il suo paesello, Odon, ha dedicato una strada a John Pointdexter, complice di Reagan nello scandalo Iran - Contras, Breeden ha rubato il cartello e ha annunciato che l'avrebbe liberato solo in cambio di un riscatto di 30 milioni di dollari, appunto la cifra coinvolta nello scandalo. Secondo Vonnegut, Breeden era un "pagliaccio ispirato. Come Joe Heller. E Abbie Hoffman".
Abbie Hoffman occupa un posto tutto suo nella storia contemporanea.
Non c'è stato nessuno come lui, nessuno capace di combinare uno spirito brillante e claunesco con una linea politica rigorosa. E non c'è stato nessuno capace come lui di unire, come con un colpo di grancassa, la rivoluzione culturale degli anni Sessanta con le tumultuose proteste per la giustizia razziale e contro la guerra nel Vietnam, e pochissimi che siano riusciti a trasbordare l'energia e l'impegno di quegli anni fin negli anni Settanta e Ottanta, senza un momento di pausa e senza incertezze. Le farsesche avventure di Abbie sono state istruttive nel senso migliore del termine, come un insegnante esperto utilizza le risorse dell'umorismo e della drammaturgia per creare una profonda analisi sul mondo in cui viviamo.
Abbie è entrato nel novero di un prestigioso gruppo di artisti che hanno impegnato tutto il proprio talento nella battaglia per la pace e la giustizia, che sia con la musica come Bob Dylan, Woody Guthrie, Paul Robeson, Joan Baez, Pete Seeger, o con l'umorismo come Mark Twain, Lenny Bruce, Dick Gregory o, come John Steinbeck, Theodore Dreiser, Arthur Miller e James Baldwin, con la scrittura. Un movimento politico ha bisogno di molto di più di un'organizzazione efficace, di un'analisi fine o di un qualche discorso ispirato. Ha bisogno di anima e di cuore, e Abbie ne aveva in abbondanza. Ha bisogno di passione e di vita, che da Abbie sgorgavano a fiotti avviluppando le persone che toccava. Lui si definiva un "organizzatore della comunità" (sempre inteso che questa comunità si allargasse fino a diventare la nazione intera), ed è vero, però in questo modo dimenticava l'aspetto più sconvolgente del suo apporto ai movimenti dagli anni sessanta: Abbie ha contribuito a trasformare gli istinti antiautoritari delle giovani generazioni nella resistenza politica al razzismo e alla guerra. Ha saputo parlare alla dolcezza e alla voglia di un mondo non violento dei figli dei fiori, ma dicendo: "ho sempre tenuto il mio fiore nel pugno chiuso".
Sul finire di questo libro Abbie entra in clandestinità, inizia a "nuotare", secondo il suo linguaggio in codice. C'è gente che non s'è mai trovata in pericolo quanto Abbie, eppure ha mollato lo stesso il movimento. Invece Abbie, che rischiava l'ergastolo e l'arresto da un momento all'altro, s'è rifiutato di tacere. Ha subìto un intervento di chirurgia plastica, s'è tagliato e tinto i capelli e s'è spostato nel paese con un'audacia che sarebbe stata stupefacente per chiunque ma che da lui, Abbie Hoffman, ci aspettavamo. Mentre era latitante ha tenuto comizi, è apparso in televisione, ha scritto almeno quaranta articoli e ha parlato alla radio. Ha perfino fatto un giro turistico del palazzo dell'FBI a Washington. Tuttavia non era solo. Sin dai primi giorni della latitanza, dopo il penoso addio alla moglie Anita e ai tre figli, mentre si trovava in Messico ha trovato un'anima gemella: Johanna Lawrenson è diventata così la sua "compagna di fuga" negli anni della latitanza e anche dop, fino alla morte di Abbie nel 1989. Insieme hanno combinato qualche tiro mancino alla Abbie. Per esempio, sono stati in giro per l'Europa per sei mesi, concedendosi pranzi suntuosi in cinquantaquattro dei migliori ristoranti del mondo, ovviamente senza pagare perché Abbie aveva una falsa lettera che lo presentava agli "chef" come un inviato di Playboy per un servizio sulla nouvelle cousine francese.
A un certo punto si sono trasferiti nel villino di Johanna nelle Mille isole del fiume San Lorenzo, uno dei più bei posti del continente. Il canale del San Lorenzo, che collega i Grandi laghi all'Atlantico è stato una delle grandi imprese del secolo, un enorme complesso di bacini, argini, centrali idroelettriche, ponti, autostrade e nuove comunità. Però dal punto di vista ambientale ha avuto esiti disastrosi, con intere isole cancellate e diecimila persone sradicate.
Quando Abbie e Johanna si sono trasferiti da quelle parti il Genio dell'Esercito ha presentato un piano per rendere navigabile il fiume anche in inverno con una combinazione di rompighiaccio e sbarramenti di tronchi. Abbie ha studiato la proposta e ha capito subito che avrebbe distrutto i luoghi dove si abbevera l'aquila calva in via di estinzione, disturbato la catena della vita acquatica ed eliminato le paludi.
Ci sarebbero state erosioni e alluvioni gravissime e l'acqua potabile sarebbe stata contaminata dai rifiuti tossici. Si temevano anche infiltrazioni di petrolio.
Abbie e Johanna hanno fondato Save The River! assieme a vicini e amici. L'esperienza organizzativa di Abbie è venuta molto utile. Quanto a lui, ha parlato senza sosta alla radio e in televisione, ha tenuto conferenze stampa, ha mobilitato esperti. Quando il Genio militare ha organizzato un'udienza sul progetto, si sono presentate ben seicento persone, e quando il senatore Daniel Patrick Moynihan ha tenuto un'audizione senatoriale la sala era gremita da novecento spettatori. Abbie è stato eloquente come al solito, e così nella primavera 1980 il Congresso ha ritirato il finanziamento al progetto. E' stata una straordinaria vittoria popolare.
Poco dopo Abbie ha deciso che non voleva essere più un fuggiasco e s'è accordato per tornare a New York e scontare un anno di galera.
Quando è tornato in libertà non poteva fermarlo più nessuno, ha inanellato una serie di comizi nei campus di tutto il paese. Poi nel 1987 ha partecipato alla disobbedienza civile alla University of Massachussets di Amherst, impedendo il passaggio ai reclutatori della CIA.
Lo conoscevo dai tempi del movimento per i diritti civili al Sud, poi in seguito le nostre strade si sono incrociate più e più volte. E adesso venivo convocato come "teste esperto" durante il processo a Abbie e compagni per i fatti di Amherst. Dovevo fare quello che avevo tante volte nei processi politici dell'era del Vietnam: parlare della necessità della disobbedienza civile di fronte alle pericolose scelte del governo.
In quel processo ci sono anche state alcune deposizioni sul ruolo della CIA da parte di ex-agenti che hanno raccontato le sue attività sanguinose e illegali in tutto il mondo. Però il momento più alto del processo è stata l'allocuzione finale di Abbie alla giuria. Chiunque avesse ancora in testa le sue intemperanze al processo di Chicago del 1969 dev'essere rimasto basito per l'abbigliamento, i modi, il linguaggio: sobri,ponderati, ragionevoli, persuasivi. Alla fine la giuria ha prosciolto gli imputati, e il pubblico ministero ha concluso: "Se c'è un messaggio in tutto questo è che...l'America media non vuole che la CIA si comporti così". In seguito ho rivisto Abbie una volta sola, quando abbiamo parlato a una manifestazione studentesca per la libertà accademica nel campus della Boston University. Sarebbe morto nell'aprile 1989, per quella che sembra un'overdose di barbiturici e alcol, nel momento più buio di una grave depressione. Dopo la sua morte ho parlato di lui una sera in un'affollata taverna nella downtown di Manhattan, assieme a Norman Mailer, Allen Ginsberg, Barbara Ehrenreich e altri. Ci aveva toccati tutti, in maniera diversa. Sentivamo tutti quanti che era fondamentale per il futuro del nostro paese che sopravvivesse la sua eredità fatta di divertimento e ribellione, di spirito indomito, di amore sconfinato per la giustizia.

- Howard Zinn -

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