martedì 28 novembre 2006

insuscettibile di ravvedimento!



Alfonso, l'ho conosciuto nel 1970, durante una delle sue rare visite a Siracusa, dove entrambi eravamo nati. Di Failla, ne avevo sentito parlare fin da bambino. In casa e fuori. Il migliore amico di mio padre era il fratello di Alfonso, di qualche anno più giovane di lui.
Era una sorta di mito, Alfonso Failla a Siracusa. Tutti quelli che avevano l'età per farlo, si ricordavano di come nel 1925 Siracusa aveva subito l'assedio di alcune migliaia di militi fascisti che, nell'attesa di imbarcarsi per la Libia, venivano utilizzati contro il movimento operaio ed antifascista. Il gruppo di Failla, insieme ad altri, a mano armata, aveva inflitto gravi perdite ai fascisti, trascinando la popolazione, con in prima linea i lavoratori portuali, ad un insurrezione di massa contro i mercenari in camicia nera. In seguito a questa sollevazione il governo sospese l'imbarco dei militi fascisti dal porto di Siracusa che vennero convogliati nel porto di Napoli, per parecchio tempo.
Era un mito - dicevo - Alfonso Failla. Positivo per gli uni, negativo per altri. Una sorta di simbolo di rivolta indomita. Eppure l'aveva lasciata relativamente presto, Siracusa. Già nel 1949, dopo il suo breve ritorno, all'indomani della liberazione, e dopo essere stato eletto segretario della camera del lavoro - ed aver rifiutato l'incarico, datogli all'unanimità, per non dividere il movimento operaio! L'aveva lasciata per Roma, dapprima, e per Carrara, dopo. Ed a Carrara è morto nel gennaio 1986.
In una delle sue rare visite - l'ultima credo - lo andai a trovare ad Ortigia. Credo sia stato, quello, uno dei momenti che ha dato alla mia vita una direzione, piuttosto che un'altra. Ne venivo fuori, da quell'incontro, con un ricordo indelebile e con un indirizzo in tasca, cui rivolgermi quando sarei arrivato a Firenze, città in cui mi apprestavo ad andare a vivere. Dopo, l'ho incontrato ancora, e più volte. Sempre parco, quasi schivo, nel raccontare episodi della sua vita; qualcuno lo custodisco gelosamente. Su un libro di Lacan, anni dopo, avrei trovato scritto, in un linguaggio più o meno comprensibile, quello che da lui avevo appreso con semplicità. Come il fascismo - quel fascismo che tanta parte aveva avuto nella sua vita, marchiandolo a fuoco - non fosse "mancanza della libertà di parola", bensì "costringere a dire". Me lo illustrò aneddoticamente, raccontandomi di come una volta lo avesse insegnato ad un caporione fascista, facendogli gridare, coltello alla gola, "viva l'anarchia". Aveva il suo senso dell'umorismo. Anche per questo sorrideva parlando di Pajetta, cui non mancava il senso dell'umorismo, e lo paragonava fra sé e sé a tanti anarchici "barbosi" con cui aveva a che fare. Un altro ricordo, quello che attiene al più bel complimento che il "me" ragazzo ha ricevuto, quello lo tengo per me solo.

2 commenti:

Riccardo Venturi ha detto...

Sicuro che fosse su un libro di Lacan dove hai letto la definizione del fascismo, Franco? La cosa mi interessa, perché significa o che Lacan avrebbe ripreso la definizione di Roland Barthes (nulla di cui stupirsi!) data nella famosa "Lezione", la prolusione all'ingresso di Barthes all'Accademia di Francia. Conosco quel passo a memoria, e da una vita. Ad ogni modo, non ha eccessiva importanza...specialmente se leggo di Alfonso Failla. E grazie. Ric.

BlackBlog francosenia ha detto...

Ovviamente....hai ragione tu, e l'argomentazione è ascrivibile a Barthes. Anche se un discorso assai simile, sebbene non riferito al "fascismo", bensì al potere "tout court", lo si ritrova anche in Deleuze.

salud