martedì 21 ottobre 2025

Fuori dai Cardini !!

Il momento attuale e lo spettro di Marx
- di Alain Lecomte - Pubblicato il 14 ottobre 2025 -

   Sulle labbra e sulla bocca, la stampa e i media audiovisivi hanno una sola frase: «stiamo vivendo in un punto di svolta.» Infatti, se ci guardiamo intorno, vediamo che ci sono sempre più imperi che assumono il controllo di ciò, di questo pianeta, è rimasto da devastare di questo pianeta. Negli Stati Uniti, dopo la sequenza dell' "assassinio di Kirk", i discorsi hanno assunto le dimensioni apocalittiche di una predicazione religiosa totalmente folle, come se cominciasse a divampare una vera e propria follia. Si tratta di un fenomeno improvviso? Non c'era prima alcun segnale di allarme? Gli Stati Uniti, in fondo, non sono forse sempre stati questo? Una follia devastante che mescola politica e religione, e che trova la sua espressione in un fascismo virtuale fatto di violenza esasperata, uccisioni di massa e pena di morte. Viene pubblicato un libro (era ora) che racconta le tendenze filonaziste degli anni Trenta dei padroni americani di allora, i quali hanno mancato di poco l'eliminazione di Roosevelt (il libro di Thomas Snegaroff, "La Conspiration"). Ma fino a pochi anni fa, questa tendenza profonda era stata tenuta a bada, in un certo senso repressa, dal momento che gli analisti politici negli Stati Uniti non credevano, neanche per un momento, a causa delle tendenze demografiche e dell'importanza dell'immigrazione, che i repubblicani potessero tornare al potere. Pessima analisi. Tornarono, e sotto una luce ancora più oscura e fascista. Il punto di svolta venne segnato dal tentato assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Nessuna democrazia occidentale ha mai sperimentato questo: un leader che non esita a lanciare i suoi sostenitori all'attacco delle istituzioni, anche a costo di provocare morti. Il secondo mandato di Trump, è stato anche peggiore del primo: un'organizzazione metodica ha preso il posto di quella che allora era solo un'improvvisazione. Non tutti i sostenitori del trumpismo sono d'accordo tra di loro sulla sostanza, ma lo sono sulla forma: la democrazia, se si rendesse necessario a causa degli ostacoli giuridici che potrebbe opporre ai progetti di oligarchi e predatori, deve essere abolita. E di fronte a questo, sentiamo che ci rode come un sentimento di impotenza. Abbiamo creduto in una forma di razionalità, ci siamo rassegnati ad affrontare i problemi socio-economici sotto una luce quasi scientifica, e ora vediamo che le esplosioni di passione stanno prevalendo tutto intorno a noi, e soprattutto negli Stati Uniti. La ragione ci aveva insegnato che la guerra non sarebbe tornata in Europa, poiché eravamo persone ragionevoli, e tutto poteva essere negoziato. Nel 2022, Putin non ha esitato a lanciare le sue forze armate, per quanto impreparate, nelle campagne e nelle città ucraine, e questo sta continuando ogni giorno. Gli "occidentali" avevano creduto di poter affrontare saggiamente i problemi del Medio Oriente, Obama aveva lavorato con delicatezza in modo da portare i leader israeliani a posizioni concilianti nei confronti della Palestina, consigliando loro, tra l'altro, di fermare gli insediamenti in Cisgiordania, ma ora ci viene detto che questo è stato un errore, dato che avrebbe dato vane speranze ad Hamas, che poi avrebbe così finito per commettere l'insensato crimine del 7 ottobre. Siamo pertanto disarmati, impotenti. Sembra che non ci sia razionalità nel mondo. O se c'è, il nostro cervello non sa proprio come abbracciarlo nella sua complessità. Ecco che poi arriva l'intelligenza artificiale. L'ultimo miraggio apocalittico di avere un'intelligenza che, almeno, sarebbe in grado di trovare le risposte alle nostre domande. Questa intelligenza ha come caratteristica principale quella di essere non umana.. e questo proprio nel momento in cui abbiamo come la sensazione di star morendo proprio a causa della mancanza di umanità. Tutto questo, è sicuramente, agghiacciante. Eppure ci sono ancora alcuni di noi che si aggrappano al potere delle idee progettate da e per gli esseri umani... Resisteremo a lungo? La lettura di Marx e/o di Freud ci sembra naturalmente rimanere all'ordine del giorno, ed è ancora necessario rendere giustizia a coloro che stanno ancora cercando di far emergere ciò che più probabilmente ci dà spunti di riflessione sul nostro presente. I filosofi che hanno cercato, alla fine del XX secolo e all'inizio del XXI secolo, di avanzare le idee di emancipazione sono tuttora leggibili. Non lasceremo che essi vengano bruciati e calpestati dai censori d'oltreoceano, e dai loro emulatori da questa parte dell'oceano. Possono ancora essere utili. Fino a quando forse un'intelligenza artificiale non troverà i mezzi per convincerci del contrario... Per il momento, non so come potrebbe fare...

   Le recenti letture mi hanno messo sulla strada di una possibile e persino necessaria (ri)lettura di Jacques Derrida. Quella che incarna il diavolo agli occhi di molti americani (che a quanto pare hanno sofferto per troppo tempo della "arroganza della teoria francese") e di alcune persone che qui non hanno capito nulla del concetto di decostruzione (aiutati in questo un po' da alcuni attivisti troppo entusiasti della causa "decostruzionista") e che vorrebbero abbandonarla al rogo. Derrida ha scritto "Gli spettri di Marx". Voglio tornare proprio su questo punto. Questo libro è analizzato e criticato in modo costruttivo – e quindi non... decostruttivo! – da Moishe Postone, in un suo articolo pubblicato su "La société comme moulin de discipline", edito da questa sempre valorosa casa editrice con sede ad Albi, e che è diretto da Clément Homs: "Crise & Critique". Postone è uno di quei pensatori critici relativamente sconosciuti nel nostro paese (era canadese e insegnava all'Università di Chicago) che sono stati oscurati dal pensiero acritico che regna nei circoli accademici e mediatici, anche quando possono sembrare ben intenzionati (ma non è mai con buone intenzioni che si raggiunge la correttezza del pensiero). Postone cita Derrida, gli è grato per aver detto cose su Marx, che in fondo sono molto vicine a quelle che ha detto lui stesso, mentre rimprovera al filosofo della decostruzione di non essersi spinto abbastanza lontano, ed essere rimasto inchiodato a un'interpretazione di Marx un po' troppo vicina a quella di Althusser; cosa che ovviamente lo porta a fraintendere il Marx del I Libro del Capitale, o dei Grundrisse. Gli rimprovera, ad esempio, di «riprendere l'idea secondo cui la categoria del valore d'uso sia stato il punto di vista della critica di Marx nel Capitale e che, quindi, la sua critica sia fatta dal punto di vista ontologico della materialità, della presenza», cosa che invece Postone contesta, vedendo nel valore d'uso e nel valore di scambio semplicemente quelli che sono sempre due momenti del movimento del Capitale, non essendo il valore d'uso un polo ontologico contrapposto a una categoria astratta. Naturalmente, è del tutto fuori questione affermare che Derrida sia stato un "marxista", non più di quanto lo sia stato Postone: come accennato in precedenza, il marxismo è un'ideologia, in gran parte obsoleta, a cui dobbiamo molte sofferenze, massacri e fallimenti. Ma, come ha detto Derrida, dato il crollo del comunismo europeo e la dissoluzione degli apparati ideologici marxisti, appropriarsi di un Fantasma di Marx, forse ci viene reso più facile. Marx è morto, il comunismo è crollato; cosa c'è di più allettante che far parlare i fantasmi?

  Qui, potremmo seguire Derrida, opponendo gli spettri all'Intelligenza Artificiale. Affidarsi all'IA per pensare il mondo, incontrerà sempre un grosso ostacolo: essa considererà l'intero equilibrio di potere sul pianeta, come se fosse un vasto gioco, come una sorta di generalizzazione su larga scala del gioco degli scacchi (laddove sappiamo che l'IA ha già dato prova di sé), ma probabilmente non è pronta a integrare ciò che non entra in gioco, e che non vi entrerà mai, ossia ciò che rimane improgrammabile e non sussunto da delle regole: in primo luogo, l'azione dei popoli, i movimenti di massa. Chi avrebbe previsto le attuali rivolte della cosiddetta "Generazione Z", avvenuta in molti paesi contemporaneamente (Nepal, Marocco, Madagascar...) per esempio? Possiamo prevedere le odissee nello spazio, basandoci sulla tecnica e sui giochi astratti, ma non possiamo mai prevedere le grandi reazioni che possono verificarsi inaspettatamente, da parte di popolazioni che improvvisamente (e talvolta violentemente), si oppongono l'una all'altra. E in secondo luogo, l'inquietante, a volte inaspettato, incontrollabile ricordo del passato: questo è ciò che esprime la nozione di Spettro. E Derrida ci rimanda alla figura che, tra tutte, la simboleggia al meglio: quella di Amleto. Ah, l'amore di Marx per Shakespeare! Questo è risaputo. Quindi, l'intelligenza artificiale alla fine rimuoverà questi fattori di disturbo (o almeno consiglierà di farlo)? Il peggio, ahimè, non è mai impossibile (ma nemmeno certo). Ammettiamo che un mondo senza esseri umani e senza spettri sarebbe comunque più facile da governare. Il tempo è andato fuori sesto. In "Spettri di Marx", Derrida commenta a lungo questa affermazione di Amleto. Che cosa intende? Egli elenca diverse traduzioni in francese, che sono state date nel corso del tempo. L'ultimo, di Yves Bonnefoy, naturalmente è l'ultimo: "Le temps est hors de ses hinges", ma anche quelli che lo hanno preceduto: "Le temps est détraqué" (Jean Malaplate), "le temps est à l'envers" (Jules Derocquigny), e tra cui quello stupefacente di Gide: "Cette époque est déshonorée". Egli dice che quello di Bonnefoy sembra il più sicuro: «mantiene aperto e sospeso, come nell'epokhè di questo medesimo tempo, la più grande potenzialità economica della formula». Ma tuttavia quello di Gide ha il suo merito, quello di dare un significato più etico. o politico. a questa espressione. «Si passa», dice, «dall'inadeguato all'ingiusto». Ma come continua questa proposizione in Amleto? Con queste parole: «Oh cursed spight, that ever I was borne to get it right». In altre parole, Bonnefoy traduce di nuovo: «O maledetto destino che vuoi che io sia nato per riunirmi a lui!» Il che significa che Amleto non piange tanto per l'orrore di questo tempo, quanto per questo disastroso destino per cui gli  gli tocca rimettere il tempo sui suoi cardini. Certo, la parola vale per il nostro tempo, forse più che mai, ma allora chi è che viene a ricoprire questo ruolo che era stato assegnato ad Amleto? Ed è qui, naturalmente, che Derrida invoca lo spettro di Marx. Di nuovo lui! dirà qualcuno. Non è stato forse poco fa che avremo finito di invocarlo, lui, il grande uomo barbuto sul quale si sarebbe già basato tutto un passato di morti e di privazioni della libertà? Senza dubbio, ciò è perché non abbiamo compreso nulla di Marx. Ci sarebbe un «vero Marx», schiacciato sotto tonnellate di spazzatura, di slogan, di associazioni partigiane che avrebbero creduto di trovare in lui quanto basta loro per provvedere a tutta quella massa di rancore e di spirito di vendetta accumulatisi nella storia? «Se il diritto dipende dalla vendetta, come sembra lamentarsene Amleto - prima di Nietzsche, prima di Heidegger, prima di Benjamin - non si può poi sperare che un giorno, un giorno che non apparterrebbe più alla storia, un giorno quasi messianico, una giustizia sarebbe infine sottratta alla fatalità della vendetta?»

  Un giorno che non apparterrà più alla storia... Questo è qualcosa su cui riflettere. Infatti, se il tempo è andato fuori dai cardini, ciò che si dice del tempo può essere detto anche della storia. E che cosa deve fare Amleto, se non reintrodurre un cardine in questa discordanza? Senza dubbio, Derrida pensa che questo sia il caso di Marx. Ed è qui che entra in gioco il messianico del pensiero marxiano, già citato in autori come Benjamin. Io, che sono uno sciocco, ho sempre avuto la tendenza a confondere il messianico con il messianismo, formandomi un'immagine terrificante, e necessariamente negativa, di quest'ultimo, mentre invece la prima parola ci porta solo a pensare che un giorno forse (forse al di fuori della storia) sorgerà finalmente uno status del mondo, un modo di porsi in cui regnerà la giustizia. Tutto il primo capitolo del libro di Derrida ruota attorno a questa questione della giustizia a cui aspiriamo e che non potrà mai risiedere in una forma storica stabilita, strutturata, con le sue regole, le sue leggi, la sua ingiunzione di sottomettersi. È questo su cui si sbagliarono i successori di Marx, i "marxisti", i quali credevano fosse possibile costruire un impero governato dalle "leggi del marxismo" mentre di certo essi non potevano fare altro che riprodurre e ripetere ancora peggio la forma degli imperi e degli imperialismi che avevano allora davanti agli occhi; in altre parole, una riproduzione mimetica del capitalismo, con l'unica correzione per cui stavolta si sarebbe trattato di un "capitalismo di Stato". Gli schiavi di color marrone, nel momento in cui fuggirono dalla costa dell'isola di Reunion per rifugiarsi negli isolotti, questi siti che si trovavano nei luoghi vertiginosi al centro dell'isola, si riorganizzarono tra loro in una società in modo da  poter vivere insieme, e così facendo, non riprodussero niente di meglio che l'immagine della società da cui erano fuggiti (sono io che lo dico, naturalmente, a seguito di un viaggio che ho fatto una volta sull'isola di Reunion; non è stato Derrida a farlo). Ora, il messianico è invece «la venuta dell'altro, la singolarità assoluta e inattingibile di ciò che viene come giustizia. Un tale messianico resta, crediamo, un marchio incancellabile - che non si può né si deve cancellare - dell'eredità di Marx, e senza dubbio dell'ereditare, dell'esperienza dell'eredità in generale. Ne verrebbe altrimenti ridotta l’eventualità dell'evento, la singolarità e l'alterità dell'altro. Altrimenti la giustizia rischia ancora di ridursi a regole, norme o rappresentazioni giuridico-morali, in un inevitabile orizzonte totalizzante». In altre parole, – traduco – il totalitarismo.

  Il marxismo e il discorso "di sinistra" si logorano perché rimangono centrati sulle categorie di un altro secolo: le classi sociali in situazione di lotta fin dall'inizio dei tempi, la categoria del lavoro contrapposta a quella del capitale, le fratture sociali percepite dal punto di vista delle disuguaglianze dovute al «potere d'acquisto», il dominio ridotto allo sfruttamento di una classe umana da parte di un'altra, L'aspirazione a un futuro ridotto a "più mezzi", "più risorse", "più ricchezza", "più di tutto"... in altre parole, categorie che incarnano una visione statica legata a un mondo la cui storia avanzerebbe come se fosse una linea quantitativamente orientata: tutto il contrario della storia vista invece come un tempo disgiunto, «fuori dai suoi cardini»; tempo che potrebbe anche permettere, in quanto tale, di lasciar entrare, in qualsiasi dei suoi momenti, una delle figure spettrali invocate da Derrida, come per esempio l'apparenza della giustizia. Un mondo senza storicità, quindi, perché senza evento. Dove il futuro sarebbe solo la continuazione del presente. Però, "di più" o "meglio", anche se siamo consapevoli che i vincoli strutturali specifici del capitalismo impediscono tale progresso (basti pensare a quello che è successo quando abbiamo avuto dei governi di sinistra, e alla delusione che ne è seguita a causa della loro incapacità di onorare le proprie promesse, date queste costrizioni a cui non potevano sottrarsi). [*1] Visto che, inoltre, i limiti stessi del mondo in cui viviamo annientano le nostre (sebbene legittime) preoccupazioni di miglioramento e di espansione. Usiamo categorie che ci sembrano immutabili, scolpite nella pietra dalla doxa marxista, quando invece dovremmo sapere – ed è lo stesso Marx a dirlo – che esse dipendono dalla storia, e che non possiamo concepirle come se fossero "trans-storiche". Ad esempio, il lavoro non è un'attività indipendente dalla storia, che sarebbe rimasta immutata da tutta l'eternità, la mera descrizione di una relazione tra l'uomo e la natura. Al contrario, esso cambia le sue caratteristiche con i tempi, ed è, sotto il capitalismo, un rapporto sociale specifico. Tuttavia, il Marx maturo non voleva fare altro che limitarsi allo studio delle relazioni sociali specifiche del capitalismo. Le categorie utilizzate: merce, valore, lavoro, sono quindi tutte storiche. La nozione di storia - e anche quella di tempo (astratto) - sono esse stesse storiche. Ciò richiede uno sforzo costante di adattamento, di teorizzazione adeguata a un determinato periodo. Tanto più che ogni teoria coerente che fa parte di questa prospettiva immanente dell'analisi, deve poter essere in grado di venire applicata a sé stessa, in quanto è essa stessa dipendente dalla storia che pretende di descrivere. «Ma come possiamo essere in ritardo sulla fine della storia?» -  Derrida risponde: «Questione seria, perché obbliga a riflettere ancora, come si fa da Hegel in poi, su ciò che accade, e merita il nome di evento, dopo la storia; e a chiedersi se la fine della storia non sia solo la fine di un certo concetto della storia». Oppure, oserei dire: di un certo periodo della storia, dopo il quale qualcosa ne sarebbe derivato. Cosa? Non lo sappiamo ancora. Siamo ancora nel capitalismo, o quantomeno nel capitalismo come percepito da Marx? In altre parole, il lavoro è sempre lo stesso? Le nostre categorie sono adatte al mondo di oggi? Domande che non dovrebbero essere prese alla leggera. Alcuni hanno sostenuto che siamo già nel post-capitalismo. Altri hanno notato come la nostra attuale formazione sociale abbia, in alcuni dei suoi aspetti, caratteristiche dei periodi pre-capitalistici, come quello ecclesio-medievale. Quest'estate, a Montferrier, nell'ambito di un seminario di "WertKritik", un giovane sociologo, Christophe Magis, analizzando l'economia delle piattaforme (Amazon, Netflix, Facebook, Tweeter/X, ecc.) ha menzionato la teoria secondo cui stiamo assistendo a una rinascita del feudalesimo, un «capitalismo tecno-feudale» basato su un rapporto di proprietà diretto e non più mediato da una classe sociale, e su un tipo di prelievo di valore quasi "signorile", che apre la strada a una nuova schiavitù e all'assenza di libertà di lavoro. Secondo lui, questo significava dimenticare che ci sono e ci sono sempre state sacche di pre-capitalismo, le quali aiutano il capitalismo a  esistere (il lavoro delle donne, ecc.). Secondo lui, ci troviamo infatti in un "capitalismo delle piattaforme", definito attorno ad attori giganti, intermediari sul mercato multi-verso (tra venditore e acquirente) e basato sull'effetto rete. Le modalità di acquisizione del valore cambiano semplicemente forma, a seconda della fase del capitale e sarebbe vano credere che le cose stiano "migliorando". Ragion per cui ci troveremmo ancora sotto il sigillo del capitalismo, qualunque forma assuma questo giogo, e saremmo sempre soggetti a tale movimento di automatismo, il quale cerca di creare e catturare valore, anche se tale valore risiede in noi, in quanto pubblico prigioniero dei canali di notizie continue, o in quanto agenti nostro malgrado delle transazioni che avvengono sui social network.

Alain Lecomte - Pubblicato il 14 ottobre 2025  su Rumeur d'espace -

NOTA: [*1] Questa impossibilità dà origine a due atteggiamenti: l'effimera credenza in qualche miracolo economico causato da una presunta padronanza dell'economia da parte di certi attori politici (ad esempio il macronismo), oppure il rifugiarsi in avventure populiste che fanno rivivere quei feticci su cui poggerebbero le "vere" responsabilità di tale impedimento: da un lato, la presenza degli "stranieri" e il rifiuto degli "altri", e dall'altro lato, un ritorno al classismo e alla magia della lotta di classe.

 

lunedì 20 ottobre 2025

Il Futuro della Fine…

Consumare il Futuro
- di Robert Kurz -

La crisi - che sia ancora contenuta o che si trovi già in un ulteriore aggravamento -  è essenzialmente una crisi del debito. Ma che cosa significa questo?
In tal modo, il capitale produttivo viene ottenuto grazie al denaro del sistema bancario. Pertanto, di conseguenza, occorre che esso condivida i propri profitti con quel Capitale che gli addebita gli interessi, pagando così il prezzo di quel denaro che ha preso in prestito. Però, se il il capitale produttivo non ottiene i profitti sufficienti, ecco che si verifica una crisi, sia per il debitore che per il creditore. Il «pregiudizio popolare» (Marx), ama incolpare di tutto questo, proprio quel Capitale finanziario, ritenuto "avido" a causa del fatto che vuole arricchirsi in maniera improduttiva. Ma a questo punto la domanda diventa perché il capitale produttivo ha bisogno di prendere in prestito quel denaro che gli viene prestato in modo da poter così pagare i mezzi di produzione?!?? Ed è qui che risiede il problema, e non certo nel  presunto "male" del capitale finanziario.
La concorrenza, in quanto tale obbliga a che ci sia un aumento incessante della produttività, e questo avviene a partire dal fatto che ciò viene reso possibile solo grazie all'utilizzo di un aggregato scientifico e tecnico, il quale, a sua volta, è dev'essere anch'esso in continua crescita. Marx ha dimostrato il fatto che in questo modo aumenta sempre più quella parte di capitale reale morto, il quale non crea alcun nuovo valore relativamente a quella parte di forza lavoro che continua a essere l'unica in grado di poter produrre valore aggiunto. Anche le statistiche borghesi ci dicono la stessa cosa, nel momento in cui si rendono conto che, con l'aumentare dell'intensità del Capitale, anche il costo di ogni posto di lavoro aumenta incessantemente. In altre parole, quelli che sono i "pre-costi" morti, necessari alla produzione di capitale, non possono più essere finanziati a partire dagli attuali profitti. Da qui, il ricorso al credito, in modo da poter così pagare il capitale reale, sempre più crescente. Nel XX° secolo, il problema del debito si è esteso, partendo dal capitale produttivo fino ad arrivare a investire i bilanci dello Stato, e alla fine anche quelli dei privati. Perfino la spesa pubblica per le infrastrutture e per i consumi privati, ha cessato di essere finanziabile solo per mezzo delle entrate correnti effettive, e ora può essere finanziata soltanto a credito.
Comunque sia, il mega-indebitamento a tutti i livelli non rappresenta altro che l'anticipazione di quelli che saranno i profitti a venire, in modo da poter così pagare salari e tasse sugli effettivi processi produttivi. Questo «consumo di futuro» arriva a diventare una crisi generale allorché essa viene a essere spinta troppo in là, arrivando così a rompere le catene del credito. E la cosa, riguarda e investe tutti gli Attori, ivi compreso lo Stato, che ora fa il pianto greco sui «peccatori del deficit» e su quelli che sarebbero dei «discutibili comportamenti finanziari». Ci vengono a dire che non si dovrebbe vivere a spese delle future generazioni, che ci sarebbe bisogno di una nuova «morale del padre di famiglia», il quale dovrebbe avere la ferrea volontà di risparmiare. Ma in realtà non vengono consumati beni alimentari, vestiti, alloggi e attrezzature per il futuro, quanto piuttosto crescenti e sempre più illusori redditi futuri, allo scopo di poter continuare a utilizzare oggi le risorse materiali disponibili in abbondanza. Questa assurdità mette in evidenza il fatto che il capitalismo è un fine in sé, volto solo ad aumentare astrattamente il denaro, e che non ha nulla a che vedere con un efficiente soddisfacimento dei bisogni, come i suoi apologeti pretendono che sarebbe. Il denaro non è una vera e propria risorsa, bensì la forma feticista di quelle che sono le risorse reali. E la crisi globale del debito non è altro che il risultato di un disperato tentativo che - attraverso un «consumo di futuro», gonfiato per mezzo di guadagni in denaro che non ci saranno mai - si riesca così a mantenere quelle che sono le forze produttive entro i limiti del fine in sé capitalistico, sebbene queste siano già cresciute, arrivando ormai fino a raggiungere e superare, da molto tempo, tali limiti. Si pretende che ora si debba vivere peggio, e che si debbano disattivare delle risorse intatte, tra cui l'assistenza sanitaria, proprio perché il capitalismo ha già consumato il suo futuro. La soglia del dolore è già stata raggiunta, e non solo in Grecia. Ma la coscienza sociale non ha ancora imparato a usare le risorse "inutilizzate" a partire da una logica diversa.

- Robert Kurz -  Pubblicato su Neues Deutschland il10 gennaio 2011 -

fonte: http://www.exit-online.org/

sabato 18 ottobre 2025

JAGGERNAUT

 

Il capitalismo, da una metafora all'altra: Marx, il vampiro e il carro processionale Jaggernaut
- di Collettivo di Crisi e Critica -

Perché Marx parla del capitalismo come di un "Jaggernaut"? In origine, era questo il nome del carro processionale della dea indù Vishnu. «Il culto dello Jaggernaut» – scrive Marx – «comprendeva un rituale assai pomposo, e fu esso che diede origine a un'esplosione di fanatismo che si manifestò in suicidi e in mutilazioni volontarie. In occasione di queste grandi feste religiose, i fedeli si gettavano sotto le ruote del carro che trasportava la statua di Visnù-Jaggernaut». Una metafora questa, che Marx userà in diverse occasioni, anche ne "Il Capitale", al fine di sottolineare la dimensione sacrificale del capitalismo; ma anche per mostrare il suo funzionamento in quanto astrazione reale – un feticismo, che no è ideale, bensì astratto-reale – descrivendo in tal modo il capitalismo in quanto... metafisico-reale: «Dimenticano che oggi, al posto che un uomo solo, a essere gettati sotto le ruote dello Jaggernaut capitalistico, sono il capofamiglia, insieme a sua moglie e a forse 3 o 4 figli» . Certo, la frase di Marx profuma del tempo in cui il padre era il "capofamiglia", e anche il corteo dello Jaggernaut potrebbe essere, almeno in parte, una proiezione fatta dagli occidentali, o perfino un errore. Simile a quello in cui gli esploratori del XVI secolo credevano di scoprire nei nuovi mondi, quelli erano i luoghi reali delle immagini delle loro mitologie, e le incarnazioni delle loro stesse paure; così oggi la figura occidentale dello Jaggernaut diventa l'idea della barbarie vista come fantasia moderna, come proiezione di un qualcosa della società moderna che alla fine ci insegna assai più su di essa di quanto faccia sulla società antica. Tuttavia, ciò non toglie nulla al potere della metafora. Dopotutto, quando parliamo della "Torre di Babele", non ci interessa certo di cosa sia realmente accaduto in Mesopotamia, 5000 anni fa...
Per la critica dell'economia politica, questa metafora vuol significare il passaggio, dal paradigma incentrato sullo sfruttamento, al paradigma del feticismo e dell'astrazione reale. In particolare, esso implica una rottura con la problematica metafora del vampiro, usata fin dall'Ottocento per descrivere il capitalismo, e che oggi si riferisce alla finanza, la quale vampirizza la cosiddetta "economia reale". Il vampiro, che rappresenta il denaro e i proprietari del denaro (i capitalisti), verrebbe a succhiare, visto come esteriorità, il lavoro vivo considerato come quel cemento naturalizzato che a sua volta si identifica con il lavoro, con le forze produttive, con l'industria, con il valore, con il sangue, o con la comunità culturale (la nazione). Una simile metafora - caratteristica di ogni anticapitalismo tronco -  vuole solo insistere sulla presunta innocenza della vittima, e sul lato extra-naturale del carnefice. Finisce così per mettere al centro della sua rappresentazione tronca del capitalismo le classi sociali, categoria che in realtà deriva dal rapporto di feticcio, ma che invece, nel marxismo tradizionale e nell'anticapitalismo tronco, vengono erroneamente scambiate per essere dei soggetti non aprioristici. Pertanto, così facendo, tutte le categorie riproduttive del capitale vengono sussunte sotto la ragione ultima di una presunta soggettività sociologica, che vampirizza la ricchezza capitalistica astratta (valore) e la sua produzione (lavoro, industria). Questa metafora continua a essere ancora immediatamente ambigua, e questo perché può essere applicata a qualsiasi contenuto. Può, ad esempio, essere usata per designare le "nazioni bianche" che vampirizzano le "nazioni nere", oppure per gli immigrati che vampirizzano la società ospitante. In teoria, in tal modo ci concentriamo sull'idea secondo cui il capitalismo sarebbe un semplice sistema per la distribuzione della ricchezza sociale, le cui condizioni di produzione non vengono quindi mai messe in discussione. Così, nel nome del polo naturalizzato (lavoro, "economia reale", nazione, ecc.), che produce questa ricchezza, i rapporti ineguali di distribuzione diventano l'oggetto esclusivo di una critica sociale che si degrada rapidamente finendo così in una critica morale basata sulla denuncia della "avidità" di pochi. Finendo così per mancare il punto, dando molto spazio a delle rivendicazioni che alla fine si limitano solo alla sfera del consumo, ai problemi della giustizia, o del riconoscimento distributivo.
Al contrario, lo Jaggernaut simboleggia il "soggetto automatico" (Marx) del valore che schiaccia tutto in quello che è il suo cammino; metafora questa, della "vera inversione" della vita sociale, la quale costituisce il cuore dell'oscurità della vita sotto il capitalismo. È la metafora di un modo di costituzione dell'alienazione moderna, in cui ogni attività sociale prende realmente la forma del suo opposto, il valore, la forma di quello che è il fine astratto in sé della moltiplicazione del denaro, e pertanto è contaminata da una vera e propria "falsità ontologica". In questa inversione, una cosa sensibile, il corpo di una merce – il valore d'uso – finisce per rappresentare qualcosa di soprannaturale, di "soprasensibile" , un'astrazione puramente sociale: il valore; mentre il lato concreto del lavoro svolto, diventa «la forma fenomenica del suo opposto, ossia, del lavoro umano astratto» (Marx, Il Capitale, I, p. 67); La dimensione individuale dell'attività costituisce la forma fenomenica del lavoro sociale, e diventa indifferenziata e intercambiabile.
Jaggernaut, è questo il "mondo capovolto" dove le relazioni oggettivate, che costituiscono il processo di valorizzazione, comandano (sotto forma di merci, di denaro e di capitale) gli individui, e si ergono di fronte a loro, quasi fossero delle divinità barbare che esigono nuovi sacrifici umani. Jaggernaut è questa strutturazione delirante e alienata delle relazioni sociali, nella quale la logica oggettivata della merce, del denaro e del capitale costituisce, per gli individui, una forma di dominio moderno specifico, impersonale, astratto, interclassista (un «dominio senza soggetto», dice Kurz!) che conficca le punte acuminate delle sue ingiunzioni feticistiche fin nel vivo e nel profondo della loro carne. Jaggernaut, è questo regno metafisico-reale, dove «è il processo di produzione che domina gli uomini, e non il contrario» (Marx, Il Capitale, I, p. 93). Una realtà sociale rovesciata, nella quale il soggetto reale della produzione capitalistica non è costituito né dalle "classi dominanti" né dal proletariato, bensì dall'astrazione reale del valore stesso, il quale riduce gli attori umani a degli esecutori, le cosiddette «maschere di carattere» (Marx), e le classi di quella che è la loro funzione. Come i fanatici che trainavano il carro processionale di Vishnu, il quale doveva crudelmente schiacciarli sotto le proprie ruote, a loro volta, gli individui sotto il capitalismo vengono sussunti sotto quei rapporti economici che essi stessi costituiscono, al fine di non essere altro che delle personificazioni transitorie, nella forma delle diverse  "maschere di carattere", le quali poi diverranno solo un altro nome da dare alle loro vite mutilate. Individui che, in quanto suoi "agenti", in quanto  sue "guardie", suoi "ufficiali e sottufficiali", i suoi "funzionari" e i suoi "fanatici", come li chiamava Marx, trainano lo "Jaggernaut capitalistico" fino a che lui gli schiacci. «Non lo sanno, ma lo fanno». Si tratta di una relazione tra individui, di un legame sociale alienato, di un modo che abbiamo di relazionarci con gli altri senza saperlo. Bisogna riconoscere una simile verità: siamo noi, questa relazione. «E continueremo a esserlo fino a ché non saremo più nient'altro, o fino a ché non avremo creato quelle istituzioni che stabiliranno una vera comunità e una vera società umana» (Gustav Landauer). Jaggernaut, è la relazione sociale feticistica che deve essere abbattuta, e che sarà distrutta solo quando entreremo in altre relazioni sociali.

- da "Make Critical Theory great again" (Editorial Jaggernaut n°1) – Editions Crise & Critique  -

fonte: @Palim Psao

venerdì 17 ottobre 2025

Provocazioni?: Zizek gioca alla guerra con Jameson !!

Per una militarizzazione contro Trump
- di Slavoj Žižek - Pubblicato il 16/10/2025 -

  Martedì 30 settembre 2025, a Quantico, il Segretario alla Difesa Pete Hegseth ha pronunciato un lungo e strano discorso, rivolto a tutti i vertici dell'esercito americano arrivati da tutti gli angoli del mondo. Ha presentato la sua visione di come dovrebbero essere i militari, e di come essi dovrebbero agire, offrendo poi una conclusione  piuttosto drastica: chi non è d'accordo, si dimetta! 
«Le giuste politiche, secondo Hegseth, che fanno parte di quella che deve essere una più ampia campagna contro tutti i precedenti sforzi volti a promuovere quella diversità, o flessibilità, nelle truppe, che lui considerava "woke", sono state ufficialmente specificate nelle dieci direttive che sono state inviate al comando militare mentre egli parlava: nelle sale del Pentagono non ci dovrebbero stare né "truppe grasse" né "generali e ammiragli grassi", ha specificato Hegseth. Le truppe devono essere adeguatamente rasate, e le Forze Armate faranno assai poche - preferibilmente nessuna - eccezioni dovute a motivi religiosi o medici.  Per le posizioni di combattimento, verranno stabiliti soltanto degli standard fisici maschili, e se questo implicherà l'assenza di donne in queste funzioni, "sarà così"!» [*1]
Come molti ufficiali presenti hanno in segreto notato, una tale immagine del soldato è molto più teatrale di quanto lo sia invece una fedele rappresentazione della vita militare "così com'è". Il desiderio di Hegseth di avere dei "veri soldati", fa risorgere quella che era una vecchia immagine di soldato la quale però non ha più alcun posto nella guerra odierna, condotta da droni e missili, e per lo più controllata da dei nerd che stanno dietro uno schermo; né tantomeno, nel mondo di oggi, dove abbiamo appena sentito parlare della prima star che è stata generata dall'intelligenza artificiale, "Tilly Norwood", e che è già la protagonista di una serie di sketch creati dall'intelligenza artificiale di "AI Commissioner", oltre che di vari contenuti pubblicitari e relativi ai social media. Paradossalmente, l'immagine del soldato di Hegseth, costituisce una versione maschile di Tilly Norwood, una sorta di farsa immaginaria che potremmo chiamare  col nome di "Till Norwood". Ma in questa fantasia, a ancora  più importante è la descrizione che Hegseth fa delle azioni che questi nuovi soldati dovrebbero compiere:
«Abbiamo scatenato una schiacciante violenza punitiva contro il nemico. Né, tantomeno, combattiamo seguendo delle stupide regole di ingaggio. Le mani dei nostri combattenti sono libere di intimidire, demoralizzare, dare la caccia e uccidere i nemici del nostro paese. Basta, con queste regole di ingaggio politicamente corrette e autoritarie! Questa amministrazione ha lavorato duramente, sin dal primo giorno, per potersi sbarazzare della giustizia sociale, della correttezza politica e dei rifiuti tossici ideologici che hanno infettato il nostro dipartimento, in modo così da poter eliminare la politica, senza più avere alcun calendario identitario, o gli uffici per la diversità, per l'equità e per l'inclusione, con gli alti papaveri in costume. Niente più adorazione del cambiamento climatico, niente più divisioni, distrazioni o deliri di genere. Niente più macerie». [*1]  Potrebbe anche essere solo una coincidenza, ma è comunque importante notare come questo evento sia avvenuto solo pochi giorni dopo che Vladimir Putin ha firmato la legge che ritira la Russia dalla Convenzione Europea per la Prevenzione dalla Tortura e dalle Pene, o dai trattamenti inumani e degradanti. La decisione così formalizzata, costituisce un altro passo verso il completo disimpegno della Russia da quelli che erano i suoi impegni internazionali, e dimostra chiaramente il disprezzo che la Russia ha per la protezione dei diritti umani: ha vietato persino le visite ispettive nei centri di detenzione. Le principali vittime della decisione sono già, e lo saranno sempre di più, i cittadini russi. Secondo il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nella Federazione Russa, «la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti vengono usati con l'approvazione dello Stato, e vengono visti come strumenti per l'oppressione sistemica in tutta la Federazione Russa» e, naturalmente, anche in Ucraina. Legittimazione della tortura : è questa la versione russa di ciò che accade quando «i nostri combattenti vengono lasciati con le mani libere di intimidire, demoralizzare, dare la caccia e uccidere i nemici del nostro paese»...
   E chi sono questi nemici? Dopo Hegseth, è stato lo stesso Trump a salire sul palco e, chiacchierando ancora più a lungo, ha proposto di utilizzare le città americane come se fossero dei campi di addestramento per le Forze Armate. La sua affermazione centrale riguardava la necessità, per gli Stati Uniti, di usare la propria potenza militare al fine di contrastare quella che lui chiama "invasione interna", proprio come aveva fatto Steve Bannon per giustificare l'uso dei marines statunitensi contro i manifestanti a Los Angeles: «Dovremmo usare alcune di queste città pericolose come dei campi di addestramento per le nostre forze armate. Siamo sotto un'invasione interna. Non è diverso dal [combattere] un nemico straniero, ma per molti versi è anche più difficile, perché essi non sono in uniforme». Lo sappiamo da mesi: Trump prevede di usare l'esercito per "disciplinare" le grandi città controllate dal Partito Democratico (non solo Los Angeles, ma anche Chicago, New York, New Orleans...). Di questo piano, fa anche parte il processare e imprigionare dei nomi importanti del Partito Democratico, come Barack Obama e Gavin Newson; in breve, il piano è quello di criminalizzare gli oppositori politici, trasformare la lotta politica in diretta oppressione legale e militare. Nella sfera legale, Trump effettua delle vere e proprie purghe che farebbero sorridere Stalin: facendo emergere dei problemi nelle forze armate. Mentre la solita vecchia strategia del populismo di destra è quella di rischiare una guerra esterna in modo da poter imporre così l'unità patriottica in patria; quello che Trump invece sta facendo è quasi l'esatto opposto. Per quanto riguarda la politica globale, egli si presenta come se fosse un grande pacificatore (si vanta di aver fermato addirittura sette guerre, cercando di imporre la pace in Ucraina e in Medio Oriente), anche se la sua pacificazione solitamente viene sostenuta da dei brutali interventi militari locali o, quanto meno, da minacce militari (promette di rendere Gaza "un inferno" se il suo piano di pace non verrà accettato), oltre agli atti militari (Iran, minacce contro Gaza). Però, all'interno degli Stati Uniti, tuttavia, la percezione della situazione è quella di una guerra mortale, che richiede l'uso dell'esercito americano. Il paradosso non è necessariamente catastrofico: nella follia del mondo di oggi, potrebbe anche funzionare, almeno per un po'. È altrove che risiede il problema. Finora, sembrava che le unità speciali della Guardia Nazionale, sotto il controllo diretto di Trump, avrebbero portato a termine il lavoro, funzionando come un esercito privato che il presidente poteva usare quando e dove voleva, libero da qualsiasi controllo politico. Ora, Trump ha fatto un passo avanti cruciale: la Guardia Nazionale non è più sufficiente per affrontare il nemico interno, quindi è necessario politicizzare anche lo stesso esercito regolare. Se ascoltiamo i discorsi di Hegseth e di Trump, la prima cosa che salta all'occhio (o meglio, alle nostre orecchie) è il silenzio dei generali e degli ammiragli riuniti: nessun applauso che interrompa gli oratori, nessuna evidente reazione...

   E' facile capire questo silenzio: sebbene sia chiaramente uno strumento della sua politica globale, l'esercito americano - in particolare i suoi generali più importanti - desidera ardentemente salvaguardare un'immagine di neutralità politica, evitando perciò di immischiarsi in delle controversie politiche, rispettando la costituzione e obbedendo solo agli ordini legali. Ecco perché, nel 2019, quando Trump perse la rielezione, e affermò più volte che Biden non era un presidente legittimo, lanciando (non sempre) velati appelli ai suoi sostenitori a ribellarsi apertamente al potere statale, la leadership militare dichiarò invece pubblicamente di essere pronta a intervenire al fine di prevenire il disordine pubblico, vale a dire, in caso ci fosse qualsiasi tentativo di riportare Trump al potere con mezzi incostituzionali. Se seguiamo questa linea di ragionamento fino in fondo, bisogna considerare anche la possibilità che se Trump realizza il piano di usare l'esercito per combattere il nemico interno, l'esercito americano potrebbe sentirsi obbligato a intervenire direttamente e abbatterlo. È una prospettiva mozzafiato: un colpo di stato militare ci salverà dalla dittatura di Trump? Ma c'è molto di più da dire sul ruolo dell'esercito nella vita pubblica. Si sente spesso dire che la sinistra manca di una visione positiva per quella che dovrebbe essere una valida alternativa al populismo trumpista: bloccata nella ripetizione di vecchi modelli, in particolare quello dello Stato sociale socialdemocratico, la sinistra ha più volte fallito in tal senso. Che ne dite, allora, di fare un passo indietro rispetto alla paura della militarizzazione; la quale paura è una caratteristica costante di tutte le utopie di sinistra? E immaginassimo l'utopia della completa militarizzazione della società, vedendola come l'unica visione realistica di emancipazione? Prima di liquidare questa idea come se fosse un paradosso postmoderno della "quinta internazionale", ricordate che è esattamente questo ciò che ha fatto Fredric Jameson nella sua "Utopia americana". L'idea gli venne quando pensò alle elezioni presidenziali americane del 1952, quando il democratico Adlai Stevenson sostenne l'assistenza sanitaria gratuita e universale, e Dwight Eisenhower rispose: «Se qualcuno vuole l'assistenza sanitaria gratuita, che si arruoli nell'esercito!» La reazione di Jameson fu allora: «beh, perché non proporre allora l'esercito, come modello di società universale?» Jameson, non solo respinge le due principali forme di socialismo di Stato del XX secolo (lo Stato sociale socialdemocratico e la dittatura del partito stalinista), ma, per misurarne il suo fallimento,respinge anche il parametro utilizzato dalla sinistra radicale: la visione libertaria del comunismo come libera associazione di moltitudini sociali organizzate in consigli, vale a dire, come democrazia diretta non rappresentativa e sulla base dell'impegno permanente dei cittadini. Secondo questa regola, la militarizzazione globale sarebbe ovviamente inaccettabile per il nostro comune senso democratico; non sorprende che - nel dibattito su Jameson alla City University di New York - Stanley Aronowitz abbia cercato disperatamente di ridurre l'idea utopica di Jameson, riguardo la coscrizione universale, a una democrazia diretta non rappresentativa, nella quale le persone (i soldati) si organizzano in consigli, così come avviene negli eserciti popolari ribelli. Questa democrazia diretta rappresenta l'apice della politicizzazione dell'intera società, e questo nel mentre che Jameson sottolinea ripetutamente come la sua idea di coscrizione universale miri proprio alla scomparsa della dimensione politica in quanto tale: tutto ciò che rimane, nella società utopica di Jameson, è un'economia organizzata militarmente (vale a dire, non politicamente), senza che ci sia la necessità di un impegno permanente della popolazione, insieme all'immenso dominio dei piaceri culturali, altrettanto non politici, dal sesso all'arte.
    Come sottolinea Jameson, ciò che rende attraente questo modello è proprio l'impenetrabile aspetto passivo-burocratico della vita militare: in essa non ci sono elezioni pubbliche democratiche; non è mai molto chiaro il modo in cui qualcuno, e non chiunque altro, diventi un generale di alto rango... All'utopia di Jameson è stata spesso opposta una contro-argomentazione piuttosto stupida: ma l'esercito non presuppone che quantomeno ci sia la minaccia della guerra? La risposta è chiara: ma non è forse la nostra stessa sopravvivenza a essere minacciata dalla crisi ecologica e dall'espansione del dominio dell'Intelligenza Artificiale, per non parlare dello scoppio effettivo di una guerra globale? Per ognuna di queste situazioni (e soprattutto contro una combinazione di tutte esse), sarà necessario un forte potere centralizzato, un potere pronto ad agire, libero da lunghe e complesse procedure democratiche. In una situazione del genere, non solo ci sarà bisogno di una struttura simile a quella di un esercito, ma anche di un forte capo al comando: perché?  Ciò che caratterizza un vero leader è - tra le altre cose - la capacità di prendere decisioni difficili, nelò momento in cui non è possibile evitarle: quale gruppo di soldati sacrificare sul campo di battaglia, quale paziente salvare quando non ci sono abbastanza risorse, ecc.; o, come dice il vecchio dottore nella serie TV "New Amsterdam": «I leader prendono decisioni che impediscono loro di dormire la notte. Se dormi tranquillamente, non sei uno di loro». Paradossalmente, quegli eccessi che i meccanismi della rappresentanza politica elettorale non sono in grado di catturare, non possono che trovare la loro adeguata espressione in un leader, o in un organo di governo che sia in grado di imporre un progetto sociale ed economico a lungo termine, e che non sia limitato dal breve periodo tra due elezioni... Suona come una militarizzazione universale? Sì, il comunismo del futuro sarà un comunismo di guerra, o non sarà!

- Slavoj Žižek - Pubblicato il 16/10/2025 - fonte: https://blogdaboitempo.com.br/

Note:

1 - Gli estratti citati provengono dall'articolo della CNN "Hegseth spinge per rifare l'esercito a sua immagine preferita".
2 - Si veda Fredric Jameson, "American Utopia", Londra: Verso Books 2016.

 

giovedì 16 ottobre 2025

Un Pericolo che sta crescendo sempre più

   Come spiegare il fatto che - solo appena tre quarti di secolo dopo la Shoah - l'antisemitismo stia riemergendo con rinnovato vigore? Lungi dall'essere un fenomeno del passato, resta profondamente radicato nelle società moderne. E questo ritorno non si limita solo all'Europa e all'America: si estende anche al mondo arabo e a molti paesi dell'Asia, dove talvolta l'antisemitismo raggiunge livelli particolarmente elevati. Vediamo come questa rinascita viene accompagnata da una polarizzazione del discorso pubblico: a sinistra, una frangia tende a minimizzarla, denunciandone solo la strumentalizzazione; a destra, invece, si promuove la tesi del "nuovo antisemitismo", il quale però viene attribuito esclusivamente alle popolazioni musulmane, e alla sinistra. Queste due posizioni, entrambe ugualmente caricaturali, rivelano quella che appare come un'unica e sola cecità: l'incapacità di comprendere l'antisemitismo in quanto fenomeno strutturale delle moderne società capitalistiche.

   In questa antologia, in lingua francese, dedicata alla teoria critica dell'antisemitismo, gli autori e le autrici evidenziano quale sia il legame fondamentale -  così tanto a lungo nascosto - tra l'antisemitismo moderno e il capitalismo. Mostrandoci così, in questa relazione, come l'antisemitismo arriva a cristallizzarsi in quella che è una coscienza feticizzata: vale a dire che ciò che, nel capitalismo, appare "astratto" e sfuggente viene personificato nella figura dell' "ebreo". A partire da questo, l'antisemitismo ci propone una sua visione pseudo-emancipatrice, tramite le quale pretende di svelarci quale sarebbe il funzionamento delle società capitaliste; una visione, questa, che in tempi di crisi si diffonde a velocità abbagliante, quasi fosse una folgorazione, e che finisce per degenerare in una conflagrazione omicida.

   L'antologia, si divide in tre parti: 1) -  "L'antisemitismo moderno, una visione feticizzata del sistema-mondo capitalista"; 2) - "La Shoah, una fabbrica per per distruggere l'astrazione";  e 3) - "Le costellazioni contemporanee dell'ideologia di crisi antisemita". Questa struttura, ci  permette di riuscire ad affrontare il fenomeno da diverse angolazioni e prospettive: storica, teorica e contemporanea. Attraverso un approccio multidisciplinare, che si inscrive in una rinnovata critica marxiana del capitalismo, il libro raccoglie dei saggi fondamentali, per mezzo dei quali viene chiarito il modo in cui, nel capitalismo, si forma la coscienza antisemita; esplorandone le molteplici risonanze e offrendo una riflessione approfondita sulle questioni sociali e ideologiche all'origine di questo pericolo sempre più crescente pericolo.

In uscita il 14 novembre 2025 per Editions Crise & Critique:
"Le Péril antisémite - Antisémitisme structurel dans la modernité capitaliste"
- Prima antologia in lingua francese sulla teoria critica dell'antisemitismo -
di Moishe Postone - Robert Kurz - Clément Homs - Sender Vizel - Detlev Claussen - Ernst Lohoff - Jordi Maiso - Karin Stögner - Lars Rensmann - Samuel Salzborn - Daniel Feldmann - José A. Zamora

Collezione Palim Psao - Edizioni Crisi e Critica - 544 pagine
  - http://editions-crise-et-critique.fr/  -

martedì 14 ottobre 2025

DISSIMILIVM INFIDA SOCIETAS

Ululato a sostegno di Sanguinetti
- di Erick Corrêa -

Il pensiero radicale ha perso una delle sue voci più corrosive. Gianfranco Sanguinetti, leggendario membro dell'Internazionale Situazionista (I.S.) e critico implacabile della società dello spettacolo, è morto a Praga il 3 ottobre all'età di 77 anni. Figura fondamentale nei dibattiti politici ed estetici che hanno segnato la generazione del 1968, Sanguinetti non è stato solo un teorico scomodo per il potere, ma anche uno scrittore di rara precisione e ironia, la cui opera ha sfidato contemporaneamente lo Stato italiano e certi movimenti rivoluzionari del suo tempo. La sua traiettoria, segnata da un impegno intransigente per il lavoro del negativo, lascia un'eredità che continua a sfidare, eticamente e politicamente, ogni forma di indulgenza verso la "menzogna generalizzata" che struttura il mondo dello spettacolo decifrato dai situazionisti. Nato nel 1948 in Svizzera, Gianfranco era figlio di Teresa Mattei e Bruno Sanguinetti, entrambi attivi sostenitori della Resistenza antifascista in Italia. Teresa, pedagoga di formazione, è stata eletta all'Assemblea Costituente dal Partito Comunista Italiano (PCI) nel 1946. Suo padre, Bruno, era di origine ebraica e figlio di un grande proprietario terriero nel settore alimentare. Intellettuale specializzato in letteratura francese, laureato in ingegneria e fisica, contribuì alla fondazione del Gruppo Antifascista Romano e divenne uno dei principali finanziatori del PCI durante la Resistenza. Fin da giovane, la vita di Gianfranco sembra aver seguito la circonferenza del tempo verso il centro di opportunità di cui parlava Baltasar Gracián. La sua formazione politica e culturale si colloca tra la fine della Resistenza antifascista – in cui i genitori hanno avuto un ruolo di primo piano – e il ritorno delle lotte operaie e studentesche dell'"autunno caldo" del 1969. Questo nuovo ciclo mette in gioco le aspirazioni rivoluzionarie sopite dal biennio rosso del 1919-1920 e che, per ironia della sorte delle nuove circostanze, porteranno il giovane Sanguinetti – allora ventenne – a una rottura radicale con l'antifascismo comunista della generazione dei suoi genitori.

Gli anni pre-situazionisti
Ancor prima di raggiungere i quindici anni, Gianfranco aveva già compreso le nuove forme assunte dalla lotta di classe nel suo tempo. Queste trasformazioni sono state plasmate non solo dalla crisi della società borghese e del capitalismo italiano del dopoguerra, ma soprattutto dall'emergere di un nuovo proletariato. Precario e scollegato dagli interessi diretti della produzione, questo gruppo iniziò a minacciare la posizione dominante dell'operaio industriale come soggetto rivoluzionario per eccellenza. In questo modo si metteva in discussione l'egemonia dei comunisti alla guida del partito operaio e delle organizzazioni sindacali, così come la stessa ortodossia marxista dominante, che privilegiava le lotte economiche e politiche a scapito degli aspetti socio-culturali dei conflitti e delle lotte sociali. Consapevole del crollo dei valori tradizionali, sia borghesi che operai, Gianfranco inizia a frequentare, intorno al 1966, le riunioni del Gruppo 63, un movimento di giovani scrittori che rompe con gli schemi accademici del neorealismo italiano attraverso un'appropriazione sperimentale del linguaggio. Ispirato dal movimento pacifista Green Wave di Joan Baez negli Stati Uniti, dalla controcultura beatnik e dai provos olandesi, ha formato, con un gruppo di giovani hippies, l'omonimo movimento italiano, Onda Verde. I beatnik milanesi difendevano cause legate agli interessi dei giovani, come l'abolizione del servizio militare obbligatorio, il diritto all'aborto, il divorzio e il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Hanno agito nelle scuole superiori e hanno usato metodi come occupazioni e avvenimenti politico-estetici. Alla fine del 1966, l'alleanza tra Onda Verde e un gruppo analogo, chiamato Mondo Beat, doveva rappresentare un passo qualitativo verso formulazioni teoriche situazioniste. Quando l'ultimo numero dell'omonima rivista edita da questo gruppo è stato pubblicato dalla Feltrinelli – la più grande casa editrice di sinistra in Italia – sono suonate le sirene del "recupero". Questo concetto, di cui ci si è appropriati nelle letture collettive della rivista situazionista internazionale, è stato poi imposto come antidoto all'appropriazione delle lotte studentesche da parte di soggetti esterni ad esse. Nel 1967 Gianfranco e altri compagni di liceo – tra cui Claudio Pavan e Paolo Salvadori, futuri membri dell'I.S. – aderiscono al progetto della rivista S. Questa pubblicazione, un'iniziativa del professore milanese Carlo Oliva, si proponeva di rinnovare il marxismo economicista predominante nei partiti di sinistra. E' attraverso S che la teoria situazionista è arrivata nelle università italiane, diffondendosi nel contesto del vasto movimento delle occupazioni universitarie scoppiato a Torino alla fine di quell'anno e diffusosi in altre città. Sotto l'impulso del maggio '68, la protesta sociale in Italia durò per un decennio, diventando nota in Francia come il maggio strisciante. Sebbene la rivista SI non avesse ancora più di venti abbonati su tutto il territorio nazionale, la sua teoria ebbe comunque un forte impatto sui circoli studenteschi italiani delle scuole secondarie e universitarie.

Gli anni post-situazionisti
Nel marzo del 1975, Gianfranco fu arrestato mentre si recava a Firenze con la compagna Katharine Scott e arrestato per porto illegale di armi, naturalmente lasciate nel veicolo dalla polizia. Durante i quattro giorni di detenzione e interrogatorio, sono state effettuate diverse perquisizioni presso le abitazioni di ex membri della sezione italiana dell'I.S. Anche Mario Masanzanica, il proprietario dell'auto che Gianfranco stava guidando al momento del suo arresto, è stato preso di mira dalla legislazione "anti-terrorismo" e arrestato con l'insolita accusa di essere il "killer" dell'IS, anche se è stato rilasciato due mesi dopo per mancanza di prove. A quel tempo, lo Stato italiano stava orchestrando una campagna di calunnie, rilanciata dalla stampa, che cercava di associare i situazionisti sia al "terrorismo nero" anarchico che al "terrorismo rosso" delle Brigate Rosse. Ma Gianfranco e Katharine portavano con sé qualcosa di più importante delle bombe o delle armi da guerra: il manoscritto dell'opuscolo Rapporto veridico sulle ultime possibilità di salvare il capitalismo in Italia. Nel 2017, Gianfranco ha rivelato come Katharine avesse nascosto il manoscritto nella custodia del suo violino, che era passato inosservato durante il controllo della polizia nel carcere femminile di Firenze. In questo contesto, il potenziale eversivo dell'opuscolo potrebbe costare a Gianfranco e al suo compagno più di dodici anni di carcere, la pena prevista per il porto illegale di armi. Affidato alle mani dello Stato, il manoscritto fu accuratamente preparato da Gianfranco nella biblioteca bergamasca. Una volta completato, il Rapporto di Sanguinetti fu pubblicato per la prima volta in Italia con lo pseudonimo di Censor, un cinico borghese e ultraconservatore immaginario. Il suo scopo era quello di dimostrare quanto fosse utile per lo Stato italiano ricorrere al terrorismo per salvare il capitalismo dalla bancarotta e dalla sovversione proletaria che stava trascinando il paese verso la guerra civile. Allo stesso tempo, il testo criticava i successivi errori di polizia e legali commessi nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana, mentre consigliava ai dirigenti della Democrazia Cristiana di utilizzare a loro vantaggio la vasta esperienza acquisita dai comunisti nel controllo della classe operaia. Ideato in collaborazione con Debord – che tradusse l'opuscolo in francese – Gianfranco riprese un metodo usato nel 1841 da Bruno Bauer e Karl Marx contro la destra hegeliana, proponendosi di "provocare uno stato di provocatori".  Entrambi i testi ricorrono all'ironia e alla denuncia per svelare le contraddizioni delle forme ideologiche dominanti che mascherano la realtà sociale. Bauer e Marx criticarono la filosofia della destra hegeliana per la sua funzione ideologica, mentre Sanguinetti e Debord usarono strategicamente l'ironia per smascherare l'ipocrisia delle élite italiane. Quest'ultimo, rappresentato dalla figura del "banchiere umanista" Raffaele Mattioli (a cui Censor dedica il Rapporto), simboleggiava perfettamente la contraddizione tra l'apparenza benevola e la realtà oppressiva del capitalismo. Nel dicembre del 1975, dopo aver ingannato l'intera stampa italiana – che aveva inconsapevolmente ripreso l'opuscolo in tutti i suoi mezzi di comunicazione – Sanguinetti annunciò pubblicamente l'inesistenza della censura, rivelando le vere motivazioni della sua provocazione. L'operazione ha avuto lo scopo di dimostrare, in modo sperimentale e rigorosamente logico, quanto sia facile ingannare la popolazione utilizzando gli stessi metodi di messa in scena impiegati dal terrorismo di Stato. Per fare questo, Gianfranco applicò il metodo del nemico contro se stesso, creando un pamphlet sotto falsa bandiera come pretesto per "dire l'indicibile". Smascherando l'inganno, ha ingannato i professionisti dell'inganno statale, approfondendo ulteriormente il discredito delle istituzioni tra le classi lavoratrici. Gianfranco doveva essere espulso dal territorio francese per la seconda volta, dopo essere stato riconosciuto dalle autorità di frontiera a bordo di un treno notturno diretto in Italia. Questo episodio fece arrabbiare Debord, che convinse il suo amico italiano ad acquistare, tramite Gérard Lebovici – proprietario della casa editrice Champ Libre – mezza pagina del giornale Le Monde. Il 24 febbraio 1976 vi fu pubblicata una dichiarazione di sostegno a Sanguinetti. Intriso di un umorismo che André Breton definirebbe "swiftiano" – quello che provoca risate senza parteciparvi – l'intervento mediatico di Debord si inserisce nella ricerca di un nuovo teatro operativo per la teoria situazionista dopo la fine dell'organizzazione. Questa forma precursore della moderna anti-pubblicità esprimeva, per mezzo di una deviazione, una strategia d'azione post-situazionista: rivolgere le armi dello spettacolo contro lo spettacolo stesso. Fu in questi anni che la forza qualitativa della teoria formulata dall'I.S. ebbe il suo maggiore impatto sul territorio italiano, grazie alla partnership strategica tra i due uomini. Questa amicizia, che Debord era solito associare a quella di Marx ed Engels (Gianfranco era il ricco amico della relazione), durò negli anni successivi alla fine dell'I.S., fino a quando cominciò a deteriorarsi a causa di una campagna diffamatoria condotta da Debord contro Sanguinetti. Nel 1979 entrambi pubblicarono le loro analisi della situazione italiana, in cui affrontarono direttamente la questione del terrorismo nel paese, con particolare attenzione alle azioni delle Brigate Rosse e al rapimento e all'esecuzione del primo ministro Aldo Moro della Democrazia Cristiana. Debord voleva che il suo ex compagno dell'I.S. pubblicasse le sue tesi in Italia durante il rapimento, al fine di esporre all'opinione pubblica la manipolazione delle Brigate da parte dei servizi segreti dello Stato. Tuttavia, Sanguinetti lo fece solo dopo la fine dell'episodio, cinque mesi dopo che Debord aveva pubblicato le sue tesi in Francia – in cui sia il movimento del 1977 che il libro di Sanguinetti del 1975 sono omessi.* Da quel momento in poi, Debord non solo ruppe ogni rapporto con Sanguinetti, ma cominciò anche a nutrire e diffondere sospetti su di lui. Convinto che il suo amico non avesse seguito il suo consiglio sotto l'influenza del suo avvocato – persona guardata con sospetto dall'ex situazionista francese – Debord, senza mai presentare alcuna prova a sostegno dei suoi sospetti, diffuse tra i traduttori e gli editori dell'Europa occidentale la falsa informazione che questa persona potesse essere un agente dello Stato. È stato solo nel novembre 2012 che, in una lettera indirizzata all'ex situazionista tunisino Mustapha Khayati. Gianfranco ha parlato della polemica, rivelando l'identità dell'amico e i motivi del suo silenzio di fronte alle calunniose affermazioni diffuse da Debord. Ariberto Mignoli (il "Doge") è stato un giurista e professore universitario italiano, specializzato in diritto societario e grandi operazioni finanziarie. Aveva una cultura umanistica molto ricca: conosceva le lingue classiche ("morte") e moderne europee, leggeva letteratura in diverse lingue, aveva una memoria molto sviluppata e una rettitudine morale molto marcata. Pur non essendo un rivoluzionario nel senso classico del termine, non era un conformista e mantenne un atteggiamento critico nei confronti del potere politico e delle classi dirigenti. Sanguinetti lo chiamò nel 1971 come avvocato "incorruttibile" per risolvere questioni familiari. Tuttavia, Mignoli finì per partecipare in maniera decisiva all'operazione della Censura, suggerendo di realizzare un'edizione limitata e deluxe, su carta speciale e con copertina rigida, fornendo anche l'elenco dei destinatari a cui sarebbe stato inviato l'opuscolo (tra cui papa Paolo VI). Mignoli lo difese anche legalmente in diverse occasioni durante le persecuzioni, aiutandolo a sfuggire alle trappole della polizia e della magistratura. Censor è, in definitiva, un personaggio ispirato sia a Debord che a Mignoli, che riflette la figura idiosincratica di un Kropotkin capovolto: non come un aristocratico sovversivo, ma come un aristocratico sovversivo. Sanguinetti risponde ai sospetti di Debord con ironia e disprezzo, definendoli assurdi, infondati e indicativi della degenerazione paranoica di Debord negli anni successivi allo scioglimento dell'I.S. Nega categoricamente che Mignoli possa essere stato un agente dello Stato e lo descrive al contrario come un uomo di integrità, cultura, generosità e intelligenza superiore, la cui vita e il cui carattere sarebbero incompatibili con qualsiasi servizio di spionaggio: "Quest'uomo che Debord, nella sua ubriachezza e nel suo delirio, osò chiamare 'agente segreto' era in realtà il più trasparente e nobile degli esseri umani. Un avvocato incorruttibile, uno spirito libero, incapace di vendersi a qualsiasi potere. Il fatto che Debord, con la sua crescente mania per la persecuzione, sia arrivato a vederlo come una spia non fa che confermare lo stato di confusione e di rovina in cui era caduto. In un altro passaggio, Sanguinetti osserva ancora – con ironia – che se Mignoli era davvero un agente, "allora dovremmo rivedere tutta la storia dei servizi segreti italiani, perché non c'è mai stata una spia così saggia, così generosa e così disinteressata al denaro". All'età di 28 anni, Sanguinetti partecipa attivamente al movimento del 1977 a Roma e Bologna, assistendo alla repressione senza precedenti che pone fine a questo esperimento. Proseguendo la sua opera di demistificazione, iniziata con il Rapporto del 1975, Gianfranco pubblica nel 1979 Del terrorismo e dello Stato. In questo libro denuncia per la prima volta l'uso del terrorismo sotto falsa bandiera da parte degli apparati statali, in particolare in Italia, con l'obiettivo di reprimere e schiacciare i movimenti di protesta radicale del 1969 e del 1977. Il libro è stato ripubblicato negli Stati Uniti dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, essendo considerato una teoria premonitrice del modus operandi della "guerra al terrore" che ha inaugurato il XXI° secolo.

Gli ultimi anni
Teorie del complotto a parte, negli ultimi anni della Guerra Fredda, tra il 1989 e il 1991, Gianfranco ha condotto ricerche indipendenti in Russia, Lituania e Repubblica Ceca. Si stabilì poi definitivamente a Praga dove risiedette fino alla morte, spostandosi frequentemente tra Parigi (dove collaborò con l'amico Gérard Bérreby alle edizioni Allia) e la regione Toscana, per gestire le proprietà rurali della famiglia. Dopo una pausa di dieci anni dai suoi interventi pubblici, Sanguinetti riprese a pubblicare saggi politici sulla stampa alternativa europea, denunciando l'emergere di una nuova forma di dominio: il "dispotismo occidentale". Questo dispotismo sarebbe il rivale del vecchio "dispotismo orientale", analizzato dal teorico e critico tedesco Karl August Wittfogel alla fine degli anni '50. Secondo Sanguinetti, il nuovo dispotismo è nato dalla dissoluzione dell'URSS e, contemporaneamente, dalla morte dello stato di diritto nei paesi occidentali. Ciò ha dato origine a uno stato di emergenza perpetuo e diffuso, segnato dalla proliferazione orchestrata di colpi di stato silenziosi che comportano la cooptazione e l'infiltrazione delle lotte sociali, nonché dalle tecniche legali e politiche di stabilizzazione e destabilizzazione dei governi minimamente democratici in vista della loro sostituzione con regimi autocratici. Nel 2017 Sanguinetti ha partecipato ad una grande mostra organizzata al Museo di Roma di Trastevere, dal titolo "77". In questa occasione firma il saggio Un Orgasmo della Storia: il 1977 in Italia, pubblicato come testo di apertura del volume Il Piombo e le Rose, curato tra gli altri da Tano D'Amico, Pablo Echaurren, Claudia Salaris, nello stesso anno. Poiché questo testo contiene importanti informazioni autobiografiche, lo raccomando a coloro che sono interessati alla sua "vita-opera" – un termine che definisce l'estensione dell'esperienza vissuta nel campo della creazione, che, apparendo come un'opera, genera a sua volta nuove forme di esistenza. In questo senso, Sanguinetti può essere considerato anche un precursore delle culture contemporanee del prankster o del jamming. Poco dopo l'Operazione Censore, Pier Franco Ghisleni pubblicò in Italia un'edizione falsa della casa editrice Einaudi, "firmata" da Enrico Berlinguer, allora segretario generale del PCI. Sulla stessa scia, il gruppo che dirigeva la rivista Il Male pubblicò e distribuì nel paese una serie di giornali falsi, come il popolare Corriere della Sera. In un'intervista non ancora pubblicata – la seconda e ultima della sua vita – Gianfranco racconta di aver incontrato più volte a Parigi Jacques Servin (pseudonimo di Andy Bichlbaum), membro del gruppo americano Yes Men. Servin gli confermò l'influenza dell'Operazione Censore sui suoi film e sulla sua creazione di situazioni, che chiamavano "correzione dell'identità", e che Gianfranco, da parte sua, descriveva come una "impostura sovversiva". Vedendo in questa forma di attivismo un allargamento delle contemporanee "lotte ibride" e delle "guerre asimmetriche", Sanguinetti sostiene che: "Usurpando un'identità 'rispettabile', perché rispettata dal mainstream, e poi facendole dire cose tanto indicibili quanto vere, li costringiamo ad ammettere prove scandalose: un po' come ha fatto Jonathan Swift quando ha proposto di cucinare il surplus dei poveri bambini irlandesi, al fine di risolvere definitivamente il problema della povertà in Irlanda". Sappiamo che la gloria postuma è il destino riservato a coloro che non possono essere classificati, come ha osservato Hannah Arendt nel rendere omaggio alla memoria di Walter Benjamin. Non vi è alcuna garanzia, tuttavia, che lo stesso valga per la figura iconoclasta di Sanguinetti. I suoi archivi personali sono ora conservati nella Beinecke Rare Book and Manuscript Library della tradizionale Università di Yale negli Stati Uniti, un paese modello per il nuovo dispotismo che ha denunciato nei suoi ultimi anni. Questo contesto ha reso difficile per i ricercatori alla periferia dello spettacolo accedere a questo vero e proprio tesoro di sovversione internazionale. Un buon modo per rendere omaggio alla memoria di Gianfranco Sanguinetti sarebbe quindi quello di trovare il modo di ampliare l'accesso ai suoi archivi. Tuttavia, oggi sta accadendo l'esatto contrario: c'è una riduzione delle borse di studio per i ricercatori indipendenti e una restrizione dei visti di immigrazione per gli stranieri. La domanda rimane: con quali mezzi sarebbe possibile accedervi? La biografia intellettuale e politica di Sanguinetti non offre né risposte né modelli, ma solo indizi ed enigmi che dispensano dalla necessità di avere eredi o successori. Basta seguire il motto: DISSIMILIVM INFIDA SOCIETAS.

- Erick Corrêa - Pubblicato su lundimatin#492, il 13 ottobre 2025 -

NOTA

*Nota dell'editore: Se è ormai provato che alcuni attentati commessi in Italia, in particolare quello di Piazza Fontana, erano azioni sotto falsa bandiera volte a condannare anarchici e rivoluzionari, le voci rivolte alle Brigate Rosse e largamente diffuse da Debord e Sanguinetti sulla loro manipolazione da parte dei servizi segreti di questo o quel paese sono sempre state fortemente contestate da chi ha partecipato a questa vicenda. Al di là della loro avversione per l'ipotesi politica sostenuta dalle BR, nessuna prova o argomento credibile è mai arrivato a sostenere le accuse e i sospetti così avidamente propagati.

 

sabato 11 ottobre 2025

Il “Soggetto vuoto” e “l'Enciclopedia Fantastica di Borges” !!

Il proletariato come potenza della non identità
- di Vladimir Safatle -

«Ciò che ancora manca, è l'audacia rivoluzionaria che scaglia contro l'avversario la dichiarazione provocatoria:
"Non sono niente e sarò tutto!"». (Karl Marx)

Genealogia del proletariato
Nell'orizzonte dell'emergere dei soggetti politici, qual è la posizione attuale del proletariato? Per comprendere meglio questo punto, bisogna insistere sul fatto che c'è una situazione che definisce l'emergere del proletariato, vale a dire, la sua espropriazione assoluta. Infatti, così come esso è stato definito nella Costituzione Romana, quella proletaria, è l'ultima delle sei classi censuarie; una classe composta da coloro che si caratterizzano, pur essendo liberi, ma non avendo alcuna proprietà, o non avendo abbastanza proprietà, venendo considerati cittadini con diritto di voto e obblighi militari. Il loro unico possesso è la capacità di procreare e avere figli. Così, ridotti alla più elementare condizione biopolitica, alla condizione di riprodurre la popolazione, i proletari rappresentano ciò che non viene contato. Da qui un'importante affermazione di Jacques Rancière: «In latino, proletari significa "persona prolifica" – una persona che fa figli, che semplicemente vive e si riproduce, senza nome, senza essere annoverata come parte dell'ordine simbolico della città» [*1]. Alla fine del XVIII secolo, proletario designava ciò che è «malvagio, vile» o, in francese, veniva usato come un sinonimo di "nomade", senza luogo. È nel bel mezzo della Rivoluzione francese, e specialmente dopo la Rivoluzione del 1830, che il termine verrà gradualmente arricchito di una sua connotazione politica, al fine di designare così coloro che hanno il proprio salario giornaliero pagato solo in base al loro bisogno fondamentale di autoconservazione, siano essi contadini o operai; e che dovrebbero essere oggetto di azioni politiche condotte in nome della giustizia sociale. In tal senso, i proletari non sono ancora il nome di un soggetto politico emergente, bensì il nome di un punto di intollerabile sofferenza sociale, un «significante centrale dello spettacolo passivo della povertà» [*2]. Un chiaro esempio in tal senso, è dato dall'uso che del termine ne fa Saint-Simon. È tra i sansimonisti che la dicotomia tra proletari e borghesi viene descritta per la prima volta, sia pure in quello che rimaneva come un orizzonte di possibile conciliazione degli interessi. E in questo senso - più che coniare l'uso sociale del termine - il successo di Marx consiste nel collegare il concetto di proletariato a una teoria della rivoluzione o, piuttosto, a una teoria della lotta di classe, la quale è espressione della «storia della guerra civile, più o meno nascosta, nella società esistente» [*3]. Ecco perché Marx parlerà dei sansimonisti, e di altri socialisti, come «critico-utopici»: «I fondatori di questi sistemi, comprendono bene cosa sia l'antagonismo delle classi, così come comprendono l'azione dei fattori responsabili della dissoluzione della stessa società dominante. Ma essi, tuttavia, non percepiscono nel proletariato alcuna iniziativa storica, alcun movimento politico che gli sia proprio» [*4]. A modo suo, Marx condivide con Hobbes la medesima comprensione della vita sociale, vedendola come una guerra civile immanente. Tuttavia, poiché non si tratta di pensare alle condizioni per la formazione della società come un'associazione di individui, ma di smettere di pensare alla vita sociale come a partire dall'elevazione dell'individuo a cellula elementare, questa guerra non sarà l'espressione delle dinamiche competitive tra individui privi di relazioni naturali tra loro. Sarà una guerra di classe, all'interno della quale una delle classi apparirà come la somma di tutti coloro che non hanno nient'altro a loro disposizione. Di qui una guerra che non può che portare, non alla vittoria di una classe su un'altra, ma alla distruzione del principio stesso che costituisce le classi, vale a dire il lavoro e la proprietà in quanto attributo fondamentale degli individui. Ciò spiega perché Marx deve essere chiaro: «La rivoluzione comunista è diretta contro quello che è il tipo precedente di attività, essa abolisce il lavoro e sospende il dominio di tutte le classi, sopprimendo le classi stesse, e dal momento che questa rivoluzione è condotta dalla classe che la società non considera tale e che non riconosce come classe, essa allora esprime, per sé, la dissoluzione di tutte le classi, di tutte le nazionalità, ecc., all'interno della società odierna» [*5]. Bisogna capire meglio che cosa significhi dire che il proletariato esprime la dissoluzione di tutte le classi, e la dissoluzione di tutto ciò che costituisce le classi. In primo luogo, ricordiamoci che una tale guerra civile, tra proletari e borghesia che porta alla rivoluzione, è il risultato di una contraddizione il cui motore è la borghesia stessa. Marx non si stancherà mai di affermare che la borghesia è una classe rivoluzionaria: «La borghesia, non può esistere senza rivoluzionare incessantemente gli strumenti di produzione, e di conseguenza i rapporti di produzione, e insieme a essi tutti i rapporti sociali» [*6]. Sarà essa a mostrarci come tutto ciò che è solido si dissolva nell'aria. Tuttavia, la borghesia è una sorta di agente involontario della storia. «Assomiglia allo stregone che non riesce più a controllare i poteri infernali che ha convocato» [*7], ed è essa a «produrre i propri becchini» [*8]. In altre parole, la sua azione è contraddittoria poiché, nel processo di autorealizzazione, la borghesia produce una figura che le si opporrà e che la distruggerà. In questo modo, la borghesia diventa lo scenario in cui si realizza un'impressionante operazione di auto-negazione, che non è solo l'auto-negazione degli interessi di una classe, ma è l'auto-negazione della vera e propria “produzione della vita” vigente fino a quel momento, con le sue relazioni tra i soggetti, tra la società e la natura, tra il soggetto e sé stesso. Una simile abnegazione è guidata dalla produzione di eccesso. La borghesia produce crisi descritte come a«epidemie di sovrapproduzione», le quali distruggono gran parte delle forze produttive già create: «La società possiede quella che è una civiltà in eccesso, dispone di troppi mezzi di sussistenza, di troppa industria, e di troppo commercio». Un eccesso, questo che: «getta nel disordine l'intera società, e minaccia l'esistenza della proprietà borghese». Infatti, un così tanto eccesso di produzione, di commercio e di civiltà conduce a una svalutazione tendenziale della produzione stessa; svalutazione che può essere superata solo attraverso la distruzione violenta di un gran numero di forze produttive, o con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso di quelli vecchi. Ha una struttura monopolistica, la quale può comportare solo un'abolizione della proprietà privata «per i nove decimi della società». Tuttavia, un tale disordine, prodotto dalla borghesia e dalla sua escalation globale, non costituisce solamente l'annuncio della distruzione. Ma finisce per essere anche la produzione involontaria di nuove relazioni, che in germe costituiscono la forma di quello che sarà un altro mondo: «È solamente questo sviluppo universale delle forze produttive, a portare in sé uno cambiamento universale degli uomini, in virtù del quale, da una parte, il fenomeno della massa "espropriata" si realizza simultaneamente in tutti i popoli (concorrenza universale), rendendo ciascuno di essi dipendente dalle corrispondenti trasformazioni rivoluzionarie degli altri e, infine, istituendo degli individui storico-universali, empiricamente universali, al posto degli  individui locali » [*9]. Il disordine, produce così un fenomeno universale di espropriazione e di cambiamento. Ma una simile espropriazione universale, non è solo un fenomeno negativo, poiché, a sua volta, essa produce nuove forme di interdipendenza e di simultaneità. La borghesia apre lo spazio all'avvento di quelli che saranno individui storico-universali caratterizzati da una comune espropriazione e da una simultaneità di tempi fino ad allora completamente dispersi. Essa produce le condizioni per l'avvento di un'universalità concreta che sospenderà e supererà lo stato attuale delle cose. È questo il modo in cui produce i suoi becchini.

L'indeterminatezza sociale del proletariato
Questo dimostra come, secondo Marx, la rivoluzione possa essere fatta solo dalla classe di coloro che sono spossessati di qualsiasi significato, e profondamente privi di identità. Una classe formata da «individui storico-universali, empiricamente universali, piuttosto che da individui locali» [*10], appare essere ben poco in linea con la visione dei lavoratori che lottano per il riconoscimento delle loro tradizioni, e dei loro stili di vita. Al fine dell'apparizione degli individui storico-universali, è necessaria una certa esperienza della negatività, che, a partire da Hegel, è stata condizione per la fondazione di una vera universalità. Il proletariato soffre una esperienza del genere, a causa della completa espropriazione di sé stesso, descritta da Marx in termini quali: « Il proletario è senza proprietà (eigentumslos); il suo rapporto con le donne e con i bambini non ha più nulla a che fare con le relazioni che ci sono nella famiglia borghese; il lavoro industriale moderno, la moderna sussunzione al capitale, in Inghilterra, in Francia, in America e in Germania, lo hanno spogliato di ogni suo carattere nazionale. Il diritto, la morale, la religione sono per lui dei pregiudizi borghesi che nascondono i vari interessi borghesi» [*11]. Come si può vedere, il proletariato non si definisce solo sulla base di un impoverimento estremo, ma a partire dal completo annullamento dei legami con le forme di vita tradizionali. Tali legami, non si recuperano in un processo politico di autoaffermazione; non si tratta di permettere ai proletari di avere una nazione, una famiglia borghese, una morale e una religione. Tali normatività, sono state negate in quella che è stata una negazione senza ritorno. Tuttavia, una simile negazione non porta il proletariato ad apparire come se fosse «quella massa indefinita, destrutturata e sballottata, che i francesi chiamano la bohème» [*12], e che Marx definisce "sottoproletariato" [*13]. Vale qui la pena di approfondire questo punto, poiché sono stati in molti a cercare, a partire da Bakunin, di trasformare il concetto di "lumpemproletariat" nel vero concetto di forza rivoluzionaria espresso da Marx [*14]. Come avviene per il concetto di proletariato, anche il concetto di sottoproletariato non descrive immediatamente un agente economico, ma piuttosto una sorta di soggetto politico, o meglio, una sorta di anti-soggetto politico. Ricordiamo la strana estensione che il termine assume nel 18 brumaio: «Accanto a mariuoli rovinati, dai mezzi d’esistenza e dall’origine equivoca, accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti in rottura di bando, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmadori, bari, ruffiani, tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la "bohème"» [*15]. È difficile, non leggere tutta questa serie, descritta da Marx, con i suoi letterati e affilatrici, senza ricordare l'Enciclopedia Fantastica di Borges. Perché ciò che totalizza questa serie, non è la presunta analogia tra tutti quelli che sono i suoi elementi di sradicamento sociale. A tal riguardo, ricordiamo che Marx, ne "La lotta di classe in Francia", si spinge fino a descrivere l'aristocrazia finanziaria come se essa fosse «la rinascita del sottoproletariato ai vertici della società borghese». C'è un sottoproletariato al livello più basso dello strato sociale, e uno al livello più alto, e quelli al livello più alto sono perfettamente radicati nell'imbroglio funzionale del capitalismo finanziario. Infatti, ciò che li accomuna è una certa concezione dell'improduttività, una differenziazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ma si tratta di una differenziazione concepita dal punto di vista della produttività dialettica della storia. E questo dal momento che il sottoproletariato è una massa destrutturata, la cui negatività non si presenta come una contraddizione rispetto alle condizioni dello stato attuale di vita. In questo senso, si tratta della rappresentazione sociale della categoria della negatività improduttiva. Per questo motivo, viene rappresentata una massa eterogenea, che può guadagnare omogeneità purché trovi un termine unificante che le dia stabilità all'interno della situazione politica esistente. Tale termine, nel "18 brumaio", non è altro che Napoleone III, «il capo del sottoproletariato». Colui che dà omogeneità a tale eterogeneità sociale, nella storia stessa, ripetuta come una farsa, che deve confessare di essere una farsa per poter continuare a esistere. Tuttavia, bisogna insistere sul fatto che il modello di stabilizzazione prodotto da Napoleone III, è una sorta di stabilizzazione nell'anomia. Per mezzo di Napoleone III, l'eterogeneità del sottoproletariato rimane radicalmente passiva, rimane come un'azione antipolitica, perché si adatta alla gestione dello sradicamento sociale, e così i suoi crimini romanzati non si trasformano in alcuna azione di trasformazione. In effetti, questa destrutturazione anomica, e l'indeterminatezza del sottoproletariato, è tipica di coloro che conservano ancora la speranza di un ritorno all'ordine, o che non sono capaci di concepire nulla al di fuori di un ordine che essi stessi sanno essere completamente compromesso. Tutto ciò fa sì che la sua azione politica non sia altro che una "parodia" di una trasformazione, una "commedia", se non addirittura una "mascherata": tutti termini, questi, usati da Marx nel 18 Brumaio per parlare di rivoluzioni che sono, in realtà, dei tentativi di stabilizzazione nel caos. Il sottoproletariato, rappresenta una negatività che non può essere integrata nel processo dialettico, poiché esso rappresenta il congelamento della negatività in quella che è come una sorta di cinismo sociale. In questo caso, invece, il proletariato è caratterizzato dall'assenza di qualsiasi aspettativa di remunerazione. Il proletariato, invece, è un'eterogeneità sociale che semplicemente non può essere integrata senza che la sua condizione passiva si trasformi in attività rivoluzionaria. Per questo motivo, essendo privato della proprietà, della nazionalità, dei legami con i modi di vita tradizionali e della fiducia nelle norme sociali stabilite, può trasformare la propria impotenza in una forza politica volta a una trasformazione radicale delle forme di vita. A tal fine dobbiamo comprendere che l'affermazione della condizione proletaria non va confusa con una qualche forma di richiesta di riconoscimento di stili di vita disprezzati, chiaramente organizzati nella loro particolarità. Al contrario, l'affermazione di una tale condizione proletaria genera la classe di questi soggetti senza predicati che, come si dice nella "Ideologia tedesca", potranno essere soddisfatti pescando di giorno, pascolando nel pomeriggio e facendo critica di notte, senza (e questo è il punto principale) tuttavia essere pescatore, pastore o critico; cioè senza permettere al soggetto di determinarsi interamente nei suoi predicati [*16]. Ciò significa che l'attività di pesca, di pastore e di critica non può essere, allo stesso tempo, identificazione del soggetto. È come in Hegel, dove la posizione del soggetto, la sua esteriorizzazione, mostra che ad animare  il movimento dell'essenza ci sia qualcosa di radicalmente anti-predicativo [*17]. Il che non potrebbe essere diverso, se pensiamo al proletariato come a questa classe «che esprime, di per sé, la dissoluzione di tutte le classi all'interno della società odierna» [*18]. La classe di chi dissolve tutte le classi in modo da rappresentare così  «la perdita totale dell'umanità» [*19], e che non trova più una figura nell'immagine attuale dell'uomo. In questo senso, possiamo dire che - come nella teoria hegeliana del soggetto (anche se Marx ha squalificato tale assimilazione dal momento che vedeva in Hegel un'elaborazione meramente astratta del problema) -  il proletariato supera la sua alienazione solo nel confrontarsi con il carattere profondamente indeterminato del fondamento e conservando  qualcosa di questa indeterminatezza [*20]. Il suo ruolo di redenzione (Erlösung) può essere svolto solo a condizione di assumere la sua natura di dissoluzione (Auflösung). Come dirà Balibar, l'avvento del proletariato, in quanto soggetto politico, è l'apparizione di un «soggetto visto come vuoto» [*21] e che non è affatto privo di determinazioni pratiche. Questa manifestazione di un vuoto rispetto alle attuali determinazioni identitarie. ci porta a comprendere che l'auto-riconoscimento è possibile solo a condizione di una critica profonda di ogni tentativo di ristabilire delle identità immediate tra il soggetto e i suoi predicati. Se è così, allora possiamo dire che la lotta di classe in Marx non è semplicemente un conflitto morale, motivato dalla difesa delle condizioni materiali finalizzata a una stima simmetrica tra soggetti disposti a farsi riconoscere, nella prospettiva dell'integralità delle loro personalità. L'abolizione della proprietà privata, deve necessariamente accompagnare l'abolizione di un'economia psichica basata sull'affermazione della personalità come categoria identitaria. Insistiamo su questo punto, ricordando un passaggio importante del Manifesto del Partito Comunista: «I proletari possono impossessarsi delle forze produttive sociali solo abolendo il modo di appropriazione che corrisponde a esse, e quindi il modo di appropriazione che è esistito finora. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; La loro missione è quella di distruggere tutte le garanzie e le sicurezze della proprietà privata esistite finora» [*22].

   Rendiamoci conto del carattere paradossale di questo passaggio. I proletari, possono impadronirsi delle forze produttive solo abolendo ogni forma di appropriazione finora esistita. Il modo di appropriazione dei proletari è un modo a oggi tuttora inesistente, impensabile finora poiché non si tratta di un semplice passaggio dalla proprietà privata alla proprietà collettiva. È piuttosto l'appropriazione da parte di coloro che non hanno nulla di proprio da salvaguardare, di chi non ha e avrà nulla di proprio. Una simile appropriazione, non è solo la distruzione della proprietà, ma è anche la distruzione della propria proprietà. Per questo motivo, in Marx, la lotta di classe non può essere intesa come se fosse solo una mera espressione di quelle che sarebbero solo delle forme di lotta contro l'ingiustizia economica, poiché essa è anche un modello di critica del tentativo di trasformare l'individualità, visto nell'orizzonte ultimo di tutti i processi di riconoscimento sociale. E questo non potrebbe essere diverso, se si ricorda che, almeno all'interno della tradizione dialettica, la "persona" rappresenta una categoria storicamente derivata dal diritto di proprietà romano (dominus), categoria che, poiché conserva ancora le tracce della sua origine, veniva vista da dei filosofi come Hegel come se fosse già in sé un'«espressione di disprezzo» [*23]; e questo a causa della sua natura meramente astratta e formale, derivante dall'assolutizzazione dei rapporti di proprietà [*24].  E in Marx, troviamo chiaramente questa critica già presente in Hegel. Così come Marx insisteva, ad esempio, sul fatto che la nozione di libertà presupposta dalla "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino", del 1793, era in gran parte basata sull'assolutizzazione del singolo proprietario. Da qui un'affermazione come quella secondo cui: «Il limite entro il quale [un cittadino] può muoversi, per non danneggiare l'altro, è determinato dalla legge, nello stesso modo in cui il limite tra due appezzamenti di terreno è determinato dal palo della recinzione. Si tratta della libertà dell'uomo visto come monade isolata rinchiusa in sé stessa (...) L'applicazione pratica del diritto umano alla libertà, equivale al diritto umano alla proprietà privata». [*25]. La libertà, per Marx, passa attraverso la liberazione del soggetto dalla sua condizione di individuo che si relaziona con un altro individuo, come ad esempio avviene per due appezzamenti separati dal palo della recinzione. Saremo fedeli allo spirito del testo di Marx solo se affermeremo che, attraverso la lotta di classe, un'esperienza sociale post-identitaria può aver luogo. Possiamo anche dire che "proletariato" è la denominazione politica della forza sociale della de-differenziazione identitaria, il cui riconoscimento può disarticolare completamente le società organizzate, basate sull'ipostasi dei rapporti di proprietà generali [*26]. Per questo motivo, il proletariato non può essere immediatamente confuso con la categoria del popolo. Manca la tendenza immanente all'identità, e alla configurazione limitante, che è quella che definisce un popolo. Il proletariato funziona assai più come una sorta di anti-popolo, e questo nel senso di quel potere sempre vigile che rimane a ricordarci la provvisorietà delle identità, degli stati e delle nazioni, così come ci ricorda il costante impulso di integrazione di quella che inizialmente viene affermata come un'eccezione incalcolabile. E questo è un modo per accettare proposizioni come quella che afferma che: «Il tutto sarebbe molto semplice se ci fosse solo l'infelicità della lotta che oppone ricchi e poveri. La soluzione al problema è stata ben presto trovata. È sufficiente sopprimere la causa del dissenso, vale a dire, la disuguaglianza della ricchezza, dando a ciascuno una parte uguale di terra. Ma il male è ben più profondo. Allo stesso modo in cui il popolo non è realmente il popolo, ma i poveri, i poveri, a loro volta, non sono veramente i poveri. Sono solo il regno dell'assenza di qualità, dell'efficacia della prima disgiunzione che porta il nome vuoto della "libertà", della proprietà impropria, del titolo del contenzioso. Essi stessi sono l'unione distorta del sé che non è realmente proprio, e del comune che non è veramente comune» [*27]. In questo senso, la felicità, nel concetto forgiato da Marx, risiedeva nella sua capacità di sovrapporre logica politica e descrizione sociologica, permettendo così la creazione di un rapporto profondo tra i lavoratori realmente esistenti (i quali costituivano un'importante maggioranza sociale) e i proletari [*28]. Tuttavia, il mantenimento di un simile rapporto, non è una condizione necessaria affinché il concetto marxista di "proletariato" continui a mostrare la sua operatività. Nell'attuale situazione storica di riconfigurazione della società del lavoro, possiamo però ripensare questo rapporto in modo da trovare altri spazi per la manifestazione delle rivendicazioni proprie di una certa ontologia del soggetto come viene presupposta dalla costruzione marxista.

- Vladimir Safatle - Pubblicato su Comunizar -

NOTE:

1 RANCIÈRE, Jacques; “Politics, identification and subjectivation” in: RAJCHMAN, John; The identity in question, Nova York: Routledge, 1995, p. 67

2 STALLYBRASS, Peter; “Marx and heterogeneity: thinking the lumpemproletariat” In: Representations, vol 0, n. 31, p. 84

3 MARX, Karl e ENGELS, Friedrich; Manifesto Comunista, São Paulo: Boitempo, p. 50

4 Idem, p. 66

5 MARX, Karl e ENGELS, Friedrich; A ideologia alemã, op. cit., p. 98

6 Idem, Manifesto Comunista, p. 43

7 Idem, p. 45

8 Idem, p. 51

9 Idem, A ideologia alemã, p. 58

10 MARX, Karl; A ideologia alemã, Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, p. 58

11 MARK, Karl; Manifest der Kommunistischen Partei in http://www.marxists.org/deutsch/archiv/marx-engels/1848/manifest/1-bourprol.htm

12 MARX, Karl; O 18 brumário de Luis Bonaparte, São Paulo: Boitempo, 2011, p. 91

13 Ver, por exemplo, THOBURN, Nicholas; “Difference in Marx: the lumpenproletariat and the proletarian unamable”; Economy and Society Volume 31 Number 3 August 2002: 434–460

14 Como vemos, por exemplo, em STALLYBRASS, Peter; “Marx and heterogeneity: thinking the lumpemproletariat” In: Representations, vol 0, n. 31, p. 84 e LACLAU, Ernesto; La razón populista, op. cit.

15 MARX, Karl; O 18 do brumário, op. cit., p. 91

16 MARX, Karl; A ideologia alemã, op. cit., p. 56

17 Como dirá Alain Badiou: Marx sottolineava già che la singolarità universale del proletariato è di non avere alcun predicato, di non avere nulla, e soprattutto di non avere, in senso forte, alcuna 'patria'. Questa concezione anti-predicativa, negativa e universale dell'uomo nuovo attraversa il secolo"(BADIOU, Alain; O século, Aparecida: Ideias e letras, 2007, p. 108).

18 MARX, Karl; A ideologia alemã, op.cit., p. 98

19 MARX, Karl; Crítica da filosofia do direito de Hegel – introdução, São Paulo: Boitempo, 2005, p. 156

20 Sobre este ponto da filosofia hegeliana, tomo a liberdade de remeter ao meu SAFATLE, Vladimir; Grande hotel abismo: para uma reconstrução da teoria do reconhecimento, São Paulo: Martins Fontes, 2012.

21 BALIBAR, Etienne; Citoyen sujet et autres essais d’anthropologie philosophique, Paris: PUF, 2011, p. 260. "Questa è un'idea presente anche in Jacques Rancière, per il quale: "i proletari non sono né gli operai né le classi lavoratrici. Essi sono la classe degli innumerevoli, che esiste solo nell'affermazione stessa attraverso la quale essi si considerano come coloro che non sono contati"” (RANCIÈRE, Jacques; La mésentente: politique et philosophie, Paris: Galilée, 1995, p. 63).

22 MARX, Karl e ENGELS, Friedrich: Manifesto Comunista, op. cit., p. 50

23 HEGEL, GWF; Fenomenologia do Espírito – vol. II, Rio de Janeiro: Petrópolis, 1992, p. 33

24 Tale articolazione tra "persona" e "proprietà" servirà come base per una lunga tradizione di riflessione che giungerà alle recenti discussioni sulla "proprietà di sé" come attributo fondamentale della persona (a questo proposito, si veda, tra gli altri, COHEN, G.A.; Dominio di sé, libertà e uguaglianza, Cambridge University Press, 1995). Sebbene si tratti di un dibattito di varie sfumature, è certo che la tradizione dialettica di Hegel e Marx tende a leggerlo nel modo delineato sopra.

25 MARX, Karl; Sobre a questão judaica, São Paulo: Boitempo, 2010, p. 49.

26 Che questa forza di dedifferenziazione propria del concetto di proletariato abbia acquisito evidenza grazie ai marxisti francesi, come Badiou, Balibar e Rancière, dimostra come qualcosa del decentramento proprio del concetto lacaniano del soggetto sia giunto alla politica attraverso gli ex allievi di Louis Althusser. Tuttavia, tale decentramento ha la sua matrice nella nozione di "negatività" propria del soggetto hegeliano. Così, per la suprema ironia della storia, qualcosa della concezione hegeliana del soggetto finisce per tornare sulla scena attraverso l'influenza sorda all'opera nei testi degli ex allievi di questo antihegeliano per eccellenza, cioè Louis Althusser.

27 RANCIÈRE, Jacques; Le mésentente: politque et philosophie, Paris: Galiée, 1995, p. 34

28 Como nos lembra LACLAU, Ernesto; La razón populista, op. cit., p. 308