sabato 7 febbraio 2015

Quasi

morte de virgílio GRÁFICA

"La lettura mattutina del giornale è una sorta di preghiera realistica" - così Hegel, fin dalla sua gioventù, esprimeva la propria fede nelle "notizie" - dal momento che per lui, così come la preghiera "orienta il proprio comportamento contro il mondo e verso Dio", la preghiera realistica "orienta nei confronti di quello che il mondo è". In ogni caso, "la sicurezza è la medesima, in quanto l'obiettivo rimane quello di conoscere la nostra posizione nel mondo."
Più tardi, tale devozione alla carta stampata, gli avrebbe causato qualche piccolo guaio, quando, da editore di un giornale, si vide chiuso il proprio foglio, accusato dalla censura di rivelare la posizione delle truppe tedesche. Non stupisce che, in sua difesa, Hegel abbia affermato di aver tratto le informazioni da altre fonti giornalistiche già pubblicate.
Nel 1841, due anni dopo la morte di Hegel, Edgar Allan Poe crea il personaggio di Auguste Dupin, il "detective cerebrale"  che risolve i suoi casi solamente in virtù della lettura dei giornali che danno le "notizie" del caso stesso. E dieci anni dopo, nel 1851, Marx comincia a scrivere "Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte", non solo traendo spunto dalle notizie pubblicate dai giornali, ma destinando il suo stesso scritto a diventare notizia, sulla rivista "Die Revolution". Insomma, dimmi dove scrivi e ti dirò chi sei!
In tale senso, il caso di Maurice Blanchot è paradigmatico: i suoi primi anni come scrittore sono segnati dal suo allineamento all'estrema destra, e tanto i suoi testi quanto le pubblicazioni che li ospitano, ci raccontano questa storia. Poi, nel corso della seconda guerra mondiale e dell'occupazione nazista in Francia, Blanchot, poco a poco, comincia a migrare verso sinistra; ed anche in questo caso sono i testi, insieme agli organi di stampa su cui vengono pubblicati, a raccontarci la sua storia. Un genere di storia di transizione - c'è da dire - che non è certo esclusiva di Blanchot. Altri la vivranno, e ci scriveranno sopra: Gide e Orwell, per esempio.
Per tutti gli anni '30, Blanchot collabora ad una serie di periodici conservatori, ma il più emblematico di questi - quello che finirà per esemplificare nel suo destino la drammaticità della transizione - è il "Journal des débats" (fondato nel 1789, il giornale si era opposto a Napoleone Bonaparte, il quale gli aveva fatto cambiare nome in "Journal de l'Empire") dove Blanchot passerà quasi dieci anni, arrivando ad esserne redattore capo. Il giornale chiuderà nel 1944, con la Liberazione della Francia, quando la transizione di Blanchot sarà arrivata ad avere una maggiore complessità.
Sarà "Il libro a venire" (la prima edizione è del 1959) a segnare la maturità dell'altro lato della transizione, quello dove Blanchot, fra le altre cose, si misura con le sue letture di Beckett, Bataille ed Hermann Broch. Ed è la lettura che fa di Broch a rispecchiare questa dinamica della transizione, il percepire la necessità di una cesura, di un taglio netto (una morte) nella vita stessa: "La morte di Virgilio" di Broch è del 1945. Per Blanchot, il libro di Broch è un canto funebre che traghetta "da un'esperienza grezza ad un'esperienza più ampia, recuperata attraverso la riflessione". Un'esperienza di morte che diventa incessante, perché Virgilio non smette di morire. E' la lettura che ne fa Blanchot, anche a partire da un suo posizionamento storico-drammatico ben preciso: il 1945. E per capirlo, basta leggere "L'istante della mia morte", il racconto pubblicato da Blanchot nel 1944, e commentato da Derrida, in cui scrive della sua quasi morte davanti ad un plotone di fucilazione nazista.
Come faremo a scomparire? E' questa la domanda de "Il libro a venire", le cui risposte sono fatte di frammenti di vario genere, di commenti ad altri libri, alla ricerca di quello che riesce a trovare (e a mancare) nella ricerca dell'esperienza della morte (e delle sue varie rappresentazioni: esaurimento, neutralità, silenzio, vuoto), attraverso la deliberata e meticolosa selezione dei momenti di sospensione: l'attesa di Godot, in Beckett; la porta della legge, in Kafka.

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