lunedì 17 novembre 2014

Una modesta Magna Charta

lavoro1

"Per troppo tempo la sinistra radicale ha ignorato l'unico movimento sociale reale che può porre direttamente fine al capitalismo", questo il titolo intrigante del pezzo che si può leggere sul blog "The Real Movement". Sostiene l'autore che ridurre le ore di lavoro potrebbe essere un obiettivo intorno al quale la sinistra radicale si potrebbe facilmente organizzare, in quanto godrebbe di quattro condizioni che diversamente non sono a portata di mano per qualsiasi altro movimento sociale.
1) In quanto semplice riforma politica, ridurre le ore di lavoro non ha alcun contenuto riformista: portato fino alla sua logica conclusione, richiede già di per sé la completa abolizione dello stesso lavoro salariato.
2) Il problema della cosiddetta disoccupazione tecnologica ha cominciato a scontrarsi con i limiti della gestione economica svolta dallo Stato. Anche gli economisti borghesi cominciano ad ammettere il problema di un tasso di disoccupazione che non ha precedenti storici, e che con ogni probabilità continuerà a peggiorare nel corso dei prossimi anni a causa del costante aumento della produttività del lavoro:
"Il premio nobel per l'economia, Joe Stiglitz, in uno studio per "The National Bureau of Economic Research", arriva ad una conclusione preoccupante - stanno davvero arrivando i robot a fare il tuo lavoro. Secondo la teoria economica, l'innovazione dovrebbe rendere i lavoratori più efficienti - possono produrre di più con meno - ma questo avviene al prezzo di una diminuzione dei lavori meno qualificati dal momento che si richiedono meno persone per produrre lo stesso ammontare di produzione."
3) Dell'impatto della crescente produttività del lavoro, si è già risentito nel corso di una tendenza pluridecennale verso la stagnazione della crescita economica e verso una malcelata disoccupazione, che gli Stati nazionali più avanzati stanno cercando di nascondere sempre più nelle loro statistiche ufficiali:
"Un altro fatto interessante a proposito degli Stati Uniti, è che una parte sorprendentemente grande di adulti in età lavorativa non lavorano, innanzitutto perché ci sono troppi pochi posti di lavoro. Questo può non apparire evidente, dal momento che il tasso di disoccupazione dichiarato negli Stati Uniti appare basso, con una consistenza inferiore al 10% sul lungo periodo. Il fatto è che il tasso ufficiale di disoccupazione nasconde l'enorme numero di americani in età lavorativa, non considerandoli più parte della forza lavoro. Attualmente, sta lavorando solo il 63% degli adulti in età di lavoro."
4) Infine, oggi, con questi livelli storicamente alti di disoccupazione in quasi tutti i paesi, la disoccupazione ha assunto la forma di una condizione comune ai lavoratori in tutto il mondo. Perciò, una domanda per ridurre le ore di lavoro potrebbe facilmente diventare la base per un movimento globale della classe lavoratrice ed un obiettivo intorno al quale poter direttamente organizzarla in un'unione globale volta a convertire l'attuale produttività del lavoro in tempo libero per tutti.

Tuttavia - continua l'autore sul blog - a quanto pare, nonostante tutto ciò, l'obiettivo della riduzione delle ore di lavoro incontra una resistenza diffusa sia fra i lavoratori che fra gli attivisti radicali. Una ragione per tale resistenza, sembra si possa trovare in un altrettanto diffuso malinteso su come la riduzione delle ore di lavoro potrebbe influire sui salari e sulla sussistenza dei lavoratori. Il fraintendimento più diffuso e più erroneo, è quello secondo cui, a meno ore di lavoro, corrisponderebbe una riduzione del reddito reale dei lavoratori. L'equivoco si basa su quella che ha tutta l'aria di essere una certezza matematica: se un lavoratore guadagna 10 euro in un'ora e lavora 40 ore per settimana, il suo reddito totale è 400 euro. Se perciò passa una legge che riduce la settimana lavorativa a 24 ore, la matematica suggerirebbe allora che il totale scenderebbe a 240 euro. Sulla base di questa semplice operazione matematica, molte persone che sostengono l'idea di meno lavoro (per esempio, Kathi Weeks) suggeriscono che una riduzione delle ore di lavoro dovrebbe essere accompagnata da delle misure addizionali che possano prevenire il fatto che una più corta settimana lavorativa riduca il reddito della classe lavoratrice. Una delle misure più suggerite, è quella di compensare ogni cambiamento di orario con un innalzamento della paga oraria. Se le ore passano da 40 a 32, il salario orario deve aumentare da 10 euro a 12,50. Un'altra idea parla del fatto che una riduzione delle ore di lavoro dovrebbe essere accompagnata da un reddito di base universale che copra una sussistenza di base. Se da una parte si può discutere su quanto siano realistiche queste misure compensative, rimane il fatto che queste, ed altre misure simili accoppiate alla richiesta di meno lavoro, evidenziano una debolezza nella richiesta stessa di meno lavoro: se una gran parte degli attivisti radicali all'interno della classe operaia ritiene erroneamente che una riduzione delle ore di lavoro porterò ad una caduta dei salari, il movimento per ottenere meno lavoro è già paralizzato prima ancora di partire!

L'equivoco diffuso, per cui meno lavoro significhi meno salario per il lavoratore, si basa sulla matematica: se il salario orario è fisso e se le ore sono fisse, allora anche il reddito è fisso: una crescita nei salari produrrà una crescita del reddito, mentre una diminuzione delle ore di lavoro produrrà una diminuzione del reddito. L'argomento è seducente ed anche i marxisti, che dovrebbero esserne immuni, ci cascano regolarmente. Ma ci sono motivi sia empirici che teorici per dire che le cose non stanno così.
Il tempo è denaro, ma più tempo di lavoro significa più denaro nelle tasche dei capitalisti, non in quelle dei lavoratori: lasciando tutto immutato, attualmente, un maggior numero di ore di lavoro fanno aumentare solo i profitti, non i salari - in generale, più ore vengono lavorate, maggiore è il profitto per i capitalisti. Ciò avviene perché la produzione del plusvalore (profitti) comincia solamente a partire dal momento in cui il lavoratore ha già riprodotto il valore del suo salario. Perciò, ad ogni livello di produttività lavorativa, il valore è proporzionale alla lunghezza della giornata totale di lavoro, più lungo è il giorno lavorativo lavorato dal lavoratore, maggiore l'ammontare di valore che egli può produrre in eccedenza al suo salario. E' questo il motivo per il quale la presente crisi ha assunto il ruolo di traino per la cosiddetta ristrutturazione del mercato del lavoro: in Portogallo, per esempio, il governo si muove per aumentare le ore di lavoro, tassare le pensioni ed allungare l'età lavorativa in cui i lavoratori possono andare in pensione.
La maggior parte del lavoro che viene svolto oggi non aggiunge niente né ai salari né ai profitti: per delle ragioni che sono state spiegate da numerosi teorici marxisti, il capitalismo può solo continuare a ridurre il tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la produzione di beni e ad espandere il plusvalore (profitti). Una volta che incontra questo limite, comincia a generare disoccupazione diffusa e capitale improduttivo, il quale, se continua su questa strada, porta al collasso del modo di produzione. A questo punto, il capitalismo comincia a creare una nuova categoria di lavoro: il tempo di lavoro superfluo; il tempo di lavoro che non aggiunge niente, né ai salari dei lavoratori né ai profitti dei capitalisti (per comprendere le implicazioni di quest'argomento, basta solo considerare come gli Stati Uniti riescono a mantenere un vasta rete di presidi militari che abbraccia tutto il mondo). Molti autori marxisti hanno notato questo sviluppo, soprattutto dopo il 1971, ma, per quanto possa dire, nessuno ha realizzato il suo potenziale come base per convertire radicalmente il tempo di lavoro in tempo libero disponibile per la società senza toccare i bisogni materiali dei produttori.
Molte ore di lavoro ribassano i salari intensificando la concorrenza per il lavoro: anche in questo caso, come la maggior parte dei marxista sa, o dovrebbe sapere, più sono le ore di lavoro, maggiore è la tendenza, per una certa parte della classe operaia, a ritrovarsi bloccata l'opportunità di vendere forza lavoro e maggiori sono le pressioni competitive dentro la classe dove ciascuno lotta per vendere la propria forza lavoro. Questa pressione competitiva si aggiunge alle divisioni e alla frammentazione della classe e fa abbassare i salari, al crescere della produttività del lavoro. Con il miglioramento dei macchinari, un lavoratore abolisce molti altri lavoratori - buttandoli letteralmente fuori dal settore occupazionale. La pressione competitiva colpisce più duramente le donne ed i lavoratori di colore, i quali devono confrontarsi con una lunga storia di supremazia maschile bianca. Ma la pressione competitiva contribuisce inoltre all'isteria contro gli immigrati ed ai sentimenti nazionalisti via via che i lavoratori dei diversi paesi si ritrovano a concorrere da vicino per una partita sempre più in diminuzione di occupazione. Questo genere di discordia competitiva dentro la classe lavoratrice può essere battuta solo forzando una riduzione delle ore di lavoro.
Non c'è nessuna controindicazione nel ridurre le ore di lavoro, sia per quanto riguarda l'impatto diretto sui salari, sia per l'equilibrio delle forze competitive che operano dentro e fra le classi, sia per la massiccia quantità di tempo di lavoro che viene messo a disposizione della società per una radicale conversione in tempo libero che può essere usato per attività auto-dirette o per il proprio auto-sviluppo. Gli attivisti devono rivolgere la loro attenzione alla più semplice e profonda domanda rivoluzionaria - quella che Marx chiamava "la modesta Magna Charta della classe operaia", e la sola richiesta capace di fare del comunismo un movimento reale.


fonte: The Real Movement

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