martedì 3 dicembre 2024

Da Mahagonny a Baku, regia di Lenin, e senza più nemmeno le musiche di Kurt Veil...

Di Chi è la Colpa !!???
di "Pantopolis" - 1° Dicembre 2024 -

COP29, 2024: un'ennesima mascherata che convalida la distruzione del pianeta e della vita da tutti gli stati capitalisti: Produzione annua di CO2 da parte dei principali inquinatori del pianeta (quotazione ufficiale)

1 - Cina: 11,4 miliardi di tonnellate di CO2/anno
2 - Stati Uniti: 5 miliardi di tonnellate di CO2/anno
3 - India: 2,7 miliardi di tonnellate di CO2/anno
4 - Russia: 1,7 miliardi di tonnellate di CO2/anno
5 - Giappone: 1 miliardo di tonnellate di CO2/anno
6 - Iran: 749 milioni di tonnellate di CO2/anno
7 - Germania: 675 milioni di tonnellate di CO2/anno
8 - Arabia Saudita: 672 milioni di tonnellate di CO2/anno
9 - Indonesia: 619 milioni di tonnellate di CO2/anno
10 - Corea del Sud: 616 milioni di tonnellate di CO2/anno
11 - Canada: 546 milioni di tonnellate di CO2/anno
12 - Brasile : 489 milioni di tonnellate di CO2/anno
13 - Turchia: 446 milioni di tonnellate di CO2/anno
14 - Sud/Africa : 436 milioni di tonnellate di CO2/anno
15 - Messico: 407 milioni di tonnellate di CO2/anno

Domenica 24 novembre 2024, a Baku (capitale del Far West dell'Azerbaigian, ricco di petrolio), sul Mar Caspio, al termine di una partita estesa, si è conclusa l'annuale commedia della COP, alla sua 29esima versione. Il Caspio, il più grande mare interno del mondo, è il simbolo stesso del marciume di tutto il Mahagonny capitalista [*1]. È una miscela di inquinamento estremo dovuto allo sfruttamento del petrolio, al rapido prosciugamento dovuto alla deviazione del capitalismo russo dai grandi fiumi (Urali e Volga) e al riscaldamento globale che ha portato i livelli dell'acqua al livello più basso in oltre 40 anni. Nel giugno 2023, lo Stato kazako aveva appena dichiarato lo stato di emergenza a causa dei bassi livelli dell'acqua, che hanno avuto un impatto sulle forniture di acqua potabile e sulla pesca, nonché sulla biodiversità. La COP (Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) riunisce tutti gli Stati membri (capitalisti), nonché le aziende, le ONG e le altre parti interessate (lobby del petrolio e del gas), con l'obiettivo di «negoziare e prendere decisioni sulle azioni da intraprendere per affrontare il cambiamento climatico». La Convenzione, entrata in vigore nel 1994, riconosce (sic) l'esistenza del cambiamento climatico e la "responsabilità umana" (sic) per esso, ma mai la responsabilità schiacciante del capitalismo e dei suoi agenti. Mira a «stabilizzare le emissioni antropogeniche di gas serra (GHG) nell'atmosfera a un livello che non metta in pericolo il clima globale». I 198 firmatari della Convenzione (197 Stati e l'Unione Europea) sono chiamati "parti".

Partiti", dunque, ma "partiti" che sono consapevoli (perché ben informati) dei crimini collettivi contro l'umanità attraverso l'inazione volontaria. Questi "partiti" vengono spesso riccamente sostenuti dai fondi dei nababbi del cosiddetto capitalismo "fossile", pagando un esercito di scagnozzi "scettici del clima" nei media, sui cosiddetti "social network", e persino sul campo, come in Brasile. Ogni anno, dal 1995, è stata organizzata una Conferenza delle Parti (COP), senza mai mettere in discussione il capitalismo dei combustibili fossili e i suoi agenti statali e privati. Questi ultimi non mancano mai di sottolineare che il carbone, e oggi il gas e il petrolio, «sono un dono di Dio» (dixit Ilham Aliev, figlio del dittatore (ex-"comunista") Heydar Aliev, immensamente ricco fin dalla tenera età di 11 anni), per semplice eredità capitalistica [*2]. I leader del mondo capitalista - dopo aver ringraziato il petrolio e il gas alla COP28, tenutasi a Dubai nel novembre-dicembre 2023 [*3] - hanno ribadito la loro fedeltà alle energie inquinanti, e lo hanno fatto un anno dopo, viaggiando sulle rive del Caspio, a Baku, la capitale azera, dall'11 al 23 novembre 2024. Questa COP, presieduta da António Guterres, ex primo ministro "socialista" portoghese dal 1995 al 2002, ora segretario generale delle Nazioni Unite, ha fatto una provocatoria promessa di 300 miliardi di dollari all'anno in sussidi, per poter così mantenere il "limite" di 1,5 gradi di riscaldamento globale - quando invece la previsione più credibile è quella di un aumento di quasi 3 gradi Celsius entro il 2050 ... Ciascuno degli Stati e delle lobby petrolifere capitaliste presenti a questa conferenza sapeva benissimo che la posta in gioco era il crepuscolo (irreversibile) dell'umanità e delle specie viventi: a) il livello del mare potrebbe aumentare di oltre un metro entro il 2100, a causa dello scioglimento dei ghiacciai e delle calotte glaciali (Groenlandia e Antartide), con conseguenze irreversibili per tutte le regioni costiere del mondo; b) quasi la metà delle specie viventi della Terra potrebbe scomparire, vittime di una sesta estinzione di massa [*4]; c) le temperature potrebbero salire a 55° C (all'ombra!) in Francia già nel 2070; ondate di calore letali fino a 80°C potrebbero rendere inabitabili vasti territori in Cina, India, Pakistan, Indonesia, Brasile, Nigeria, i paesi ricchi di petrolio del Golfo Persico... così come negli Stati Uniti (Arkansas, Iowa, Missouri) entro la fine del secolo; d) il massiccio scioglimento del permafrost (terreno permanentemente ghiacciato: Alaska, Canada, Russia) potrebbe riportare alcuni virus estinti o sconosciuti, peggio del covid 19, e rilasciare il doppio di metano e anidride carbonica rispetto all'atmosfera terrestre, potenziando così l'attuale riscaldamento [*5].

A questo quadro apocalittico, ben noto a tutte le fazioni capitaliste dominanti – ma smentito dalle lobby "clima-scettiche" – si è aggiunta la grottesca scena della commedia dell'arte messa in scena da 300 ONG, tutte sponsorizzate a vario titolo da vari Stati capitalisti, tra cui anche i più inquinanti. Tra le ultime cose, era stato chiesto (nella notte tra il 22 e il 23 novembre) ai Paesi in via di sviluppo (India e Russia?!?) e alla Cina di lasciare la conferenza sul clima di Baku, qualora i "Paesi ricchi" non avessero aumentato il loro impegno finanziario. La Cina è sfuggita alla categorizzazione di "paese ricco", sebbene mostruosamente arricchitosi grazie allo sfruttamento del proletariato nel Regno di Mezzo e in tutta l'Asia, in rotta per superare gli Stati Uniti, essendo visto come se fosse un volgare paese "in via di sviluppo". La Cina, il più grande emettitore di gas serra, è stata insignita della grande medaglia della virtù capitalista, quella della morale e. della.. irresponsabilità finanziaria [*6]. Che si tratti di potenze iper-ricche o "proletarie" che cercano il loro "posto al sole" - per citare la vecchia barzelletta di Benito Mussolini - vediamo che ci sono tre grandi potenze (Cina, Stati Uniti e India) che insieme emettono la metà di tutti i gas serra [*7]. I beniamini di questa farsa, messa in scena da capitalisti privati e statali, hanno potuto solo assistere impotenti alla loro programmazione che li vede scomparire sotto l'effetto del rapido innalzamento delle acque: «Dopo che la COP29 sarà finita, non saremo in grado di salpare verso il tramonto, perché stiamo letteralmente affondando» [*8]. In quello stesso momento in cui un numero crescente di Stati (tutti capitalisti, a causa della natura stessa del commercio!) si trovano letteralmente in pericolo di affondare, la migrazione climatica sta diventando un fenomeno di massa. Entro il 2050, ci saranno circa 216 milioni di persone che potrebbero migrare all'interno del proprio stesso paese. Si prevede che l'Africa subsahariana registrerà fino a 86 milioni di migranti climatici interni; Asia orientale e Pacifico: 49 milioni; Asia meridionale: 40 milioni; Nord Africa: 19 milioni; America Latina: 17 milioni; ed Europa orientale e Asia centrale: 5 milioni [*9]. Questi migranti, vilipesi da tutti gli Stati, dai Partiti e dai “partiti” capitalisti, dal più piccolo al più grande, non hanno da aspettarsi nient'altro se non di essere cacciati in modo “nuovo e gioioso”, per essere brutalmente internati in dei campi di concentramento (Grecia, Ruanda, ecc.), o essere deportati o, “meglio”, trasformati in sanguinolenta carne da macello, come avviene nella Russia di Putin [*10], per infine morire lentamente e programmaticamente [*11].  Tutti quei proletari che muoiono ogni giorno nelle prigioni capitalistiche del "Nord", del cosiddetto "Sud globale", dell'"Est" e dell'"Ovest". Non c'è dubbio: quello che regna da sempre è un silenzio sepolcrale. Già alla COP28 di Dubai era emerso che le strutture della COP28 stessa erano state costruite in condizioni estreme da dei lavoratori migranti privi di ogni e qualsiasi diritto. Avevano lavorato all'ombra di oltre 40°C! E tanto per dimostrare quanto  la vita umana conti poco per i miliardari del petrolio e del gas, il maestro macellaio siriano, Bashar Al-Assad (principale responsabile di 300.000 morti civili), è stato cordialmente invitato dagli Emirati Arabi Uniti [*12].

Di chi è la colpa? Della maledizione dell'Antropocene o della barbarie del capitalismo (sia privato che statale)?
La risposta che viene data, e rivendicata, da tutti i veri responsabili delle catastrofi climatiche è di una semplicità disarmante e perversa: «È una legge di natura; non è colpa mia» [*13]. Per i media, la colpa è dell'uomo comune, che non differenzia la propria spazzatura (quando ce n'è...), o che getta le bottiglie di plastica o i contenitori chimici nelle fonti d'acqua. Oppure, drammaticamente, del contadino che brucia le sue erbacce sul proprio miserabile appezzamento di terra, a causa della mancanza di servizi di pulizia e di igiene di base, come avviene a Delhi in India (30 milioni di abitanti); senza però così mettere in discussione l'inquinamento esponenziale prodotto dal capitalismo nelle fabbriche diesel o chimiche. Per molti geografi e storici, tutto questo è colpa della "geologia umana", dell'Antropocene, di questa nuova "era" geologica nella quale  le attività umane sono irreversibilmente iscritte nella storia geologica e climatica. Per gli autori di un libro - comunque eccellente - sul cosiddetto "Evento dell'Antropocene" (di Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz), si tratta di rassegnarsi, andando prima a casa e poi a letto per: «imparare a viverci», e «imparare a sopravvivere» [*14]. Ciononostante, gli autori di questo saggio - che sono più consapevoli della media di quanto lo siano gli "esponenti di sinistra" - sopraffatti da lucidi rimorsi, avvertono: «Dobbiamo fare attenzione a questo termine e non lasciare che sia la colpa collettiva dell'umanità a portare il peso di questo cambiamento ambientale, quando gli attori politici ed economici ne sono responsabili. L'Antropocene è una questione troppo importante per essere lasciata solo agli scienziati». Dall'altra parte, ci sono altri autori appartenenti a un pianeta trotskista-leninista che si trova sull'orlo dell'estinzione, i quali osano affermare che tutti i regimi cosiddetti stalinisti o "socialisti di Stato e antimperialisti", convertitisi oggi al capitalismo misto (privato e statale), farebbero parte di uno "stalinismo fossile" (sic) "non capitalista". Il trotskista svedese e "ambientalista radicale", Andreas Malm, il quale si vede, modestamente, come il "nuovo Lenin del pianeta Terra"[*15] - ma anche come il profeta incompreso delle "lotte di liberazione nazionale", per quanto mafiose e terroristiche esse siano [*16] -  non solo ignora le strutture capitaliste in Russia, da Lenin a Putin, ma anche quelle in Cina, Corea del Nord, Vietnam, ecc.;  facendo del capitalismo di Stato la "virtù suprema". Contro la sinistra comunista russa dell'epoca [*17], Lenin usava la medesima retorica che oggi viene usata dagli odierni padroni del capitalismo di Stato, organizzati nei cosiddetti "partiti comunisti": «Il capitalismo di Stato sarà la nostra salvezza (...). Il nostro dovere è quello di imparare dal capitalismo di Stato dei tedeschi, di applicare tutte le nostre forze per assimilarlo, di non risparmiare procedure dittatoriali per impiantarlo in Russia con una rapidità ancora maggiore di quella di Pietro il Grande nei confronti dei costumi occidentali nella vecchia Russia barbara, senza tirarsi indietro di fronte all'uso di metodi barbari contro la barbarie» [*18]. Il signor Andreas Malm e i suoi colleghi trotskisti di sinistra non solo si dichiarano pronti a impiegare un ricco arsenale di metodi barbari per realizzare il trionfo del capitalismo di Stato più barbaro, ma sono anche palesemente dei bugiardi. Fanno finta che l'unica causa della distruzione del pianeta sia il capitalismo liberale in stile britannico e americano. La distruzione sfrenata della natura in URSS, con la scomparsa del lago d'Aral attuata a tutto vantaggio del capitalismo mafioso del cotone, sono argomenti fuori discussione, per questi amanti del più barbaro capitalismo di Stato. Eppure il bilancio del capitalismo di Stato rimane: la distruzione della natura e dell'umanità [*19]. Ed è identico a quello del cosiddetto capitalismo "liberale". C'è un verso dell'Internazionale, che è stato cantato da intere generazioni di proletari, che proclama: «Non ci sono salvatori supremi, né Dio, né Cesare, né tribuno. Produttori, salviamoci da soli! Decretiamo la salvezza comune!» E questa salvezza comune può provenire solo dai lavoratori stessi, contro il Capitale stesso, in ogni paese, in ogni continente, sia privato che statale, qualunque sia la sua etichetta. Fino a che non prenderanno il potere completo su scala globale, al termine di lunghe e incerte battaglie. Per stabilire una vera e propria condivisione delle ricchezze di questa Terra che deve essere gelosamente preservata al fine di evitare l'inevitabile distruzione dell'intera umanità, sotto il regime letale del Capitale, che ha aperto una nuova era: il Thanatocene per tutti!

- Pantopolis, 30 novembre 2024 - 1° dicembre 2024 -

NOTE:

[1] - L'opera di Bertolt Brecht, "Ascesa e caduta della città di Mahagonny", musicata da Kurt Weil, rappresentata per la prima volta a Lipsia nel 1930, è una critica virulenta del capitalismo, visto in un luogo dove il crimine assoluto è quello di non avere soldi. Mahagonny, una città sperduta nel mezzo del deserto dell'Alabama - simile a Baku che si perde tra i relitti del bacino di un Caspio in via di desertificazione -  è governata da tre teppisti che rivaleggiano tra loro in immaginazione, dissolutezza, estorsione e violenza.

[2] - euronews: https://fr.euronews.com/2024/11/12/ilham-aliyev-critique-loccident-a-louverture-de-la-cop29: «Il petrolio e il gas sono un dono di Dio, proprio come lo sono il sole, il vento e i minerali», per poi ammettere: «Ma in fondo, allo stesso tempo, non possiamo negare che i combustibili fossili siano dannosi» (sic)...

[3] - La nomina del sultano Al-Jaber a presidente della COP28 ha scioccato solo gli ingenui. Questo "sultano" presiede l'ADNOC, una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo. Pochi giorni prima della COP, il magnate Al-Jaber aveva annunciato che nel 2027 ADNOC avrebbe aumentato la sua produzione di oro nero da 3 milioni di barili al giorno nel 2023 a 5 milioni nel 2027! +70% in 4 anni!!

[4] - https://www.futura-sciences.com/planete/definitions/rechauffement-climatique-sixieme-extinction-masse-16134/

[5] - https://ecotoxicologie.fr/effets-rechauffement-climatiquel , e vedi anche: https://www.goodplanet.org/fr/3-minutes-pour-comprendre-le-permafrost/

[6] - https://news.un.org/fr/story/2024/11/1150846 : Onu Info, 24 novembre 2024.

[7] - Matthieu Goar, "Clima: emissioni ancora troppo elevate", su Le Monde, 26 ottobre 2024, p. 7.

[8]  - Anu Info, 24 novembre 2024,ivi

[9] - Rapporto della Banca Mondiale, Groundswell, 13 settembre 2021 ( https://www.banquemondiale.org/fr/news/press-release/2021/09/13/climate-change-could-force-216-million-people-to-migrate-within-their-own-countries-by-2050 ).

[10] - Sito web di Slate: www.slate.fr/monde/russie-armee-invisible-poutine-migrants-prisonniers-asie-centrale-guerre-ukraine-kirghizstan-tadjikistan

[11] -  L'Ufficio internazionale per le migrazioni (OIM) deplora (nel 2022) 50.000 morti di migranti: https://www.iom.int/fr/news/loim-deplore-50-000-deces-de-migrants-recenses-travers-le-monde

[12] -  https://reporterre.net/La-COP28-en-quatre-polemiques

[13] - Choderlos de Laclos, "Le relazioni pericolose" (1781): «Siamo annoiati di tutto, angelo mio, è una legge di natura; non è colpa mia».

[14] -  Christophe Bonneuil, Jean-Baptiste Fressoz, "L’Événement anthropocène : La Terre, l’histoire et nous", Éditions du seuil, Parigi, 2023, p. 268.

[15] -  https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/04/21/andreas-malm-le-lenine-de-l-ecologie_6170422_3232.html : Le Monde, 21 aprile 2023.

[16] -  Per la Palestina come per la Terra: le devastazioni dell'imperialismo fossile, La Fabrique, di prossima pubblicazione nel febbraio 2025.

[17] - La rivista Kommunist Moscow, 1918 - I comunisti di sinistra contro il capitalismo di Stato, collettivo Smolny, Tolosa, 2011.

[18] - La sottolineatura in grassetto è la nostra. Fonte: Lenin, "Sur l'infantilisme de gauche et les idées petites-bourgeoises" (sic), maggio 1918, in Oeuvres, vol. 27, febbraio-luglio 1918, Éditions sociales, Parigi, 1961.

[19]  - Paul Josephson, Nikolai Dronin, Ruben Mnatsakanian et alii, Una storia ambientale della Russia, Cambridge University Press, 2013.

Kafka e il cadavere di Napoleone !!!

Uno dei principali problemi, affrontati da Kafka nei suoi Diari (e anche nella sua opera narrativa in generale), è quello che riguarda l'esposizione del corpo individuale di fronte all'occhio sociale, e al suo giudizio (i suoi riti, i suoi divieti). Da qui, l'enfasi posta da Kafka - nel diario - sulla vita degli attori, e il suo interesse nel riferire a proposito delle performance attuate da quelli che sono dei professionisti di successo e, soprattutto, di alcuni oratori (Kafka va molto spesso a vedere gli spettacoli di compagnie itineranti - teatro ebraico, per esempio - e inoltre frequenta assai spesso anche le conferenze nei centri culturali - anche in tal caso, alcuni dei quali ebrei).

Infatti, molte tra le parti più elaborate del diario riguardano proprio registrare il fatto che fosse entrato in contatto con alcuni oratori carismatici: Rudolf Steiner, Karl Kraus, il militare francese Richepin (il quale, da bambino, aveva visto il cadavere di Napoleone). Kafka, mette sempre a confronto sé stesso con i suoi personaggi, e lo fa a partire dall'esempio dell'esperienza – vocale, corporea, aurale – che ha fatto di questi individui seducenti e strani (in tal senso la scena di Kafka, che legge i suoi manoscritti ai suoi amici è già canonica).

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 2 dicembre 2024

E c’è anche chi fa il tifo, ora per questo, ora per quello…

COP29, 2024: un'ennesima mascherata che convalida la distruzione del pianeta e della vita da parte di tutti gli Stati capitalisti. Produzione annuale di CO2 da parte dei principali inquinatori del pianeta (elenco ufficiale)

    1. China: 11.4 billion tonnes of CO2/year
    2. United States : 5 billion tonnes of CO2/year
    3. India: 2.7 billion tonnes of CO2/year
    4. Russia: 1.7 billion tonnes of CO2/year
    5. Japan: 1 billion tonnes of CO2/year
    6. Iran: 749 million tonnes of CO2/year
    7. Germany: 675 million tonnes of CO2/year
    8. Saudi Arabia : 672 million tonnes of CO2/year
    9. Indonesia: 619 million tonnes of CO2/year
    10. South Korea : 616 million tonnes of CO2/year
    11. Canada: 546 million tonnes of CO2/year
    12. Brazil : 489 million tonnes of CO2/year
    13. Turkey : 446 million tonnes of CO2/year
    14. South Africa : 436 million tonnes of CO2/year
    15. Mexico: 407 million tonnes of CO2/year

    Come Ultima Spiaggia...

    Nel 1946 torna in Irlanda ed è durante quel viaggio che sperimenta quella convulsione che avrebbe poi cambiato radicalmente il suo modo di approcciarsi alla scrittura e la sua concezione di racconto. Questa consapevolezza fu progressiva o fulminea? Lui parla di crisi, di istanti di rivelazione improvvisa: «Fino a quel momento, avevo creduto di poter contare sulla conoscenza. Che avrei dovuto equiparare sul piano intellettuale. Quel giorno, è andato tutto in pezzi». Le sue stesse parole mi vengono alle labbra: «Ho scritto Molloy e tutte le altre cose che sono venute, dopo il giorno in cui ho capito la mia stupidità. È stato così che ho iniziato a scrivere le cose che sento». Sorride e inclina la testa. Era notte. E come spesso accade, vagava da solo e si ritrovò alla fine di un molo spazzato dalla tempesta. Fu proprio lì che gli sembrò come se tutto stesse tornando al suo posto: anni di dubbi, di ricerche, di domande, di fallimenti (pochi giorni dopo avrebbe compiuto quarant'anni), all'improvviso assumevano un senso, e la visione di tutto ciò che avrebbe dovuto realizzare gli veniva imposta come un'ovvietà: «Ho intravisto il mondo che dovevo creare per poter respirare». Molloy, lo aveva cominciato quando viveva ancora con sua madre e lo aveva proseguito prima a Parigi, poi a Mentone, dove un amico irlandese gli aveva messo a disposizione una casa. Ma una volta che aveva finito di scrivere il primo tempo, non aveva più saputo come proseguirlo. Non stava più attraversando i guai che aveva avuto negli anni precedenti, ma tutto continuava a essere ancora difficile. E così, sulla prima pagina del manoscritto di Molloy, appaiono le seguenti parole: «Come ultima spiaggia». Ma poi, e fino al 1950, viene come travolto da una vera e propria frenesia creativa, finisce di scrivere Molloy, e di seguito  Malone muore, Aspettando Godot, L'innominabile, e Testi per nulla;  le uniche opere che hanno meritato la sua approvazione. Ritiene che i testi successivi al 1950 siano solo dei tentativi, e che forse solo nel suo Teatro ci sono delle pagine che possono essere considerate superiori a tutto il resto.

    - Charles Juillet - da "Rencontres avec Samuel Beckett" - POL Editeur - 1999

    domenica 1 dicembre 2024

    Trent’anni dopo…

    La Critica dello Spettacolo 30 anni dopo la morte di Guy Debord
    - di Robson Oliveira -

    Il 30 novembre del 1994, Guy Debord mise fine a quelli che erano stati i suoi giorni in questa terra mercificata. La causa: una malattia incurabile e dolorosa.
    Oggi, l'idea situazionista di creare situazioni, così come quella legata al concetto di Spettacolo, continuano a essere ancora assai vive. In questa società unidimensionale - la quale imprigiona ogni utopia possibile, rinchiudendola in una soffocante immanenza e rivendendola come merce, tale idea situazionista - tesa a creare situazioni al di là del  suo inquadramento nel denaro, nel lavoro e nel consumo - rimane  attuale, proprio quando la coazione a moltiplicare il denaro conferisce tanto più al mondo, oggettivo e soggettivo, i tratti della merce: che poi sono quelli della mera quantità senza qualità, quelli della vacuità.

    E mentre diventa sempre più raro sentire delle critiche rivolte allo Spettacolo, proprio a partire dal fatto che le persone vedono sempre più sé stesse come se fossero loro i protagonisti del mondo (dello spettacolo). Diventa anche ancora più raro, sentire delle critiche sostanziali ai social network, diventati oramai il culmine dello spettacolo, anziché la sua negazione. Ed ecco che così la vita sociale non viene più vissuta direttamente, e finisce per essere solo una mera rappresentazione. Al giorno d'oggi, non essere sui social network - anche per quei movimenti sociali che dovrebbero invece avere il compito di non unirsi alla marcia del mondo - diventa sempre più un sintomo di morte sociale. Lo Spettacolo non è solo una mera forma di media, o un'esagerazione del mondo delle immagini. Lo Spettacolo è una relazione sociale, mediata da immagini che hanno la funzione di veicolare un design mercantile; esso è la contemplazione passiva del movimento autonomo del non vivente, vale a dire, della merce che colonizza tutto ciò che viene vissuto.

    Ragion per cui i social network non sono solo dei semplici media, ma essi contengono una loro propria razionalità. Ovvero, quella forma di vita sociale che è la più appropriata allo svolgersi di questa marcia moderna, la stessa che ha forgiato quei soggetti narcisisti il cui desiderio più intimo è quello di affermare in maniera regressiva il loro imperioso Io. Nel nome di un godimento disseminato di macerie, questo soggetto si accoda all'euforica processione dell'annichilimento del mondo trasformato in merce. Di tutte le avanguardie artistiche, i Situazionisti sono stati gli unici a non venire riassorbiti dalla merce, e oggi la critica di Debord si rivela essenziale per tutti quei pochi che ancora pensano di creare delle temporalità che permettano di aprire dei varchi nel tempo storico spettacolare e mercantile, inaugurando così il tempo storico umano.

    - Robson Oliveira - 1/12/2024 - fonte: https://utopiasposcapitalistas.com/ 

    Tutto è Cancro (alla Carlo Verdone) !!!

    «Da noi, cioè nella nostra famiglia, qualunque malattia era mortale. Non perché avessimo una tara genetica, che so un’emofilia congenita, un’anemia mediterranea o un disturbo del sistema immunitario, che ci avrebbe messo a rischio nel caso di qualunque malattia. Ma perché, secondo noi, che una tara in verità ce l’avevamo, ma nel sistema nervoso e nei pensieri piuttosto che nel corpo, qualunque malattia poteva nascondere una malattia mortale». Crescere tra discorsi medici, nomi e sintomi di malattie improbabili e desuete o ancora quasi sconosciute, con il costante timore della loro potenziale incurabilità tranne che in un caso: la bella angina dalle placche bianche curata con gli ancora giovani antibiotici. Nasce così il racconto autobiografico e umoristico della più giovane delle quattro figlie di una famiglia napoletana su cui aleggia la figura di un lontano prozio medico e santo. Sotto lo sguardo di un padre ipocondriaco, che ha compiuto i suoi studi di medicina fra le due guerre, e di una madre vitale, ottimista e molto ansiosa, le esperienze e le nozioni mediche e terapeutiche, le diagnosi improvvisate e le disquisizioni sui vaccini diventano parte essenziale del vissuto infantile e del lessico famigliare, tessendo una fitta rete alla quale è impossibile sfuggire, e che una scrittura eccessiva e dissacrante riesce a cogliere in tutta la sua teatrale comicità.

    (dal risvolto di copertina di: Antonella Moscati, "Patologie". Quodlibet, pagg. 104, € 11,40)

    Se l’ipocondria è un affare di famiglia
    - Raccontarsi le malattie -
    di Paolo Albani

    Sul cassettone del salotto di casa dei miei genitori, in una strada che ancora oggi, dopo qualche curva, sale in collina, verso il comune di Fiesole, non lontano da Firenze, c’era una zuppiera di porcellana stile falso Capodimonte, decorata di putti che suonano lunghi flauti in un ambiente campestre. La zuppiera era sempre stracolma di medicine, scatoline colorate dai nomi astrusi, spesso terminanti in x o in s, fra cui spiccavano numerose confezioni gialle di citrosodina, indicata nel trattamento sintomatico dell’iperacidità (dolore e bruciore dello stomaco), di cui i miei genitori erano voraci consumatori. Questo ricordo mi è venuto in mente («ciabattato in testa», avrebbe detto in modo più espressivo Giorgio Manganelli) leggendo Patologie, edito nella collana Storie dell’editore Quodlibet, un delizioso e proustiano «racconto familiare» di Antonella Moscati, filosofa e traduttrice dal tedesco e dal francese di testi di filosofia contemporanea. Patologie è, come si legge nella postfazione del libro, un coacervo di «reminiscenze» che girano intorno a un unico, assillante tema, quello delle malattie. A suo modo si presenta come una narrazione semicomica. E in effetti l’atmosfera che si respira in casa Moscati è così pesantemente «drammatica», sul piano delle ossessioni e delle paure di ammalarsi, da lambire, come spesso succede, i territori imperversi della comicità. Figura centrale di Patologie è il padre medico, un dermosifilopatico, cioè un medico che studia le malattie cutanee e veneree. In famiglia è considerato una specie di medico non medico, anche perché l’uomo odia la dermatologia, dato che tutti (ditemi se la situazione non è comica) vanno a chiedergli come far scomparire i foruncoli o far ricrescere i capelli, e lui, persona onesta, dice sempre la schietta verità annunciando subito che non ci sono medicine né contro l’acne né contro la caduta dei capelli con il prevedibile risultato, racconta la Moscati, che i clienti, o meglio i pazienti che evidentemente pazienti non sono, da lui non tornano più. Come medico, il padre ritiene che si possano guarire solo le malattie che, come la tonsillite, la sifilide e la scabbia, si vedono a occhio nudo, ragione per cui sono i batteri – streptococchi, gonococchi, treponemi pallidi – molto famosi e manifesti che lo interessano, mentre tutto il resto, patologicamente parlando, non provoca che dubbi e agitazione psichica. Un tipo davvero strano questo medico non medico. Ad esempio, quand’è fidanzato con la madre della Moscati, lui le scrive lettere che invece di parlare d’amore e di romanticherie si dilungano in chiacchiere su bruciori e pesi di stomaco e in raccomandazioni su quello che può o non può mangiare.
    La malattia che il padre teme di più non è l’influenza, sebbene la reputi terribile perché, come dice la parola stessa, sparge un’influenza negativa su tutto, bensì l’esaurimento nervoso, una malattia della testa, di cui soffre periodicamente, tanto da spingerlo a ricorrere alle sedute con un famoso psichiatra turco (che uno s’immagina con grandi baffi neri e sempre con la sigaretta in bocca) e a farsi degli elettroshock che, soprattutto la prima volta, gli procurano un gran bene. Per informarsi sulle malattie sempre in agguato, Moscati e le sorelle consultano Diagnostica e terapia di Anton Spartaco Roversi (da loro chiamato semplicemente il Roversi), talvolta lo leggono perfino a letto, prima di addormentarsi, quasi fosse un romanzo d’amore o d’avventura. Da parte sua, a differenza delle sorelle che si concentrano su quelle più diffuse e possibili, Moscati da piccola predilige le malattie altamente improbabili, tipo febbre gialla, peste bubbonica o sifilide, quest’ultima in omaggio al padre, e anche perché sa ben poco dei rapporti sessuali. Il dramma che si consuma nella famiglia della Moscati è legato alla convinzione che ogni sintomo, anche il più insignificante, che altera lo stato di salute, è preludio e presagio di una malattia mortale, di una leucemia o di un cancro («tutto è cancro di qua e cancro di là e non possiamo, anzi non posso, neanche avere mal di gola o mal d’orecchio che è già cancro»). Sulla paura delle malattie, una sorta di collante psicologico che tiene stretti, «nel bene, anzi no, solo nel male», i componenti della famiglia della Moscati, il quadro è questo: il padre teme tutte le malattie tranne il tumore, la madre invece non ha paura di nessuna malattia tranne che del tumore. Leggendo le storie narrate in Patologie mi sono fatto una certa cultura, alla Carlo Verdone, sulle medicine, sui loro nomi incomprensibili e misteriosi, sulle loro proprietà e su quanto il loro uso (e abuso) scaturisca da un’irriducibile propensione all’ipocondria.

    Il libro si chiude con un racconto intitolato AGT, acronimo di Amnesia globale transitoria, dove l’autrice, a seguito di un episodio accadutole in spiaggia, cioè un’assenza durata qualche ora che la costringe al ricovero in un pronto soccorso, sviluppa una serie di stimolanti riflessioni filosofiche (del resto è la filosofia il terreno elettivo della Moscati) su cosa succede dentro di noi, al nostro io, «quel puntino di autocoscienza», quando la memoria si assenta, perde qualche colpo. A proposito della vecchia zuppiera di porcellana dei miei genitori con i putti musicisti dipinti sui lati, sono contento di poter dire che esiste ancora. È dentro una madia nella cucina di casa mia e, assecondando le pieghe di un ricorso storico quasi scontato, è ancora piena zeppa di medicine, nella fattispecie le mie.

    - Paolo Albani - Pubblicato su Domenica del 17/3/2024 -

    venerdì 29 novembre 2024

    La maledetta proprietà…

    La strana genealogia del concetto di capitalismo
    - di Marcello Musto -

    Malgrado venga considerato come il più importante critico del capitalismo, raramente Karl Marx ha usato tale termine. La parola risulta assente anche nei primi grandi classici dell'economia politica. Non solo essa non trova alcun posto nelle opere di Adam Smith e di David Ricardo, ma non è stata utilizzata nemmeno da John Stuart Mill né tantomeno dalla generazione degli economisti contemporanei di Marx. Quello che veniva usato, era il termine Capitale – comune fin dal XIII secolo – ma non il termine Capitalismo, che da Capitale deriva. È stata, dall'inizio, una parola usata soprattutto da chi si opponeva all'ordine di cose esistente, e peraltro aveva una connotazione assai più politica, che economica. I primi a usarlo - Capitalismo - sono stati alcuni pensatori socialisti, e lo hanno fatto sempre in modo dispregiativo. In Francia, in una ristampa del suo famoso "L'organisation du travail", Louis Blanc sosteneva che l'appropriazione del capitale – e, attraverso il capitale stesso, anche del potere politico – era stata monopolizzata dalle classi ricche. Queste classi lo avevano concentrato nelle proprie mani, e pertanto, così facendo,  ne avevano limitato l'accesso alle altre classi sociali. Ben lungi dal voler cercare di rovesciare le basi economiche della società borghese, Blanc si era dichiarato a favore della «soppressione del capitalismo, ma non del capitale». Così, in Germania, l'economista Albert Schäffle - ridicolizzato con l'epiteto di "socialista da poltrona" - nel suo libro "Capitalismo e socialismo" difendeva le riforme statali in modo che alleviassero gli aspri conflitti che, a causa della "egemonia del capitalismo", si stavano ampiamente diffondendo. Fin dal suo primo utilizzo, non c'è mai stata una definizione condivisa del concetto di capitalismo. Tuttavia, questa difficoltà è cambiata in seguito, venendo meno, nel momento in cui il termine cominciò ampiamente a diffondersi, guadagnando così popolarità. "Il capitalismo moderno" di Werner Sombart, e "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", di Max Weber -  entrambi pubblicati all'inizio del XX secolo - avevano lo scopo di mostrare, malgrado alcune differenze, quella che era l'essenza del capitalismo, vedendola nello spirito di iniziativa, nel freddo calcolo razionale e nella ricerca sistematica del vantaggio personale. Quei libri, hanno contribuito non poco alla divulgazione del termine. Tuttavia, è stato soprattutto grazie alla diffusione della critica marxista della società che la parola capitalismo – a cui l'Enciclopedia Britannica ha dedicato per la prima volta una voce solo nel 1922 – ha acquisito diritto di cittadinanza nelle scienze sociali. Oltre tutto, dopo essere rimasto ai margini - se non addirittura esplicitamente respinto - nel discorso teorico delle principali correnti dell'Economia Politica, sarà grazie all'opera di Marx che il concetto di capitalismo acquisirà centralità anche in questa disciplina. E pertanto,  anziché continuare a essere concepito come un sinonimo di una pratica decisionale politica volta a beneficiare le classi dominanti, è stato grazie a Marx che ha acquisito il significato di un sistema di produzione specifico, basato sulla proprietà privata delle fabbriche e sulla creazione di plusvalore. In un certo senso, si può dire che il contributo involontario, dato da  Marx, alla diffusione del termine "capitalismo" sia  stato paradossale. Totalmente assente dai libri da lui pubblicati, sebbene nei suoi manoscritti il termine "Kapitalismus" compaia assai sporadicamente; apparve solo in cinque occasioni, sempre en passant, e senza che lui ne fornisse mai una descrizione specifica! Con ogni probabilità, Marx riteneva che si trattasse di una nozione che non era sufficientemente focalizzata sull'economia politica, ma che fosse piuttosto legata esclusivamente a una critica della società, più morale che scientifica. Infatti, nel momento in cui aveva dovuto scegliere il titolo della sua Magnum Opus, aveva optato per l'utilizzo del termine "Capitale", e non per "Capitalismo". Al posto di quest'ultima parola, ne preferiva altre, che riteneva più appropriate per poter definire il sistema economico e sociale esistente. Nei Grundrisse, si riferisce al "modo di produzione del capitale", mentre pochi anni dopo, nei "Manoscritti economici" del 1861-63, adotta la formula "modo di produzione capitalistico". Questa espressione, appare anche nel Primo Libro del Capitale, dove il famoso paragrafo iniziale recita: «La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si manifesta come una "immane raccolta di merci"». Da allora in poi, sia nella traduzione francese così come nella seconda edizione tedesca del primo volume del Capitale, Marx userà sempre anche la formula "sistema capitalistico". Lo ripeterà anche nelle bozze preliminari della famosa lettera a V. Zasulic del 1881. In questi e in molti altri scritti sulla critica dell'economia politica, Marx non ha mai fornito una definizione concisa e sistematica di che cosa fosse il "modo di produzione capitalistico". Pertanto, il modus operandi del capitalismo può essere pienamente compreso solo collegando tutte le molteplici descrizioni delle sue dinamiche, contenute nel Capitale.

    Nel primo volume, Marx afferma che «L’epoca capitalistica è, dunque, caratterizzata dal fatto che la forza di lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma di una merce, di sua proprietà, mentre il suo lavoro assume la forma di lavoro salariato». La differenza cruciale con il passato è che i lavoratori non vendono i prodotti del loro lavoro – che sotto il capitalismo non sono più di loro proprietà – bensì il loro lavoro. Per Marx, il processo di produzione capitalistico si basa sulla separazione della forza lavoro e delle condizioni di lavoro; una condizione questa, che il capitalismo «riproduce e perpetua» per poter così garantire lo sfruttamento permanente del proletariato. Questo modo di produzione «costringe l'operaio a vendere costantemente la sua forza-lavoro per vivere, e permette costantemente al capitalista di comprarla per arricchirsi». Inoltre, Marx ha sottolineato il modo in cui il capitalismo differisce da tutti i precedenti modi di organizzazione produttiva a causa di un'altra ragione peculiare. Tale differenza consiste nell'«unità del processo lavorativo e del processo di creazione del valore». Marx descrive il processo di produzione capitalistico come un modo di produzione che ha una duplice natura: «da un lato, è un processo di lavoro sociale per la fabbricazione di un prodotto, mentre dall'altro, è un processo di valorizzazione del capitale». Ciò che guida il modo di produzione capitalistico «non è il valore d'uso o il piacere, ma il valore di scambio e la moltiplicazione». Il capitalista è stato descritto da Marx come un «fanatico della valorizzazione del valore», come un essere che «costringe, senza alcuno scrupolo, l'umanità a produrre per il gusto di produrre». In questo modo, il modo di produzione capitalistico genera l'espansione e la concentrazione del proletariato, insieme a un livello di sfruttamento della forza lavoro senza precedenti. Infine, pur concentrandosi certamente sull'economia, l'analisi di Marx del sistema capitalistico non era diretta esclusivamente ai rapporti di produzione, ma costituiva una critica globale della società borghese che includeva la dimensione politica, le relazioni sociali, le strutture giuridiche e l'ideologia, nonché le implicazioni che determinano su ciascun individuo. Pertanto, egli non considerava il capitale come «una cosa, ma come uno specifico rapporto sociale di produzione, appartenente a una specifica formazione storica della società».  Pertanto, non è eterno e può essere sostituito – attraverso la lotta di classe – da una diversa organizzazione socio-economica.

    - Marcello Musto -  20/10/2024 -

    giovedì 28 novembre 2024

    Pensando ad altro…

    La mente vagabonda esplora l'universale preoccupazione umana per la distrazione e i metodi che anticamente abbiamo trovato per resisterle. Un’opera che ci proietta nel mondo dei monaci del Medioevo, facendoci scoprire che nemmeno una vita di preghiera e isolamento è mai stata libera dalla deconcentrazione. La riduzione della soglia d’attenzione sembra una caratteristica tipica della nostra era ipertecnologica, un effetto dell’influenza dei social media e dell’enorme quantità di stimoli che riceviamo. Quanti libri non finiti rimangono sui nostri comodini? Chi può dire di essere in grado di lavorare senza guardare continuamente lo smartphone? Tutti, oggi, ci sentiamo più distratti. Ciò che invece ci rivela la storica Jamie Kreiner è che anche i più impensabili dei nostri avi, i monaci e gli eremiti medievali, avevano il nostro stesso identico problema. Dall’asceta del IV secolo Simeone Stilita, che diede avvio alla pratica di vivere su una colonna, alla badessa del VII secolo Sadalberga, che si imponeva lunghi periodi di totale silenzio, fino a Ugo di San Vittore, che nel XII secolo scrisse una guida su come tenersi occupati costruendo mentalmente l’immagine di un’arca, ognuno di loro ha dovuto inventarsi ogni giorno un modo per combattere il demone della distrazione. Questo libro ci mostra come la lotta per rimanere concentrati sia qualcosa di «più antico della nostra tecnologia», invitandoci a imparare da questi antichi maestri ad avere fiducia nella capacità della nostra mente di cambiare. Perché è solo imparando ad accettare le nostre mancanze che potremo superarle, dato che nemmeno nascondendoci in una remota caverna saremo mai in grado di fuggire da noi stessi.

    (dal risvolto di copertina di: Jamie Kreiner, "La mente vagabonda. Cosa ci insegnano i monaci medievali sulla distrazione". Traduzione di Luisa Agnese Della Fontana. il Saggiatore, pagg. 352, € 26)

    Impariamo dai monaci a pensare di pensare
    - Sulla concentrazione. Per Jamie Kreiner la mente costruisce storie complesse e le condivide come facevano i cenobiti quando si raccontavano le visioni, incerti se fossero opera del demonio o immagini della fantasia -
    di Marco Belpoliti

    Davvero come sostiene qualcuno gli smartphone e i social media sono fonte continua di distrazione? Non sarà vero proprio il contrario: questi strumenti catturano la nostra attenzione, la organizzano e la sfruttano anche economicamente. La distrazione, come mostrano le storie dei monaci dei primi secoli del cristianesimo, è più antica delle nostre tecnologie digitali. Loro, uomini religiosi del passato, lottavano tenacemente per non essere distratti senza avere nessuno strumento a portata di mano se non il proprio pensiero, come racconta Jamie Kreiner in La mente vagabonda, libro il cui sottotitolo recita: Cosa ci insegnano i monaci medievali sulla distrazione. Lo scopo di questi consacrati era quello di concentrarsi su Dio, ma erano continuamente distratti da altri pensieri, così alcuni decidevano d’allontanarsi dalle comunità cenobitiche in cui vivevano per cercare luoghi in cui appartarsi al fine di condurre una vita solitaria, da anacoreti, e tuttavia anche lì erano inseguiti dai demoni tentatori, come racconta Evagrio Pontico in Gli otto spiriti malvagi. Lui stesso aveva trovato rifugio in una zona a ovest del delta del Nilo. Sono stati questi uomini e donne religiose, che hanno ingaggiato una lotta mentale con tutto ciò che li sviava dal pensiero del Creatore, a inventare tecniche psichiche per restare concentrati nella preghiera, sino al punto da creare motivi metacognitivi, come si dice oggi: pensando al pensare cercavano di riportare ordine nel caos intellettivo che gli spiriti del male producevano in loro. Secondo questi uomini del passato la distrazione ha tuttavia una origine genetica: deriva dalla separazione iniziale dell’umanità da Dio. Furono Adamo ed Eva nel momento in cui disubbidirono a Dio, scrive un asceta, a scegliere di concentrarsi su sé stessi perdendo così per sempre il Paradiso Terrestre.  

    Nei trattati monastici ci sono vere e proprie analisi della distrazione a partire dall’idea che sia provocata prima di tutto da una volontà forte e non, come comunemente si crede, da una volontà debole. E tuttavia Evagrio Pontico racconta come nei monasteri fosse sempre in agguato il demone meridiano che sviava l’orante dal suo compito: leggendo il monaco è preso dal sonno, si stiracchia, stropiccia gli occhi, distoglie lo sguardo dal libro e dopo averlo piegato «lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo». La concentrazione e la distrazione, come mostra il libro di Jamie Kreiner, conducono in una sorta di “cul de sac” che Joshua Cohen, scrittore e campione di memoria, ha così brillantemente sintetizzato: «Diventare consapevoli dell’attenzione è creare attenzione. Diventare consapevoli dell’attenzione è distruggere attenzione». Detto altrimenti: ciò che cattura la nostra attenzione, impedendo alla nostra mente di distrarci, costituisce a sua volta una forma di distrazione. Che fare? Davvero la distrazione è il nemico quotidiano con cui condurre anche oggi una guerra continua sino a opporgli una resistenza estenuante e necessaria come facevano i monaci e le monache medievali, sino a suggerirci d’imitare, almeno metaforicamente, gli stiliti come il celebre Simone, cui Luis Buñuel ha dedicato un bellissimo film, Simon del deserto? Intanto non tutti i distratti sono uguali; ne esistono di vario tipo. Gli eremiti li avevano già riconosciuti nel corso dei loro esercizi, ad esempio: i distratti dispersivi e i distratti assorti, come ha spiegato in un suo libro Alessandra Aloisi, La potenza della distrazione (il Mulino). Proprio i secondi sono quelli che sviluppano uno degli elementi decisivi del pensare stesso. Dannandosi l’anima alla ricerca della concentrazione su Dio gli anacoreti hanno infatti mostrato che la nostra mente non stacca mai anche quando è impegnata a fare altro, e quando vaga lontano dal compito assegnato finisce comunque per trovare qualcosa d’imprevisto e d’inatteso. L’ha spiegato bene un professore di psicologia, Michael C. Coballis in un suo libro, La mente che vaga (Cortina), secondo cui senza distrazione non ci sarebbe pensiero. Proprio muovendosi con la mente qua e là, seguendo sentieri strani, immagini mnemoniche del passato, ricordi ricorrenti, o altre visioni similari, come quelle che Italo Calvino racconta nella sua lezione americana sulla Visibilità, accade che qualcosa di nuovo piova dentro la nostra fantasia, come dice il verso dantesco di Purgatorio (XVII, 25) citato dall’autore delle Cosmicomiche, il quale distraendosi a leggere le pagine di Scientific American ha finito per trovare le frasi necessarie a far viaggiare nello spazio e nel tempo il suo proteo palindromo Qfwfq.

    La teoria della mente è un campo che i monaci hanno arato con costanza e determinazione scoprendo le proprietà ricorsive del pensiero stesso, in cui l’assoluta libertà coincide sovente con la totale ossessività, così che i confini tra l’una e l’altra sono altamente labili. In realtà, come gli anacoreti della Cappadocia avevano compreso, noi siamo distratti perché abbiamo un corpo e una mente ad esso collegata. Anche nel sonno conosciamo forme di distrazione affascinanti come il sogno e le allucinazioni. Allo stesso modo la distrazione non è solo un elemento che ci isola, poiché come spiega Coballis, dal momento che ogni comprensione è immersa in altre comprensioni, e non siamo mai soli nei pensieri dei pensieri. C’è un’altra idea che il professore di psicologia suggerisce nei suoi studi: la connessione che esisterebbe tra il vagare con la mente e la narrazione delle storie. Proprio come mostrano le visioni dei monaci del deserto la mente umana possiede grandi capacità di costruire racconti complessi, ingarbugliati, contorti e anche di condividerli con gli altri sotto forma di storie, come facevano quei cenobiti quando si raccontavano l’un l’altro le loro visioni incerti se fossero opera del demonio o invece immagini liberate dalla loro stessa fantasia. Poi c’è un’altra buona ragione per essere distratti. L’ha scritto Montaigne: pensare ad altro alimenta la speranza, un sentimento di cui oggi abbiamo molto bisogno.

    - Marco Belpoliti - Pubblicato su Domenica del 17/3/2024 -

    Una sorprendente triangolazione !!

    In una lettera inviata a Susan Sontag il 14 gennaio 1966, Joseph Cornell le scrive di star leggendo con attenzione e piacere il suo libro "Contro l'interpretazione"; in particolare - nel libro - il saggio dedicato a Michel Leiris. Il saggio è costituito dalla recensione che la Sontag fa di un libro di Leiris del 1939, e che in inglese si chiama "Manhood", mentre il titolo orginario è "L'Âge d'homme". Ma nella lettera, Cornell non va più a fondo, non parla esattamente quali siano state quelle parti del saggio che lo hanno toccato di più (sebbene si deduce che sia chiaramente coinvolto in un'esperienza di lettura fortemente carica di riconoscimento e identificazione), ma è possibile dedurre che si riferisca anche ai momenti nei quali Sontag scrive che - in Leiris – perfino i successi sembrano essere dei fallimenti; e in cui argomenta che sembra che Leiris stesse quasi cercando di "eliminare" il proprio corpo (giudizi, questi, che valgono perfettamente anche per la poetica di Cornell). Una triangolazione sorprendente: Cornell legge Leiris attraverso la lettura di Sontag.

    Il fatto è che Cornell era molto attratto dalla letteratura francese: essa rappresentava una delle poche materie in cui egli eccelleva quando frequentava il college, ed è per questo che la letteratura francese accompagnerà Cornell per tutta la vita (quando cerca dei libri, per strada, in edicola, nelle librerie dell'usato; quando cerca ispirazione per le sue scatole e per i suoi collage). Leiris era nato nel 1901; Cornell, nel 1903; Sontag, nel 1933. È curioso, tuttavia, notare che uno degli accostamenti che Sontag fa, è tra Leiris e Norman Mailer – visti entrambi in quanto coinvolti in una "lacerazione" ed "esposizione" delle loro soggettività (il saggio è del 1964, cosa che spiega, almeno in parte, l'apparizione di Mailer - la cui irrilevanza, oggi, sessant'anni dopo, appare direttamente proporzionale alla pertinenza e alla freschezza dell'opera di Leiris). Poche righe, dopo questo accostamento, alla fine del saggio, nelle quali Sontag tocca un punto importante: il collegamento tra il libro di Leiris e il suo immediato contesto di apparizione, vale a dire, le avanguardie del primo Novecento, la scena modernista: è questo ambiente che rende il libro di Leiris erratico e inconcludente, poiché esso deve essere letto come se fosse uno degli elementi di un "progetto di vita", all'interno del quale la letteratura è «un'azione, che porta ad altre azioni», scrive Sontag.

    fonte: Um túnel no fim da luz

    mercoledì 27 novembre 2024

    Sfruttamento e/o Razzismo

    Sullo sfruttamento e sul razzismo
    Obiezioni a una tendenza nella formazione della teoria antirazzista

    di JustIn Monday

    Nell'antologia "The Diversity of Exploitation", si afferma che non c'è «mai stata quasi alcuna discussione» su «come classe e razza» siano collegate; cosa che potrebbe essere facilmente fraintesa per essere un tentativo di ingraziarsi un favore perenne da parte della sinistra [*Vedi: Eleonora Roldán Mendívil/Bafta Sarbo (Hrsg.), "Die Diversität der Ausbeutung", Berlin 2023 [*1]]. Naturalmente, la questione del collegamento tra le due cose è stata invece discussa, e piuttosto a lungo. L'esito delle discussioni, è sempre stato però lo stesso: vale a dire, che l'una non si fonde con l'altra, e che quindi, riguardo le rispettive lotte, non può essere postulata alcuna gerarchia; e questo per quanto la "questione sociale" sia  in qualche modo più generale, rispetto alle diverse discriminazioni, mentre tutto il resto rimane piuttosto confuso e multidimensionale. Ecco perché la maggior parte delle persone si attiene a una sorta di intersezionalità [N.d.T.: come una sorta di intersecazione e sovrapposizione delle diverse identità di ciascuno] che ha fatto di necessità virtù, volendo in tal modo lasciare a tutti, e a ciascuno - nel modo in cui la società l'ha messa insieme - quella che è la propria immagine di sé che viene chiamata "identità". Sembra essere implicito, che ciò sia possibile senza conflitti, senza che "l'identità" dell'uno violi in modo permanente "l'identità" dell'altro. L'unica eccezione a questo è costituita dagli ebrei, i quali devono assicurare il loro "antisionismo", prima di poter chiedere l'immunità. Pertanto, a prima vista, sembra che «l'antirazzismo materialistico», che i curatori del volume rivendicano per sé stessi, sia così solo il titolo pomposo di un'altra affermazione fatta nel contesto di queste ben note scaramucce. Tuttavia, a un secondo sguardo, una valutazione del genere appare troppo facile. Il relativo successo del volume, giunto alla sua quarta edizione, è probabilmente dovuto a una promessa di radicalità in esso contenuta e che si esprime in modo più chiaro nel saggio centrale [*2] del co-editore Bafta Sarbo. In esso, l'autrice "discute" la questione di «come classe e razza» siano tra di esse correlate, e dà una risposta che dimostra come la sua domanda doveva essere intesa come socialmente critica. Il razzismo, secondo il teorema centrale del saggio, è «una forma oggettiva di pensiero nel contesto della relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento» [*3]. Ovvero, leggermente variato: «Il principio della razzializzazione non è quindi arbitrario, nonostante l'inesistenza di razze biologiche o di circoli culturali chiaramente definibili. L'appartenenza a un gruppo razzializzato, è determinata dalla collocazione temporale e spaziale dell'integrazione nella produzione capitalistica come forza lavoro. Il razzismo, è quindi una relazione sociale tra persone che sono incluse nella produzione e che vengono sfruttate in modi diversi» [*4]. Sarbo mira perciò a un concetto di razzismo che non dovrebbe basarsi esclusivamente sulla sistematizzazione delle esperienze. Allo stesso tempo, sembra avere il vantaggio di integrare queste "esperienze" con una descrizione sociologica. È difficile trascurare il fatto che la divisione globale del lavoro ha modelli che corrispondono, almeno approssimativamente, a dei limiti razziali. In questo modo, Sarbo va oltre la tesi intersezionalista, secondo cui i "diversi rapporti di potere" sono "intrecciati in vari modi". Tuttavia, l'intersezionalismo non è all'altezza per altre ragioni, poiché le idee su come gli altri razzializzati si relazionano al lavoro sono già parte del razzismo; e vanno dall'idea che gli "estranei" siano pigri per natura, e se pertanto debbano o meno essere costretti a lavorare, fino all'idea opposta secondo cui, a causa dei loro standard inferiori, sarebbero in grado - e disposti a farlo - di sottrarre lavoro a "noi" . Entrambe queste idee sono razziste dal momento che esprimono giudizi collettivizzanti sull'intero gruppo esterno. Una simile tematizzazione del lavoro non avviene a partire da nessun'altra "relazione di potere". Piuttosto, il razzismo rappresenta un mito relativo al contesto sociale di un mondo nel quale il lavoro costituisce la forma dominante di appropriazione della natura. Le attribuzioni specifiche di classe, per contro, formulano giudizi individuali. Ad esempio, presumono che tutti i non-proprietari dei mezzi di produzione siano individualmente riluttanti a fare le cose, sebbene collettivamente assumano questo come se fosse una predisposizione della loro "razza" o "cultura". Parallelamente a questa individualizzazione, la differenza di classe viene fatta scomparire in un processo di auto-razzializzazione, alla fine del quale troviamo un "noi" nazionale e la sua forza lavoro totale. In contrasto con l'orgoglio lavorativo del “noi” della classe non è fin dall'inizio una categoria che appare come esperienza nella coscienza quotidiana. Tutte le immagini della classe che possono essere riprese in un'immagine identitaria di sé richiedono l'identificazione dell'individuo con la supremazia del processo di valorizzazione capitalistico. Pertanto, in un primo momento appare plausibile quando Sarbo sostiene - seguendo Stuart Hall - che «la relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento, che nel razzismo si esprime come relazione sociale, che esiste materialmente ed è reale, [...] viene distorta solo nell'ideologia razzista, nella forma di una relazione tra razze o culture» [*5] , e così rappresentata. Formulato in questo modo, bisogna che l'emergere della coscienza di classe debba necessariamente andare di pari passo a un rifiuto antirazzista della «deformazione» ideologica della «relazione tra sfruttamento e supersfruttamento».  L'«antirazzismo materialista» di Sarbo, trae la sua promessa di radicalismo a partire da questo rifiuto di un'unità di tutti gli sfruttati ciechi al razzismo, e mescolato insieme al tentativo di ricondurlo a qualcosa che non sia di per sé razzista. Ciò rappresenta, in prospettiva, la fine dell'antirazzista  «compito di Sisifo». Il super-sfruttamento - che, secondo l'interpretazione dell'autrice, non può essere voluto nemmeno da chi viene regolarmente sfruttato-  è da lei identificato come il tallone d'Achille su cui punta il suo antirazzismo. Tutto ciò, sembra essere più facile da combattere, rispetto all'intruglio irrazionale che la maggior parte delle altre teorie antirazziste vede davanti a sé. A differenza di queste ultime, l'eccessivo sfruttamento può essere attaccato concretamente, e rappresenta pertanto un unico punto di rottura.

    Il “momentum”, ovvero il falsificatore e il residuo irrazionale
    Tuttavia, questa attenzione su un singolo punto di rottura ha un prezzo, che diviene evidente nel modo in cui viene gestito l'irrazionalismo. Dal momento che, naturalmente, i curatori del volume sono consapevoli del fatto che il razzismo non si esaurisce nello sfruttamento. Basandosi sui pogrom che hanno accompagnato la riunificazione, e sul genocidio tedesco degli Herero e dei Nama [N.d.T.:  in Namibia, fra il 1904 e il 1907], Sarbo sottolinea esplicitamente che «la violenza razzista [...] per il capitale [...] costituisce una distruzione della forza lavoro,  e quindi la base più importante dell'accumulazione del capitale» [*7]. Invece [*8], qui si ipotizza una «dialettica di sfruttamento e distruzione» , la quale è «essenzialmente caratteristica delle formazioni razziste» [*9]. Può essere. Tuttavia, questa ipotesi è in aperto contrasto con la norma succitata, dal momento che solleva la questione del perché solo uno dei due poli di questa presunta dialettica debba essere utilizzato come base per un concetto materialistico di razzismo. Viene in tal modo sollevata la questione dell'altro polo, quello dell'annientamento: il super-sfruttamento e l'annientamento, semplicemente, non sono la medesima cosa; e questo nemmeno Sarbo  lo dice. Il super-sfruttamento può essere definito in modo tale da tendere a portare alla morte degli sfruttati, in quanto, a lungo termine, mina quel che è il minimo necessario per la riproduzione della forza lavoro a lungo termine. Secondo questa versione, tuttavia, il sovrasfruttamento è diverso anche dalla violenza razzista, la quale viene attuata consapevolmente, e con odio e sforzo soggettivo. Per far sì che la relazione possa essere definita dialettica, lo sfruttamento dovrebbe contenere anche l'annientamento e, secondo una logica interna, l'uno dovrebbe continuamente confluire e convertirsi nell'altro, e viceversa. A questi problemi, Sarbo controbatte affermando «che il razzismo va inteso come un fenomeno indipendente e contraddittorio che non può essere derivato solo dai bisogni del capitale, ma esistere a partire dal fatto che esso sviluppa un proprio slancio» [*10]. Qui, «slancio» si riferisce a uno sviluppo che inizia dopo che la cosa è stata messa al mondo dalle esigenze del capitale. Da un punto di vista epistemologico, tuttavia, questa soluzione è una vera e propria rivelazione, poiché un concetto deve riferirsi esattamente a quegli aspetti di una cosa in cui essa è originale, proprio perché ha un suo slancio. Per rimanere all'esempio di Marx: un concetto di capitale può essere formato poiché esso appare come una forma reificata di quelle che sono delle relazioni sociali soggette a leggi proprie. Lo slancio del capitale è stato preceduto da un'indipendenza del valore di scambio e del denaro, che porta con sé la costrizione a continuare ad accumulare. In maniera analogica, un concetto analogo di razzismo dovrebbe quindi determinare, anch'esso, con precisione il modo in cui ottiene la sua indipendenza. Sarbo vuole seguire il modello marxiano, ma però limita il suo concetto alla funzione che la cosa da comprendere svolge in funzione di qualcos'altro; vale a dire in funzione dell'accumulazione del capitale. La conseguenza è che il processo di, per così dire, di “snaturamento” rimane non discusso, e questo sebbene la promessa iniziale di radicalità richieda invece una risposta alla domanda su «come, da questa differenza economica, dal sovra-sfruttamento della forza lavoro coloniale, nasca l'ideologia razzista» [*11]. Tuttavia, il testo non mostra un vero e proprio processo di sviluppo. La sezione “Razzismo come ideologia” - che dovrebbe sopperire a questo compito -  si limita a descrivere solo gli effetti che vengono prodotti da una "ideologia" in tal modo distorta distorta, limitandosi a sottolineare che «la razza, una categoria creata dall'uomo, insieme a una differenza prodotta economicamente, appare come se fosse una differenza naturale» [*12]. Tuttavia, il riferimento alla naturalizzazione non rappresenta la prova che la differenza naturalizzata sia stata creata da una distorsione della differenza economica. Al contrario: visto che la natura, almeno in questo contesto, viene considerata come un sinonimo di «immutato» e «immutabile», quello che viene detto è che, semplicemente, si potrebbe trattare di una forma feticistica, se non addirittura una «forma-pensiero oggettiva», visto che l'essenza dell'apparenza materiale non può più essere vista. Per dimostrare che la "razza" è davvero qualcosa di «simile al feticismo del denaro» [*13] mancano due punti cruciali: in primo luogo, non si può presumere che una genesi così poco chiara sia basata sul feticismo. Piuttosto, le ambiguità potrebbero anche essere dovute a dei meccanismi di difesa soggettivi, o psicologici, i quali continuano a mantenere nell'inconscio quelle che sono le connessioni importanti per il presunto feticcio. Nel caso del razzismo, abbiamo molti elementi che suggeriscono che sia proprio questo, perché, contrariamente al feticismo del denaro, le attribuzioni razziste non solo sono più diversificate in termini di contenuto, ma la loro intensità si distribuisce in maniera diversa tra i rispettivi membri della società. Nessuno può sfuggire alla partecipazione all'ordine razzista attraverso un pensiero non razzista. E tuttavia, i tentativi di disimparare il pensare e l'agire secondo categorie razziste non si traducono necessariamente in un solo stesso tipo di perdita di realtà, che potrebbe risultare dal tentativo di disimparare il riconoscimento soggettivo del feticcio della merce o del denaro. E questa è una chiara indicazione del fatto che, dopo tutto, il razzismo non è una forma di pensiero oggettiva. In secondo luogo, andrebbe dimostrato che il feticcio si basa esattamente sulla presunta relazione e su nessun'altra. Nel caso del feticismo del denaro, questo è abbastanza semplice, poiché esso è indiscutibilmente legato alla forma-valore,  dato che il denaro stesso vale qualcosa, e ha un numero gestibile di proprietà, tutte riconducibili ad alcune funzioni nelle transazioni economiche. "Razza" o "cultura", invece, da parte loro, includono anche delle idee sull'etica del lavoro e sull'abilità delle persone razzializzate, così come anche delle idee sulla loro sessualità. Inoltre, i razzisti preferiscono affermare la costante della “razza” e della “cultura” per mezzo di una teoria dell'ereditarietà, e non sotto forma di teoria economica. Si potrebbe quindi sostenere, con una giustificazione almeno pari, che “razza” e “cultura” sono feticci della sessualità o delle relazioni di genere. A favore di quelle teorie postmoderne del razzismo che si basano sulla comprensione di Foucault della biopolitica, bisogna almeno notare in questo contesto che esse si sforzano di prendere in considerazione tutti questi aspetti del pensiero razzista. Rimanere indietro rispetto alla comprensione di Foucault è semplicemente riduttivo.  Da questo punto di vista, l'antirazzismo "materialista", e quello intersezionale sono sulla stessa barca: nessuno dei due può rappresentare la connessione che viene creata dal concetto di biopolitica. È in questo modo che nascono le diverse "identità", che si suppone si limiterebbero a sovrapporsi solo l'una all'altra, ma senza ferirsi a vicenda.

    La definizione di super-sfruttamento
    La questione se sia o meno possibile fornire i due punti mancanti richiede uno sguardo al nucleo economico della tesi, vale a dire, alla presunta "relazione reale" tra sfruttamento e super-sfruttamento. Da un lato, "l'antirazzismo materialista" considera la relazione tra persone qualitativamente diverse, mentre dall'altro lato, vede che la differenza insorge solo a causa della variazione quantitativa. Il "circa" rispetto al termine super-sfruttamento è teso a indicare che si tratta di una questione che  è "più o meno lo stesso", vale a dire lo sfruttamento. In questo modo, lo sfruttamento andrebbe oltre sé stesso. La definizione è quella secondo cui: il super-sfruttamento «si ottiene pagando un salario più basso rispetto alla media sociale, o al limite inferiore rispetto a quello socialmente negoziato; oppure estendendo l'orario di lavoro oltre quelli che sono i limiti della normale giornata lavorativa» [*14]. Misurata alla luce di questa definizione, la variante riduzionista, secondo la quale il rapporto tra sfruttamento e super-sfruttamento rappresenta l'unica base materiale del razzismo, è in realtà già fuori dai giochi. Comunque si formi, nelle singole costellazioni storiche, il rapporto, definito in questo modo, esiste solo perché i livelli salariali e le ore di lavoro di due gruppi sono stati confrontati tra loro per poter ottenere intuizioni, e criticare la differenza. Rispetto al rapporto tra lavoro e capitale - che è una realtà dal momento che le maschere caratteriali di entrambe le parti hanno diritti e doveri nel processo lavorativo, in quanto scambiano la forza lavoro con il denaro e viceversa - il rapporto tra sfruttamento e super-sfruttamento invece non ha alcuna realtà. Non esiste una forma sociale in cui, nella loro prassi, le persone sfruttate si riferiscano al sovra-sfruttato. Tuttavia, la relazione che può  esistere tra questi due gruppi empiricamente costruiti deve pertanto essere di tipo diverso. La scienza conosce molte di queste relazioni, dalla bilancia commerciale con l'estero, al tasso di natalità. Queste condizioni, però, non vengono a essere mediate attivamente, ma piuttosto passivamente, dalla totalità. A partire da questa affermazione, lo sfruttamento e il super-sfruttamento possono al massimo essere visti come momenti parziali di un contesto più ampio. Tuttavia, il concetto di tale connessione deve poi includere anche tutte quelle forme di mediazione attiva che pongono lo sfruttato e il sovra-sfruttato in una relazione che non è solo costruita empiricamente. Ma ciò significa che non si tratta solo di un unico elemento di errore. Tuttavia, un'analisi più attenta della definizione proposta da Sarbo rivela che essa nasconde addirittura una forma di mediazione attiva di cui occorre tenere conto: si tratta del limite inferiore, negoziato, del salario, il quale, grazie al contratto collettivo, contiene in realtà una forma attiva che comprende le maschere caratteriali rese armonizzate in “partner di contrattazione collettiva”. Ma, volendo, questa forma può essere considerata anche solo come una spiegazione per le varianti del razzismo a partire dall'ultimo terzo del XIX secolo in poi, poiché prima non esisteva: o i lavoratori non erano affatto organizzati, o le loro associazioni erano vietate. La cosa ha origine nel secondo terzo del XIX secolo, e viene legalizzata in Gran Bretagna nel 1872, in Francia nel 1884 e in Germania nel 1897. Ciononostante, la contrattazione collettiva come spiegazione rimane fuori discussione, dal momento che ogni esclusione dal processo negoziale, o dal contratto collettivo negoziato deve già essere basata sulla differenza "distorta", e non su quella economicamente reale, che verrebbe distorta. Se così non fosse, la legge dovrebbe discriminare tra sfruttati e sovra-sfruttati in base a dei criteri economici, e non in base a confini nazionali, alla nazionalità o allo status di residenza. Per spiegare il razzismo delle epoche precedenti, Sarbo rimane fin dall'inizio solo al "rapporto con la media", la cui esistenza e il cui ammontare però non sono stati negoziati e poi fissati. Questo varia a seconda della situazione del mercato (del lavoro), ed è noto senza una ricerca empirica, oltre a essere viziato per il solo fatto che i valori inferiori alla media sono già inclusi in ogni formazione media. È pertanto discutibile che le differenze qualitative nel razzismo, siano la distorsione di tali differenze quantitative fluide. Tanto più che le fantasie razziste al riguardo, avvertono rispetto a un vantaggio costante per i "sovra-sfruttati", e mirano a un trattamento ineguale. In questo modo, esprimono il desiderio di un confine chiaro tra "noi" e "loro", che al momento non esiste.
    Da dove questo desiderio provenga, diventa ovvio allorché si considera anche il concetto marxiano di sfruttamento. Lo sfruttamento consiste – sempre secondo Sarbo – nel fatto che «il salario pagato ai lavoratori si misura in base a quanto è necessario in media per riprodurre la forza lavoro, e non in base al valore prodotto dai lavoratori» [*15]. Lo sfruttamento, la ragione dell'esistenza del capitale, è quindi l'appropriazione di questa differenza chiamata plusvalore. La "media" non si riferisce al livello dei salari, bensì al valore delle merci necessarie alla riproduzione della forza lavoro. Il valore della merce forza-lavoro non si basa su un processo di negoziazione, ma viene determinato soprattutto a partire dalla produttività del capitale, che produce le merci necessarie alla riproduzione. Il salario deve essere "misurato" rispetto a questo valore, poiché i suoi beneficiari non possono nutrirsi se il salario si trova permanentemente al di sotto di esso. Se questo concetto di sfruttamento viene considerato valido, la popolazione mondiale in continua crescita, di cui una percentuale enormemente alta è stata ed è ancora razzializzata nel corso della storia, non può essere stata permanentemente sovra-sfruttata. Il concetto di razzismo di Sarbo, richiede che il super-sfruttamento «non designi uno stato di emergenza, ma piuttosto una relazione, la quale rappresenta una pietra angolare dell'accumulazione capitalista»[*16]. Si può sostenere che l'indifferenza alla vita e alla morte delle persone razzializzate all'estero sia immanente al razzismo. Tuttavia, questa differenza potenzialmente qualitativa non favorisce l'accumulazione in modo che essa ottenga profitti più elevati. Tutt'al più, la realizzazione dell'indifferenza distrugge la forza lavoro, e quindi soddisfa il criterio con cui Sarbo dà inizio allo "slancio" del razzismo. È una chiara indicazione del fatto che questo non va separato dal concetto materialistico. Se la dinamica del razzismo contraddice gli interessi capitalistici, Senza che ciò possa essere ricondotto agli interessi imposti dal proletariato, l'irrazionalità di entrambe le parti va presa in considerazione per quanto riguarda il formarsi del concetto, e deve essere determinata la sua forma. Il problema diventa ancora più chiaro quando si cerca di capire la relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento nel caso della schiavitù [*17]. Da un lato, Sarbo fa precedere il suo saggio con la citazione: «La schiavitù non proviene dal razzismo, ma è il razzismo che proviene dalla schiavitù», di Eric Williams, mentre dall'altro mostra chiaramente che il razzismo gioca un ruolo nel processo economico. Tuttavia, la schiavitù rientra interamente in quell'epoca del capitalismo, nella quale i salari del proletariato emergente – incontestati da tutte le parti – erano appena sufficienti per sopravvivere. Naturalmente, i lavoratori schiavi avevano esattamente gli stessi bisogni riproduttivi dei lavoratori salariati. Da un punto di vista quantitativo, al capitale non importa in quale forma esso fornisca il valore delle merci necessarie alla riproduzione della forza-lavoro. Pertanto, la differenza di forma che ha reso la schiavitù uno scandalo a sé stante rimane il fattore decisivo: gli schiavi non erano pagati di meno, ma non erano pagati affatto dal mmento che venivano forniti come proprietà dipendente. Si può quindi supporre che in realtà le "caratteristiche razziali" fissate nel razzismo schiavista, siano legate a questa differenza reale, vista nel senso di una critica materialistica della forma. Soprattutto perché gran parte della mitologia associata legittimava la negazione della capacità delle persone di funzionare come soggetti liberi e autonomamente disciplinati dalla propria forza lavoro. Questa è la prossimità del razzismo schiavista al razzismo coloniale, che i colonizzatori usarono per giustificare la loro missione civilizzatrice che consisteva nel costringere gli indisciplinati a comprendere la natura del lavoro. Poiché non si trattava dello sfruttamento della forza lavoro, ma più fondamentalmente dell'educazione e della formazione di una forza lavoro sfruttabile, questo spiega anche perché nel razzismo le idee sul lavoro si mescolano a quelle sulla sessualità: nei miti di origine del soggetto ancora da formare, le due cose si fondono in modo indifferenziato l'una nell'altra [*18]. Sarbo menziona vari aspetti di questo processo [*19], ma li tratta come illustrazioni secondarie della differenza tra sfruttamento e sovrasfruttamento che è al centro del suo lavoro.

      Così facendo, le sfugge il fatto che è proprio questa differenza a essere più immaginaria che reale. La differenza è voluta e rivendicata sia dal capitale che dal lavoro, come dimostra la storia del razzismo negli Stati Uniti fino alla Guerra Civile. Il lavoro degli schiavi sembrava particolarmente redditizio per i proprietari di schiavi, e questo perché la differenza immaginaria ipostatizzava il loro reale controllo sugli schiavi. I proprietari di schiavi erano convinti che le forme di rifiuto si alcune prestazioni specifiche, da parte della schiavitù,  potessero essere contrastate per mezzo di una brutale disciplina fisica,resa possibile a partire dal fatto che non c'era la paura di perdere il salario. Tuttavia, le lesioni inflitte hanno in tal modo ulteriormente limitato l'efficienza della loro proprietà, e hanno pertanto ridotto la sua capacità di lavorare più di quanto fosse il valore prodotto. È nell'ambito di questo conflitto che è nata la fantasia razzista, secondo la quale gli schiavi incarnano una forza lavoro naturalmente data, pura e pertanto indistruttibile, il cui lavoro non richiede soggettività. Allo stesso tempo, i proprietari di schiavi hanno approfittato della necessità di provvedere agli schiavi, spacciandola come bontà patriarcale e mostrandola come segno di civiltà superiore. I proletari, che non erano ancora stati omogeneizzati nella loro forma di bianchi, ed erano immigrati dall'Europa, a loro volta si scandalizzavano del fatto che gli schiavi stessero meglio di loro stessi, a causa della sicurezza dell'approvvigionamento, per quanto non dovevano essere annoverati tra i civilizzati. Così, una parte dei proletari ha propagandato l'abolizione della schiavitù, ma lo ha fatto solo per richiedere il ritorno in Africa di tutti gli schiavi liberati, non meno velenosamente paternalistici di quanto lo fossero i loro "nemici di classe". La giustificazione razzista per la richiesta , era quella secondo cui in America non erano in grado di sopravvivere come lavoratori salariati doppiamente liberi. Tutte queste componenti elementari dell'impeto del razzismo, sono permeate da delle formazioni irrazionali, perché immaginarie. Esse, al momento della loro creazione, si trovavano già presenti anche su entrambi i lati della relazione di classe, sebbene con motivazioni diverse. E questo costituisce il caso del secondo esempio di Sarbo: il razzismo tedesco contro i lavoratori migranti dopo la seconda guerra mondiale. Certo, il termine “sovrasfruttamento” sembra più ovvio in questo caso, perché nel frattempo sono esistiti gruppi salariali negoziati e i cosiddetti “lavoratori ospiti” hanno dovuto riprodursi a un livello inferiore alla media.  Tuttavia, gli accordi di reclutamento con i paesi di origine prevedevano gli stessi contratti collettivi sia per i lavoratori migranti che per i membri della "razza superiore" post-fascista locale. E anche se l'uguaglianza sancita dagli accordi è il risultato di pressioni politiche da parte dei sindacati, e anche se in pratica c'erano certamente molti modi per aggirare le disposizioni, tali accordi non possono essere fatti diventare il fulcro del razzismo. Le associazioni dei capitalisti vedevano i "lavoratori ospiti" come manodopera a basso costo, nonostante i salari concordati collettivamente, perché i costi dell'istruzione e della formazione erano già stati sostenuti nei paesi di origine. Inoltre, inizialmente si prevedeva che anche la pensione sarebbe ricaduta sui paesi di origine, dal momento che il "lavoro ospite" sarebbe di nuovo sparito, non appena il "corpo del popolo" ospitante avesse rimediato alla carenza di manodopera che aveva motivato tutto ciò. Come era accaduto per la schiavitù, l'idea dell'assenza di soggettività degli altri continuava a essere al centro del razzismo. Tuttavia, nel frattempo, la situazione era cambiata in modo tale che non era più la forza lavoro individuale a essere delimitata in modo immaginario, bensì la forza lavoro sociale totale, la quale, nello Stato autoritario, si era auto-razzializzata. Inoltre, la migrazione di manodopera dell'epoca, una volta stabilita la pressione capitalistica generale al lavoro, era volontaria. I migranti, che secondo il teorema del sovra-sfruttamento avrebbero dovuto essere sfruttati nei loro Paesi d'origine, almeno nel caso in cui si fosse trattato di ex Stati coloniali europei, dovevano trovare relativamente attraente il loro “sovra-sfruttamento” in Germania, altrimenti non sarebbero partiti. Questo dimostra due cose: in primo luogo, le gerarchie che appaiono razzializzate sono quelle del processo lavorativo, in cui il processo di valorizzazione gioca solo un ruolo generale. Il capitale cerca, ad esempio quando si lamenta della carenza di manodopera qualificata, di procurarsi la forza lavoro mancante in base alla forma materiale dei suoi mezzi di produzione. In secondo luogo, il capitale deve agire contro il razzismo della riproduzione già altamente istituzionalizzata della forza lavoro totale in forma nazionale, al fine di imporre l'importazione di forza lavoro. Gran parte dello slancio razzista di quest'epoca era dovuto alle istituzioni che volevano respingere il “lavoro ospite” come elemento estraneo al “corpo del popolo”. In questo conflitto, ancora oggi il capitale appare occasionalmente come una forza antirazzista. Ciò avviene sempre quando si cerca di conciliare i suoi presupposti irrazionali, tra cui la disponibilità delle masse a fungere da forza lavoro, con le esigenze della razionalità tecnica delle forze produttive. Si tratta di una rivendicazione di disposizione e identità che è fondamentalmente permeata da idee razziste. Il razzismo ha quindi aspetti economici funzionali. Ma anche sotto questi aspetti, la quantità di plusvalore potenziale costituisce solo la questione secondaria più importante del mondo. L'aspetto principale del razzismo da un punto di vista economico, invece, è il suo contributo a disciplinare gli individui come portatori di forza lavoro. Ad ogni modo, il razzismo è sempre stato più complesso e articolato rispetto ai suoi aspetti economici: nella sua attuale manifestazione in forma di razzismo di crisi, ha sviluppato nuovi elementi che non vanno più a vantaggio dello sfruttamento economico del bacino di manodopera, ma mirano a vietarne la svalutazione. Lo dimostrano al meglio quelle fantasie secondo le quali “noi” non possiamo più permetterci la prosperità, motivo per cui “noi” non dovremmo rinunciare al lavoro. I razzisti di oggi chiedono l'esclusione dei razzializzati da quel lavoro che essi difendono in quanto loro proprietà. Questo non significa affatto che essi sarebbero soddisfatti se il contributo di questi altri alla riproduzione del capitale, con cui vengono identificati, cessasse effettivamente. In ogni caso, i razzisti, soprattutto quando si arrovellano sull'“identità” e la “sovranità” della Nuova Destra, non intendono più riconoscere le forme della propria dipendenza dal capitale, e quindi anche dalle sue altre forze di lavoro. In questo modo, svaniscono sullo sfondo tutti quegli elementi che legittimano e/o eroicizzano la funzione del lavoro al servizio del capitale. Il razzismo passa quindi, dall'essere un mito nel contesto sociale di un mondo in cui il lavoro è la forma dominante di appropriazione della natura, a essere un mito in cui il lavoro, come ogni altra forma di mediazione sociale, viene presupposto come se fosse cultura, la quale, come la natura, è immediata.   

    - JustIn Monday  - da "Über Ausbeutung und Rassismus" su https://www.phase-zwei.org/ -

    NOTE:

    1 - Cfr. Eleonora Roldán Mendívil/Bafta Sarbo (eds.), The Diversity of Exploitation, Berlino 2023.
    2 - Bafta Sarbo, Razzismo e relazioni di produzione sociale, in: Mendívil/Sarbo, Diversità, 37-63.
    3 - Ibidem, 44s.
    4 - Ibidem, 58.
    5 - Ibidem, 61.
    6 - Ibidem, 63.
    7 - Ibidem, 60.
    8 - Sarbo rifiuta la tesi diffusa in questo contesto secondo cui le differenze razziali non riflettono gli interessi del capitale, quanto piuttosto la competizione tra i proletari. Il suo ragionamento è singolare, ma poiché la competizione non fornisce una spiegazione, non mi soffermerò ulteriormente su questo punto.
    9 - Sarbo, Razzismo, 60
    10 - Ibid.
    11 - Ibidem, 47.
    12 - Ibidem, 48.
    13 - Ibid.
    14 - Ibidem, 44.
    15 - Ibid.
    16 - Ibidem, 43.
    17 - Quanto segue riguarda la schiavitù sotto il capitalismo, cioè, prevede la contemporanea esistenza di lavoro salariato libero. Le società schiaviste storicamente precedenti devono essere trattate in modo diverso. Nella genesi psichica di ogni singolo soggetto, inizialmente non c'è né l'uno né l'altro, e l'origine di entrambi è stabilita solo retrospettivamente, il che è un argomento correlato ma diverso.
    18 - Nella genesi psichica di ogni singolo soggetto, inizialmente non c'è né l'uno né l'altro, e l'origine di entrambi è stabilita solo retrospettivamente, il che è un argomento correlato ma diverso.
    19 - Sarbo, Razzismo, 41 ss.