domenica 30 novembre 2014

Il ritorno dell'economia e le nuove salvatrici del mondo

scholz

STENDI IL TUO MANTO, MARIA!
- Produzione e riproduzione nella crisi del capitalismo -
di Roswitha Scholz

Nota preliminare: il presente testo è stato pubblicato nel giugno 2010 sul n° 36 della rivista di Lipsia, "Phase 2", il cui tema è "la questione dell'idea del comunismo nel presente", dove, per mezzo di più contributi, si cerca di chiarire anche il concetto di "riproduzione".

1. Dopo la svolta culturale, e la fobia nei confronti della critica radicale dell'economia a tale svolta associata, i diversi marxismi, a partire dalla fine del decennio 1990, hanno avuto un nuovo slancio, in parallelo con il collasso dovuto ad una crisi non proprio attesa. Anche la teoria femminista non è rimasta immune rispetto a questa situazione. Frigga Haug svolge giri di conferenze; nel 2009 un'edizione della rivista Argument viene dedicata al tema "Elementi di un nuovo femminismo di sinistra". Nancy Fraser proclama: "Donne, pensate economicamente". E anche le femministe (ex?)-decostruttiviste ora esigono che si affronti l'oppressione delle donne nel contesto della critica del capitalismo.
Di colpo anche la buona e vecchia relazione fra "produzione" e "riproduzione" riemerge come spiegazione per la maggior parte delle relazioni di genere; spiegazione che da molto tempo era stata scartata in quanto modello dualista. Ora torna al suo posto, anche nel pensiero femminista "queer". Per esempio, in Gabriele Winkler: "Con l'emergere delle strutture capitalistiche nella storia concreta, una gran parte del lavoro riproduttivo viene ad essere realizzato fuori dal sistema della valorizzazione capitalista, nelle famiglie eterosessuali e soprattutto dalle donne." E' curioso: nel "recente e piacevole percorso" (Adorno), argomenti femministi marxiani, che sembravano ormai mezzo dimenticati, ora vengono evidentemente mischiati con i modelli del pensiero decostruttivista; e questo nonostante che, nel decennio del 1990, ci sia stata una polemica fra le vecchie femministe "materialiste" e le post-femministe (de)costruttiviste.
Quando - senza che ci sia una grande attualizzazione - si rende necessario affrontare in maniera immediata il problema di sapere "che cosa fare nella pratica" della crisi, allora ecco che ultimamente si uniscono, all'improvviso, le critiche "queer" (diventate "critiche dell'economia) con un presunto nuovo concetto di "beni comuni", con l'ideologia dell'open source svolta secondo il modello del software "libero" e perfino con un'inquietante "economia solidale". "Piccolo è bello", torna ad essere la parola d'ordine che pretende di segnare il passaggio verso condizioni completamente differenti. Quello che rimane del postmodernismo, nel "ritorno dell'economia", è la cancellazione della totalità negativa. La "società" è "out" e la "comunità", nelle diverse varianti, è "in". Le critiche precedenti alla ristretta ideologia alternativa della comunità, ora vengono messe da parte. In questo auto-oblio e auto-repressione, le persone, in qualche modo, si permettono la fase di una seconda innocenza.

2. In tali contesti anche i cliché della mia critica della dissociazione e del valore svolgono un determinato ruolo, che le viene attribuito - contro la sua stessa volontà - circa i concetti suppostamente nuovi di relazione di produzione (capitalista) e di relazione di riproduzione che in quella non vengono assorbiti. Pertanto, bisogna cominciare a rivedere alcuni punti chiave della critica della dissociazione e del valore, al fine di relazionarli con le tendenze recenti.
Come è già suggerito dal nome, la questione riguarda il fatto che le attività riproduttive definite come essenzialmente femminili - ed anche le attitudini corrispondenti (come accudire, ecc.) e le qualità rese inferiori, come emozione, sensualità, ecc. - sono state dissociate dal valore e dalla sua sostanza, ossia, dal lavoro astratto, e sono state attribuite alle "donne". Queste attribuzioni caratterizzano, nella loro essenza, l'ordine simbolico del patriarcato produttore di merci. Ci si riferisce, perciò, ad una faccia della socializzazione capitalista che non può essere compresa per mezzo degli strumenti concettuali di Marx. Questa faccia, che viene imposta insieme al valore, fa necessariamente parte della socializzazione capitalista; d'altra parte, però, si trova al suo livello esterno, essendo, nondimeno, un suo presupposto. Valore e dissociazione stanno, quindi, in una relazione dialettica reciproca. Uno non può essere il derivato dell'altro, ma uno risulta dall'altro. E' proprio in questo senso che si può riuscire a comprendere la socializzazione feticistica, e non solo sulla base della relazione di valore.
Ora, per il contesto qui in causa, è decisivo che la relazione di dissociazione - in quanto l'Altro della relazione di valore - è, proprio come quest'ultima, definita ad un alto livello di astrazione nell'insieme della società, storicamente e negativamente. E' un principio sociale a tutti i livelli ed in tutte le aree, dal momento che non può essere separato meccanicamente nelle sfere, pubblica e privata, di produzione e riproduzione. E' vero che include attività riproduttive che non sono coperte dal lavoro astratto, ma va oltre questo. E' quello che si rileva nel processo storico interno della dissociazione e del valore. Le donne oggi sono "doppiamente socializzate", come dice Becker-Schmidt, cosa che altera anche i percorsi biografici. Ossia, anche se le donne sono state integrate in gran parte nella società "ufficiale" del lavoro astratto e della sfera pubblica borghese, continuano ad essere responsabili della casa e dei figli, devono lottare più degli uomini per raggiungere posizioni superiori e in media guadagnano meno degli uomini, anche se hanno un uguale livello di istruzione. La struttura della dissociazione e del valore è cambiata, ma sostanzialmente è rimasta la stessa.
Anche partendo dallo sviluppo più recente della relazione sociale totale, si può concludere che la dissociazione è un momento della socializzazione negativa. Le vecchie idee borghesi di genere non sono più appropriate per il "turbo-capitalismo", con la sua esigenza di rigorosa flessibilità, che porta alla formazione di identità flessibili compulsive, che tuttavia continuano a presentarsi come specifiche di genere in diversi modi, anche se la vecchia immagine della donna è diventata obsoleta. Inoltre, le analisi sul tema della globalizzazione e della relazione di genere suggeriscono la conclusione per cui - dopo un certo tempo in cui poteva sembrare che fosse un fatto che le donne avessero conquistato più spazio libero nell'immanenza del sistema - simultaneamente si è arrivati ad un "inselvatichimento del patriarcato", con nuove forme di sessismo nel contesto della globalizzazione.
La dissociazione-valore in una certa misura si distacca dai rigidi posizionamenti istituzionali della famiglia e del lavoro retribuito, benché la gerarchia di genere non sparisca a fronte dello smantellamento dello Stato sociale e delle misure coercitive dell'amministrazione di crisi. Qui le vecchie strutture emotive vengono riconfigurate. In caso contrario le donne non continuerebbero ad assumersi, come prima, le attività di riproduzione dissociate e le relative attribuzioni; ruolo, ad esempio, effettivamente svolto dall'ex-ministra della Famiglia, von der Leyen, che, ripetutamente madre, era inoltre, allo stesso tempo, medico, membro del governo, si prendeva cura dei genitori, e molto altro. Dall'altro lato, si assiste ad una rinnovata regressione all'immagine tradizionale della donna, anche nel caso di donne mediatiche di carriera come Eva Herman, la quale ha proclamato ancora una volta "Il principio di Eva"; che è diventato un best seller. Identità profondamente radicare nella struttura di base del capitalismo, non possono, ovviamente, essere decostruite superficialmente, com’era sembrato ad alcune ricercatrici di genere. La "doppia socializzazione" delle donne, paradossalmente è funzionale. Così, ad esempio, i gruppi di aiuto al Terzo Mondo dell'amministrazione di crisi sono appoggiati principalmente da donne, mentre, allo stesso tempo, bisogna dire che in tempi di "just in time", le attività di riproduzione sono rimaste generalmente ancora più indietro rispetto a prima, e vengono attribuite alle donne doppiamente socializzate, come una sorta di spazzatura.
Questo schema mostra già che la dissociazione non può essere intesa come "avanzo" ontologico, e neppure come "area" delimitata, e ancora assai meno come un momento positivo o come una "anticipazione" o "modello" di strutture non capitaliste o post-capitaliste. Al contrario, viene determinata in modo storico e capitalista, proprio come il lavoro astratto ed il valore e, di conseguenza, dev'essere ugualmente eliminata. Pertanto, la struttura della dissociazione è essenzialmente parte della dinamica capitalista.

3. Il riferimento della critica della dissociazione e del valore al femminismo marxiano è stato fondamentalmente critico, ma ha anche avuto dei legami con questo. Con Frigga Haug, il patriarcato produttore di merci viene inteso come modello di civilizzazione, ivi comprese le strutture emozionali e simboliche. Al di là di Frigga Haug, questo significa che non sono le definizioni normative della mascolinità e della femminilità ad essere essenziali, come avviene nella concezione (de)costruttivista. Al contrario, le capacità e le volontà di esecuzione sono definite anche da una razionalità economica specifica, dalle strutture oggettive del contesto globale, dai suoi meccanismi e dalla sua storia, così come avviene per la maggior parte delle azioni degli individui. Si potrebbe così parlare di sesso maschile accentuato - che è il sesso del capitalismo - nella misura in cui una versione dualistica della mascolinità e della femminilità in forma gerarchizzata costituisce la concezione dominante di genere nella modernità in generale. In tale contesto, prendo anche la tesi di Frigga Haug per cui nella modernità, da un lato, esiste una "logica di risparmiare tempo", che viene soprattutto attribuita alla sfera della produzione o alla "logica di sfruttamento dell'economia d'impresa" mentre, dall'altro lato, esiste una logica di "perdere tempo", che corrisponde al dominio della riproduzione (cure, attenzioni, ecc.).
Ciò che è problematico con Frigga Haug, tuttavia, è che la relazione di genere viene percepita come una "relazione di produzione" sui generis, e la sua "logica" propria viene percepita, per così dire, solo fenomenologicamente, e viene messa al livello delle categorie di base della forma sociale, con sullo sfondo ipotesi precedenti al vecchio marxismo. E' in primo luogo l'ontologia del "lavoro" del marxismo tradizionale ad essere responsabile di questo; situazione in cui la critica femminista viene a trovarsi, in un certo qual modo, contrabbandata all’interno di un contesto sistemico sovrastante che non viene rotto. La critica della dissociazione e del valore, al contrario, pone le attribuzioni di genere allo stesso livello di astrazione in cui si trovano il lavoro ed il valore, come relazione di dissociazione ugualmente basilare.
Frigga Haug, inoltre, continua ad avere una prospettiva sovrastante il sistema, senza dipendere solo dal dettaglio, ma conservando la vecchia difficoltà. Amerebbe trovarsi faccia a faccia con la crisi profonda del capitalismo lottando per una riduzione radicale del tempo di lavoro nella sfera del lavoro remunerato, di modo da avere tempo sufficiente per la riproduzione culturale, anche rispetto ad uno sviluppo personale attivo e ad un'attività politica. Questa formulazione delle sue idee iniziali corrisponde più o meno a quello che oggi viene propagandato sotto la formula della "prospettiva quattro in uno" (lavoro, riproduzione, cultura, politica), al fine di promuovere lo sviluppo ecologico, economico e sociale della società umana. In tal senso, difende l'intervento politico di un nuovo femminismo di sinistra, in relazione ad un sistema di quote.
Tuttavia, è questionabile se una tale prospettiva, nelle attuali condizioni di crisi, continui ad essere del tutto realistica. Al di là del fatto che la ridistribuzione delle varie aree di "lavoro" dovrebbe aver luogo solo nel quadro dato, essa sovrastima anche le possibilità dell'influenza politica tradizionale, nel suo ricorso ai "rapporti di forza" gramsciani. Da tempo, è diventato evidente che, dopo il forte ribasso avvenuto nella crisi del 2008, è all'ordine del giorno il salvataggio del capitalismo a qualsiasi costo. Sotto il segno della bancarotta imminente di Stato, e di un limite evidente della logica di valorizzazione, appare assai poco praticabile la prospettiva per cui, in condizioni capitalistiche, si finisca nella sovvenzione statale. Non sarebbe meglio riferirsi alle stesse esigenze immanenti nella prospettiva di una trasformazione radicale del sistema - che è insuscettibile di essere affrontata da Haug - a partire dai suoi presupposti del vecchio marxismo? Questo sarebbe forse "più realistico" di quanto lo sono i concetti pseudo-concreti che, sostanzialmente, suggeriscono la possibilità di applicare un programma neo-keynesiano, il quale viene presentato come trascendente al sistema, ma che di fatto si limita ad una mera riconfigurazione, a partire dai fondamenti dell'ontologia del lavoro, delle sue sfere costituite in modo capitalistico, che come tali sono ormai obsolete.

4. Se il problema della socializzazione negativa emerge ancora in Frigga Haug, seppure in una forma limitata alle apparenze, nel caso del "ritorno dell'economico" post-post-moderno esso viene esplicitamente disciolto nel particolare. Le nuove tendenze verso "l'economia solidale", per mezzo dei "beni comuni", per mezzo del concetto dell'open-source, ecc., hanno in parte le loro radici (frequentemente non identificate) nell'idea del lavoro di sussistenza o indipendente, rappresentata in Germania soprattutto da  Maria Mies, Veronika Bennholdt-Thomson e Claudia von Werlhof. Concentrandosi su un'economia agraria piccolo-borghese, e su una comprensione riduttiva della conseguente riproduzione, viene globalmente rifiutata qualsiasi ideologia industriale o di alta tecnologia. Poiché è qui che si trova, secondo Mies & Co., l'oppressione delle donne, della natura e delle altre "persone". Questa concezione è stata ampiamente maneggiata come se fosse la più radicale concezione di abbandono del mercato e dello Stato. Nella mia opinione, a torto, poiché al di là dell'ostilità indiscriminata altamente problematica nei confronti della tecnologia, la prospettiva della sussistenza non istituisce l'abbandono della razionalità del mercato in generale, ma semmai istituisce l'installazione di un mercato interno locale. Allora la (ri)produzione della sussistenza femminile dovrebbe diventare il centro sociale.
Nella teoria dell'economia di sussistenza, i piani ed i contesti sovrastanti conducono solo una vita oscura, o appaiono principalmente nell'analisi negativa della socialità mondiale; come se un pensiero dicotomico in termini di "comunità" e di "società" non appartenesse strutturalmente da sempre al capitalismo, almeno a partire da Ferdinand Tönnies. Perciò, tali progetti sono eccellenti in quanto concetti legittimatori della transizione, in una fase che si caratterizza per il passaggio dalla socializzazione negativa all'imbarbarimento del patriarcato produttore di merci. Fanno di necessità virtù. La terra bruciata dell'economia di mercato è già, volente o nolente, una realtà in molte parti del mondo. Una prospettiva di mera sussistenza associata a questa, al fine di poter sopravvivere in qualche modo, viene ora trasformata in progetto di emancipazione. Qui riappare una volta di più, implicitamente, l'ideologia del "lavoro onesto".
Le ideologie del piccolo è bello, tuttavia, hanno subito una metamorfosi. Al contrario di quanto avveniva negli anni dal 1980 al 1990, oggi ci viene offerta soprattutto una miscela. Le idee del lavoro di sussistenza e del lavoro autonomo si sono trasformate in approcci tecnologicamente addobbati, ed ora, a loro volta, ribassati a "modelli" particolarmente ridotti. Nel concetto diffuso di "economia solidale" si combinano varie idee tradizionali di sussistenza e di alternativa (come la piccola produzione cooperativa di merci, fino alle botteghe gratuite, riforme monetarie e monete locali alternative, ecc.) al concetto di open source digitale, dove una tecnofobia generale viene semplicemente sostituita da un'ideologia primitiva di appropriazione della stessa tecnologia. In questo contesto, nasce ora l'idea dei "beni comuni" che idealizza il momento della riproduzione premoderna della terra comune per uso comunitario, in termini di ideologie moderne di comunità.
E' proprio in un simile contesto generale che sono ora frequentemente coinvolti elementi degradati della critica del valore, o della critica della dissociazione e del valore, la quale si è comunque introdotta in segmenti dei circoli di sinistra. Ignorando, però, la critica che da questa è stata svolta, fin dall'inizio, al piccolino dell'ideologia dell'alternativa e alla connessa constatazione del fatto che la vera vita non si svolge nell'area della riproduzione. Così, per esempio, Stefan Meretz strumentalizza con disinvoltura la teoria della dissociazione sessuale nei conflitti, da molto tempo esistenti, fra l'approccio di questa teoria e le posizioni, da lui rappresentate, dei "beni comuni" e dell'open source. Scrive Meretz: "Il capitalismo ha dissociato momenti essenziali della produzione della vita sociale e li ha relegati alla sfera della riproduzione. La produzione, in quanto ‘economia’ connotata come maschile, e la riproduzione, in quanto ‘vita privata’ connotata come femminile, sono state separate. Il capitalismo ed il patriarcato moderno sono ugualmente originari". La "uguale originarietà" del valore e della dissociazione vengono qui nuovamente trasformate in una relazione derivata secondaria, una volta che la dissociazione nasce come ridotta alla "sfera privata" del dominio della riproduzione in senso stretto; quando invece nella realtà - e come è stato dimostrato - essa attraversa tutte le "sfere", inclusa "l'economia", e proprio per questo è "ugualmente originaria".
A partire da qui viene distillata una prospettiva di superamento riduttivo: "La produzione privata, che è mediata solo a posteriori, può espandersi solo perché, da una parte, avviene sempre a spese della produzione di sussistenza e dei beni comuni e, dall'altra parte, si può sempre puntare ad una produzione complementare di sussistenza e di beni comuni, la quale può e deve compensare le conseguenze della 'economia'. La produzione di merci viene rimossa in modo permanente dalla sfera dei beni comuni, ma non le dà nulla in cambio. I beni comuni hanno le potenzialità per sostituire la merce come funzione sociale determinante" (Meretz Stefan: Die gesellschaftliche Logik der Commons).

5. Anche la critica "economica" queer si adatta a tali tendenze.Così Ganz/Gerbig (in "Diverser leben, arbeiten und Widerstand leisten. Queerende Perspektiven auf ökonomische Praxen der Transfrormation") criticano un "pensiero capitalistacentrico", che si concentra sul capitale e sul lavoro, invece di decostruirli e mettere a fuoco altre disparità sociali ed identità intermedie. Donne, gay, freelancer, hacker-nerd, ecc. vengono anch'essi collocati immediatamente sullo stesso piano. E' anche vero che si può osservare che raramente si incontrano le donne nelle reti di hacker-nerd (questo solo come esempio di altre esclusioni che qui possono aver luogo). Niente di tutto questo, però, intacca in qualche modo l'instancabile critica "economica" queer, a volte chiamata femminista queer. Poiché "in tutto il mondo... (stanno accadendo) cose che fanno battere i nostri cuori con maggior forza. Le persone stabiliscono relazioni fra di loro, lavorano insieme e in rete, sviluppano progetti fantastici ed inventano stupefacenti dispositivi. Si creano spazi aperti che vengono vissuti e differenziati con gioia" (Ganz/Gerbig). Si sostiene che il capitalismo non sarebbe "normale" ma, al contrario, ci sarebbero già pratiche non capitalistiche, che sarebbero al di là del capitalismo. Tali idee comprendono ora il capitalismo come mera "finzione regolatrice", a somiglianza di quello che ha suggerito Judith Butler riguardo all'identità di genere. Qui viene fuori la difficoltà fondamentale del (de)costruttivismo diventato "economico". Il modo di socializzazione negativa non è un qualche costrutto simbolico, (re)interpretabile arbitrariamente, ma una dura realtà sovrastante.
Qui si dimentica di proposito che il valore ormai ha bisogno di essere sempre Altro; imputando, al contrario, a quest'Altro quello che lo riguarda; un carattere di per sé già trascendente, che può anche essere rappresentato in differenti modi, tipo quel "esser meglio" in Meretz. Il carattere feticista della dissociazione-valore viene rimosso e se ne promuove un'uscita volontaristica sul piano di "pratiche quotidiane" non comprovate. Si parla quindi di una nuova configurazione dell'ipostatizzazione della differenza: tutte le differenze sono uguali e, per esempio, nel pensiero dei "beni comuni", vengono suppostamente superate. Anche i dibattiti (femministi) di inter-sezionalità svolgono qui ovviamente il loro ruolo. E' stato perfino ammesso da tempo dalle teoriche queer che l'idillio queer, altrimenti immaginato, è attraversato da gerarchie.
Se perfino nei quartieri che avevano come fattore di localizzazione quello di essere gay o lesbici, esiste ora uno statuto precario, allora forse non rimane più niente di differente per nessuno, in tali condizioni. Ma proprio per questo non si deve continuare, in nessun modo, a fare di necessità virtù. Infatti, è proprio l'altisonante ideologia comunitaria che ammazza ogni tipo di diversità. Chi avrebbe mai pensato che tutti gli attori, dal facchino all'hostess, fossero portatori di genere (Ganz/Gerbig); la visione dualista e dicotomica doveva, pertanto, essere davvero decostruita, una volta per tutte. Se già fin dall'inizio del femminismo c'era stata una corrente significativa che pretendeva di sfuggire alla ristrettezza dell'area di riproduzione e dalla chiusura delle attività domestiche, e difendeva tutto questo con veemenza, anche oggi l'uomo/la donna cercano nuovamente di uscire da quest'area per andare verso il regno della libertà. Ed è questo ciò che accade quando si diffonde la precarietà; e a chi tocca la patata bollente? "La cura" - cioè l'accettazione dell'attività di riproduzione fin qui femminile - deve essere solo un esempio fra i tanti nella danza comunitaria queer, e così ci troviamo ancora una volta di fronte ad una tematizzazione delle attività femminili e delle loro strutture, come nei secoli della vecchia tradizione patriarcale. Poiché continuano ad essere in maggioranza le donne, ad eseguire tali attività, nonostante i cambiamenti degli ultimi decenni, e questa tendenza si applica anche agli ambiti di sinistra. Rimane così inalterata la supremazia maschile, che non appare solo nei circoli antifascisti e che talvolta cerca di farsi sentire ancora di più quando si profila la minaccia di "essere trasformati in casalinghe". Condanniamo tutto questo solamente per trarne un gran divertimento reciproco. Alla base della vita dovrebbe quindi esserci un reddito minimo che i liberal-conservatori hanno messo in cantiere, alla lor maniera, da molto tempo.
Simultaneamente, tuttavia, negli ambienti femministi queer, quando si tratta dell'ordinamento di genere, come "questione concreta", si finisce sempre sulla relazione tra sfera di produzione e di riproduzione, da molto tempo insultata in quanto dualista. La "svolta materialista" degli ultimi anni esige che le si paghi tributo: e dove andare a cercare i concetti, se non nella vecchia teoria femminista da tempo rifiutata?

6. Il giornalista conservatore Frank Schirrmacher sa di cosa parla, quando dice che la società avanza sempre più in direzione di una megacrisi, e perciò verso un orientamento al "minimo". Egli domanda, nel libro dallo stesso titolo, "Minimum", con sottotitolo "Della morte e della rinascita della nostra comunità": "E se lo Stato non riesce a mantenere la sua promessa di aiuto? Allora, chi salva chi, se la situazione è grave, chi si prende cura di chi, quando si rende necessario, chi confida in chi, se la situazione comincia a rovinare (...) E, soprattutto, chi lavora per chi, anche senza percepire denaro?". Secondo quanto ho osservato precedentemente, non deve sorprendere che Schirmacher si ricordi delle donne, ma cerchi una formulazione all'altezza dei tempi: "Affermare che le donne hanno una competenza emozionale molto forte e probabilmente sono anche le fondatrici della nostra comunità, non significa che questo si applichi simultaneamente a tutte a livello individuale, né che debba essere forzoso il ruolo di mamma per le donne (...) Non possiamo fare andare il tempo a ritroso (...) Le ricerche degli ultimi cinquant'anni [Schirmacher si riferisce qui alle ricerche sul cervello, ma anche alla psicologia evolutiva, all'antropologia e alla psicologia, R.S.] dimostrano che il ruolo fondamentale del sostegno della famiglie, e la costruzione e la stabilizzazione delle reti di amicizia, attiene alle donne, che in futuro torneranno sempre più ad essere il luogo delle famiglie tradizionali (...) Fino ad allora [nell'Unione Europea: fino al 2050] si esigerà dalle donne che facciano due cose: far crescere il prodotto sociale lordo e dotare il paese di discendenza (...) Ma questo non è sufficiente. I giovani devono aumentare nelle professioni scientifiche."
In questo progetto, vengono utilizzate molte critiche femministe: l'insistenza sulla "doppia socializzazione", contro la vecchia idea della donna casalinga e considerata eroina; la comunità come risorsa in termini di affinità elettiva (propagandata non da ultimo dai/dalle queer), anche se il vecchio modello di famiglia nucleare è usurato - ma sempre mantenuta ancora unita dalle donne, ad essa predisposte socialmente "per natura"; e vengono anche invocate ipotesi decostruttiviste alla Judith Butler, che vorrebbero screditare radicalmente per mezzo della decostruzione delle relazioni di genere tradizionali, in qualche maniera diventate obsolete. Schirmacher può così recuperare implicitamente l'approccio decostruttivista, senza per questo rinunciare ad ipotesi biologiste tratte dalla ricerca sul cervello, ecc. Egli ci fa notare che non tutte le donne vengono assorbite dai suoi nuovi stereotipi.
Si potrebbe ridurre la questione ad una formula consacrata: Stendi il tuo mantello, Maria, coprici e proteggici con lui, come viene detto in un antico cantico della chiesa cattolica; ora in una versione, per così dire, postmoderna per ragazze alfa. Ossia, una nuova variante della "femminilità come prodotto di pulizia e disinfezione", secondo l'espressione di Christina Thürmer-Rohr. La valorizzazione apparente delle donne, oggi, ed il fatto che sempre più donne accedano a posizioni nell'economia e nella politica, deve quindi essere considerato con sospetto. A ben vedere, si tratta fondamentalmente di una sorta di sessismo rovesciato.

7. L'economia queer mira a relazioni di riproduzione non-familiari, laddove - al contrario di quanto esprime la critica della dissociazione e del valore - solo il principio di valorizzazione (strutturalmente maschile) dev'essere sovrastante al capitalismo, in maniera non dialettica. Ma il fatto è che la prospettiva della "cura" torna ad essere determinata, nella realtà sociale, dalle relazioni di parentela, e mantenuta come punto di fuga nella famiglia monoparentale materna. Ma un orientamento femminista queer si trova assai bene anche con i suoi hacker-nerd maschili! Le donne, nella realtà, hanno, nel mazzo, una carta segnata, che Schirrmacher consegna loro come pseudo-riconoscimento, ed allo stesso tempo apoditticamente, secondo il quale loro devono essere le nuove salvatrici del mondo.
Quanto alla questione del coinvolgimento pratico, bisogna constatare, con realismo, che il patriarcato produttore di merci non può essere abolito per mezzo di sforzi pratici politici che si basano solo su una riconfigurazione delle sfere di produzione e di riproduzione costituite in maniera ugualmente capitalistica. Non si possono trovare nuove uscite senza stabilire come obiettivo l'abolizione delle relazioni sociali nel suo insieme. I differenti momenti della riproduzione sociale non devono essere negati astrattamente e livellati alla loro singolarità, ma le relazioni non possono essere abolite in ogni sfera individuale, né tantomeno in una ipostatizzazione delle attività di riproduzione connotate come femminili, mettendo a fuoco un "bene" ontologico. Non si tratta di "meta-beni comuni" (un'idea che riduce il modo di socializzazione ad una rielaborazione nel senso dell'ideologia della comunità), ma semmai di una critica radicale che va oltre la dicotomia "comunità e società". Il "ritorno dell'economia" avviene in una dimensione di crisi cui non si può far fronte con concetti economici particolaristi.

Roswitha Scholz

fonte: EXIT!

sabato 29 novembre 2014

Sogni di pietra

Cheval

Sogni di Pietra
di Giovanni Mariotti

Intorno al 1865 un postino fece un sogno a Hauterives nella Dróme. Il postino si chiamava Cheval. Nel sogno Cheval aveva costruito una Cosa, ma non sapeva se si trattasse di un palazzo o di un castello o di una grotta. Quell'immagine fluida e indecifrabile gli restò a lungo impressa nella memoria. Passarono gli anni: Cheval aveva dimenticato il suo sogno, quando un giorno, camminando nella campagna, inciampò in una pietra e rischiò di cadere. La pietra era una sorta di tufo dalla forma bizzarra, e Cheval la raccolse e se la mise in tasca. Nei giorni successivi trovò altre pietre ancora più belle. In quelle concrezioni irregolari gli pareva di scorgere «ogni sorta di animali, ogni sorta di caricature». Così a volte accade di scorgere figure transitorie nella forma di una nuvola o in una macchia su una parete. Cheval si ricordò della Cosa vista in sogno e sentì che era affine a quelle pietre.
Secondo una tradizione cinese, «a est di Shang-tu Kublai Khan eresse un palazzo secondo un piano che aveva visto in sogno e che serbava nella memoria». Il palazzo di Kublai Khan era immenso: maestranze esperte erano state incaricate di tradurre in realtà il sogno dell'imperatore. Come Kublai Khan, anche il postino Cheval era stato visitato in sogno da un edificio, ma non c'erano maestranze a cui potesse affidarne la costruzione. D'altronde non sapeva nemmeno a quale categoria di edifici appartenesse. Era una grotta o una fontana, una tomba o un belvedere? Lo avrebbe saputo solo dopo averlo costruito. Ormai ogni giorno lavorava a quella chimera. Aveva letto chissà ove che un tempo a Hauterives c'era stato il mare. Forse gli era parso che l'edificio del suo sogno corrispondesse a qualche antica formazione madreporica: per questo aggiungeva conchiglie al conglomerato di cemento e ferro e ciottoli di tufo che si alzava nel suo orto in forme sempre più strane.
Ispirandosi a immagini viste nei libri, prese a modellare, «come ai tempi primitivi», ogni sorta di piante e animali, dagli elefanti agli orsi, dagli struzzi ai cactus, dai cervi ai palmizi; oppure alte e indistinguibili cariatidi a cui attribuì, come si potrebbe attribuirli a un albero o a una pietra, i nomi di Cesare, Vercingetorige e Archimede; o ancora, un tempio indù, la Casa Bianca, un castello, uno chalet svizzero dall'improbabile profilo. Ogni tanto gli veniva voglia di scrivere, su quelle superfici irregolari, informazioni sull'edificio e sulla sua costruzione, oppure un proverbio, un motto, un esortazione a ben vivere, giacché (almeno così si credeva nelle campagne) ogni opera dell'uomo deve contenere un insegnamento morale.
Che bel mestiere doveva essere il postino rurale ai tempi di Cheval! Si camminava a piedi nella natura, su sentieri e per strade vuote (quelle intorno a Hauterives lo sono ancora). Di Cheval si dice che per il suo lavoro percorresse ogni giorno più di 30 chilometri. Forse non è vero, perché, anche se le case erano sparse, non è detto che i contadini ricevessero molte lettere. Nel mondo contadino il postino aveva uno statuto intermedio, più umile certo di quello del medico o del notaio, ma caratterizzato in senso intellettuale dalla contiguità con la scrittura; per di più prendeva uno stipendio dallo Stato. Questo privilegio sociale dovette almeno un po' difendere Cheval dal trattamento increscioso che i villaggi sono soliti riservare ai loro matti.
Passavano gli anni e capitavano i primi visitatori. Erano soprattutto militari del vicino campo di Chambarran. Cheval ascoltava i loro elogi e le manifestazioni del loro stupore; se in quello che dicevano c'era qualche volta ironia, il suo candore gli avrà impedito di accorgersene. Un giorno volle scrivere la storia del sogno, della pietra in cui era inciampato, dell'edificio che aveva costruito. Quella breve relazione, a cui ho attinto, cominciava così: «Figlio di contadini, contadino io stesso, voglio vivere e morire per provare che anche nella mia categoria vi sono uomini che hanno genio ed energia».
Cheval avrebbe potuto lavorare al suo «palazzo» sino alla morte, aggiungendo guglie, colonne, bassorilievi. Invece nel 1912, dopo «10.000 giornate, 93.000 ore, 33 anni di fatiche», decise che l'edificio era finito. Forse sentì che l'opera ormai coincideva con il suo lontano modello onirico, o forse semplicemente se ne stancò. I dodici anni che gli restavano - ne aveva 76, sarebbe morto a 88 - li dedicò a costruire per sé e per la sua famiglia una cappella nel cimitero di Hauterives.
Non ricordavo dove avessi letto per la prima volta il nome di Cheval e non sapevo se il suo palazzo esistesse ancora. Forse erano rimaste solo poche pietre che non valevano il viaggio. Queste cose pensavo avvicinandomi a Hauterives nella Dròme. Avevo trovato la valle del Rodano sotto Lione intasata dal traffico e a Vienne il ristorante La Pyramide chiuso per restauri; poi avevo pranzato bene da Magnard, ma non era la stessa cosa. Vienne è molto bella: se ci capitate, visitate le chiese, il tempio di Augusto e di Livia, il teatro romano, i mosaici, prima di prendere la strada per Beaurepaire d'Isère e Hauterives.
Lasciata la riva del Rodano, il traffico di rarefa. Vi siete immessi su quel fittissimo reticolo di piccole strade che seguono senza sbancamenti tutte le pieghe del paesaggio e che insieme ai castelli e ai fiumi colmi e tranquilli rendono così attraente la Francia rurale. Dopo Beaurepaire un grande castello vi avverte che siete giunti a Hauterives e vi invita a visitare il palazzo ideale del postino Cheval: cosa che senza dubbio farete, giacché siete venuti apposta; non vi sono molte altre ragioni per venire a Hauterives.
Dunque il palazzo è là, al centro del paese. Ma non è un palazzo: non vi sono spazi da abitare. Come accade girando intorno a una montagna, il suo profilo muta continuamente. È indefinibile, com'era apparsa indefinibile a Cheval la Cosa del sogno. Mentre lo osservavo, mi è venuto da pensare che esisteva una tradizione colta a cui poteva essere assimilato: quella delle grotte, dei ponti veneziani, delle rovine, dei chiostri moreschi, dei padiglioni gotici, di tutti gli altri pittoreschi edifici che ornano i giardini. Architettura basata sul gioco della miniaturizzazione, e nella cui panoplia di stili si rivela l'educazione antiquaria fornita dalle accademie. Il palazzo di Cheval è invece l'enciclopedia di un autodidatta.
Non si può visitare il palazzo ideale senza un brivido. Non si possono leggere senza stupore le frasi che Cheval scrisse sulle sue pareti: «Questa meraviglia di cui l'autore può essere fiero sarà unica nell'universo»; «Un genio benefico - mi ha tratto dal niente»; «Questa roccia un giorno dirà molte cose»; «Dio-Patria-Famiglia. Hauterive, Dròme. Tempio della Natura»; «II sogno di un contadino»; oppure i versi che mette in bocca alla sua carriola e ai suoi utensili, raccolti in un piccolo sacrario nel suo palazzo.
Sono molte le cose in cui avvertiamo una parte di sogno, ma questo elemento onirico di solito viene elaborato e attenuato. Certamente le maestranze che furono incaricate di tradurre nella realtà il palazzo sognato da Kublai Khan avranno finito per adattarlo ai materiali costruttivi di cui disponevano e alle tradizioni cinesi. Ma il postino Cheval non poteva rivolgersi ad altri e non sapeva murare. Imparò giorno per giorno, amalgamando le pietre e gli altri materiali in un opus incertum da cui le forme sembravano nascere per proliferazione. Guardando oggi quella grigia sostanza si ha l'impressione di intravedere, dietro la grazia fantasiosa delle forme che l'artista ha creato o forse semplicemente aiutato a manifestarsi, l'oscura, porosa, incondita materia di cui sono fatti i sogni.

- Giovanni Mariotti - 21 aprile 1989 -

venerdì 28 novembre 2014

Divisioni

bandiera

UNA BANDIERA COMUNE: MARXISTI E ANARCHICI NELLA I INTERNAZIONALE
di Michael Löwy

I
Marxisti e anarchici (termini all’epoca inusuali) fecero parte dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT) – la I Internazionale – fin dalla sua origine, nel 1864. I disaccordi tra seguaci di Marx e Bakunin portarono ad un’amara scissione nel 1872. Poco dopo, l’AIT “marxista” si dissolse, mentre i seguaci di Bakunin, nella Conferenza tenuta a Saint-Imier, in Svizzera (1872), diedero vita ad una propria AIT, che ancora continua ad esistere. Per Marx, le ragioni della scissione stavano nelle tendenze panslaviste e nel frazionismo antidemocratico e cospirativo di Bakunin. Da parte sua, Bakunin riteneva che la scissione si dovesse all’orientamento pangermanistico di Marx, nonché al suo autoritarismo e al suo inaccettabile modo di comportarsi. Al di là delle scontate esagerazioni, tuttavia, entrambe le accuse contengono una parte di verità, ed è difficile attribuire la responsabilità ad uno solo dei due. Storici marxisti ed anarchici continuano a riproporre quegli argomenti, accusandosi reciprocamente della crisi dell’AIT. Pur senza schierarsi per gli uni o per gli altri, anche i ricercatori accademici enfatizzano il reciproco scontro di idee.[1]
Da questo punto di vista, largamente predominante nella letteratura sulla I Internazionale, quel che si dimentica è il dato semplice ed importante che quell’organizzazione fu aperta e pluralista. Era un’associazione in cui i seguaci di Proudhon, Marx, Bakunin, Blanqui ed altri, ben oltre i disaccordi e gli scontri, seppero lavorare insieme per molti anni, adottando a volte risoluzioni comuni e battendosi gomito a gomito nell’evento più importante del XIX secolo: la Comune di Parigi. Ci sia consentito di delineare un breve abbozzo di alcuni dei momenti fondamentali di questa storia dimenticata del “tragitto comune” tra marxisti e anarchici nell’AIT.

II
Poco dopo la fondazione della I Internazionale, il suo Consiglio Generale incaricò Marx della redazione degli Statuti Provvisori dell’Associazione. Il documento enunciava nel preambolo: “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, frase che continua a costituire la base comune di marxisti e anarchici.
Fin dall’inizio, alla I Internazionale parteciparono anarchici e libertari (utilizzo questo termine nell’accezione francese, riferito alla vasta tendenza socialista-rivoluzionaria, antiautoritaria, mentre in inglese [liberal] è stato espropriato dall’ideologia capitalista ultrareazionaria) insieme ad altri socialisti. Tra questi, in primo luogo, i seguaci di Proudhon (1809-1865), i cui rapporti con i socialisti marxisti non erano necessariamente conflittuali. Tra gli amici di Marx e gli esponenti dell’ala sinistra proudhoniana - come, ad esempio, il belga Cèsar de Paepe e il francese Eugène Varlin - c’era larga intesa. Entrambe le tendenze si opponevano all’ala destra (piccolo-borghese) proudhoniana, sostenitrice del "sedicente" mutualismo e di un progetto economico basato sul “reciproco scambio ugualitario” tra piccoli proprietari. Uno dei principali promotori del mutualismo e della proprietà privata fu il delegato francese Henri Tolain, che poco dopo, avendo sostenuto il governo borghese di Versailles contro la Comune di Parigi, venne espulso dall’Internazionale per tradimento.
Nel Congresso di Bruxelles dell’AIT, nel 1868, l’alleanza tra le due ali di sinistra – in opposizione ai “mutualisti” – diede luogo all’adozione di un programma “collettivista” presentato dal libertario socialista belga César de Paepe. La risoluzione proponeva la proprietà collettiva dei mezzi di produzione: terre, miniere, boschi, macchinari e mezzi di trasporto (Manfredonia,  L’anarchisme en Europe, PUF, Parigi.2001, p. 36).
Retrospettivamente, la risoluzione sui boschi sembra essere una delle più interessanti per quanto riguarda le sue implicazioni socialiste e ambientaliste:
 
Considerando che abbandonare i boschi all’iniziativa privata porta alla loro distruzione.
Che questa distruzione in determinate parti del territorio pregiudicherebbe la conservazione delle fonti d’acqua e la stessa buona qualità della terra, come pure la salute pubblica e la vita dei cittadini; Il Congresso decide che i boschi debbano tornare ad essere proprietà collettiva della società
(Amaro del Rosal, Los congresos obreros internacionales en el siglo XIX, Grijalbo, Messico 1958, p. 159).

Entrambe le tendenze, inoltre, sostennero la risoluzione che stabiliva che i lavoratori devono respingere la guerra con lo sciopero generale.
A Marx, che non era presente al Congresso di Bruxelles, quella risoluzione non piacque, perché gli sembrava irrealistica, pur essendo stata proposta da Charles Longuet, uno dei suoi seguaci che poco dopo sarebbe diventato suo genero, essendosi sposato con la figlia di Marx, Jenny.
Fu in quel momento che Bakunin aderì alla I Internazionale. Su molte questioni dichiarava di condividere le idee di Marx. Si incontrò con quest’ultimo durante un suo viaggio a Londra nel 1864 e poi nel 1867. Marx gli inviò una copia del Capitale. La reazione di Bakunin fu entusiasta: si congratulò con “il Sr. K. Marx, l’illustre capo del comunismo tedesco” e con il ”suo magnifico lavoro, Il Capitale”. Pensava che il libro andasse tradotto in francese, perché:

per quel che ne so, nessun altro libro contiene un’analisi così scientifica, profonda e chiara e, posso anche dire, così spietata nello smascherare la formazione del capitale borghese e il suo sistematico e crudele sfruttamento cui sottopone il proletariato. L’unico difetto del libro è che […] è scritto, solo in parte, in uno stile troppo metafisico e astratto […] che ne rende la lettura difficile e addirittura impraticabile per la maggioranza dei lavoratori. Naturalmente, i lavoratori dovrebbero leggerlo. La borghesia non lo leggerà mai e, se lo fa, non lo capirà e, se lo capisce, non vi farà mai riferimento: il libro altro non è se non la sua condanna a morte, non come individui ma come classe, scientificamente fondata e irrevocabilmente pronunciata. (Maximoff, 1953, p. 187; Bakounine, 1974, p. 357).

Non a caso, in una data tardiva come il 1879, a vari anni di distanza dalla scissione, un anarchico italiano, Carlo Cafiero, elaborò una versione divulgativa del Capitale, considerata da Marx molto utile. Certamente, le forti divergenze fra Marx e Bakunin esistettero fin dall’inizio. Il 28 ottobre 1869, in una lettera a Herzen, Bakunin manifestò il suo dissenso di principio con quello che considerava il “comunismo statale” di Marx. Nella stessa lettera, tuttavia, segnalava al riguardo di Marx:
non dobbiamo sminuire, e io non lo faccio, l’immenso servigio che ha reso alla causa del socialismo, che ha servito con intelligenza, energia e sincerità nel corso degli ultimi venticinque anni, un impegno nel quale ha superato tutti noi” (Wikipedia).
Nel 1869, nella Conferenza di Basilea dell’AIT, entrambe le tendenze approvarono una risoluzione comune che proponeva la socializzazione della terra. Mentre gli anarchici ottennero una vittoria simbolica ottenendo il sostegno significativo – ma non la maggioranza necessaria – alla loro risoluzione in favore della soppressione dell’eredità: 32 voti, su 68 delegati (23 votarono contro e 13 si astennero). Marx e i suoi amici nel Consiglio Generale intervennero argomentando che l’eredità era solo la conseguenza del sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e non la causa dello sfruttamento. La sua proposta – imposta sulla successione piuttosto che la soppressione – ottenne solo 19 voti (37 contrari e 6 astenuti). Bakunin considerò quella votazione la “completa vittoria” delle sue idee.

III
Nella Comune di Parigi del 1871 anarchici e marxisti collaborarono nella prima grande prova di potere proletario nella storia moderna. Già nel 1870, Leo Frankel, un attivista operaio ungherese che lavorava in Francia, molto amico di Marx, ed Eugène Varlin, dissidente proudhoniano, lavorarono insieme alla riorganizzazione della sezione francese dell’AIT. Dopo il 18 marzo del 1871, collaborarono strettamente nella direzione della Comune di Parigi: Frankel come commissario al lavoro e Varlin come commissario alla guerra. Nel maggio del 1871 presero entrambi parte agli scontri con le truppe di Versailles. Varlin fu giustiziato dopo la sconfitta della Comune, mentre Frankel riuscì ad emigrare a Londra.
Malgrado la sua breve durata – solo pochi mesi – la Comune costituì la prima esperienza storica di potere rivoluzionario dei lavoratori organizzato democraticamente (con delegati eletti a suffragio generale) e di distruzione dell’apparato burocratico dello Stato borghese. Costituì inoltre un concreto esperimento di pluralismo, cui lavorarono insieme “marxisti” (anche se il termine ancora non esisteva), proudhoniani di sinistra, giacobini, blanquisti e socialisti repubblicani.
Le analisi di Marx e di Bakunin su questo evento rivoluzionario furono certamente contrastanti. Sommariamente, la posizione di Marx si può riassumere nel brano seguente:

La situazione del ristretto numero di socialisti convinti nella Comune era molto difficile. Dovettero contrapporre un governo e un esercito, rivoluzionari, al governo e all’esercito di Versailles.

Di contro a questa interpretazione della guerra civile in Francia come scontro tra due governi e i rispettivi eserciti, Bakunin sviluppò un punto di vista fortemente antistatalista:

La Comune di Parigi fu una rivoluzione contro lo Stato in quanto tale, contro quel mostro sovrannaturale prodotto dalla società.

I lettori e le lettrici bene informati/e avranno già corretto questa presentazione: in realtà, il primo brano è stato scritto da Bakunin nel suo saggio La Comune di Parigi e il concetto dello Stato (Bakunin, 1972, p. 412), e il secondo da Marx nella sua prima versione de La Guerra civile in Francia (Marx, Engels, Lenin, 1971, p. 45). Abbiamo volutamente invertito le citazioni, per dimostrare come le – innegabili –differenze tra Marx e Bakunin, tra marxisti e anarchici, non sono così semplici come a volte si suppone.
Marx, in modo interessato, si rallegrò che durante il periodo della Comune, nella pratica, i proudhoniani dimenticassero l’ostilità verso l’intervento politico del loro promotore, e che nel contempo alcuni anarchici si compiacevano che gli scritti di Marx sulla Comune accantonassero il centralismo e abbracciassero il federalismo. È certo che La guerra civile in Francia, come la dichiarazione della I Internazionale sulla Comune scritta da Marx e molti altri materiali e bozze per la loro elaborazione diedero prova dell’accanito antistatalismo di Marx. Definendo la Comune come la forma politica, finalmente trovata, per l’emancipazione dei lavoratori, insistette sulla distruzione dello Stato, questo corpo artificiale, questo boa constrictor, come lo chiamò, questa angosciante oppressione, questa escrescenza parassitaria (Marx, Engels, 2008). In realtà, non era la prima volta che Marx manifestava energicamente il suo punto di vista antistatalista. Lo aveva già fatto nel manoscritto della sua Critica della filosofia del diritto di Hegel (1843), dove scrisse:
lo Stato costringe, opprime, regola, vigila e tutela la società civile, dalle sue manifestazioni più vaste fino alle sue più insignificanti vibrazioni, dai modi di vita più generali fino alla vita privata degli individui. Nella società borghese moderna, questo corpo parassitario acquista, grazie a una straordinaria centralizzazione, una ubiquità, un’onniscienza, una capacità di muoversi accelerata e un’elasticità che trovano corrispondenza soltanto nella dipendenza senza protezione, nel carattere caoticamente informe dell’autentico corpo sociale (Gesellshaftkörper) (Abensour, La Démocratie contre l’Etat. Marx et le moment machiavélien, Le Felin, Parigi 2004, pp. 137-142; Marx, 1937, p. 236).
Il saggio sulla Comune è la più limpida manifestazione del rifiuto rivoluzionario dello Stato.
Sicuramente, dopo la Comune, lo scontro tra le due tendenze rivoluzionarie si intensificò, giungendo all’espulsione di Bakunin e di Guillaume (un suo seguace svizzero), durante il Congresso dell’Aia (1872), e il trasferimento della direzione dell’AIT a New York: di fatto, la sua distruzione.
Dopo la scissione, gli anarchici, come accennato, fondarono la propria AIT.
Al di là della scissione, Marx ed Engels non ignorarono gli scritti di Bakunin e, in determinati casi, concordavano con i suoi argomenti antistatalisti. Ne è un esempio eloquente la Critica del Programma di Gotha (1875). Nel libro Stato e anarchia (1873) Bakunin condusse una critica acuta del concetto di “Stato nazionale” utilizzato dai socialdemocratici tedeschi, attribuito (a ragione) a Ferdinand Lassalle ed (erroneamente) a Marx. Quando i seguaci di Marx si riunirono a Gotha nel 1875 per fondare il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), il Programma raccolse la formulazione di “Stato Popolare” per la Germania. Nella sua Critica al Programma di Gotha – scritto come contributo interno e pubblicato soltanto dopo la sua morte – Marx rigettava esplicitamente quella nozione. Di più: nella lettera all’amico Wilhelm Bracke – uno dei leader del partito – che accompagnava la copia della Critica inviatagli, Marx esplicitava che uno dei motivi per cui aveva scritto quel documento era:
Bakunin mi fa responsabile non solo dell’intero Programma del partito, ma anche di tutta la traiettoria di [Wilhelm] Liebknecht fin dal primo giorno della sua collaborazione con il Partito popolare (Volkspartei)” (Marx-Engels, 1937, p. 6).[2]
Nel marzo 1875, in una lettera ad August Bebel, Engels era ancor più esplicito: “Gli anarchici hanno in testa solo questa storia dello ‘Stato Popolare’, nonostante già l’opera di Marx contro Proudhon e poi il Manifesto dicano con chiarezza che, con l’instaurazione del sistema socialista, lo Stato si dissolverà di per sé e sparirà” (Ivi, p. 31).

IV
Anziché cercare di segnalare gli errori e le gaffe delle due parti in conflitto – non mancano le accuse scambievoli – ho cercato di sottolineare gli aspetti positivi della I Internazionale: un movimento socialista plurale, diversificato e democratico, in cui quelli che vi prendevano parte con posizioni diverse furono non solo capaci di coesistere, ma di collaborare nel pensiero e nell’azione per diversi anni, svolgendo un ruolo di avanguardia nella prima grande moderna rivoluzione proletaria. Fu un’Internazionale in cui marxisti e libertari, sia individualmente sia a livello di organizzazioni (ad esempio il Partito Socialdemocratico Tedesco), riuscirono – malgrado gli scontri – a lavorare insieme e a intraprendere azioni comuni.
Le successive internazionali – la II, la III e la IV - non lasciarono molto spazio agli anarchici. In ogni caso, in vari momenti importanti della storia del XX secolo anarchici e socialisti o comunisti sono stati capaci di riunire le forze:

1. Nei primi anni della rivoluzione d’Ottobre (1917-1921), molti anarchici, ad esempio Emma Goldmann e Alexander Berkman, diedero un appoggio critico ai dirigenti bolscevichi.
2. Durante la rivoluzione spagnola, gli anarchici della CNT-FAI e i simpatizzanti trotskisti del POUM lottarono gomito a gomito contro il fascismo, contrapponendosi alla linea non rivoluzionaria degli stalinisti e dell’ala destra della socialdemocrazia.
3. Nel Maggio ’68, una delle prime iniziative rivoluzionarie fu la fondazione del Movimento del 22 Marzo, sotto la guida dell’anarchico Daniel Cohn Bendit e del trotskista Daniel Bensaid.

Si sono anche registrati vari tentativi, da parte di intellettuali, di coniugare queste due tradizioni rivoluzionarie, come nel caso di scrittori quali William Morris o Victor Serge, di poeti come André Breton (fondatore del movimento surrealista), di filosofi come Walter Benjamin o di storici come Daniel Guérin.
Ovviamente, l’esperienza della I Internazionale è irripetibile in senso stretto, ma è molto significativo per noi che, agli inizi del XXI secolo, marxisti, anarchici, o autonomi o libertari, ecc. uniscano le loro forze e intervengano insieme, come singoli o come organizzazioni politiche (la cui esistenza non ostacola la collaborazione), nella solidarietà con gli zapatisti del Chiapas, nel movimento per la Giustizia Globale, nelle battaglie ambientaliste radicali, nelle mobilitazioni di massa degli/delle indignados/as (in Spagna, in Grecia), o in Occupy Wall Street.

Michael Löwy

[1]Ne è un esempio recente Robert Graham, “Marxism and Anarchism on Communism: The Debate between the Two Bastions of the Left, in Shannon Brincat (a cura di), Communism in the 21st Century, vol.: Whither Communism?, Praeger, Oxford, 2014.

[2]Il Partito citato era il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori (precursore del SDAP) fondato da W. Liebknecht insieme a Bebel nel 1869 ad Eisenach. Il Volkspartei era il partito liberale borghese cui partecipò Liebknecht prima della fondazione del SDAP).

fonte: Viento Sur

giovedì 27 novembre 2014

Le mani avanti

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Dal 21 novembre di quest'anno fino all'8 marzo del 2015, il pubblico potrà andare a Berlino, presso il Museo di Storia Tedesca, per visitare la mostra sulla "Rote Armee Fraktion" dal titolo "RAF: violenza terrorista".
"Il messaggio di questa esposizione nella capitale tedesca" - ha detto il presidente della Fondazione che gestisce il museo, Alexander Koch, nel corso di una conferenza stampa - " consiste nel ricordo delle vittime e nel dire a chiare lettere che non c'è alcuna giustificazione per la violenza e per il terrore."
Nella mostra, fra le altre cose, vengono mostrate al pubblico i resti dell'automobile dopo l'attentato esplosivo che costò la vita allo scienziato nucleare Karl Heinz Beckurts, nel 1986, e la moto usata dai due uomini incappucciati che aprirono il fuoco sul procuratore generale tedesco Siegfried Buback, a Karlsruhe, nel 1977.
I visitatori potranno anche vedere sequenze video e fotografie inedite, così come copie di manifesti e di opuscoli, distribuiti a Berlino Ovest fra il 1967 ed il 1970, che riproducono scene di violenza. L'impianto della mostra, centrata soprattutto sullo "Autunno Tedesco" (la crisi nazionale vissuta dalla Germania intorno al 1977), vuole porre la domanda su come si possa combattere la violenza terrorista senza presumibilmente mettere in pericolo la democrazia e, con fini auto-assolutori, propone documenti, brani audio e sequenze video per mostrare come sia politici che cittadini comuni si attivarono per fermare l'escalation di violenza, mantenendo allo stesso tempo un dibattito costruttivo.

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mercoledì 26 novembre 2014

Due giorni, una notte

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"I singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano l’uno di contro all’altro come nemici, nella concorrenza." (Karl Marx, L'Ideologia Tedesca).
Se, da una parte, quest'osservazione non è peculiare del cosiddetto "proletariato", dall'altra parte vanno considerate le profonde implicazioni che ha l'assunzione di una tale affermazione per la classe lavoratrice: non avendo un particolare interesse di classe, da far valere contro un'altra classe, la vita del proletariato si vede caratterizzata unicamente dall'ostilità fra i suoi membri. L'anno dopo aver scritto "L'ideologia tedesca", Marx, in una serie di conferenze che poi verranno pubblicate con il titolo di "Lavoro salariato e capitale” , passava ad esaminare la concorrenza all'interno della classe operaia. In queste conferenze, Marx investigava la concorrenza fra la classe lavoratrice e l'impatto che tale concorrenza aveva sui salari. Quello che scopriva, era ben lontano dalla "fraternità operativa" della classe capitalista! Gli operai, spiega Marx, non si limitano semplicemente a competere gli uni contro gli altri vendendo la loro forza lavoro più a buon mercato, ma, a causa della divisione del lavoro e del costante miglioramento della produttività, un lavoratore rimpiazza 5, 10 o perfino 20 lavoratori, buttandoli fuori dal mercato dell'occupazione produttiva. E, man mano che il lavoro diviene più semplificato, il numero dei nuovi concorrenti che possono svolgere quelli che prima erano lavori specializzati, si incrementa ulteriormente. Più il lavoro è semplice, più si abbassano i costi di produzione, "e tanto più si abbassano i salari". Secondo Marx, tanto più il lavoro diventa sempre più repellente e monotono, tanto più cresce la concorrenza fra lavoratori e crollano i salari. "Nella misura, dunque, in cui il lavoro diventa tedioso e privo di soddisfazioni, nella stessa misura aumenta la concorrenza e diminuisce il salario. L’operaio cerca di conservare la massa del suo salario lavorando di più, sia lavorando più ore, sia producendo di più nella stessa ora. ". Marx ne descrive il risultato:
"Spinto dal bisogno, egli rende ancora più gravi gli effetti malefici della divisione del lavoro. Il risultato è il seguente: più egli lavora, meno salario riceve, e ciò per la semplice ragione che nella stessa misura in cui egli fa concorrenza ai suoi compagni di lavoro, egli si fa di questi compagni di lavoro altrettanti concorrenti, che si offrono alle stesse cattive condizioni alle quali egli si offre, perché, in ultima analisi, egli fa concorrenza a se stesso, a se stesso in quanto membro della classe operaia".
L'osservazione più perspicace di Marx, comunque, non riguarda tanto la natura della concorrenza (il lavoratore che compete contro sé stesso), ma piuttosto il fatto che tale concorrenza cominci con il suo lavoro in fabbrica, e non con il suo tentativo di vendere la propria forza lavoro sul mercato. Marx non si concentra sulla disoccupazione e sulla concorrenza fra i lavoratori disoccupati che cercano di vendere la propria forza lavoro, ma evidenzia il ruolo svolto dal lavoro stesso all'interno della divisione del lavoro: è il lavoro, e non la disoccupazione che abbassa i salari ed aumenta la competizione fra i lavoratori.
I salari, i termini e le condizioni a cui il lavoro viene offerto sul mercato non sono, in alcun modo, determinati dall'offerta e dalla domanda di forza lavoro, ma vengono determinati dal lavoro, sempre più produttivo, dei lavoratori già occupati. E' il lavoro che produce simultaneamente la caduta dei salari e l'aumento della concorrenza dentro la classe operaia.

martedì 25 novembre 2014

confini

london

Addio alla Città?
di James Heartfield

In una recente occasione allo Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, mi è stato chiesto di parlare del “futuro delle città”. Ho dovuto dire che era un po’ come se mi chiedessero di portare un contributo sul tema “La forza Vapore nel Ventunesimo Secolo” oppure “Il Patriarcato Domani”. La città, vedete, ha già superato la data di scadenza. Come modo di vita, di organizzare abitazioni e posti di lavoro, la città è superflua.
Per i cultori di Studi Urbani un’idea del genere sarebbe un anatema. Il loro santo patrono – il compianto Lewis Mumford – scrisse un libro intitolato La Città nella Storia. Forse sarebbe stato più preciso un “ La Città Fuori dalla Storia”. Le ricerche monomaniacali di Mumford esploravano le città attraverso le epoche. E, come diceva Buckminster Fuller, un uomo col martello trova un mondo pieno di chiodi. Mumford organizzò il suo materiale a sostenere la tesi che essa è sempre stata tra noi, solo cambiando forma, dalle necropoli originarie attraverso l’antica città di Ur, le città-stato della Grecia, la città del Rinascimento, la Cotonopoli del XIX secolo, e così via.
Al minimo, il lavoro di Mumford aveva il senso che: la gente vive in relativa prossimità sin da quando si è dato inizio all’agricoltura. Ma assimilare tutte queste incredibilmente diverse forme di associazione sotto l’etichetta di “città” rende il termine tanto astratto da non dirci nulla.
La protetta di Mumford, Jane Jacobs, l’aveva ben valutato dicendo che alla fin fine non gli piacevano davvero le città. Intendeva, non gli piaceva la complessità reale delle relazioni che costituiscono i quartieri, gli aspetti “sporchi” della vita urbana. Ma poi la anche la Jacobs contribuì a seminare confusione. Santificò l’idea della vita comunitaria di quartiere, una sorta di visione di Sesame Street, che in realtà derivava dalla vita bohemien del Greenwich Village degli anni ‘50.
L’idealizzazione della Jacobs del piccolo quartiere urbano non era solo osservazione: conteneva un messaggio, un’indicazione. Il messaggio era che i sobborghi in corso di realizzazione da parte dei pianificatori - in particolare, di Robert Moses - erano masse senz'anima. La causa della Jacobs contro il suburbio ha avuto una seconda manifestazione nelle teorie dei cosiddetti New Urbanists. In Gran Bretagna, Herbert Girardet – che ha influenzato la Urban Task Force di Sir Richard Rogers – è stato paladino della “città sostenibile”. Voleva dire che l’abitare urbano ad alta densità può ridurre la pressione sull’ambiente.
Nelle mani di Lord Rogers of Riverside, il New Urbanism è stato plasmato in una grande strategia per “costruire verso l’alto, non verso il fuori”. La Green Belt irrigidita per salvare la campagna dai progettisti, e il degrado urbano a lasciare il posto ad un rinascimento Café Society sul modello di Barcellona. Le prescrizioni di Rogers hanno trovato un’eco nella gentrification dei centri urbani, come a Hoxton, Londra, o nei nuovi interventi lungo i canali comparsi in tante grandi città. Gli scrittori Iain Sinclair e Peter Ackroyd hanno sviluppato una romantica letteratura dei luoghi adeguata al tempo, che io ho chiamato Londonostalgia: vale a dire, una nostalgia per l’ambiente urbano “estremo”, anziché nostalgia per i paesaggi evocativi.
Più problematico è il fatto che la nuova amministrazione laburista, non volendo resuscitare le politiche abitative municipali Old Labour, non abbia pensato con cosa sostituirle, lasciandole al nuovo amico Lord Rogers. Le conseguenze sono state semplicemente ingestibili. Sotto la sua influenza, le amministrazioni locali hanno limitato i nuovi interventi, a favore di piccoli, congestionati complessi sviluppati in altezza, stipati dentro piccolo lotti liberi. Il risultato finale di tutto ciò - e il motivo per cui Rogers alla fine ha litigato col Labour Party - è una spettacolare carenza di abitazioni rispetto alla domanda, che si aggiunge alla spirale in ascesa dei prezzi delle case. Come ha reso chiaro il ministro New Labour David Miliband, l’attuale problema è di vedere costruite le casa anziché di salvare la Green Belt.
Il fallimento delle politiche della Urban Task Force era prevedibile: e previsto. Al meglio, la tendenza in cui si identificava Rogers (seguendo la Jacobs) era controcorrente rispetto al movimento principale per quanto riguarda gli insediamenti umani. Al peggio, era un isterico negare le evidenti trasformazioni in corso.
I fatti sono questi: solo il 9% dei britannici vive nel nucleo centrale delle città; ben il 43% abita nei sobborghi. Il movimento iniziato negli anni ’20 ha rallentato o accelerato in vari momenti, ma non si è mai invertito. La suburbanizzazione, o più precisamente l’abitare disperso, è il futuro. L’urbanizzazione è il passato (per una difesa della suburbanizzazione, si veda il nuovo libro di Robert Bruegmann, Sprawl: A Compact History).
Richard Rogers, Jane Jacobs, Herbert Girardet, il sindaco di Londra Ken Livingstone e Max Hastings del Council for the Protection of Rural England, tutti la condannano: ma il fatto resta.
Naturalmente è vero che alcuni benestanti yuppies e dinkies sono tornati a riconquistare le aree centrali dai disoccupati, dagli immigrati del Bangladesh e dell’India Occidentale negli anni ‘90. Ma era solo un rivolo che si muoveva contro il grande torrente di popolo che scorreva fuori dalla città, quello che l’ex consulente del Numero 10 di Downing Street, Geoff Mulgan, chiamava “cascata antiurbana”, “dalle zone urbane al suburbio, dal suburbio alle fasce esterne, dalle fasce alle aree rurali”.

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Cosa spinge l’onda anti-urbana?
Il miglior modo di capirlo, è quello di porsi la domanda al contrario: come è accaduto, prima di tutto, che la Gran Bretagna si ritrovi divisa fra città e campagna? Una questione che ha preoccupato la cultura radicale per generazioni. Sin da quando Karl Marx e Friedrich Engels scrissero il Manifesto dei Comunisti, l’obiettivo di superare l’antagonismo città-campagna ha caratterizzato qualunque programma militante socialista, si trattasse di Leon Trotsky o di William Morris.
I marxisti individuavano la divisione fra città e campagna come problema, per ottimi motivi. L’espulsione dei contadini dalle terre era stato l’impulso originario ala creazione di una classe senza proprietà, di schiavi del salario. Separati con la forza dai mezzi di sussistenza, dai processi di enclosure in Inghilterra, dai disboscamenti in Scozia, non avevano altra scelta se non lavorare negli impianti di Gradgrind. Come documentato a suo tempo da EP Thompson, ci vollero molti decenni di lotte per minare alle basi i diritti consuetudinari all’uso comune delle terre.
Difendendo il proprio monopolio sulla terra, le élite non si limitavano a rivendicare il territorio. Difendevano le relazioni sociali che dividevano schiavi del salario senza proprietà e proprietari datori di lavoro. Ecco perché le grandi tenute, le leggi sul passaggio e le Green Belt sono state una caratteristica tanto marcata della vita britannica. Ecco anche perché la classe di possidenti terrieri ha continuato a chiedere il rispetto dell’élite industriale anche molto dopo che aveva smesso di dare un contributo alla ricchezza nazionale. Era la funzione politica di tenere lontani i commoners dalle terre, il loro vero contributo al capitalismo britannico.
Da vero vittoriano, Karl Marx preferiva la città alla campagna. Detestava istintivamente lo “idiotismo della vita rustica” e la sua romanticizzazione. Il “culto della natura” pensava, “è riuscito a superare per quanto è reazionario anche la Cristianità”. Ma ad una riflessione approfondita, Marx non si limitava a ribaltare il discorso romantico, prendendo le parti della città contro la campagna. Voleva superare la contrapposizione dell’una rispetto all’altra. Anche Trotsky, aspettava il giorno in cui poter “spazzar via la frontiera fra città e campagna”, con la città ad assorbire “dentro di sé i vantaggi della campagna (spazio, verde) e la campagna ad arricchirsi dei vantaggi della città (strade pavimentate, luce elettrica, impianti per l’acqua potabile, fognature)”. Tragicamente, Trotsky perse nel dibattito sul futuro della Russia con Stalin, che salì al potere esacerbando il conflitto fra la popolazione rurale e i lavoratori urbani.
Le prospettive di superamento della contrapposizione città-campagna sembravano migliori nell’Occidente, più sviluppato; e attraverso il romanziere utopico John Bellamy e il riformatore municipale Ebenezer Howard questo obiettivo socialista informò la politica dei nuovi villaggi giardino. Il piano di Howard per il suo villaggio giardino fu a grandi linee il modello per i nuovi suburbi cresciuti fra gli anni ’20 e i ‘50. Ma se la suburbanizzazione vedeva una crescita delle abitazioni nella campagna, prima per i ceti medi e più tardi per le classi lavoratrici, il suo idealismo fu gravemente appannato dalla reazione contro l’odiata “edificazione a nastro”.
Durante la recessione del periodo tra le due guerre, e la ricostruzione postbellica, i ceti operai colsero ogni occasione per allontanarsi dalle città fuligginose e ripristinare il proprio diritto sulla campagna che i ceti terrieri avevano avocato a sé. Benny Rothman, comunista di Manchester, guidò un’occupazione di massa a Kinder Scout nel 1932. Famiglie dallo East End di Londra iniziarono a vivere in baracche da vacanza che si costruivano a Pitsea, così che “alla fine della seconda Guerra mondiale c’era una popolazione stabile di circa 25.000 persone, su 100 km di strade campestri sterrate, la maggior parte senza fognature e impianti esterni per l’acqua da bere”. Nel 1949 fu decisa la new town: Basildon.
Ma era l’edificazione a nastro, che convinse le autorità a sostituire il vecchio monopolio aristocratico sulla terra con uno di imposizione statale. Invece delle tenute, prima il Greater London Council (1938) e poi il ministro della casa Tory Duncan Sandys (1955) crearono le Green Belt per limitare il traboccamento delle città nella campagna. Vennero istituiti grandi “parchi nazionali” e “fondi nazionali” come sedicente alternative democratica alle tenute: ma il loro scopo essenziale era il medesimo: tenere la gente lontana dalla terra; mantenere, artificialmente, la divisione fra città e campagna.

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La fine della divisione fra città e campagna
I socialisti vedevano la fine della contrapposizione città-campagna come conseguenza dell’abolizione del capitalismo. Ma questa opportunità si chiuse con gli anni ‘80. E pure l’espressione geografica della proletarizzazione ha perso gran parte della propria razionalità tecnica.
Se il monopolio fondamentale sulla terra persiste, le trasformazioni tecnologiche hanno minato alle basi le ragioni della divisione fra città e campagna. Ce ne sono alemno due: la prima è la continua evoluzione della produttività agricola, che ha reso sempre meno necessario mantenere tanta parte della Gran Bretagna destinata al pascolo e all’arativo; la seconda è la rivoluzione dei trasporti che ha fatto aumentare di decennio in decennio le distanze percorribili quotidianamente per pendolarismo dalle persone.
L’incremento dei raccolti ha reso superflue molte delle terre agricole britanniche. Non è poca cosa, visto che ci sono ben tre quarti del paese destinati all’agricoltura. Ora i coltivatori abbandonano l’attività, e cercano di liberarsi delle proprie terre. Le rivelatrici statistiche diffuse dal governo sulla scia della crisi della malattia del bestiame foot and mouth nel 2001 dicono che anche nelle campagne vere e proprie, l’agricoltura non è la fonte principale di ricchezza (in realtà, anche nelle zone più rurali, l’occupazione agricola conta solo per un quinto del totale: si veda State of the Countryside, pubblicato dalla Countryside Agency, p. 89). Il vuoto lasciato dalle terre inutilizzate è un potente attrattore di nuovi insediamenti.
Allo stesso tempo il modo in cui le persone si spostano rende più facile vivere distanti dal posto di lavoro. La quantità di tempo passata nei viaggi casa lavoro è sorprendentemente stabile, circa la stessa degli anni ‘50. Ma nel corso degli stessi 50 anni le distanze percorse nello stesso tempo sono aumentate di sei volte, da 8 a 48 chilometri ai giorno. E la rivoluzione dei trasporti non si sta certo arrestando: fra il 1991 e il 2001 la quota di popolazione che non accede alla proprietà dell’auto è caduta dal 20% al 12%.
Terre lasciate libere dall’agricoltura, iper-mobilità: sono cambiamenti che stanno rivoluzionando il modo di abitare. Lungi dal portare la popolazione verso città dense – si tratta di una soluzione scelta solo da minoranze – le tendenza principale è verso il suburbio, e l’esurbio.
Oggi non esiste Londra, in quanto tale. La città ha perso qualunque definizione, coi margini esterni che si confondono con le città dormitorio circostanti. Un secolo fa Ford Madox Ford immaginava una Londra larga 150 chilometri, da Oxford a ovest, fino a Cambridge a est, e Brighton a sud. “È un cambiamento in corso” scriveva “che deve avvenire: tutto il sud-est britannico è semplicemente Londra”. Nella sua proiezione fantascientifica, Ford immagina una monorotaia continua che portasse da Oxford a Londra in mezz’ora. Oggi, il treno veloce per Londra ci impiega un’ora, quindi siamo a metà strada. Nel loro atlante riassuntivo del censimento 2001, People and Places, Daniel Dorling e Bethan Thomas osservano che “la metropolis della Grande Londra … ora si estende a tutta l’Inghilterra meridionale”, “da Gainsborough a nord a Penzance nell’ovest”.
I Londonostalgici evitano la conclusione ovvia: non esiste più la città di Londra, ma una conurbazione con 150 km di raggio. Non la campagna ricoperta di cemento, ma la città liberamente intrecciata agli spazi verdi (date un’occhiata a Google Earth qualche volta: le verdi e piacevoli terre d’Inghilterra non sono in pericolo). Istintivamente, i radicali resistono alla conclusione. Ricordano quanto hanno lottato i Tories per frustrare un’autorità di tutto il territorio di Londra, evocando slogan reazionari di una Londra di villaggi. Ma oggi, ci vuole coraggio a negare il fatto che Londra si sia disaggregata. Southall fa parte della stessa città di Walthamstow, o di Camberwell? Il centro di Londra fa parte di Londra, oppure è uno spazio turistico a servizio dell’Europa? E non si fa prima a andare a Brighton che a Forest Gate?
Non ha senso lamentare la fine della comunità londinese. La vicinanza fisica non è mai stata comunque la vera base comunitaria. I sostenitori del new urbanism parlano di “cosmopolitanismo” ma è una parola che non capiscono. Quando Diogene coniò il termine, duemilacinquecento anni fa, non voleva decantare la vita della città, ma biasimarla. Era la risposta ai dignitari di città che avevano esiliato suo padre. Non andava lì la sua lealtà, diceva, ma al mondo: “sono cittadino del mondo”, “ Kosmopolites eimi”.
Il modo in cui le persone si relazionano l’una con l’altra ha poco a che vedere con l’organizzazione delle case, ma con le attività in cui si impegnano. Chi mai cerca la compagnia dei vicini? Molto più probabilmente si trascorrerà il tempo sociale coi colleghi di lavoro, o cogli amici appassionati di qualche attività culturale, o con altri collaboratori, in reti su base volontaria, non dettate dalla geografia. Al giorno d’oggi, molto di quel tempo sarà mediato da telefoni cellulari e posta elettronica tanto quanto dagli incontri faccia a faccia.
Naturalmente, sarebbe un errore prescrivere l’abitare disperso, proprio come lo è stato prescrivere la vita ad alta densità. Come obiettivo politico, dobbiamo mirare alla massima libertà nella scelta di dove e come vivere. Per i giovani, le città avranno molta più attrattiva. Le coppie con figli potranno trovare più benefici nel suburbio, o nei centri dormitorio. Se lavorate nei media, un sobborgo interno di Londra ha senso, se non altro per la paranoia di perdersi una storia. O se siete nel settore dei computer, perché non scegliere una di quelle nuove cittadine in fila verso Cambridge? Ma dal punto di vista sociologico, la tendenza media è in una sola direzione, ovvero verso un abitare più disperso, la medesima da 50 anni a questa parte.
Per i “ New Urbanists” o i Londonostalgici, la dissoluzione dei nostri centri urbani è una conclusione triste. Ma ne traggono in gran parte le medesime conseguenze. L’autore di London Orbital, Iain Sinclair, si è trasferito ad Hastings. Sir Crispin Tickell, della Urban Task Force, abita in una fattoria del Somerset. Lord Rogers vive a Londra, ma non in una situazione tanto densa: possiede due terrace houses georgiane saldate insieme, a Chelsea. Anche Jane Jacobs si è trasferita fuori dal Greenwich Villane, andando in quel grande suburbio Americano che è il Canada.
Ma cosa c’è di cui avere nostalgia? La divisione della Gran Bretagna fra città e campagne ha servito i propri scopi, nel bene e nel male. Era già superflua all’inizio del XX secolo, quando i britannici abbandonarono la coltivazione per dedicarsi a far soldi, comprando prodotti agricoli dalla Nuova Zelanda o da altre colonie. Allora la gente votò, “coi piedi”, per riconquistare le campagne a colpi di vagabondaggi e chalet. Solo la reazione politica della guerra mondiale fece tornare le campagne all’agricoltura, nella paranoia generale per la sicurezza alimentare. Solo la politica nevrotica delle Green Belt di Duncan Sandys bloccò la dispersione all’ingrosso della popolazione prigioniera in città industriali del diciannovesimo secolo.
Ma nel tempo la tendenza si è riassestata. I demografi Daniel Dorling e Bethan Thomas sottolineano come fuori Londra tutte le grandi città stiano perdendo popolazione, e che “la popolazione della Gran Bretagna si sta lentamente muovendo verso sud”. Può non essere esattamente quello che si immaginava Karl Marx, ma la caduta del confine fra città e campagna è una liberazione, non una perdita.

- James Heartfield - apparso su  Spiked, 4 aprile 2006 -

lunedì 24 novembre 2014

Realisti di una realtà più grande

leguin

«A chi mi ha dato questo bellissimo premio, grazie. Dal cuore. Alla mia famiglia, ai miei agenti, ai miei editor dico: sappiate che se sono qui è anche merito vostro, e questo premio è tanto vostro quanto mio. E mi piace l'idea di accettarlo e condividerlo con tutti quegli scrittori che sono stati esclusi dalla letteratura così a lungo, i miei colleghi autori di fantasy e fantascienza, scrittori dell'immaginazione, che per cinquant'anni hanno visto questi bei premi andare ai cosiddetti "realisti".

Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora, capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall'ossessione tecnologica, altri modi di essere, e immaginare persino nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande.

Oggi abbiamo bisogno di scrittori che conoscano la differenza tra la produzione di una merce e la pratica dell'arte. Sviluppare materiale scritto per venire incontro a strategie di vendita con lo scopo di massimizzare il profitto di una società e la resa pubblicitaria non è la stessa cosa rispetto a scrivere e pubblicare libri in modo responsabile.

Io vedo il reparto vendita prendere il controllo su quello editoriale. Vedo i miei stessi editori, stupidamente nel panico dell'ignoranza e dell'ingordigia, chiedere alle biblioteche pubbliche sei o sette volte il prezzo praticato ai clienti normali per un ebook. Abbiamo appena visto un profittatore cercare di punire un editore per la sua disobbedienza, e gli scrittori minacciati da una fatwa corporativa. E vedo molti di noi, coloro che producono, che scrivono i libri e fanno i libri, accettare tutto questo. Lasciando che i profittatori commerciali ci vendano come deodoranti, e ci dicano cosa pubblicare e cosa scrivere.

I libri non sono merce. Gli scopi del mercato sono spesso in conflitto con gli scopi dell'arte. Viviamo nel capitalismo, e il suo potere sembra assoluto… ma attenzione, lo sembrava anche il diritto divino dei re. Gli esseri umani possono resistere e sfidare ogni potere umano. La resistenza spesso comincia con l'arte, e ancora più spesso con la nostra arte, l'arte delle parole.

Ho avuto una lunga carriera come scrittrice, una buona carriera e con una buona compagnia. Ora, alla fine di questa carriera, non voglio vedere la letteratura americana essere svenduta. Noi che viviamo di scrittura e di editoria vogliamo e dobbiamo chiedere la nostra parte della torta. Ma il nome di questo riconoscimento non è profitto. È libertà.»

- 21 Novembre 2014 - Discorso pronunciato da Ursula K. Le Guin, premiata con il National Book Award -

domenica 23 novembre 2014

Crepa padrone, che tutto va bene!

lange

Non può essere compresa l'importanza di un film come "Il delitto del signor Lange", girato da Jean Renoir nel 1935, senza considerare il contributo del "Gruppo Ottobre" - una compagnia di teatro rivoluzionario, creata nel 1932, e diretta dal poeta e drammaturgo Jacques Prévert - che aiutò Renoir nella stesura della sceneggiatura. Il regista parigino lavorò in stretta collaborazione con tutto il gruppo, formando una piccola cooperativa, specchio di quello che avviene dentro la pellicola. In tal senso, lo spirito con cui vengono effettuate le riprese presenta alcune somiglianze con quelle del film "Toni", ma la tematica è del tutto diversa: nel "Delitto del signor Lange" non si parla di un dramma passionale, ma si dà voce ad una sorta di canto pre-rivoluzionario, intonato di fronte all'imminente ascesa del fascismo. Facendo uso di un lungo flashback, il film narra la storia di Amédée Lange, impiegato di una casa editrice che si vede costretto ad uccidere il suo padrone - un uomo ricco e senza scrupoli che umilia le donne e ruba i soldi dei suoi dipendenti - per poter salvare la cooperativa creata dai lavoratori dell'impresa. La storia viene raccontata dalla sua compagna, Valentine, agli avventori di una locanda dove la coppia si è rifugiata, in attesa di passare il confine, mentre cerca di sfuggire alla legge.

 

Titolo originale: Le crime de Monsieur Lange.
Regista: Jean Renoir.
Soggetto: Jean Renoir e Jean Castanier.
Sceneggiatura: Jacques Prévert.
Fotografía: Jean Bachelet (B/N).
Montaggio: Marguerite Renoir e Marthe Huguet.
Música: Jean Wiener.
Interpreti: René Lefèvre (Amédée Lange), Florelle (Valentine Cardés), Jules Berry (Paul Batala), Sylvia Bataille (Edith), Nadia Sibirskaia (Estelle), Marcel Levesque (Beznard), Odette Talazac (portera).
Anno: 1935
Durata: 84 min.
Paese: Francia.

sabato 22 novembre 2014

L'estetica del totalitarismo

malraux

Il caso di Malraux è la verifica di una visione critica delle tentazioni che il totalitarismo rappresenta per il genio poetico. Sebbene Malraux abbia lottato, alleato prima con la sinistra poi con la destra, passando dalle Brigate Internazionali al governo di De Gaulle, non ha mai adottato un programma politico consistente. Quale che fosse il campo cui aveva aderito, ha sempre seguito ciò che consiste nella politica dell'eroismo, della violenza e della lealtà dei congiurati. In breve, le sue convinzioni politiche sono estetiche; è la struttura formale dell'azione politica ad attrarre Malraux, non il contenuto. La chiave di tutta la carriera di Malraux può essere trovata nell'osservazione fatta da Walter Benjamin per cui coloro che fanno della politica un'arte raffinata finiscono sempre su posizioni elitarie o totalitarie - a sinistra o a destra.
Prendiamo invece il caso di Orwell. 1984 non è una parabola sul regime totalitario di Stalin, Hitler e Mao Tse-Tung. La polemica della favola non è unilineare. La critica di Orwell ha a che vedere, allo stesso tempo, sia con lo Stato autoritario sia con la società capitalistica del consumo, con il suo ignorare i valori e con i suoi conformismi. La "neolingua", il linguaggio da incubo di Orwell, è tanto il gergo del materialismo dialettico quanto la verbosità della propaganda commerciale e dei mass media. La forza tragica di 1984 proviene proprio dal rifiuto di Orwell di vedere le cose in bianco e nero. Era atterrito dalla nostra società dei consumi. Aveva visto in essa i germi della disumanità, quasi paragonabile a quelli endemici dello stalinismo. Orwell era tornato dalla Catalogna con una sorta di stoica e desolata fede in un socialismo umano che né l'Oriente né l'Occidente erano pronti ad adottare, se non su scala assai limitata. Trasformare 1984 in un pamphlet sulla guerra fredda intellettuale significa male interpretare e ridurre il libro. La vera allegoria della società sovietica, nell'opera di Orwell, è La Fattoria degli Animali.

- George Steiner - "Lo scrittore ed il comunismo", in "Linguaggio e silenzio" - 1961 -

venerdì 21 novembre 2014

Eccedenze

eccedenze

Sul numero 178, del marzo 1962, della rivista "Critique" - fondata da Bataille nel 1946 - Foucault pubblicò "Il no del padre", in cui recensiva il libro di Jean Laplanche, pubblicato l'anno precedente,"Hölderlin et la question du père". Difficilmente si può comprendere la formazione di Foucault, come lettore, senza considerare i suoi testi apparsi sulle riviste, a partire da scritti seminali come "La vita degli uomini infami", apparso su "Cahiers du chemin", la stessa rivista che pubblicò il suo testo su Magritte, "Questa non è una pipa".
In parte, la tesi contenuta in questo saggio di Foucault su Hölderlin fa da immagine speculare alle "Vite infami". A metà del testo, nel corso di una digressione, Foucault commenta le "Vite degli artisti" di Giorgio Vasari, richiamando l'attenzione sul modo eroico ed epico che Vasari sceglie per raccontare queste vite, sottolineando in particolare una sorta di predestinazione dei grandi artisti (Giotto che disegna su un sasso e viene così scoperto da Cimabue, Verrocchio che abbandona la pittura quando vede un disegno di Leonardo, il Ghirlandaio che si inchina davanti a Michelangelo): un registro trionfalistico completamente estraneo agli "infami".
Ma è già Hölderlin che interrompe questo registro - argomenta Foucault - quando comincia a pensare il "legame fra opera e assenza d'opera", ossia, la follia, e quindi anche l'uso del no del padre, o del nome del padre (gioco polisemico usato da Lacan, nel suo seminario sulle psicosi, per rivalutare il Freud di Totem e Tabù. Il "no" del padre come assenza d'opera e, di conseguenza, come fuga dal registro trionfalistico e come apertura verso l'effimero, verso l'infame, verso quello che non è degno di nota. Ed è importante come questo avvenga su "Critique": sulla rivista fondata da Bataille, Foucault arriva al rifiuto dell'opera trionfalistica; cosa che si sposa perfettamente con la nozione di "dépense" (dispendio, eccedenza) di Bataille, ossia l'inutilità, l'eccentricità di un'esposizione non trionfalistica, minuscola, subalterna.