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Il 18 luglio del 1610 sulla spiaggia della Feniglia, presso Orbetello, un colpo di sole finiva di uccidere Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. Ma i colpi che gli accorciarono il tempo se li era buscati a Napoli nell’ottobre dell’anno prima, in un agguato fuori d’osteria. Così il pittore del buio squarciato a coltellate di luce, morì da cittadino del Mediterraneo, spezzato a Napoli e cotto al sole del Tirreno. Conobbe la malaria e le risse, cercò il sud in fuga dalle conseguenze di un delitto: aveva ucciso in un parapiglia tal Ranuccio Tommasoni da Terni, consegnando all’eternità il nome di uno sconosciuto attaccabrighe.
Visse a Napoli, a Malta e non capì mai il mare e non volle dipingerlo. A volte dipinse su tela di vela. Il panorama gli era indifferente. Amava solo le figure umane e le fissò al varco del loro dramma: Pietro appena crocifisso, Paolo precipitato di sella, Giovanni sotto il pugno del boia, Abramo sulla gola di Isacco. L’opera che amo di più è perduta, distrutta col nazismo nella Berlino del 1945. Anche i quadri subiscono agguati. È un Matteo massiccio che scrive in ebraico le prime parole del suo vangelo, mentre un angelo femmineo gli sfiora e gli corregge la mano. L’angelo arriva a suggerire a fior di labbra e in punta di dita le generazioni che calano lungo le scritture sacre fino a Gesù, e nell’Antico Testamento innestano il ceppo di un’altra rivelazione. Come si sa, tutto il Nuovo Testamento fu scritto direttamente in greco, saltando la lingua madre degli apostoli e di Gesù. Caravaggio immaginò il vangelo di Matteo in lingua originale.
- Erri De Luca -
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