venerdì 27 maggio 2016

La vendetta della scrittura

shilock

Dalla parte sbagliata
- di Simonetta Fiori -

La versione dell’ebreo Shylock, del selvaggio Venerdì, del Gatto e della Volpe… Ecco come cambiano le storie se le raccontano i comprimari.
Che cosa succede nel palcoscenico della letteratura? Sembra che un regista giustiziere abbia deciso di mettere mano alle storie, spingendo sul proscenio le comparse — quelle abituate alle panchine del backstage — oppure proiettando una luce diversa sulle figure malefiche, finalmente liberate da un ruolo ingrato. La confusione regna sovrana, come quando si cambia un copione vecchio di secoli. Shylock ha gettato via i panni gretti dell’usuraio per diventare un intellettuale ebreo del XXI secolo, capolavoro di humour contro l’antisemitismo dilagante. E quel ragazzo che entra in scena si chiama Moussa, un tipo inquieto cresciuto nei quartieri poveri di Algeri: e dire che Camus se l’era dimenticato morto ammazzato su una spiaggia, senza dargli un nome e soprattutto senza dargli un’anima. L’Arabo, e basta. Là vicino c’è Venerdì, abituato da trecento anni a fare il buon selvaggio. Finalmente ci mostra la sua lingua mozzata, come a dire: guardate che se finora ve l’hanno raccontata in quel modo è perché io non avevo la possibilità di parlare. Muto. Senza voce.
E forse da qui bisogna partire. Da chi nel canone occidentale non ha avuto diritto di parola. O dai personaggi maltrattati, sia perché rimossi in una caligine indistinta che tutto opacizza sia perché bersagli del pregiudizio deformante, prigionieri per sempre nella gabbia del male. Tutti comunque vittime di uno sguardo che è proiezione culturale, destinata a cambiare a seconda della latitudine e del tempo storico. E nel mondo globale di oggi che sposta i confini della geografia e della storia anche i caratteri universali dei classici sono soggetti a imprevisti smottamenti.
Se dunque la letteratura è per sua natura continua riscrittura, appare oggi crescente il fenomeno del “retelling” riequilibrante, la reinvenzione delle storie da parte degli esclusi e degli incompresi. Fenomeno certo favorito dalla perdita di carisma dell’autore, deposto dal trono di artista e sempre più ridotto a ispiratore di trame. Tecnicamente si chiama “spin off”: è il derivato narrativo, il testo sviluppato da un’opera che precede. Il romanzo appartiene a chi lo legge, ha sentenziato Pennac. E il lettore può farne ciò che vuole, specie se a favore dei perdenti.
La rivoluzione può consistere in un riscatto morale, come è capitato allo Shylock ridisegnato da Howard Jacobson, un commediografo britannico che vanta antica dimestichezza con il Bardo. Forse è anche per questo che nel suo Shylock Is My Name, uscito ora da Penguin e annunciato giugno da Rizzoli, si è permesso di riambientare allegramente la dark comedy shakespeariana nel triangolo d’oro di Ceshire, tra divette del reality (Porzia), importatori malinconici di fermacarte (Antonio trasformato in D’Anton) e giocatori di calcio che fanno il saluto nazista in campo (Graziano). Un’umanità perduta e profondamente antisemita osservata con lo sguardo acuto di Shylock, che qui gioca il ruolo di coscienza critica. E se Il Mercante di Venezia fu usato dissennatamente dal nazismo — al di là delle intenzioni dell’autore — la reinvenzione di Jacobson punta a denunciare fermenti e stereotipi antisemiti, nascosti nel ventre della società britannica, e non solo.
La riscrittura ha quasi sempre un tratto revanchista, come accade anche nella storiografia. Però a differenza delle storie dei vinti, la letteratura non conosce il sapore acidulo del piagnisteo, riscattato dalla potenza del mezzo letterario. Per questa ragione Kamel Daoud, il prosecutore algerino di Camus, rifiuta l’idea di un regolamento di conti. In questa chiave potrebbe essere letto Il Caso Meursault(Bompiani), la riscrittura dello Straniero dalla parte dell’Arabo, ossia del personaggio «creato solo perché si prendesse un proiettile in corpo e se ne tornasse nella polvere ». Un’ombra privata del nome, di un’identità, e anche della sua stessa morte, sovrastata dal destino dannato di Meursault. Per cinquant’anni non ci siamo chiesti chi fosse quel cadavere crivellato di colpi. Finché Daoud non ha dato voce al fratello di Moussa, l’arabo dimenticato. Ma ha potuto farlo solo dopo aver imparato la lingua di Camus, ovvero l’arte della poesia, «una lingua nitida, cesellata dal chiarore del mattino, precisa e pulita, delineata a suon di profumi e di orizzonti». Solo la letteratura può ridare fiato alla giustizia, «non quella dei tribunali ma la giustizia degli equilibri», come scrive Daoud. E la poesia non ammette rancore, solo salvezza.
Quella del narrare è un’arte mistificatoria, «ma necessaria per dare un senso alla vita, altrimenti condannata a muta insignificanza ». È lo stesso messaggio lanciato dal Nobel J. M. Coetzee, il pioniere della riscrittura anticoloniale. È stato lui a restituire una dignità severa al povero Venerdì, che nell’originale è un puro accidente né più né meno dell’arabo trovato sulla spiaggia. Nel suo Foe lo schiavo negro ritrova la sua identità di sudafricano, piccolo e gracile, lontano dalla prestanza caraibica del predecessore. E soprattutto è un servo muto, silenzioso come un pesce, anzi come uno a cui è stata tagliata la lingua, non sappiamo se dai mercanti schiavisti o dallo stesso Crusoe. Un’afasia insopportabile per le orecchie sensibili di Susan Barton, la naufraga inventata da Coetzee, che implora lo scrittore Foe divenuto personaggio perché racconti la loro storia, soprattutto la storia di chi ha perso le parole. Ma alla fine vince il silenzio di Venerdì, la sua unica arma contro la prepotenza dei dominatori.
Nell’isola rivisitata da Coetzee non c’è riscatto soltanto per lo schiavo negro. Per la prima volta vi compare una figura femminile, la progressista Susan, impensabile nel capolavoro di Defoe. Altro grande escluso dal canone patriarcale sono le donne, talvolta costrette a ruoli marginali. In questa “sfida di genere” una maestra è Margaret Atwood che nel suo Canto di Penelope orienta un fascio di luce sulla sposa di Ulisse: che cosa ha portato all’impiccagione delle ancelle (le dodici amanti dei pretendenti di Penelope)? E cosa c’era davvero nella mente della nostra eroina? Tra raggiri e fughe, l’insigne marito non ne esce un granché.
Se poi apriamo la porta dell’immaginario per ragazzi, soprattutto quello cinematografico, possiamo vedere di tutto: Malefica con la bella faccia di Angelina Jolie e il lupo di Cappuccetto Rosso ridotto a povera bestia vessata da una ragazzina viziata. Ma qui siamo lontani dal politicamente corretto o dal revanscismo anticoloniale, piuttosto nel carnevale del rovesciamento che tutto sovverte e dunque diverte. E chissà cosa verrà fuori dal Pinocchio che Camilleri sta riscrivendo per Giunti. Le voci narranti sono quelle del Gatto e della Volpe, che finalmente potranno vuotare il sacco. E appendere quel moccioso di Pinocchio al chiodo del backstage: per una volta la scena è soltanto loro. E nessuno potrà portargliela via, neppure i carabinieri a cavallo.

- Simonetta Fiori - Pubblicato su Repubblica del 6 marzo 2016 -

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