venerdì 24 agosto 2012

pappagalli

 

stein

Nel 1936, Sygmunt Stein è un giovane attivista ebreo. E' sempre stato di sinistra, prima in Polonia, nel Bound, poi in Cecoslovacchia. E' diventato comunista perché crede nel progetto di Stalin di fondare una sorta di stato ebraico in Siberia, il "Birobidan". Il Partito, che vede in lui "non solo un leader obbediente, e fedele alla linea del partito, ma anche un lavoratore ispirato", lo ha messo alla direzione di un giornale in lingua yiddish.
"Ho associato, strettamente, l'amore per la cultura, per la tradizione ebraica e per gli ebrei, che portavo nel più profondo del mio cuore, ad una fede bronzea nel ruolo storico dell'Unione Sovietica" - scrive.
I primi dubbi arrivano con i Processi di Mosca. "Com'è stato possibile? Zinoviev, il braccio destro di Lenin? E Kamenev? Ho passato delle notti intere senza riuscire a dormire". Non se la sente di rompere con il Partito. Gli Stalin passeranno - egli pensa - ma i fondamenti del bolscevismo, la società senza classi, tutto questo resterà. Cerca di mettere a tacere i propri dubbi.
"La guerra civile che è scoppiata in Spagna mi dà finalmente una via d'uscita" - decide. Ancora non immagina che si appresta a vivere gli anni più importanti della sua vita opponendosi in segreto alla direzione staliniana delle Brigate Internazionali, e che ne verrà fuori disperato!
Il libro, "Ma guerre d’Espagne", ce ne consegna la storia. Tradotto oggi in francese, era già stato pubblicato nel 1956, in lingua yiddish, su un quindicinale newyorkese, ed era stato definito, allora, come "un documento umano terrificante".
Certo, ci aveva già pensato George Orwell, con il suo "Omaggio alla Catalogna", a mettere del piombo nelle ali del mito delle Brigate Internazionali, ma le accuse di Stein contro il partito cui apparteneva, e di cui era uno dei commissari politici, sono tanto più terribili, quanto circostanziate. Nessun testimone aveva mai descritto il disastro interiore di un responsabile del Partito, mentre assisteva, muto e a rischio della sua vita, alla rovina di tutti i suoi ideali.
Stein descrive le tappe della sua scoperta progressiva di una realtà che alla fine gli esploderà davanti agli occhi. Dall'entusiasmo iniziale per la partecipazione dei paesi coinvolti nelle Brigate (anche dei giovani americani, che considera dei "turisti"), lui, incaricato della loro "educazione", assisterà impotente alla loro manipolazione da parte dei dirigenti dei partiti comunisti di diverse nazionalità. Vede tre cadaveri su tre barelle. Non riesce a credere che si tratti di brigatisti giustiziati per "deviazionismo" o, peggio, per "trotskismo"! Via via, viene a sapere che altri vengo assassinati a sangue freddo per "motivi di disciplina", oppure con una pallottola alla schiena durante i combattimenti.
Ad Albacete regna André Marty, definito come "il macellaio di Albacete", non dai franchisti, ma dalle sue stesse truppe.
Stein constata le condizioni delle vecchie armi, fornite dai sovietici a caro prezzo, l'arroganza degli strateghi inviati da Mosca che, poi, non riusciranno a sfuggire alla mannaia dell'accusa di deviazionismo, una volta tornati a Mosca. Ironia della sorte.
Si ammala, e quando viene dimesso dall'ospedale, per placare la sua coscienza, chiede, tra lo stupore dei suoi capi, di essere mandato al fronte. Lì, con i suoi compagni della brigata ebraica Botwin, con un armamento assolutamente risibile, e alcuni anche a mani nude, va all'assalto dell'artiglieria e dei mezzi corazzati franchisti. La brigata viene annientata. Ferito, viene "rimpatriato" in Francia. Qui, dopo essersi sposato con una compagna polacca, conduce un'esistenza difficile, fabbricando bottoni. In Francia gli nascerà una figlia, Odette, che pubblicherà queste sue memorie.
Non ci sono grandi considerazioni politiche, in questo libro febbrile. Non si fa menzione della neutralità delle democrazie, né della tolleranza riguardo ai bombardamenti nazi-fascisti su villaggi come Guernica. Vi si legge solo il triste e desolante spettacolo di Barcellona dopo la messa fuorilegge del POUM.

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"La Pasionaria non interveniva mai da sola, e non era mai la prima a parlare. All'inizio, il presidente diceva qualcosa, poi dava la parola ad uno o a due oratori che facevano delle brevi osservazioni ed insistevano sul fatto che stavano per lasciare la parola alla Pasionaria. Non appena veniva pronunciato il suo nome, la presidenza cominciava ad applaudire e a gridare "hurrà!" ed il pubblico si lasciava guidare ed entusiasmare dallo spettacolo. Alla fine, il presidente si alzava, scrutava la folla con sguardo infiammato e, sbattendo le palpebre, annunciava a voce bassa, soffocata e rauca, che avrebbe dato la parola alla Pasionaria. Nel giro di pochi istanti, la tribuna rimaneva vuota e regnava un silenzio totale. Improvvisamente, la si vedeva apparire, i capelli arruffati, gli occhi ardenti, la camicetta slacciata. Il pubblico si alzava in un solo movimento. Si applaudiva, si battevano i piedi, si gridava. La Pasionaria all'inizio resta immobile, come una dea della vendetta. Poi sollevava le braccia in un gesto teatrale ed il clamore cessava come per un colpo di bacchetta magica. In questo silenzio improvviso, pronunciava delle frasi brevi ed infiammate.
Quello che diceva non aveva alcuna importanza. Lanciava verso la folla degli slogan che passavano sopra la testa della gente. Nel parlare, stendeva le braccia, posava la mano sul corsetto e poi la toglieva. Tale gesto scopriva in parte il suo seno nudo, ed allora esclamava: - Noi sbarreremo il passo alla bestia immonda con lo scudo dei nostri corpi!
L'esposizione del seno era parte di una messinscena, senza dubbio elaborata dai suoi istruttori, per raggiungere la massa dei soldati. La Pasionaria si rendeva conto dell'effetto provocato dal suo corpo, dai suoi occhi brillanti, dalla sua voce al tempo stesso metallica e calda. Metteva all'opera tutti i mezzi che possedeva per eccitare la folla e scatenare il fanatismo. Nessuno si aspettava che facesse dei discorsi teorici. Si sapeva che le sue parole, certamente piatte, ma calde ed appassionate, cadevano sulla massa come una scintilla su un barile di polvere.
Nella sua vita privata, era esattamente il contrario di quel che diventava durante i raduni. L'ho incontrata spesso durante il mio lavoro di militante. Veniva perfino alla manifestazioni che organizzavo con l'appoggio della sezione culturale. Le sue apparizioni furono sempre ben orchestrate, ma in seguito, quando era lontano dalla folla, diventava una donna discreta, un po' timida e gentile, una di quelle donne che non avevano avuto la possibilità di diventare un idolo fabbricato dall'enorme apparato di propaganda, e che vivono, inosservate, nelle città di tutto il mondo. Era stanca ed esausta. Stanca del rumore che si faceva intorno a lei, esausta per gli slogan che gli istruttori politici le infilavano nella testa e che era obbligata a ripeterla come un pappagallo."


*Sygmunt Stein, Ma guerre d’Espagne, Brigades internationales : la fin d’un mythe, traduit du yiddish par Marina Alexeeva Antipov, postface de Jean Jacques Marie, Seuil, 270 p., 19 euros.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Franco ho letto la recensione del libro di Stein e mi piacerebbe leggerlo; vedrò come procurarmelo. Leggendo la tua recensione mi è venuto in mente Michel Ragon nel suo romanzo "La memoria dei vinti". Il percorso del protagonista del libro è simile a quello di Stein, anche se non è una testimonianza; la "fine" del protagonista è meno prosaica di quella fatta da Stein o da Giuseppe Mariani (l'attentatore del Diana che non trovando un lavoro decente nè tra gli anarchici e tantomeno tra i comunisti, fu costretto dalle necessità a confezionare divise militari per l'esercito dopo quasi trent'anni di galera) ,perchè finì i suoi giorni come bukiniste sul lungo Senna. A presto Gianni e Alberta