mercoledì 11 febbraio 2015

Il fango della strada

citta dubai

Dalla città keynesiana alla città neoliberista: L'urbanizzazione del capitale fra concentrazione e diffusione
- Qualche nota sparsa a partire da "Geografia e Capitale" di David Harvey -
di
Clément Homs

Avvertenza: Queste note sulle tesi del geografo David Harvey, marxista tradizionale, non hanno la finalità di svolgere una critica di tale marxismo che assume il punto di vista del lavoro. In tal senso, si consiglia una lettura del testo di Moishe Postone:  «Theorizing the Contemporary World : David Harvey, Giovanni Arrighi, Robert Brenner», testo che costituisce una critica dell'opera di Harvey.

Henry Lefebvre ha mostrato, per primo, l'importanza del fenomeno urbano per quel che concerne la dinamica del capitalismo: il capitalismo, per potersi meglio riprodurre, deve urbanizzarsi. L'urbanizzazione capitalista ha la sua logica e le sue forme proprie di contraddizione. A partire dal XIX secolo e fino ad oggi, si possono sommariamente distinguere tre modelli di urbanizzazione capitalista in funzione delle sue configurazioni storiche successive: la città-laboratorio, la città-keynesiana, la città neoliberista. Per meglio definire il contesto generale della traiettoria urbana del capitale nel XX secolo, parleremo brevemente, dapprima, della reinterpretazione delle principali configurazioni storiche attuate dal capitalismo nel XX secolo, come vengono proposte da Moishe Postone (va notato come questa interpretazione della traiettoria storica sia sensibilmente diversa, nei suoi fattori esplicativi, da quella proposta da Norbert Trenkle ed Ernst Lohoff ne La Grande Svalorizzazione, che salvo poche eccezioni qui non verrà trattata).

La ruota dei criceti: breve presentazione delle configurazioni storiche successive del capitalismo del XX secolo
Moishe Postone segue qui utilmente la periodizzazione fatta da Eric Hobsbawm, specificandola teoricamente al fine di poterla usare come base. Bisogna distinguere tre periodi essenziali nel XX secolo, che costituiscono delle diverse configurazioni storiche del capitalismo, ma che non sono altro che l'espressione della forma della dinamica immanente ad un tale sistema immerso in un movimento incessante.

L'età delle catastrofi
Per prima, una "età delle catastrofi" (1914-1947) che egli interpreta come un periodo caratterizzato dai diversi tentativi di superare la crisi globale del capitalismo liberale del XIX secolo attraverso la forma comune di un interventismo crescente dello Stato sull'economia. Il primo di questi tentativi è l'economia della "guerra totale" del 1914, e proseguita nel 1939, mentre si ritrovano le premesse di quell'interventismo di Stato della seconda ondata di "modernizzazione ritardata" (Robert Kurz) alla fine del XIX secolo, soprattutto sotto Bismarck, con lo Stato che riprende una parte della riproduzione sociale. Una volta che la traiettoria del capitalismo è avanti in certi paesi, le nazioni "ritardatarie" (ancora precapitaliste sotto certi aspetti) hanno poche possibilità di elevarsi al livello degli standard di produttività raggiunti dai "paesi avanzati", mentre raramente dispongono di una borghesia e di un proletariato su cui potersi basare. Sono gli Stati cge vogliono giocare il ruolo di "capitalista collettivo come idea", chiudendo il loro Mercato interno al mondo "avanzato", per preservare la modernizzazione interna, e portando avanti con una marcia forzata questa "modernizzazione ritardata" per mezzo di una formattazione violenta dei rapporti sociali. L'esempio più caratteristico di questa configurazione storica post-liberale è ovviamente lo Stato bolscevico-stalinista. Sotto forma di un anti-capitalismo tronco, come ha dimostrato Postone (Moishe Postone, « Antisémitisme et national-socialisme », in « Critique du fétiche capital, PUF, 2013), l'ideologia del "nazional-socialismo" fa valere la concorrenza esterna, per costituire all'interno una "comunità popolare" nazionale etno-razzista, una comunità di sangue e di cultura che deve avere la precedenza sul capitalismo. Negli Stati Uniti, l'interventismo moderato di Stato sostenuto dal New Deal di Roosvelt ha costituito un'altra forma di questo tentativo di superare la crisi e annunciava già le politiche keynesiane e pianificatrici. Lungi ancora una volta dall'opporsi al capitalismo, "il keynesismo è stato il 'salvatore' del capitalismo - secondo le parole di Paul Mattick - anche se, per la sua natura come per la natura del sistema, ha potuto svolgere solo un un'utilità temporanea" (Paul Mattick, « Marx et Keynes. I limiti dell'economia mista »).

La sintesi dei modelli dirigisti
In un secondo tempo, questo stesso "capitalismo post-liberale" stabilizzato conosce una "età dell'oro" (1947 - metà anni 1970). Si vede ancora sorgere - nota Postone - all'Est come all'Ovest, lo sviluppo di una sintesi di questi differenti modelli dirigisti in economia. Sappiamo che la crisi mondiale degli anni 1937 venne superata grazie ad una nuova industria fordista e grazie alla regolazione keynesiana, non tanto prima della seconda guerra mondiale (è noto il fallimento del New Deal di Roosvelt  - la produzione americana riprende bruscamente solo nel 1940, con quasi la piena occupazione, quando gli Stati Uniti dichiarano di voler diventare "l'arsenale delle democrazie") quanto piuttosto dopo la guerra e la ricostruzione. Le economie della guerra totale saranno il prototipo di questa configurazione fordista-keynesiana dei Trenta Gloriosi che sono stati l'apogeo di un'accumulazione capitalista strutturata sul valore relativo, e quindi sulla necessità di produrre un immenso volume di merci (la società dei consumi di massa è stata solo l'altra faccia di questa costituzione feticistica del "produttivismo"). E questo per compensare le dosi sempre più omeopatiche di valore e plusvalore cristallizzati in ciascuna merce particolare, a seconda e a misura dello stabilirsi - grazie ai "gruppi di innovazione" tecnologici della seconda e soprattutto della terza rivoluzione industriale - di standard di produttività socialmente determinanti sempre più elevati.

La dislocazione della sintesi dirigista capitalista: la configurazione neoliberista
Mentre i primi due terzi del XX secolo hanno conosciuto una formattazione ed un controllo statale dei processi socio-economici, il periodo che inizia negli anni 1970 conosce, ad Ovest come ad Est, l'indebolimento di questo interventismo dello Stato. Postone interpreta quest'ultimo terzo del secolo come "la dislocazione lenta di questa (precedente) sintesi" dei modelli dirigisti in economia, senza ricorrere, pertanto, alla teoria della crisi interna che verrà sviluppata dalla "critica del valore" e dalla "critica della scissione valore". Si fa ancora una volta appello al Mercato ed alla sua concorrenza anonima contro la sfera funzionale politico-statale. Anche qui, si può considerare il collasso dell'Unione Sovietica e del suo blocco di paesi satelliti, tra il 1989 ed il 1991 - così come le vittorie democratiche delle società contro i loro Stati ("Noi siamo il popolo!" scandivano i manifestanti della Repubblica Democratica Tedesca), oppure come afferma l'apologetica della "Fine della Storia" (F. Fukuyama) - la vittoria definitiva dell'Ovest liberale occidentale. Il crollo dei paesi dell'Est ha fatto pienamente parte di un'evoluzione più generale, quella della lenta dislocazione dell'insieme di questa sintesi dei modelli dirigisti: lo smantellamento dello Stato-keynesiano (fine dei regimi fordisti/Stato sociale-provvidenza, del keynesismo, delle grandi imprese nazionali e dei sindacati operai) in un Occidente capitalista in crisi strutturale dopo il decennio 1970, è stata solo l'altra faccia di una crisi generalizzata in Unione Sovietica e dell'esplosione del Partito-Stato staliniano ad Est. Nel 1991, ne "Il collasso della modernizzazione", Robert Kurz e la rivista Krisis che egli dirigeva erano praticamente i soli a sostenere che l'uscita di scena dei regimi "comunisti" non era, alla fine, che l'ultimo passo verso la crisi globale dell'economia di mercato, che aveva già minato nelle sue fondamenta le società occidentali (in Francia, si ritrova questa tesi, sotto un'altra forma, nel libro di Michel Henry, «Du communisme au capitalisme. Théorie d’une catastrophe » apparso nel 1990). Mentre l'Unione Sovietica era riuscita, nel periodo stalinista, a ripetere l'accumulazione estensiva del periodo iniziale del capitalismo, essa si rivela incapace di passare agli stadi successivi. L'assenza di mercato comporta la completa mancanza di un adattamento della produzione di valore alle necessità reali. Sicuramente, quest'identità fra economia di Mercato ed economia di Stato - quando ci si trova al livello del "lavoro astratto", cioè a dire del lavoro come fine in sé, volto solo a "l'auto-movimento" del denaro e al suo accrescimento - non poteva essere riconosciuta dalla sinistra alter-capitalista e dall'insieme del marxismo tradizionale, che continuavano a naturalizzare il lavoro, il valore, il denaro e la merce ed a credere che il capitalismo non fosse altro che un modo particolare di distribuzione di queste categorie (da qui, l'idea strutturale di biasimare soltanto la proprietà privata). La dislocazione di una configurazione storica del capitalismo - caratterizzata da un certo primato della politica, e a cui la sinistra occidentale ed il vecchio movimento operaio avevano finito per identificarsi nel corso del XX secolo (con tutte le ambiguità e contraddizioni dell'alter-capitalismo della "sinistra della sinistra") - è sempre stata interpretata come un segno di perfetta salute  o come un'offensiva (la "rivoluzione conservatrice neoliberista) del capitalismo, nel peggiore dei casi anche come un complotto dei centri di potere capitalista (una "strategia dello shock", ha detto Naomi Klein) contro la classe operaia-salariata rappresentante il sacrosanto lavoro. Da Bourdieu fino ad ATTAC, e passando per gli altri gruppi di estrema sinistra, la nuova configurazione non era altro che una vendetta sapientemente preparata dagli economisti ultra-liberali (Scuola di Vienna o Scuola di Chicago), dal gruppo Bildberg o da qualche altra setta della Mont Pelerin Society, quando tutta la storia di fine secolo non veniva interpretata a partire dalle azioni di qualche demoniaco dirigente politico come  Ronald Reagan o come Margareth Thatcher. Quest'interpretazione superficiale ha causato una voragine ideologico-politica spalancatasi sulla sinistra del capitale, con, da una parte, il social-liberismo che ha interiorizzato le nuove esigenze sostenendo la ristrutturazione, e, dall'altra, una sinistra che ha creduto al tradimento, criticando tuttavia la configurazione capitalista neoliberista in nome del precedente capitalismo interventista-keynesiano. Pertanto, questo smantellamento neoliberista "non è del tutto dipeso dai partiti e dagli uomini al potere. Non si può comprenderlo facendo riferimento ai soli fattori locali ed alle contingenze. Tali fattori possono spiegare le variazioni di questo modello comune, non il modello stesso." (Moishe Postone, « Marx est-il devenu muet ? »L’aube, 2003, pp. 58-59). E ciò per la buona ragione che questa configurazione storica - in quanto ristrutturazione della formattazione dei rapporti sociali - non è tanto un'offensiva di un capitalismo in buona salute, quanto, piuttosto, una reazione all'assenza delle condizioni di valorizzazione reale del capitale. Poiché la società capitalista non ha niente della società stazionaria, essa rivendica, al contrario, una forma di dinamica contraddittoria assai particolare, la quale si manifesta ormai attraverso delle crisi sempre più ravvicinate e dalle dimensioni sempre più grandi. Questa crisi interna assoluta del rapporto-capitale al livello della sua totalità, ha una molla molto particolare, che è la molla della sua dinamica storica alla fine della corsa, una volta esaurite le contro-tendenze. In realtà, il capitale particolare, al livello dei suoi "ufficiali e sottoufficiali" individuali (Marx), deve razionalizzare e "tecnologizzare" la produzione per poter raggiungere un doppio obiettivo. Aumentare la parte di plusvalore che gli proviene in rapporto a quello che tornerà ai lavoratori sotto forma di salario; abbassare il valore delle merci prodotte, grazie alla tecnologia di produzione, e così guadagnare provvisoriamente delle nuove parti di mercato rispetto alla concorrenza, prima che i concorrenti non recuperino il nuovo standard di produttività sociale. Tuttavia, la tecnologia di produzione - se è vero che crea una massa sempre più grande di beni - trasmette semplicemente il valore in essa incorporato, senza crearne di nuovo. Solo il dispendio di lavoro umano, in quanto attività di dispendio di energia umana in una posizione socialmente mediatrice (la faccia astratta del lavoro, definita nella terminologia marxiana come "lavoro astratto"), aggiunge valore alle merci. A livello sociale globale, quando viene utilizzato meno lavoro astratto in quanto viene sostituito dalle macchine, quello che diminuisce è la massa globale del valore, anche se gli ufficiali e sottoufficiali individuali si tagliano - grazie alla tecnologia di produzione - delle fette sempre più grosse di una torta del valore che è globalmente in via di diminuzione. Rendendo paradossalmente il lavoro, superfluo, il capitalismo sega il ramo sul quale è seduto, ma sempre più spinto dalla forza cinetica del suo assurdo auto-movimento non può fare altrimenti. E le sue contraddizioni non smettono di essere sempre più spinte in avanti, nella misura in cui il livello di produttività sociale viene aumentato. Poiché per riuscire a raggiungerlo, i molteplici investimenti annessi e secondari che lo rendono possibile (le "spese accessorie" dice Marx) e lo sviluppo del lavoro improduttivo in senso capitalista, pesano sempre di più e fanno sempre più sanguinare il processo di valorizzazione che tende, poco a poco, a crollare sotto il peso della sua stessa megastruttura sociale. Alla fine della corsa, le contraddizioni di base della merce portano ad un "soffocamento progressivo della produzione di valore" (Anselm Jappe). In questa crisi di valore a livello sociale globale, è la riproduzione della società, attraverso i suoi feticci sociali, a trovarsi in difficoltà. E quando, a livello della massa sociale globale del valore, la valorizzazione si prosciuga, le finanze dello Stato si prosciugano anch'esse. Non c'è alcun complotto dell'ideologia neoliberista.

Sul significato del neoliberismo: al di là del contro-pensiero unico di "Le Monde Diplomatique"
Il neoliberismo e soprattutto la finanziarizzazione dell'economia hanno determinato un'economia di bolle speculative che ha provvisoriamente messo sotto flebo una produzione capitalista moribonda che, a fronte del rischio di collassare immediatamente, ne è divenuta totalmente dipendente. Per cui, lungi dall'essere l'offensiva di un capitalismo sano, la configurazione neoliberista e le sue escrescenze di capitale fittizio non sono altro che dei sintomi di una crisi interna generalizzata, in seno alla "economia reale" capitalista, la quale non smette di tornare in superficie, materializzandosi sotto forma di una crisi strutturale permanente. Questa crisi del valore, che è la crisi della sostanza sociale del capitale, cioè a dire del lavoro astratto, è alla base della crisi multidimensionale che si vede in superficie a livello empirico, non solo sotto la forma della crisi dello Stato-provvidenza, delle crisi finanziarie, delle crisi dei debiti sovrani, ma anche sotto la forma della crisi ecologica, della crisi antropologica quotidiana in cui gli individui sociali sono sempre più spremuti come limoni per farne uscire valore. In questa situazione di alto livello della produttività sociale, permesso dalla terza rivoluzione industriale, gli individui prestatori di lavoroastratto sono sempre più espulsi dal rapporto-capitale dello sfruttamento, poichè sono oramai superflui per il suo processo di accumulazione a livello particolare. Mentre a livello della totalità, questo meccanismo comporta una caduta della massa del valore. Ma nei termini delle conseguenze dirette di questa crisi, l'esercito di riserva del capitale si trasforma sempre più, a partire dall'ultimo terzo del XX secolo, in un'immensa armata di "scarti umani" (Zygmunt Bauman) di cui il rapporto-capitale non ha assolutamente più bisogno, e che la CIA, nel suo rapporto del 2002, dichiara pari - prima della crisi del 2008! - ad un miliardo di individui senza occupazione o sottoccupati, ossia un terzo della popolazione mondiale attiva (Mike Davis, « Le Pire des mondes possibles. De l’explosion urbaine au bidonville global »).
Ora, possiamo inserire la traiettoria urbana del capitale dentro le differenti configurazioni storiche che il capitalismo prenderà nel corso del XX secolo, sulla base di alcune note sull'opera di Harvey.

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La città-laboratorio
La città industriale è caratterizzata dal modello di città del XIX secolo, generalmente si parla di urbanizzazione industriale (l'esempio classico è la Manchester descritta da Friedrich Engels nel 1844). Questa materializzazione, nello spazio della città, corrispondente alla sussunzione reale ed all'estrazione del plusvalore relativo, si inscrive nel passaggio fra due configurazioni storiche della dinamica del capitalismo legate ad un salto dello standard di produttività (Moishe Postone, « La trajectoire de la production », in « Temps, travail et domination sociale », Mille et une nuits, 2009). E' il passaggio dal «Putting out system» (la proto-industrializzazione ed il piccolo artigianato capitalista, fantasticati come qualcosa di positivo da Christopher Lasch, in "William Morris et les anti-industriels") al «Manufactory System» (Mendels), il quale crea la concentrazione urbana del XIX secolo. La dinamica immanente del capitale produce la riconfigurazione spaziale che meglio gli corrisponde, e questa retroagisce su quella stessa dinamica per spingerla ancora più in avanti. In questa nuova configurazione spaziale del capitale, la città esiste solo come concentrazione di laboratori di produzione del plusvalore assoluto e relativo: è la città-laboratorio.
Il modello della città-fordista (1910-1945) è stato l'ultimo volto di questa città industriale (esempio: Detroit), che riappare dall'altra parte del pianeta a partire dagli anni 1980, in senso ai cosiddetti "BRICS" (esempio: la città-laboratorio di Shenzhen, in Cina, con 400.000 lavoratori nello stabilimento di Foxconn ora in corso di essere sostituito dai robot della terza rivoluzione industriale). Dietro le illusioni della città post-industriale della Triade, si nascondono così le realtà della città nuovamente industrializzata ai margini più o meno integrati del capitalismo mondiale.

La città-keynesiana
Gli spazi urbani attrattivi vengono sottoposti ad importanti mutamenti a partire dal 1945. Durante i Trenta Gloriosi, la concentrazione urbana in Francia subisce un'accelerazione con il proseguimento dell'esodo rurale, con il "baby-boom" e con l'immigrazione proveniente dalle ex-colonie. I keynesiani pensano che il problema della crisi degli anni '30 (la Grande Depressione) sia dovuto al sotto-consumo da parte delle famiglie (enormi stock di beni invenduti=sovraccumulazione), la risposta dello Stato nei centri capitalisti è quella di sostenere la domanda (il consumo) finanziandola per mezzo di un processo di debito illimitato. Questa soluzione provvisoria alla crisi che mina il processo del valore dall'interno, porterà ad un completo rimodellamento del processo urbano, la costruzione di un modello di città interamente dedita al solo consumo: la "città keynesiana" diviene una "soluzione spaziale" (secondo le parole di David Harvey) alla crisi (una città post-industriale). Si parla quindi di un'urbanizzazione della domanda e del processo di riorganizzazione spaziale del paesaggio per i consumatori. Durante questa fase, lo Stato investe massicciamente nei trasporti, nell'educazione, negli alloggi e nella sanità, nel quadro della nuova strategia di dispersione spaziale delle imprese, al fine di migliorare la qualità del lavoro e mantenere la pace sociale.
Come primo elemento, i centri delle città si terziarizzano (funzione della realizzazione del plusvalore per mezzo di dispositivi spaziali che cercano di disporre il consumatore a fare più facilmente degli acquisti di merci), si assiste così, nei centri capitalisti, al declino della tradizionale "città-laboratorio" fordista (produzione del plusvalore) a favore della "città keynesiana" dedicata al consumo e quindi alla realizzazione del valore/plusvalore.
Il secondo elemento di questa "città keynesiana": la soluzione "attraverso le periferie" (David Harvey) al problema del sotto-consumo. Vale a dire che si finanzia per mezzo del debito, l'aumento del potere d'acquisto , affinché ciascuna famiglia possa accedere alla proprietà privata immobiliare (villetta con giardino) e possa accedere anche al corrispondente servizio di trasporti (automobili e strade). Lo strumento di tale dispersione spaziale, come si sa, è la benzina a buon mercato, l'automobile e l'asfalto (Vedere il libro, pieno di verve e d'ironia, di Bernard Charbonneau, «L’hommauto», il quale però non arriva mai a cogliere come il fenomeno si iscriva dentro le forme sociali capitaliste). Questo dinamismo urbano si traduce in una crescita ed in un'estensione delle periferie (la suburbanizzazione), cosa che contribuisce ad un'estensione degli insediamenti. La suburbanizzazione è quindi una sorta di dispositivo d'insieme destinato a proteggere il capitalismo contro le minacce di crisi che non sarebbero altro che delle crisi di sotto-consumo, secondo la doxa keynesiana.

La città neoliberista (o post-keynesiana)
La fiammata inflazionistica della fine degli anni '60 e la stagflazione dei '70, causano una crisi del capitalismo keynesiano che mina il modello della città ad esso corrispondente: avviene una nuova crisi di sovraccumulazione. I pilastri della strategia keynesiana del dopoguerra, destinati ad evitare i pericoli del sotto-consumo, vengono erosi nel corso degli anni '70: recessione economica, innalzamento del tasso di credito, tasso di disoccupazione che esplode nelle periferie dove l'urbanismo è invecchiato male (1983: disoccupazione al 10% nei paesi industriali, salvo che in Giappone).
Il sotto-consumo non sembra più essere la causa della nuova crisi, che viene identificata dal pensiero borghese non più come un problema di domanda, bensì di offerta. Il problema non è più realizzare plusvalore (segnatamente sotto la forma del profitto) causando più facilmente una vendita (quindi migliorando la domanda), ma restaurare la competitività perduta delle imprese per mezzo di un aumento della produttività: la soluzione è allora quella di produrre a minor costo per poter restare dentro la corsa della concorrenza (economia di scala, ricerca di una mano d'opera a basso costo, riorganizzazione del lavoro, ricerca di nuovi procedimenti tecnologici). Per favorire l'offerta, le politiche neoliberiste cercano di facilitare la circolazione e la mobilità dei capitali, delle merci, delle informazioni e delle persone.
In questo quadro di "liberalizzazione" degli scambi commerciali, si osserva un inasprimento della concorrenza interurbana: le città cercano individualmente di competere per attrarre e attirare il capitale, le imprese, le innovazioni ed i flussi di merce ("La minaccia di perdere il lavoro, del disimpegno e della fuga dei capitali, il carattere inevitabile dei tagli di bilancio in un contesto di concorrenza, segnano un nuovo patto per l'orientamento delle politiche urbane, che abbandonano le questioni di equità e di giustizia sociale [propri del modello di vita keynesiana] a favore dell'efficacia, dell'innovazione e dell'aumento del tasso reale di sfruttamento", in David Harvey, « Géographie et capital », Syllepse, 2010, p. 126). Si evidenzia in tal modo un nuovo rimodellamento della città: si passa dalla città keynesiana orientata alla domanda, alla città neoliberista orientata all'offerta.
Molteplici caratteristiche spaziali contrassegnano questa città-neoliberista:

Prima caratteristica: seguire il corso della terza rivoluzione industriale della microelettronica
In questa nuova economia dell'offerta, le città hanno in effetti due possibilità: aiutare le imprese ad aumentare il tasso di sfruttamento della forza lavoro (estrazione di plusvalore assoluto), oppure ricercare delle tecnologie ed un'organizzazione più avanzata del lavoro (estrazione del plusvalore relativo). Come è avvenuto per tutte le "rivoluzioni industriali" che scandiscono, a partire dal XVIII secolo, la traiettoria della produzione del capitalismo, si osserva ancora una volta una fascinazione per la tecnologia che deve risolvere i problemi di base della produttività, ma che deve anche dare impulso ad una nuova ondata di prodotti innovativi. Inoltre, nei centri capitalisti, le merci-regine dei Trenta Gloriosi (automobile, televisore, radio, elettrodomestico) sono arrivati a fine corsa, con un super-equipaggiamento da parte delle famiglie. La saturazione del consumo che avviene alla fine degli anni 1960 e all'inizio degli anni 1970, con quel fenomeno molto più globale che Ernst Lohoff e Norbert Trenkle definiscono come "inversione del rapporto fra prodotti innovativi e processo di produzione innovativo". Oramai, con l terza rivoluzione industriale microelettronica, i processi innovativi sono più importanti dei prodotti innovativi, cosa che mina la contro-tendenza propria all'auto-contraddizione interna capitalista, e che quindi riduce, a livello della totalità, la massa globale del valore, e non soltanto il tasso di profitto.
Le città che scelgono di promuovere dei dispostivi spaziali, privilegiano la seconda opzione volta all'estrazione del plusvalore relativo, migliorando:
1) Le "forze produttive incorporate nel territorio" (acqua, trattamento delle acque reflue) che accrescono la possibilità di generare plusvalore relativo.
2) L'investimento in infrastrutture volto all'innovazione e al miglioramento delle competenze della mano d'opera (educazione, scienze e tecnologia).
3) Gli aiuti alle industrie, o per costruire dei dispositivi spaziali particolari favorendone l'installazione (zone d'attività, poli di competitività, parchi tecnologici, cluster, ecc.). Naturalmente i continui avanzamenti tecnologici e le nuove forme organizzative nel lavoro incoraggiano un inasprimento della concorrenza interurbana al fine di attirare capitale nazionale ed IDE (Investimenti Diretti Esteri).
In questa città neoliberista, lo Stato gioca sempre il ruolo di imprenditore per l'interesse generale degli interessi particolari (Stato come "capitalista collettivo come idea", come dice Engels). Si può tratteggiare così il ritratto dello Stato nel capitalismo neoliberista degli anni 1980-2010.

Seconda caratteristica: La divisione spaziale del consumo è, secondo David Harvey, un'opzione offerta alle città per rafforzare la loro posizione concorrenziale: per la città, si tratta di attirare il potere d'acquisto dei consumatori esterni, e ottenere in questo modo un'eccedenza di entrate.
E' quindi necessario investire per la città in creazione di luoghi di vita piacevole, e nel miglioramento della qualità della vita. La città si deve mostrare innovativa e creativa in materia di "stile di vita", di cultura alta (diciamo, industria culturale) e deve dotarsi di un'immagine "alla moda" volta verso la festa e la moda. Qui, secondo Harvey, la città prende la forma di un centro di consumi ostentati e di innovazione culturale (musei rinomati ed esposizioni artistiche di portata internazionale). Si osservano in questo contesto due dispositivi spaziali principali:
1) Creazione di spazi per l'industria del divertimento, in particolare mediante spazi di gioco per consumatori (parchi d'attrazione, Città delle scienze, Disneyland-Parigi, ecc.), avvenimenti (Festival di Cannes, Festival di Venezia, ecc.), installazioni sportive e sale per conferenze, porti turistici ed alberghi, ristoranti a tema ed installazioni culturali;
2) Costruzione di luoghi di vita qualitativa (zone risanate nei quartieri borghesi - gentrificazione - eco-quartieri, pensionati, "villaggi dentro la città".

Terza caratteristica: la concorrenza per acquisire funzioni di controllo e di decisione, soprattutto nei settori chiave dell'alta finanza (diventare un centro finanziario), della politica (governo/regioni), nella raccolta e controllo delle informazioni.
Questa caratteristica è collegata al ruolo motore del capitale fittizio nel capitalismo neoliberista a partire dalla fine degli anni 1970 (vedere "La grande svalorizzazione" di Lohoff e Trenkle; Harvey, nel suo «Brève histoire du néolibéralisme», non arriva a spiegare la nuova configurazione storica del capitalismo sulla base della critica categoriale marxiana) e riguarda il fenomeno spaziale che nella geografia borghese è noto come "metropolizzazione". Vale la pena almeno ricordare che acquisire tali "funzioni di comando" necessita di forti investimenti e di infrastrutture nelle quattro principali aree:
1) I nodi di comunicazione internazionali (areoporti, voli di transito veloce tra diverse modalità di trasporto, sistemi di comunicazione dotati di data-center, ecc.);
2) La fornitura di spazi per uffici (promotori immobiliari e partenariato pubblico-privato);
3) Assemblaggio di una grande varietà di servizi subproduttivi svolti attraverso la raccolta/trattamento dell'informazione, città-informativa (Data Center, ecc.);
4) Qualificazione della mano d'opera negli stabilimenti educativi appropriati (scuole di commmercio e di diritto, formazione informatica, lingue straniere).
Con questa metropolizzazione dell'economia, la popolazione continua ad assemblarsi intorno a Parigi e all'Ile-de-France, alle grandi metropoli cosiddette "di equilibrio" ma anche lungo le grandi assi di comunicazione e de nelle regioni costiere. Non c'è, dunque, soltanto espansione urbana, ma anche una concentrazione urbana che aumenta in alcune aree.

Quarta caratteristica: La dispersione geografica (rispetto alla città-keynesiana) continua ed accelera, ma sotto una forma più fluida.
L'automobile è sempre il vettore di quest'estensione spaziale, a causa del contro-shock petrolifero degli anni 1980 e delle guerre del petrolio in Iraq del 1991 e del 2003, che hanno mantenuto a buon mercato il prezzo del petrolio. L'estensione urbana ormai supera il cerchio stretto della periferia e si estende alla vicina periferia rurale, abolendo la distinzione fra città e campagna: il fenomeno che la geografia borghese reifica sotto il termine di "suburbanizzazione" che comincia negli anni 1980 ed investe tutte le periferie negli anni 1990 e 2000. La villetta con giardino resta il modello residenziale che continua a sedurre la classe media e gli ambiti popolari solvibili che vogliono scappare dalle periferie e dai centri della città di medie dimensioni, dove si concentra un abbassamento della qualità della vita, la miseria e la disoccupazione (vedi Jean-Luc Debry, «Le cauchemar pavillonnaire», éditions L’échappée). Emergono vaste regioni urbane policentriche, che integrano piccole e medie città insieme ai comuni rurali. I confini della città diventano difficili da essere delimitati: la città neoliberista è una sorta di "post-città".
Si sa che gli spostamenti in automobile che risultano da questa nuova organizzazione, pongono dei problemi di sostenibilità. L'estensione suburbana provoca delle migrazioni pendolari quotidiane e sempre più lunghi orari di lavoro. Si constata un'artificializzazione smisurata delle superfici, un inquinamento atmosferico da metalli pesanti ed un sovraccosto delle infrastrutture di collegamento. Dentro i limiti che le sono propri, la società capitalista cerca un'impossibile soluzione nel "capitalismo verde", con il concetto superficiale di "sviluppo sostenibile". I politici, dopo aver per decenni scommesso tutto sull'automobile/estensione, prendono coscienza della non-sostenibilità di questo genere di città. La densificazione dei territori urbani (per mezzo della verticalizzazione) e la riorganizzazione dei trasporti fanno parte di tali preoccupazioni.

La Francia e la nuova ridefinizione dell'urbano
Su scala europea, la Francia si situa fra gli Stati d'Europa del Nord, ad urbanizzazione precoce, e quelli del Sud, ad urbanizzazione più tardiva. Malgrado un'industrializzazione di vecchia data, la popolazione urbana ha superato la popolazione rurale solo nel 1931.
Nel 2014, 5 francesi su 6 risiedevano all'interno o alla periferia di un agglomerato urbano. Nel 2007, l'82% dei francesi viveva in un'area urbana (uno spazio costituito da un centro urbano e da una corona di periferie). Se si aggiungono gli abitanti delle piccole città che vivono una polarizzazione dello spazio prevalentemente rurale, quasi il 90% della popolazione è oramai urbana. I comuni urbani di più di 2.000 abitanti assorbono il 76% della popolazione, contro il 53% del 1995.
Un polo urbano è un agglomerato caratterizzato dalla continuità dell'area fabbricata. Gli spazi suburbani sono mescolati: rurali per quel che riguarda il loro paesaggio, sono polarizzati da uno o più centri urbani ai fini dell'occupazione e di una buona parte dei servizi. Uno spazio suburbano può quindi essere multipolarizzato. I comuni suburbani rappresentano oggi un terzo dei comuni francesi.

- Clément Homs - nota di lettura rivista il 22 giugno 2014 -

Bibliographie:

Henri Lefebvre, « La production de l’espace », Anthropos, 2000.
David Harvey, « Géographie et capital », Syllepse, 2010.
David Harvey, « Géographie de la domination », Les prairies ordinaires, 2008.
Marc Berdet, « Fantasmagories du capital. L’invention de la ville-marchandise », Zones, 2013.
Mike Davis, « Le pire des mondes possibles. De l’explosion urbaine au bidonville global », La découverte, 2006
Mike Davis, « Au-delà de Blade Runner. Los Angeles et l’imagination du désastre », Allia, 2014.
Mike Davis, « City of Quartz. Los Angeles capitale du futur », La découverte, 2006.
Mike Davis, « Le stade Dubaï du capitalisme », Les prairies ordinaires, 2007.

fonte: Critique Radicale de la Valeur

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