domenica 7 febbraio 2010

La classe non è acqua!



Certi libri li compro come per una sorta d'inerzia, lo so! Non riesco a farne a meno, in un certo qual modo. Come se mi dicessi che se, magari me lo perdo, uno di questi libri, va a finire che mi perdo qualcosa di irrinunciabile che, forse, giace nelle sue pieghe, nascosto a tutti gli occhi, tranne che ai miei. Così - citando Brecht, mi pare, a braccio - finisce che sfoglio le pagine di certi libri come il rapinatore che fa scorrere fra le sue dita le mazzette dei biglietti di banca.
Lo so che è solo una sorta di patchwork, questo ultimo libretto di Mario Tronti, "Noi operaisti" (e credo che manchi la virgola, dopo il pronome!): consta dell'introduzione al corposo "L'operaismo degli anni sessanta", pubblicato dalla stessa DeriveApprodi e, in più, di altri tre brevi testi, più recenti, rilasciati dallo stesso Tronti in diverse occasioni. Non sto a dire altro del libro; chi vuole lo legga. Mi limito a riportare quella che ritengo essere il nodo ineludibile della questione:
"Ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l'hanno spedita tra i demoni dell'inferno, la seconda l'hanno accolta nei palazzi di governo."
Ecco, questa frase, insieme alla dedica, fatta dallo stesso Tronti in apertura, a quanti più giovani si (s)battono (la "s" è mia) perché ritorni il tempo delle buone idee e delle buone pratiche; concludendo che, se non ritorna, "peggio per quelli che restano". Questa frase - dicevo - mi ha riconsegnato, in tutta la sua preziosità, il senso della classe così come l'ho conosciuta.
Io, che della classe sono solo stato figlio e, assai spesso, amico, che con la classe ci ho litigato e mi ci sono ubriacato, mi ci sono incazzato e ci ho pianto e ci ho riso. A me, non so perché (o, forse, lo so troppo bene) è tornato alla mente uno scambio avuto tanti anni fa, alla fine degli anni sessanta in una Siracusa da non molto ferocemente industrializzata. Allora le piazze era una sorta di assemblea permanente continua. Ai caffé di Piazza Archimede, si rimaneva a discutere fino a tarda notte. D'estate non era affatto raro che si arrivasse a far mattina! Studenti e operai, eravamo comunque tutti, in qualche modo, ex compagni, di scuola e/o d'infanzia. Chi si ostinava a rimanere nel Partito Comunista, e chi gli aveva già voltato le spalle. Non ricordo se, allora, Paolo lo avesse già fatto. Se non l'aveva fatto, lo avrebbe fatto di lì a poco. Era uno di quei tanti nuovi assunti da quel mostro di nome Montedison che aveva già cominciato a deturpare una delle più belle coste del mondo! Non ne ricordo il cognome, di Paolo, anche se continuo a rivederne la faccia: somigliava curiosamente a Gianni Magni, uno dei quattro Gufi. Così come ricordo, nettamente, le parole con cui chiuse una discussione che probabilmente - come tante altre - non portava da nessuna parte. "Io non so se sono più rivoluzionario io, che sono un operaio, oppure (rivolto a me) se è più rivoluzionario Franco, che è anarchico, ma so che dobbiamo far paura al padrone, se vogliamo vivere e, magari, vincere".
Di definirmi anarchico - che non ha alcun senso, per me - ho smesso da tempo.
Ma continuo a pensare che la classe non sia acqua.
Anche grazie a Paolo!

1 commento:

boris battaglia ha detto...

ecco. anche solo per questo tuo post, quel libretto non è inutile.
Ho provato, leggendolo su una panchina, mentre aspettavo i comodi del cane, una sensazione analoga. Anche a me è tornano in mente un breve dialogo -molto simile-, scambiato in una freddissima mattina, sulla banchina del treno per trieste, alla centrale di Milano tra un vecchio e granitico comunista iscritto al partito, l'ottimo Carlo Cuomo e me, giovanissimo e velleitario.
grazie