Il momento attuale e lo spettro di Marx
- di Alain Lecomte - Pubblicato il 14 ottobre 2025 -
Sulle labbra e sulla bocca, la stampa e i media audiovisivi hanno una sola frase: «stiamo vivendo in un punto di svolta.» Infatti, se ci guardiamo intorno, vediamo che ci sono sempre più imperi che assumono il controllo di ciò, di questo pianeta, è rimasto da devastare di questo pianeta. Negli Stati Uniti, dopo la sequenza dell' "assassinio di Kirk", i discorsi hanno assunto le dimensioni apocalittiche di una predicazione religiosa totalmente folle, come se cominciasse a divampare una vera e propria follia. Si tratta di un fenomeno improvviso? Non c'era prima alcun segnale di allarme? Gli Stati Uniti, in fondo, non sono forse sempre stati questo? Una follia devastante che mescola politica e religione, e che trova la sua espressione in un fascismo virtuale fatto di violenza esasperata, uccisioni di massa e pena di morte. Viene pubblicato un libro (era ora) che racconta le tendenze filonaziste degli anni Trenta dei padroni americani di allora, i quali hanno mancato di poco l'eliminazione di Roosevelt (il libro di Thomas Snegaroff, "La Conspiration"). Ma fino a pochi anni fa, questa tendenza profonda era stata tenuta a bada, in un certo senso repressa, dal momento che gli analisti politici negli Stati Uniti non credevano, neanche per un momento, a causa delle tendenze demografiche e dell'importanza dell'immigrazione, che i repubblicani potessero tornare al potere. Pessima analisi. Tornarono, e sotto una luce ancora più oscura e fascista. Il punto di svolta venne segnato dal tentato assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Nessuna democrazia occidentale ha mai sperimentato questo: un leader che non esita a lanciare i suoi sostenitori all'attacco delle istituzioni, anche a costo di provocare morti. Il secondo mandato di Trump, è stato anche peggiore del primo: un'organizzazione metodica ha preso il posto di quella che allora era solo un'improvvisazione. Non tutti i sostenitori del trumpismo sono d'accordo tra di loro sulla sostanza, ma lo sono sulla forma: la democrazia, se si rendesse necessario a causa degli ostacoli giuridici che potrebbe opporre ai progetti di oligarchi e predatori, deve essere abolita. E di fronte a questo, sentiamo che ci rode come un sentimento di impotenza. Abbiamo creduto in una forma di razionalità, ci siamo rassegnati ad affrontare i problemi socio-economici sotto una luce quasi scientifica, e ora vediamo che le esplosioni di passione stanno prevalendo tutto intorno a noi, e soprattutto negli Stati Uniti. La ragione ci aveva insegnato che la guerra non sarebbe tornata in Europa, poiché eravamo persone ragionevoli, e tutto poteva essere negoziato. Nel 2022, Putin non ha esitato a lanciare le sue forze armate, per quanto impreparate, nelle campagne e nelle città ucraine, e questo sta continuando ogni giorno. Gli "occidentali" avevano creduto di poter affrontare saggiamente i problemi del Medio Oriente, Obama aveva lavorato con delicatezza in modo da portare i leader israeliani a posizioni concilianti nei confronti della Palestina, consigliando loro, tra l'altro, di fermare gli insediamenti in Cisgiordania, ma ora ci viene detto che questo è stato un errore, dato che avrebbe dato vane speranze ad Hamas, che poi avrebbe così finito per commettere l'insensato crimine del 7 ottobre. Siamo pertanto disarmati, impotenti. Sembra che non ci sia razionalità nel mondo. O se c'è, il nostro cervello non sa proprio come abbracciarlo nella sua complessità. Ecco che poi arriva l'intelligenza artificiale. L'ultimo miraggio apocalittico di avere un'intelligenza che, almeno, sarebbe in grado di trovare le risposte alle nostre domande. Questa intelligenza ha come caratteristica principale quella di essere non umana.. e questo proprio nel momento in cui abbiamo come la sensazione di star morendo proprio a causa della mancanza di umanità. Tutto questo, è sicuramente, agghiacciante. Eppure ci sono ancora alcuni di noi che si aggrappano al potere delle idee progettate da e per gli esseri umani... Resisteremo a lungo? La lettura di Marx e/o di Freud ci sembra naturalmente rimanere all'ordine del giorno, ed è ancora necessario rendere giustizia a coloro che stanno ancora cercando di far emergere ciò che più probabilmente ci dà spunti di riflessione sul nostro presente. I filosofi che hanno cercato, alla fine del XX secolo e all'inizio del XXI secolo, di avanzare le idee di emancipazione sono tuttora leggibili. Non lasceremo che essi vengano bruciati e calpestati dai censori d'oltreoceano, e dai loro emulatori da questa parte dell'oceano. Possono ancora essere utili. Fino a quando forse un'intelligenza artificiale non troverà i mezzi per convincerci del contrario... Per il momento, non so come potrebbe fare...
Le recenti letture mi hanno messo sulla strada di una possibile e persino necessaria (ri)lettura di Jacques Derrida. Quella che incarna il diavolo agli occhi di molti americani (che a quanto pare hanno sofferto per troppo tempo della "arroganza della teoria francese") e di alcune persone che qui non hanno capito nulla del concetto di decostruzione (aiutati in questo un po' da alcuni attivisti troppo entusiasti della causa "decostruzionista") e che vorrebbero abbandonarla al rogo. Derrida ha scritto "Gli spettri di Marx". Voglio tornare proprio su questo punto. Questo libro è analizzato e criticato in modo costruttivo – e quindi non... decostruttivo! – da Moishe Postone, in un suo articolo pubblicato su "La société comme moulin de discipline", edito da questa sempre valorosa casa editrice con sede ad Albi, e che è diretto da Clément Homs: "Crise & Critique". Postone è uno di quei pensatori critici relativamente sconosciuti nel nostro paese (era canadese e insegnava all'Università di Chicago) che sono stati oscurati dal pensiero acritico che regna nei circoli accademici e mediatici, anche quando possono sembrare ben intenzionati (ma non è mai con buone intenzioni che si raggiunge la correttezza del pensiero). Postone cita Derrida, gli è grato per aver detto cose su Marx, che in fondo sono molto vicine a quelle che ha detto lui stesso, mentre rimprovera al filosofo della decostruzione di non essersi spinto abbastanza lontano, ed essere rimasto inchiodato a un'interpretazione di Marx un po' troppo vicina a quella di Althusser; cosa che ovviamente lo porta a fraintendere il Marx del I Libro del Capitale, o dei Grundrisse. Gli rimprovera, ad esempio, di «riprendere l'idea secondo cui la categoria del valore d'uso sia stato il punto di vista della critica di Marx nel Capitale e che, quindi, la sua critica sia fatta dal punto di vista ontologico della materialità, della presenza», cosa che invece Postone contesta, vedendo nel valore d'uso e nel valore di scambio semplicemente quelli che sono sempre due momenti del movimento del Capitale, non essendo il valore d'uso un polo ontologico contrapposto a una categoria astratta. Naturalmente, è del tutto fuori questione affermare che Derrida sia stato un "marxista", non più di quanto lo sia stato Postone: come accennato in precedenza, il marxismo è un'ideologia, in gran parte obsoleta, a cui dobbiamo molte sofferenze, massacri e fallimenti. Ma, come ha detto Derrida, dato il crollo del comunismo europeo e la dissoluzione degli apparati ideologici marxisti, appropriarsi di un Fantasma di Marx, forse ci viene reso più facile. Marx è morto, il comunismo è crollato; cosa c'è di più allettante che far parlare i fantasmi?
Qui, potremmo seguire Derrida, opponendo gli spettri all'Intelligenza Artificiale. Affidarsi all'IA per pensare il mondo, incontrerà sempre un grosso ostacolo: essa considererà l'intero equilibrio di potere sul pianeta, come se fosse un vasto gioco, come una sorta di generalizzazione su larga scala del gioco degli scacchi (laddove sappiamo che l'IA ha già dato prova di sé), ma probabilmente non è pronta a integrare ciò che non entra in gioco, e che non vi entrerà mai, ossia ciò che rimane improgrammabile e non sussunto da delle regole: in primo luogo, l'azione dei popoli, i movimenti di massa. Chi avrebbe previsto le attuali rivolte della cosiddetta "Generazione Z", avvenuta in molti paesi contemporaneamente (Nepal, Marocco, Madagascar...) per esempio? Possiamo prevedere le odissee nello spazio, basandoci sulla tecnica e sui giochi astratti, ma non possiamo mai prevedere le grandi reazioni che possono verificarsi inaspettatamente, da parte di popolazioni che improvvisamente (e talvolta violentemente), si oppongono l'una all'altra. E in secondo luogo, l'inquietante, a volte inaspettato, incontrollabile ricordo del passato: questo è ciò che esprime la nozione di Spettro. E Derrida ci rimanda alla figura che, tra tutte, la simboleggia al meglio: quella di Amleto. Ah, l'amore di Marx per Shakespeare! Questo è risaputo. Quindi, l'intelligenza artificiale alla fine rimuoverà questi fattori di disturbo (o almeno consiglierà di farlo)? Il peggio, ahimè, non è mai impossibile (ma nemmeno certo). Ammettiamo che un mondo senza esseri umani e senza spettri sarebbe comunque più facile da governare. Il tempo è andato fuori sesto. In "Spettri di Marx", Derrida commenta a lungo questa affermazione di Amleto. Che cosa intende? Egli elenca diverse traduzioni in francese, che sono state date nel corso del tempo. L'ultimo, di Yves Bonnefoy, naturalmente è l'ultimo: "Le temps est hors de ses hinges", ma anche quelli che lo hanno preceduto: "Le temps est détraqué" (Jean Malaplate), "le temps est à l'envers" (Jules Derocquigny), e tra cui quello stupefacente di Gide: "Cette époque est déshonorée". Egli dice che quello di Bonnefoy sembra il più sicuro: «mantiene aperto e sospeso, come nell'epokhè di questo medesimo tempo, la più grande potenzialità economica della formula». Ma tuttavia quello di Gide ha il suo merito, quello di dare un significato più etico. o politico. a questa espressione. «Si passa», dice, «dall'inadeguato all'ingiusto». Ma come continua questa proposizione in Amleto? Con queste parole: «Oh cursed spight, that ever I was borne to get it right». In altre parole, Bonnefoy traduce di nuovo: «O maledetto destino che vuoi che io sia nato per riunirmi a lui!» Il che significa che Amleto non piange tanto per l'orrore di questo tempo, quanto per questo disastroso destino per cui gli gli tocca rimettere il tempo sui suoi cardini. Certo, la parola vale per il nostro tempo, forse più che mai, ma allora chi è che viene a ricoprire questo ruolo che era stato assegnato ad Amleto? Ed è qui, naturalmente, che Derrida invoca lo spettro di Marx. Di nuovo lui! dirà qualcuno. Non è stato forse poco fa che avremo finito di invocarlo, lui, il grande uomo barbuto sul quale si sarebbe già basato tutto un passato di morti e di privazioni della libertà? Senza dubbio, ciò è perché non abbiamo compreso nulla di Marx. Ci sarebbe un «vero Marx», schiacciato sotto tonnellate di spazzatura, di slogan, di associazioni partigiane che avrebbero creduto di trovare in lui quanto basta loro per provvedere a tutta quella massa di rancore e di spirito di vendetta accumulatisi nella storia? «Se il diritto dipende dalla vendetta, come sembra lamentarsene Amleto - prima di Nietzsche, prima di Heidegger, prima di Benjamin - non si può poi sperare che un giorno, un giorno che non apparterrebbe più alla storia, un giorno quasi messianico, una giustizia sarebbe infine sottratta alla fatalità della vendetta?»
Un giorno che non apparterrà più alla storia... Questo è qualcosa su cui riflettere. Infatti, se il tempo è andato fuori dai cardini, ciò che si dice del tempo può essere detto anche della storia. E che cosa deve fare Amleto, se non reintrodurre un cardine in questa discordanza? Senza dubbio, Derrida pensa che questo sia il caso di Marx. Ed è qui che entra in gioco il messianico del pensiero marxiano, già citato in autori come Benjamin. Io, che sono uno sciocco, ho sempre avuto la tendenza a confondere il messianico con il messianismo, formandomi un'immagine terrificante, e necessariamente negativa, di quest'ultimo, mentre invece la prima parola ci porta solo a pensare che un giorno forse (forse al di fuori della storia) sorgerà finalmente uno status del mondo, un modo di porsi in cui regnerà la giustizia. Tutto il primo capitolo del libro di Derrida ruota attorno a questa questione della giustizia a cui aspiriamo e che non potrà mai risiedere in una forma storica stabilita, strutturata, con le sue regole, le sue leggi, la sua ingiunzione di sottomettersi. È questo su cui si sbagliarono i successori di Marx, i "marxisti", i quali credevano fosse possibile costruire un impero governato dalle "leggi del marxismo" mentre di certo essi non potevano fare altro che riprodurre e ripetere ancora peggio la forma degli imperi e degli imperialismi che avevano allora davanti agli occhi; in altre parole, una riproduzione mimetica del capitalismo, con l'unica correzione per cui stavolta si sarebbe trattato di un "capitalismo di Stato". Gli schiavi di color marrone, nel momento in cui fuggirono dalla costa dell'isola di Reunion per rifugiarsi negli isolotti, questi siti che si trovavano nei luoghi vertiginosi al centro dell'isola, si riorganizzarono tra loro in una società in modo da poter vivere insieme, e così facendo, non riprodussero niente di meglio che l'immagine della società da cui erano fuggiti (sono io che lo dico, naturalmente, a seguito di un viaggio che ho fatto una volta sull'isola di Reunion; non è stato Derrida a farlo). Ora, il messianico è invece «la venuta dell'altro, la singolarità assoluta e inattingibile di ciò che viene come giustizia. Un tale messianico resta, crediamo, un marchio incancellabile - che non si può né si deve cancellare - dell'eredità di Marx, e senza dubbio dell'ereditare, dell'esperienza dell'eredità in generale. Ne verrebbe altrimenti ridotta l’eventualità dell'evento, la singolarità e l'alterità dell'altro. Altrimenti la giustizia rischia ancora di ridursi a regole, norme o rappresentazioni giuridico-morali, in un inevitabile orizzonte totalizzante». In altre parole, – traduco – il totalitarismo.
Il marxismo e il discorso "di sinistra" si logorano perché rimangono centrati sulle categorie di un altro secolo: le classi sociali in situazione di lotta fin dall'inizio dei tempi, la categoria del lavoro contrapposta a quella del capitale, le fratture sociali percepite dal punto di vista delle disuguaglianze dovute al «potere d'acquisto», il dominio ridotto allo sfruttamento di una classe umana da parte di un'altra, L'aspirazione a un futuro ridotto a "più mezzi", "più risorse", "più ricchezza", "più di tutto"... in altre parole, categorie che incarnano una visione statica legata a un mondo la cui storia avanzerebbe come se fosse una linea quantitativamente orientata: tutto il contrario della storia vista invece come un tempo disgiunto, «fuori dai suoi cardini»; tempo che potrebbe anche permettere, in quanto tale, di lasciar entrare, in qualsiasi dei suoi momenti, una delle figure spettrali invocate da Derrida, come per esempio l'apparenza della giustizia. Un mondo senza storicità, quindi, perché senza evento. Dove il futuro sarebbe solo la continuazione del presente. Però, "di più" o "meglio", anche se siamo consapevoli che i vincoli strutturali specifici del capitalismo impediscono tale progresso (basti pensare a quello che è successo quando abbiamo avuto dei governi di sinistra, e alla delusione che ne è seguita a causa della loro incapacità di onorare le proprie promesse, date queste costrizioni a cui non potevano sottrarsi). [*1] Visto che, inoltre, i limiti stessi del mondo in cui viviamo annientano le nostre (sebbene legittime) preoccupazioni di miglioramento e di espansione. Usiamo categorie che ci sembrano immutabili, scolpite nella pietra dalla doxa marxista, quando invece dovremmo sapere – ed è lo stesso Marx a dirlo – che esse dipendono dalla storia, e che non possiamo concepirle come se fossero "trans-storiche". Ad esempio, il lavoro non è un'attività indipendente dalla storia, che sarebbe rimasta immutata da tutta l'eternità, la mera descrizione di una relazione tra l'uomo e la natura. Al contrario, esso cambia le sue caratteristiche con i tempi, ed è, sotto il capitalismo, un rapporto sociale specifico. Tuttavia, il Marx maturo non voleva fare altro che limitarsi allo studio delle relazioni sociali specifiche del capitalismo. Le categorie utilizzate: merce, valore, lavoro, sono quindi tutte storiche. La nozione di storia - e anche quella di tempo (astratto) - sono esse stesse storiche. Ciò richiede uno sforzo costante di adattamento, di teorizzazione adeguata a un determinato periodo. Tanto più che ogni teoria coerente che fa parte di questa prospettiva immanente dell'analisi, deve poter essere in grado di venire applicata a sé stessa, in quanto è essa stessa dipendente dalla storia che pretende di descrivere. «Ma come possiamo essere in ritardo sulla fine della storia?» - Derrida risponde: «Questione seria, perché obbliga a riflettere ancora, come si fa da Hegel in poi, su ciò che accade, e merita il nome di evento, dopo la storia; e a chiedersi se la fine della storia non sia solo la fine di un certo concetto della storia». Oppure, oserei dire: di un certo periodo della storia, dopo il quale qualcosa ne sarebbe derivato. Cosa? Non lo sappiamo ancora. Siamo ancora nel capitalismo, o quantomeno nel capitalismo come percepito da Marx? In altre parole, il lavoro è sempre lo stesso? Le nostre categorie sono adatte al mondo di oggi? Domande che non dovrebbero essere prese alla leggera. Alcuni hanno sostenuto che siamo già nel post-capitalismo. Altri hanno notato come la nostra attuale formazione sociale abbia, in alcuni dei suoi aspetti, caratteristiche dei periodi pre-capitalistici, come quello ecclesio-medievale. Quest'estate, a Montferrier, nell'ambito di un seminario di "WertKritik", un giovane sociologo, Christophe Magis, analizzando l'economia delle piattaforme (Amazon, Netflix, Facebook, Tweeter/X, ecc.) ha menzionato la teoria secondo cui stiamo assistendo a una rinascita del feudalesimo, un «capitalismo tecno-feudale» basato su un rapporto di proprietà diretto e non più mediato da una classe sociale, e su un tipo di prelievo di valore quasi "signorile", che apre la strada a una nuova schiavitù e all'assenza di libertà di lavoro. Secondo lui, questo significava dimenticare che ci sono e ci sono sempre state sacche di pre-capitalismo, le quali aiutano il capitalismo a esistere (il lavoro delle donne, ecc.). Secondo lui, ci troviamo infatti in un "capitalismo delle piattaforme", definito attorno ad attori giganti, intermediari sul mercato multi-verso (tra venditore e acquirente) e basato sull'effetto rete. Le modalità di acquisizione del valore cambiano semplicemente forma, a seconda della fase del capitale e sarebbe vano credere che le cose stiano "migliorando". Ragion per cui ci troveremmo ancora sotto il sigillo del capitalismo, qualunque forma assuma questo giogo, e saremmo sempre soggetti a tale movimento di automatismo, il quale cerca di creare e catturare valore, anche se tale valore risiede in noi, in quanto pubblico prigioniero dei canali di notizie continue, o in quanto agenti nostro malgrado delle transazioni che avvengono sui social network.
Alain Lecomte - Pubblicato il 14 ottobre 2025 su Rumeur d'espace -
NOTA: [*1] Questa impossibilità dà origine a due atteggiamenti: l'effimera credenza in qualche miracolo economico causato da una presunta padronanza dell'economia da parte di certi attori politici (ad esempio il macronismo), oppure il rifugiarsi in avventure populiste che fanno rivivere quei feticci su cui poggerebbero le "vere" responsabilità di tale impedimento: da un lato, la presenza degli "stranieri" e il rifiuto degli "altri", e dall'altro lato, un ritorno al classismo e alla magia della lotta di classe.