"Che cosa sono le nuvole". Era una canzone che Domenico Modugno cantava sui titoli di coda dell'episodio omonimo che Pasolini aveva girato mettendo in scena un Otello rappresentato da marionette. "Capriccio all'italiana", credo fosse il titolo del film. E la domanda, la poneva un Ninetto Davoli/Otello ad uno Jago/Totò, fuori dal palcoscenico. Già, cosa sono le nuvole? La domanda rimane, anche se riferita a quello che, dalla critica, viene considerato uno dei migliori, se non il miglior disco di De André.
Si può tentare, volendo, di dare qualche risposta, col senno di poi, forzando quanto basta.
Un concept album, a mio avviso, diviso in due parti, dove la prima parte (quella in lingua) parla di "investimento affettivo"; mentre la seconda (quella che si sviluppa in vari dialetti) parla di amore. Il tutto, ovviamente, sotto un cielo denso di "nuvole" che si sono addensate minacciose per tutto quel decennio precedente all'uscita del disco. Quegli anni ottanta che, nella canzone omonima, vengono chiamati "Ottocento": dieci anni lunghi come un secolo!
Cominciando dal testo (recitato) che apre il disco, e dal richiamo ad Aristofane.
E qui arriva la forzatura: propongo un Fabrizio De André visionario, attento alla trasformazione dei processi produttivi!
Aristofane e i sofisti. Già! La merce del nuovo capitalismo è il sapere, la conoscenza, l'informazione.
Maledetti sofisti! Fanno commercio della conoscenza; la trasportano e la vendono. Per divertire e per guadagnare.
E anche l'amore - quel che ne rimane - può essere solo "investimento affettivo", dove alla "moglie dalle larghe maglie e dalle molte voglie" si regalano scatole d'argento. E se il figlio è "annegato come un coniglio" nel naviglio di quella stessa Milano che galleggia in una bottiglia di
orzata, magari al solo scopo di pugnalare nell'orgoglio un padre preoccupato per il malcontento che continua a serpeggiare contro il motore che fa girare il mondo; non importa. "Domani andrà meglio"!
"Ottocento"; impietosa fotografia, virata al comico, del decennio appena trascorso. Anche qui, come in "Al ballo mascherato" (in "Storia di un Impiegato"), c'è un padre che pretende aspirina (alka seltzer) ed affetto. Solo che questa volta (questo "adesso") il padre evita di inciampare nella sua autorità. Si perde, estasiato, nella contemplazione di tutte le "meraviglie" con cui il capitalismo ci riempie la vita, grazie al miracolo del "libero mercato". E, per dormire tranquillo, basta un alka-seltzer, prima di andare a letto.
Nessun pericolo di saltare in aria. Il figlio è morto. La figlia è solo un valore di scambio ("già matura e ancora pura") sul mercato ("quante belle figlie da sposar"). Da condurre all'altare, camminando "su un tappeto di contanti".
Non c'è che dire! E' proprio una brutta nuvolaglia, quella di "Ottocento", quasi peggio delle brutte nubi scure della "Domenica delle Salme"; ed è un niente, a confronto, la nuvoletta, quasi bianco-rosa, che si chiama "Don Raffaé".
Le altre non sono nuvole. Sono "solo passaggi di tempo" che si preparano a compltetare il loro "processo di individualizzazione" e diventare così,anche loro, "anime salve".
Così tutta la facciata A del disco (in vinile!) parlai dello stesso genere di investimento. Non importa che sia quello affettivo del padre collezionista, o quello "deferente e mafioso" di PasqualeCcafiero, o quello "artistico" dei cantautori che hanno cantato per la pecunia e per i palastilisti.
Il problema della lingua (anzi, delle lingue) è una delle chiavi di "Le Nuvole". Si comincia con l'italiano lievemente "sgrammaticato" del parlato, all'inizio:
"...e la terra si tremae gli animali si stanno zitti...."
Poi la lingua di "Ottocento" passa, improvvisamente, dalla filastrocca in italiano a quella svolta in un tedesco inesistente. Si potrebbe azzardare che le parole, come suono e basta, stiano proprio ad indicare l'assenza delle parole fatte di sangue e carne!
Dopodiché si passa al napoletano italianizzato di "Don Raffaé", dove la perdità dell'identità sull'altare dell'investimento si consuma nell'incapacità di riuscire a parlare "alla pari" con il potere. Solo i cantautori de "La domenica delle salme" sarebbero in grado di riuscire a parlare, facendosi comprendere da tutti, con il "vaffanculo"; ma la canzone, nell'ultima strofa, vira al linguaggio incolore e sciatto dei telegiornali.
E allora che parlino coloro che hanno ancora qualcosa da dire!
Anche se, per farlo, devono fare uso del napoletano de "La nova gelosia", del genovese di "A cimma" e del gallurese dei "Monti di Mola".
Si precludono la comprensione di molti, così esprimendosi. Certo. Ma chissà che così facendo non si riesca, alla fine, a vivere in una "babele" dove riusciamo a comprenderci! Almeno fra di noi.
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