Louise Michel, la Comune di Parigi e Robert Kurz: uscire dai Miti e dalle Leggende
- Un estratto da "Il Libro nero del Capitalismo", di Robert Kurz -
L'interpretazione della Comune, la cui esistenza, da marzo a maggio 1871, durò solo poche settimane e si concluse con un bagno di sangue, è stata determinata (e continua ad esserlo) - da entrambe le parti - da alcune leggende e mitizzazioni apologetiche, le quali, lungi dal toccare il fondo del problema sociale, sono imprigionate in una costellazione storicamente oggettivata. Il fatto che la Comune abbia avuto il carattere di una "rivoluzione operaia" militare, e che abbia dato luogo a dei violenti scontri è stato interpretato, dai regimi capitalisti liberal-conservatori (e da tutti i loro continuatori ideologici), come la fine della "sicurezza" della proprietà, e delle forme delle relazioni capitalistiche, diventate, fin dall'epoca di Bentham, un bisogno dell'anima capitalistica; e persino come la minaccia della “fine del mondo”, di fronte alla quale ogni mezzo di repressione sanguinosa era giustificato nell'interesse del “salvataggio della società”. In definitiva, l'evento della Comune fu l'occasione per affrontare la socialdemocrazia emergente con lo stesso atteggiamento marziale riservato alle precedenti rivolte sociali, e ciò nonostante la sua origine e il suo carattere che erano molto diversi.
Viceversa, l'apologetica socialista ha fatto della Comune la principale testimone della propria “pericolosità”, mentre la sinistra radicale, più tardi, l'ha idealizzata per farne l'icona di idee rivoluzionarie, tanto vaghe quanto irrealizzabili. Sia da una parte che dall'altra, gli eventi venivano guardati con occhiali sociologicamente riduttivi, e limitati alle categorie borghesi della volontà: il factum brutum sociologico, il fatto che i lavoratori salariati, o i loro rappresentanti politici, entrassero direttamente sulla scena del potere per imporre una volontà politica, bastava da sé solo a seminare il panico tra le élite borghesi liberali-conservatrici, e a farle infuriare. Ciò che riemergeva qui, era il vecchio pregiudizio ereditato dagli stati feudali che, come nei tempi antichi ormai passati, identificava erroneamente la forma sociale della “bella macchina” con il potere soggettivo di uno strato sociale, e di ambienti, élite e “famiglie” ben determinate; un potere che il mostro del fine in sé capitalista aveva già superato da un pezzo. Per contro, in un governo o in un co-governo di lavoratori salariati - e delle loro organizzazioni in quanto lavoratori salariati - i vari socialisti vedevano già di per sé una sorta di garanzia di emancipazione sociale. Una volta che il “partito dei lavoratori” (o addirittura il “partito del Lavoro”) avesse ottenuto le redini del potere, il capitalismo sarebbe finito solo per questo: questo era ciò che si pensava in entrambi gli schieramenti. Per contro, le forme sociali e i rapporti strutturali “impersonali” del modo di produzione capitalistico - (per non parlare di chi ne era rispettivamente il portatore soggettivo o il portatore sociologicamente identificabile), così come erano emersi attraverso un processo sistemico cieco plurisecolare, ed erano stati formulati in modo positivo dalle ideologie affermative di Hobbes e di Mandeville fino a Malthus, List, ecc. - rimanevano quasi al di fuori da ogni riflessione, o erano stati, invece, interiorizzati da molto tempo. Se la riflessione teorica sugli inizi del capitalismo, dal Rinascimento, si era inizialmente concentrata su delle questioni di ordine etico-morale o antropologico, arrivando fino all'adorazione della macchina-mondo capitalista sulla falsariga della teologia del sistema, nel caso di Adam Smith, Kant e Hegel, nella seconda metà del XIX° secolo, invece, l'interesse teorico si spostò nuovamente: con il venir meno del carattere nuovo e inaudito della divinità sistemica secolarizzata, e delle sue categorie reali (lavoro astratto, mercati del lavoro, socializzazione attraverso il mercato, apparato statale moderno, Nazione, ecc.), si sedimentano come evidenze quasi ontologiche le categorie sociali o “classi” del sistema, nel frattempo formatesi e stabilizzatesi, così come la loro azione soggettiva sul terreno politico ed economico, assumendo un ruolo di primo piano. [...]
Nel 1870, e nella successiva “storia del movimento operaio” che ne seguì, si continuava a guardare all’evoluzione e agli eventi storici attraverso gli occhiali di un positivismo sociologizzante, attribuendo la pericolosità anticapitalista della Comune di Parigi soprattutto alla comparsa della “classe operaia armata”, senza però riflettere sulla sua relazione, consapevole o meno, con le strutture capitalistiche. Si considerava infatti irrilevante la questione del motivo per cui la classe operaia parigina avesse preso le armi; l'importante era che fosse stata proprio quella categoria sociale di individui, quasi metafisicamente responsabili, a farlo. Si sarebbe tuttavia dovuto trovare quantomeno strano che, per tutto il Secondo Impero, l'antagonismo sociale in Francia non avesse mai generato disordini sociali di grande entità simili a quelli della prima metà del secolo, o persino al periodo rivoluzionario della fine del XVIII secolo. Di fatto, non fu un movimento sociale di massa quello che, di per sé, portò direttamente alla Comune, quanto piuttosto la sconfitta francese nella guerra contro la Germania sotto l'egida della Prussia. Una volta che Napoleone III era stato fatto prigioniero di guerra, e le truppe tedesche marciarono su Parigi, si vide chiaramente quanto il Secondo Impero – vetusto, marcio dall'interno e corrotto fino al ridicolo – fosse allo stremo. Il grido che, “come un tuono”, scuoteva la Francia era di natura profondamente nazionalista e patriottica, e metteva solo incidentalmente all’ordine del giorno la questione sociale, e anche così lo faceva comunque sempre nel quadro del sistema mercantile e del suo “lavoro astratto”. Si veniva così a creare una situazione paradossale, preludio a un'intera epoca di catastrofi. Il governo di una borghesia ufficiale demoralizzata, incluso il Parlamento e la sua frazione di sinistra, cominciò a temere proprio i sentimenti patriottici delle masse popolari, si rifugiò a Versailles e finì per offrire la capitolazione al nemico “esterno”. I lavoratori delle fabbriche, i piccoli artigiani, i piccoli commercianti, ecc., così come le varie organizzazioni ideologiche (proto-socialdemocratiche) del “Lavoro” , scossi fin nel profondo, difesero il principio formale capitalista della Nazione, e si mostrarono pronti al sacrificio supremo sull’altare della Patria. Inconsciamente, Prosper Lissagaray, membro e storico della Comune, riassume questa situazione nella sua polemica con la sinistra parlamentare borghese: «Bastava una spinta per abbattere questo rudere dell'Impero. [...] Il Popolo era venuto d'istinto (!) [...] a restituire la Nazione a se stessa (!). La sinistra lo respingeva, rifiutava di salvare il Paese con una rivolta, limitando i propri sforzi a una proposta ridicola, abbandonando ai mamelucchi il compito di salvare la Francia. […] Per tre settimane si tornò a vivere ai tempi del Basso Impero. La Nazione scivolava, immobilizzata, nell'abisso al cospetto delle sue classi governanti silenziose, immobili […]».
Tutte le dichiarazioni della Comune, quelle della Guardia Nazionale (una milizia composta in gran parte da operai) e quelle delle varie organizzazioni socialiste, trasudavano di quel patriottismo e di quel nazionalismo, i quali culminano sempre nel pio desiderio: "Morire per la Patria!". È vero, a volte traspare, nel linguaggio ampolloso dell'epoca, la speranza che “le Patrie” possano un giorno unirsi in una “sublime personalità collettiva: l'Umanità”, ma queste dichiarazioni non erano altro che un ornamento decorativo apposto su un patriottismo sciovinista che aveva radici profonde. Se il governo borghese ufficiale, dopo la fine politica e militare di Napoleone III, si fosse applicato con sufficiente energia a ”difendere la Patria”, la Comune di Parigi non sarebbe mai esistita. Si trattava semplicemente, come suggerisce il nome, dell'amministrazione municipale della città di Parigi - circondata dalle truppe prussiano-tedesche - la quale in seguito a nuove elezioni era controllata da alcuni gruppi socialisti e continuava a condurre la guerra contro la volontà del governo rifugiatosi a Versailles. Fu solo in questa costellazione che il confronto riguardante la vera “difesa della Patria” assunse anche la forma di un conflitto sociale e ideologico. Ovviamente, la Comune non ebbe il tempo di riformare radicalmente l'ordine costituito. Ma al di là di vaghe formulazioni, per farlo non esisteva, né in Francia né altrove, alcun programma che andasse oltre le idee socialdemocratiche, peraltro già limitate, e segnate all'epoca, dal capitalismo industriale. Il fatto che, per esempio, la Comune facesse rimuovere i crocifissi, o che venisse offerto l'arcivescovo di Parigi come riscatto in cambio dei comunardi condannati a morte da Versailles (cosa che fu rifiutata!), dimostra solo fino a che punto le idee rivoluzionarie rimasero prigioniere del livello e dell'orizzonte concettuale dello sconvolgimento borghese-liberale. A parte simili azioni marginali, uscite direttamente da un libro illustrato, le misure anticipatrici della Comune rimasero più che modeste, e non andarono al di là del quadro fissato dal modo di produzione capitalistico. Ciò che a rigor di termini fa drizzare le orecchie sono state le misure di democrazia radicale del sistema politico: la Comune decise la revocabilità in qualsiasi momento degli eletti e dei funzionari ("mandato imperativo") e il famoso "salario operaio" per i funzionari pubblici; la prima misura era puramente formale, la seconda puramente quantitativa.
Certo, Karl Marx, spinto dalla "eroica rivoluzione dei lavoratori", descrisse con entusiasmo tutte queste riforme politiche come se si trattasse di un progresso storico decisivo: per la prima volta, non si sarebbe trattato «mai più […] di trasferire la macchina burocratica e militare in altre mani, come era sempre stato finora, bensì [di] distruggerla» e Lenin, rappresentante e futuro ideologo della "Rivoluzione francese dell'Est" e della "modernizzazione di recupero", definisce, in una formula rimasta famosa, il modello della Comune come «uno Stato che non è più del tutto tale». Ma il semplice democraticismo radicale, che si riferisce sempre e comunque alle categorie non superate del sistema produttivo di merci, non può intaccare il Leviatano più di quanto possa intaccare la macchina economica mondiale. "Revocabilità" e "salario operaio", non riguardano qualitativamente lo Stato in quanto macchina di regolazione del "lavoro astratto", ma evolvono in quanto misure all'interno dell'orizzonte incompreso del sistema. Le divergenze tra ”riformisti” (nel senso occidentale socialdemocratico successivo del termine) e ”rivoluzionari” (nel senso successivo, quasi giacobino, della Rivoluzione d’Ottobre) sono, a questo proposito, solamente relative. Ciò che lo stesso Marx celebrò come la grande scoperta spontanea della Comune, come il fatto di “distruggere” la vecchia macchina statale (anziché limitarsi a riprenderne il controllo); il marxismo tutto questo l'ha sempre inteso solo in senso puramente sociologico, e quindi in modo tronco, come “radicalità” vista solo in relazione alla “estirpazione” di determinati gruppi sociali di persone, vale a dire, la cosiddetta borghesia e i suoi funzionari.
Si trattava in fondo del modello della rivoluzione borghese, la cui versione “radicale” aveva cacciato, o decapitato, il gruppo sociale costituito dalla nobiltà. La radicalità non si riferiva a una "distruzione" dello Stato, vista in senso superiore, qualitativo, e a un'abolizione del sistema di produzione delle merci, del suo "lavoro astratto" e, logicamente quindi, alla soppressione dell'attività regolatrice di un apparato statale a esso collegato. È anche possibile che Marx- che nella sua teoria aveva creato i concetti critici di “lavoro astratto” e di feticismo moderno - abbia potuto pensare, lui, a una cosa del genere, in un angolo della sua mente; ma nella situazione concreta della Comune, schiacciata da una repressione sanguinosa, e travolta dal pensiero sociologicamente limitato del movimento operaio socialdemocratico, non era più in grado di formulare il problema in maniera esplicita. Il radicalismo formale della “distruzione” della macchina statale, in senso sociologicamente tronco, finiva per essere più o meno la stessa cosa della variante riformista che mirava solo a riprendere in mano l’apparato statale esistente, o a parteciparvi: in entrambi i casi, il risultato non poteva che essere lo stesso, ovvero, che nel contesto del sistema mercantile non abolito, sarebbero stati i funzionari, essi stessi provenienti dal movimento operaio, a rappresentare il Leviatano. Sostanzialmente, la differenza tra i “giacobini” formalmente radicali del movimento operaio e i riformisti derivava solo dal carattere storicamente asincrono dello sviluppo globale: la variante rivoluzionaria giacobina era più adatta ai problemi relativi alla “modernizzazione di recupero” nella periferia capitalista, dato che gli elementi del sistema mercantile potevano essere creati dal nulla solo da parte di regimi dittatoriali, con procedure accelerate. La variante riformista, invece, si adattava meglio ai problemi di un'economia industriale di mercato, nei centri dell'Europa occidentale, già in parte formata nelle sue linee generali, laddove si trattava piuttosto di migliorare, all'interno del sistema, la condizione delle masse già abituate al lavoro salariato. La Comune di Parigi si ritrovò in qualche modo ancora tra queste due possibilità; ma nei suoi decreti non si parlò mai di una critica emancipatrice dal “lavoro astratto”. Questo è particolarmente evidente in alcuni dei suoi decreti sociali ed economici.[...]
- Robert Kurz - dal IV° Capitolo - "Assolutismo Socialista" del "Schwarzbuch Kapitalismus"; Eichborn, 1999 -
fonte: @Palim Psao