"Operai senza alleati!", così titolava la rivista "Classe Operaia". Eravamo, allora, nel marzo 1964 e a nessuno di quegli operai, della cui classe - in tuti i sensi - si parlava, sarebbe mai venuto in mente di auto-sequestrarsi quattrocento e più metri sottoterra, e ancor meno di cercare di tagliarsi pubblicamente le vene. Certe cose (quello di minacciare, e poi di tagliarsi con una lametta in pubblico, non certo di chiudersi in carcere) le faceva solo il sottoproletariato detenuto (ché, finché era in libertà, mai gliene sarebbe punta vaghezza) e le faceva per cercare di ottenere qualche miglioramento alla propria situazione detentiva, un trasferimento, pasti migliori. Qualcosa, insomma! E dopo essersi tagliato, oltretutto, non sveniva.
Le cose cambiano, e oggi gli operai non sono più senza alleati, tutt'altro.
Sono senza nemici!
Un coro, fatto di giornali, politici, televisioni e sindacati, istituzioni, si schiera con gli operai, con gli operai autolesionisti, con gli operai che fanno sciopero, ma della fame.
Hanno guadagnato l'amore e la solidarietà di tutti, gli operai. Ma a che prezzo!?
Al prezzo del lavoro. Un lavoro da difendere sempre, in qualsiasi situazione, a qualsiasi condizione. Un lavoro di cui essere orgogliosi e fieri, non importa se ammazza e se ti ammazza. Non importa se l'effetto collaterale del tuo lavoro è veleno da respirare. Preferiscono il veleno e il lavoro, piuttosto che parlare di reddito. Loro sono eroi, adesso. Eroi della produzione, come Gondrano, ne "La Fattoria degli Animali", come le centinaia di stakanovisti che venivano ritrovati, impiccati dai loro compagni che il lavoro non lo amavano punto, alle travi delle officine dell'Unione Sovietica. Il lavoro li rende liberi, come nella migliore tradizione scritta anche, e non solo, nella nostra Costituzione. Talmente liberi che vorrebbero che anche i loro figli, finalmente liberi come loro, lavorassero in miniera: curiosa contraddizione, darebbero la vita per i loro figli - dicono che stanno lottando per loro - ma li vorrebbero veder lavorare in miniera, a bere veleno!
E per ottenere questo, il loro lavoro, e i loro figli domani in miniera, se ne stanno chiusi a quattrocento metri di profondità a difendere l'onore ormai perduto del lavoro, e a minacciare di farsi saltare in aria. Moriranno, senza nemici e senza lavoro, ed ai figli lasceranno ... una discarica!
Solo un blog (qualunque cosa esso possa voler dire). Niente di più, niente di meno!
venerdì 31 agosto 2012
operai senza
fantascienza e comunismo
Un fascicolo dell'FBI su Ray Brabdury rivela che il governo federale aveva indagato lo scrittore, sospettato di essere un comunista, negli anni '60 e '70. Appellandosi al "Freedom of Information Act Request", l'Huffington Post ha ottenuto una copia del file di Brabdury, e così è venuto fuori che l'FBI controllava i timbri sul passaporto dello scrittore e piantonava la sua casa. Solo che, ad un certo punto decisero di non avere abbastanza elementi per dare seguito all'indagine, e rinunciarono ad interrogare lo stesso Brabdury.
Il nome di Brabdury, era stato fatto da più informatori, compreso lo sceneggiatore Martin Berkeley, il quale spiegò, all'FBI, per filo e per segno, le connessioni fra fantascienza e comunismo.
"L'informatore ha dichiarato che la finalità generale di questi scrittori di fantascienza è quella di spaventare la gente, mettendola in uno stato di paralisi psicologica che confina con l'isteria, che potrebbe verosimilmente portare ad una Terza Guerra Mondiale che il popolo americano si convincerebbe di non poter vincere, dal momento che il suo morale è stato distrutto."
Ma poi, evidentemente, l'FBI realizzò che, sebbene avesse tuonato contro il maccartismo, lo scrittore non aveva poi questa gran simpatia per il comunismo. Infatti, nel 1959, durante una conferenza, aveva dichiarato che il suo libro "Il pompiere" (che poi sarebbe diventato "Fahrenheit 451”) era stato proibito in Unione Sovietica.
giovedì 30 agosto 2012
mercoledì 29 agosto 2012
Il lavoro è un mestiere che va a morire!
Guillaume Paoli è il terzo membro degli "chômeurs heureux" (Disoccupati Felici), trio tedesco autore del manifesto dallo stesso nome, pubblicato nel 1996. Francese, residente a Berliono da 20 anni, autore di opuscoli dal titolo evocativo come "Abbasso il lavoro", o "Più carote e meno bastoni", si è fatto (ri)conoscere soprattutto grazie al suo "Elogio della demotivazione”, pubblicato nel 2008. Fine analista di quella patologia che viene chiamato lavoro, questo francese di 62 anni installato a Berlino è alla ricerca di una via di mezzo fra l'inerzia totale e un attivismo vuoto. Quella che segue è una sua recente intervista.
Quando, e in quali condizioni, ha deciso di non lavorare?
E' stato nel ventre di mia madre, credo ... In effetti, non ho mai pensato a fare una domanda di impiego, a fare carriera, per quanto ne so, trovando più desiderabile fare quello che mi piace, senza tener conto dei "vincoli del mercato". Ho avuto la possibilità di essere adolescente in un'epoca - gli anni settanta - in cui tale attitudine esistenziale era più facile e più diffusa di oggi. Ciò detto, non si tratta di un rifiuto per principio. Quando mi propongono di pagarmi per continuare a fare quel che mi conviene, accetto volentieri. Come in questo periodo, al Central Theater di Lipsia, dove organizzo delle discussioni, dei dibattiti o delle proiezioni, come filosofo da camera.
Si sente un parassita?
Ogni essere umano reca in sé una tensione contraddittoria fra attività e riposo, quietezza e inquietudine, azione e contemplazione. Quando si vive in dipendenza del lavoro salariato, questa tensione si sente continuamente. Quando la vigilanza si allenta, si sprofonda nell'inerzia totale o nell'attivismo vuoto. Far coesistere questi due estremi, cercare la via di mezzo è l'apprendistato di tutta una vita.
Lei ha scritto - "La cura di sé è anche la cura degli altri". Ciò a dire?
Non ho alcuna considerazione per chi non cerca altro che la sua auto-soddisfazione narcisista, che sia bottegaio o scansafatiche. Noi siamo esseri sociali e prosperiamo in quanto esseri sociali. Quel che c'è da criticare nel lavoro così com'è, sta proprio nel fatto che spinge a comportamenti antisociali, porta a vivere a detrimento degli altri, sia che si truffi il cliente, con il sorriso sulle labbra, sia che si sia subordinati che calpestano la testa del collega.
Il manifesto dei disoccupati felici è stato scritto più di 15 anni fa. Lo giudicate più credibile. oggi?
Sul piano pratico, era certo più facile prima (almeno dove abito, a Berlino) eludere il lavoro salariato senza per questo piombare nella miseria. Da questo punto di vista, ciò che è stato la descrizione di un modo di vita effettivo è diventato una sorta di ideale difficile da realizzare. Invece, sul piano delle idee, niente ha potuto contraddire la nostra esposizione, al contrario. Il mondo del lavoro diventa ogni giorno più assurdo e distruttivo. Perciò la domanda diventa sempre più pressante: come vogliamo vivere davvero?
Avete scritto nel Manifesto: "Per i disoccupati felici si tratta di conquistare un riconoscimento sociale per mezzo di un finanziamento senza condizioni, oppure si tratta di sovvertire il sistema con mezzi di azione illegali, come il non pagare l'elettricità?" Siete sempre partigiani di questo tipo di sovversione?
Non si tratta affatto di glorificare l'illegalità. Ricordiamo l'evidenza: noi non viviamo sotto il regno della legge, ma sotto quello dei rapporti di forza, a sfavore dell'individui atomizzato. Non è permesso ai disoccupati di far valere collettivamente i loro diritti: recarsi in gruppo nell'ufficio del responsabile dell'occupazione significa già mettersi fuori dalla legge. Come vendere delle salsicce grigliate all'angolo della strada, o allacciarsi da solo all'elettricità, rifiutare di assolvere ai propri debiti o resistere ad un'espulsione. Tutte queste pratiche non sono possibili che collettivamente. Ed ogni collettivo genere la propria pratica, che non è necessariamente illegale, ma più o meno legale nella misura in cui porta avanti la propria legittimità.
Che fine hanno fatto gli altri membri del vostro collettivo, scioltosi nel 2002?
Uno si è convertito all'Islam e vive a Dubai, un altro in Cina, un terzo si è votato all'architettura critica, un altro alla fotografia, un altro coltiva il suo giardino.
Nel suo libro "L'abolizione del lavoro", Bob Black sostiene la festa permanente, la rivoluzione ludica ... Cosa ne pensi?
Raoul Vaneigeim l'aveva scritto prima di lui. Questi erano gli slogan del 68, c'è stato un tempo in cui li ho fatti miei, senza rifletterci troppo. Poi, ho letto la critica feroce che ha fatto Philippe Muray, e soprattutto ho visto come questi slogan sono stati applicati: carnevalizzazione della rabbia, depoliticizzazione festaiola, infantilismo di massa. Rifiutare il lavoro non significa rifiutare l'impegno, e chi sogna la rivoluzione non può trascurare l'impegno, non sempre ludico, necessario all'auto-organizzazione, alla costruzione paziente di una rete, all'esperienza. Ma, soprattutto: mi romperei le palle di brutto ad una festa permanente!
Alcuni vedono l'anti-lavoro come una postura dandy in contraddizione con il popolo che fatica. Come cambiare questa visione?
Questa visione crolla da sé sola, nel momento in cui si osservano le condizioni concrete del lavoro oggi, mobbing, gerarchia, precariato, sottoimpiego delle facoltà individuali, perdita di senso e di desiderio, la sensazione di lavorare all'autodistruzione generalizzata. Chi ha detto che si deve rifiutare tutto, del Dandy?
Ne "La nostra pigrizia", Camille Saint-Jacques scrive: "Qualunque cosa si pensi dell'epoca del lavoro della nostra società produttivistica, nella stragrande maggioranza dei casi, un'inattitudine al lavoro rivela una grande sofferenza sovente accompagnata da una dipendenza all'alcol o alle droghe, o ad altre patologie psichiche o somatiche", o ancora, "al di fuori di un dandysmo asociale e parassita, la realtà della pigrizia, nel quotidiano, è la depressione e l'impotenza" ... Un commento?
Ho scritto ne "L'elogio della demotivazione" che la mancanza di lavoro provova una sofferenza identica alla mancanza di droga. Dei soggetti resi tossicodipendenti passati dalla scuola alle prestazioni e al rendimento si ritrovano in crisi di astinenza, depressi, si ammalano o ricorrono ad altre droghe compensative. Non si tratta di negare questa patologia, ma di trattarla come una conseguenza della dipendenza nociva dal lavoro, dalla violenza fisica e biologica che viene imposta. In altri termini, quello che questa signora chiama inattitudine al lavoro è inattitudine alla pigrizia.
Cosa direbbe ai disoccupati depressi che si sentono "esclusi" ed "inutili"?
La stessa cosa che direi ai lavoratori depressi che si sentono esclusi ed inutili. La prima domanda è: esclusi da cosa, esattamente? Da una vita ricca di esperienza, di incontri, di passione? Oppure, da un lavoro ripetitivo, usurante, senza reale gratificazione? Esclusi dalla riconoscenza dei loro simili o dalla concorrenza generale e autistica? Poi, parliamo dell'utilità. Che cos'è che è utile? vendere degli hamburger, dei finti medicinali e delle pubblicità stronze? O prendersi cura dei propri cari, preparare un buon pasto, fare l'amore, o leggere un buon libro? Senza dimenticare che se siamo umani, allora il superfluo è necessario e l'inutile è utile. Il beneficio che deriva da una lunga passeggiata non è quantificabile.
Le mentalità condizionate dal mondo del lavoro per un periodo troppo lungo possono ancora cambiare?
Le mentalità sono in costante evoluzione, e il mondo del lavoro va ancora più veloce. Le ragioni per cui le persone si attaccano al proprio mestiere sono adesso ostacoli "arcaici" al loro impiego. Per esempio, prendiamo il tempo che ci vuole a elaborare un prodotto di qualità, a guadagnarsi la fiducia del cliente, a gioire di una certa sicurezza materiale, l'assicurazione che copre in caso di malattie, una pensione decente, ecc ... Tutte queste cose non hanno più alcun posto nel mondo dell'impresa, da qui una demotivazione galoppante da parte dei salariati. Oggi, molte persone comprendono senza difficoltà che è proprio l'attaccamento a certi valori, ad una qualità della vita, che è incompatibile con la sfera dell'occupazione.
Quale dovrebbe essere il primo passo verso un mondo senza lavoro?
Sopprimere le rendite del capitale. Il sistema del lavoro come esiste oggi ha una sola funzione: moltiplicare la rendita dell'oligarchia mondiale. Il diritto di voto non cambia niente, è sempre feudalesimo. Finché sarà così non sarà possibile alcuna libertà. Ora, la questione è di sapere come fare a sopprimere le rendite del capitale, ed io ovviamente non ho una risposta. Se ce ne fosse una, questo sarebbe già accaduto.
fonte: http://raumgegenzement.blogsport.de
martedì 28 agosto 2012
collasso
Domanda: Tu leggi la teoria marxiana della crisi come una teoria del collasso, una teoria che si fonda sull'idea di una sotto-produzione di capitale. Altri marxisti (Grossmann, Mattick) l'hanno fatto prima di te, ma come lettura di Marx è sempre stata minoritaria. I marxisti, al di là delle loro differenze, hanno sempre letto, e leggono ancora, la teoria di Marx come teoria di un'iniqua distribuzione della ricchezza (iniqua distribuzione che oggi trova la sua fonte nella speculazione, nella deregulation, nella ricerca di super-profitti da parte dei mercati finanziari) e rigetta la teoria del collasso. Queste due letture di Marx, sono legittimate dallo stesso Marx? Ci sono due Marx?
Robert Kurz: Il termine collasso, è allo stesso tempo metaforico e suggestivo. E' stato utilizzato, senza che fosse teorizzato, da Eduard Bernstein, al fine di squalificare in blocco la teoria marxiana della crisi, nel contesto dello sviluppo capitalista alla fine del diciannovesimo secolo. L'espressione appare in quello che viene chiamato il "Frammento sulle macchine" nei Grundrisse di Marx, dei quali Grundrisse né Bernstein né i suoi avversari avevano conoscenza, dal momento che sarebbero stati pubblicati molto più tardi. Nel III libro del Capitale, Marx parla più esattamente di un "limite interno del capitale" che finisce per diventare un limite assoluto. La minoritaria "teoria del collasso", formulata in passato da Rosa Luxemburg ed Henryk Grossmann, parla di "insufficiente realizzazione" di surplus-valore (Luxemburg), oppure di "sovraccumulazione" del capitale (Grossmann) che non può essere reinvestita in maniera sufficiente.
Paul Mattick prende velocemente le distanze dalla teoria di un limite oggettivo del capitale, identificando, come fanno i Leninisti, il "collasso" con l'azione politica del proletariato. Con lo stesso Marx, possiamo trovare due livelli della teoria della crisi che non sono stati unificati. Il primo livello fa riferimento alle contraddizioni della circolazione del capitale, che è come dire il gap crescente fra il comprare ed il vendere, anche in riferimento alla sproporzione fra i vari rami della produzione a cui ci si riferisce. Il secondo livello, nei Grundrisse e nel terzo volume del Capitale, viene riferito in maniera più funzionale alla connessione che c'è fra produttività e le condizioni di valorizzazione, e quindi ad un'insufficiente produzione di surplus-valore, sottoproduzione dovuta al fatto che troppa forza-lavoro viene resa superflua. Nelle teorie marxiste delle crisi, sono solamente le contraddizioni della circolazione a giocare un ruolo; queste teorie non affrontano la questione dell'insufficienza della sostanza reale del lavoro. Ma con la terza rivoluzione industriale (N.d.T.: quella microelettronica) è questa seconda che gioca ad un livello più profondo.
La desostanzializzazione del capitale ha raggiunto un punto per cui si è resa possibile una pseudo-accumulazione, senza alcuna sostanza, mediante le bolle finanziarie e il credito di Stato, ed è questa che attualmente sta arrivando al limite. Non si tratta più di distribuzione iniqua di "ricchezza astratta", come posta in gioco, ma della liberazione della ricchezza concreta dal feticismo del capitale e dalle sue forme astratte. Ad ogni modo, molti marxisti contemporanei sono anche a corto della vecchia teoria delle crisi e non fanno altro che adottare il classico e piccolo-borghese punto di vista di una critica del capitale finanziario.
Essi vedono l'origine della crisi non nella reale ed insufficiente produzione di surplus-valore, ma nella soggettiva avidità di profitto da parte degli speculatori.
Essi non mettono affatto in questione il modo capitalista di produzione ed aspirano solo al ritorno della configurazione fordista del lavoro astratto.
Questa opzione non è solamente illusoria, è reazionaria. Rassomiglia, strutturalmente, all'ideologia economica dell'antisemitismo.
lunedì 27 agosto 2012
alternative e non
“Non esiste un’alternativa immanente. La sinistra non sa far altro che elogiare le alternative immanenti dell’ontologia e della storia dello sviluppo capitalista, e così si rifugia in gran parte nel passato e si appassiona ad una assurda disputa sul fatto se siamo nel 1914 o nel 1941. Entrambi le fazioni rimangono bloccate mentalmente al tempo del capitale, formato dalle economie nazionali e dalle potenze espansioniste dell’imperialismo nazionale. Entrambe sono analfabete sulla teoria della crisi e più estesamente su tutta la critica dell’economia politica. Entrambe si aggrappano all’immanente razionalità capitalistica del soggetto illuminista borghese.
I nostalgici del 1914 e i partigiani della mummia di Lenin invocano il fantasma di un’alleanza "antimperialista" tra oppositori di sinistra alla guerra nelle metropoli con i "sovranitaristi" e i "popoli" del Terzo Mondo che hanno la necessità di difendere l’indipendenza borghese contro gli imperialismi degli Usa, della Germania o dell’Ue. I nostalgici del 1941, al contrario, delirano sull’idea di una coalizione "anti-Hitler", sotto l’egida delle potenze occidentali "buone", contro il "fascismo islamico" ed i suoi complici tedeschi, per la difesa di Israele e della "civilizzazione".
(...)
Lo Stato palestinese collassa prima della sua fondazione perché la sovranità nazionale non rappresenta più assolutamente alcuna opzione di emancipazione; al contrario, l’Intifada ed i barbari attentatori suicidi non possono essere posti sul medesimo livello dell’annichilimento industriale degli ebrei ad Auschwitz. I falsi amici del Terzo Mondo assimilano Israele all’imperialismo non coscienti della sua qualità, risultato del globale antisemitismo; i falsi amici di Israele glorificano le forze reazionarie e ultrareligiose responsabili dell’omicidio di Rabin e cadono essi stessi in un’agitazione razzista primaria. I primi negano Israele come luogo di rifugio, gli altri ignorano il fatto che la sua esistenza è più minacciata dalla barbarie della crisi interna che dalle minacce militari esterne.
Gli zombie del 1914 accettano la barbarie nazionalista e antisemita, culturalista e antiamericana della "lotta di classe" e dell’ "antimperialismo". Gli zombie del 1941 abbandonano qualsiasi critica alla guerra dell’ordine mondiale, denunciano imperturbabili e sereni la perseguitata opposizione israelita, così come l’opposizione di sinistra negli Usa, e trasformano la necessaria critica dell’antisemitismo e dell’antisionismo in legittimazione del terrore democratico delle bombe. Quello che è necessario al posto di tutto questo è un’opposizione radicale alla guerra che mostri la reale situazione del mondo e sviluppi una critica categoriale della modernità capitalistica che vada più in là dell’erronea immanenza delle apparenti alternative, le quali altro non rappresentano che forme diverse della stessa barbarie della crisi cosmopolita.”
Robert Kurz - "Guerra d’ordine mondiale. La fine della sovranità e le mutazioni dell’Imperialismo nell’era della globalizzazione" (2003)
domenica 26 agosto 2012
Selene
Millenovecentosessantanove, Luglio, la notte fra il venti e il ventuno. Una scorpacciata di film di fantascienza e di episodi, per me inediti, della serie "Ai confini della realtà". Sveglio tutta la notte, fino al mattino ed oltre. E, in mezzo, i primi passi di un uomo su una luna alla fine raggiunta.
sabato 25 agosto 2012
venerdì 24 agosto 2012
pappagalli
Nel 1936, Sygmunt Stein è un giovane attivista ebreo. E' sempre stato di sinistra, prima in Polonia, nel Bound, poi in Cecoslovacchia. E' diventato comunista perché crede nel progetto di Stalin di fondare una sorta di stato ebraico in Siberia, il "Birobidan". Il Partito, che vede in lui "non solo un leader obbediente, e fedele alla linea del partito, ma anche un lavoratore ispirato", lo ha messo alla direzione di un giornale in lingua yiddish.
"Ho associato, strettamente, l'amore per la cultura, per la tradizione ebraica e per gli ebrei, che portavo nel più profondo del mio cuore, ad una fede bronzea nel ruolo storico dell'Unione Sovietica" - scrive.
I primi dubbi arrivano con i Processi di Mosca. "Com'è stato possibile? Zinoviev, il braccio destro di Lenin? E Kamenev? Ho passato delle notti intere senza riuscire a dormire". Non se la sente di rompere con il Partito. Gli Stalin passeranno - egli pensa - ma i fondamenti del bolscevismo, la società senza classi, tutto questo resterà. Cerca di mettere a tacere i propri dubbi.
"La guerra civile che è scoppiata in Spagna mi dà finalmente una via d'uscita" - decide. Ancora non immagina che si appresta a vivere gli anni più importanti della sua vita opponendosi in segreto alla direzione staliniana delle Brigate Internazionali, e che ne verrà fuori disperato!
Il libro, "Ma guerre d’Espagne", ce ne consegna la storia. Tradotto oggi in francese, era già stato pubblicato nel 1956, in lingua yiddish, su un quindicinale newyorkese, ed era stato definito, allora, come "un documento umano terrificante".
Certo, ci aveva già pensato George Orwell, con il suo "Omaggio alla Catalogna", a mettere del piombo nelle ali del mito delle Brigate Internazionali, ma le accuse di Stein contro il partito cui apparteneva, e di cui era uno dei commissari politici, sono tanto più terribili, quanto circostanziate. Nessun testimone aveva mai descritto il disastro interiore di un responsabile del Partito, mentre assisteva, muto e a rischio della sua vita, alla rovina di tutti i suoi ideali.
Stein descrive le tappe della sua scoperta progressiva di una realtà che alla fine gli esploderà davanti agli occhi. Dall'entusiasmo iniziale per la partecipazione dei paesi coinvolti nelle Brigate (anche dei giovani americani, che considera dei "turisti"), lui, incaricato della loro "educazione", assisterà impotente alla loro manipolazione da parte dei dirigenti dei partiti comunisti di diverse nazionalità. Vede tre cadaveri su tre barelle. Non riesce a credere che si tratti di brigatisti giustiziati per "deviazionismo" o, peggio, per "trotskismo"! Via via, viene a sapere che altri vengo assassinati a sangue freddo per "motivi di disciplina", oppure con una pallottola alla schiena durante i combattimenti.
Ad Albacete regna André Marty, definito come "il macellaio di Albacete", non dai franchisti, ma dalle sue stesse truppe.
Stein constata le condizioni delle vecchie armi, fornite dai sovietici a caro prezzo, l'arroganza degli strateghi inviati da Mosca che, poi, non riusciranno a sfuggire alla mannaia dell'accusa di deviazionismo, una volta tornati a Mosca. Ironia della sorte.
Si ammala, e quando viene dimesso dall'ospedale, per placare la sua coscienza, chiede, tra lo stupore dei suoi capi, di essere mandato al fronte. Lì, con i suoi compagni della brigata ebraica Botwin, con un armamento assolutamente risibile, e alcuni anche a mani nude, va all'assalto dell'artiglieria e dei mezzi corazzati franchisti. La brigata viene annientata. Ferito, viene "rimpatriato" in Francia. Qui, dopo essersi sposato con una compagna polacca, conduce un'esistenza difficile, fabbricando bottoni. In Francia gli nascerà una figlia, Odette, che pubblicherà queste sue memorie.
Non ci sono grandi considerazioni politiche, in questo libro febbrile. Non si fa menzione della neutralità delle democrazie, né della tolleranza riguardo ai bombardamenti nazi-fascisti su villaggi come Guernica. Vi si legge solo il triste e desolante spettacolo di Barcellona dopo la messa fuorilegge del POUM.
"La Pasionaria non interveniva mai da sola, e non era mai la prima a parlare. All'inizio, il presidente diceva qualcosa, poi dava la parola ad uno o a due oratori che facevano delle brevi osservazioni ed insistevano sul fatto che stavano per lasciare la parola alla Pasionaria. Non appena veniva pronunciato il suo nome, la presidenza cominciava ad applaudire e a gridare "hurrà!" ed il pubblico si lasciava guidare ed entusiasmare dallo spettacolo. Alla fine, il presidente si alzava, scrutava la folla con sguardo infiammato e, sbattendo le palpebre, annunciava a voce bassa, soffocata e rauca, che avrebbe dato la parola alla Pasionaria. Nel giro di pochi istanti, la tribuna rimaneva vuota e regnava un silenzio totale. Improvvisamente, la si vedeva apparire, i capelli arruffati, gli occhi ardenti, la camicetta slacciata. Il pubblico si alzava in un solo movimento. Si applaudiva, si battevano i piedi, si gridava. La Pasionaria all'inizio resta immobile, come una dea della vendetta. Poi sollevava le braccia in un gesto teatrale ed il clamore cessava come per un colpo di bacchetta magica. In questo silenzio improvviso, pronunciava delle frasi brevi ed infiammate.
Quello che diceva non aveva alcuna importanza. Lanciava verso la folla degli slogan che passavano sopra la testa della gente. Nel parlare, stendeva le braccia, posava la mano sul corsetto e poi la toglieva. Tale gesto scopriva in parte il suo seno nudo, ed allora esclamava: - Noi sbarreremo il passo alla bestia immonda con lo scudo dei nostri corpi!
L'esposizione del seno era parte di una messinscena, senza dubbio elaborata dai suoi istruttori, per raggiungere la massa dei soldati. La Pasionaria si rendeva conto dell'effetto provocato dal suo corpo, dai suoi occhi brillanti, dalla sua voce al tempo stesso metallica e calda. Metteva all'opera tutti i mezzi che possedeva per eccitare la folla e scatenare il fanatismo. Nessuno si aspettava che facesse dei discorsi teorici. Si sapeva che le sue parole, certamente piatte, ma calde ed appassionate, cadevano sulla massa come una scintilla su un barile di polvere.
Nella sua vita privata, era esattamente il contrario di quel che diventava durante i raduni. L'ho incontrata spesso durante il mio lavoro di militante. Veniva perfino alla manifestazioni che organizzavo con l'appoggio della sezione culturale. Le sue apparizioni furono sempre ben orchestrate, ma in seguito, quando era lontano dalla folla, diventava una donna discreta, un po' timida e gentile, una di quelle donne che non avevano avuto la possibilità di diventare un idolo fabbricato dall'enorme apparato di propaganda, e che vivono, inosservate, nelle città di tutto il mondo. Era stanca ed esausta. Stanca del rumore che si faceva intorno a lei, esausta per gli slogan che gli istruttori politici le infilavano nella testa e che era obbligata a ripeterla come un pappagallo."
*Sygmunt Stein, Ma guerre d’Espagne, Brigades internationales : la fin d’un mythe, traduit du yiddish par Marina Alexeeva Antipov, postface de Jean Jacques Marie, Seuil, 270 p., 19 euros.
giovedì 23 agosto 2012
quante storie!
Questo quadro di Peter Ferguson si intitola, semplicemente, "Sala d'aspetto".
Curioso, come un'immagine possa recare in sé una miriade di storie, da essere raccontate, illustrate, filmate.
Un uomo seduto in una sala d'aspetto, un vaso in grembo. Ma cosa c'è nel vaso? E perché è seduto in quella stanza? Proprio in quella stanza?
fonte: http://io9.com/
mercoledì 22 agosto 2012
regole
Nel 1941, Preston Sturges aveva già vinto l'oscar - il primo in assoluto - per la miglior sceneggiatura originale, con "The Great McGinty"; un film che può essere considerato antesignano della commedia demenziale e stava girando quel capolavoro assoluto che ha per titolo "Sullivan's Travels".
Proprio a quell'anno risalgono le "11 regole per avere successo al botteghino" che si era divertito a stilare:
1 - Una bella ragazza è meglio di una brutta
2 - Una gamba è meglio di un braccio
3 - Una camera da letto è meglio di un soggiorno
4 - Un arrivo è meglio di una partenza
5 - Una nascita è meglio di una morte
6 - Un inseguimento è meglio di una chiacchierata
7 - Un cane è meglio di un paesaggio
8 - Un gattino è meglio di un cane
9 - Un bambino è meglio di un gattino
10- Un bacio è meglio di un bambino
11- Un capitombolo è meglio di niente
fonte: www.listsofnote.com/
martedì 21 agosto 2012
utopie
Ci sono pensatori che, per quanto sconosciuti ai più, rimangono tra i più lucidi del nostro tempo. Questo è il caso di Tom Thomas. In mezzo ai 19 libri che ha scritto, andrebbe letto e riletto questo "Etatisme contre libéralisme ? C'est toujours le capitalisme". Una vera e propria ventata d'aria fresca, nell'atmosfera mefitica ed asfittica dell'anticapitalismo monco propagandato dalla sinistra della sinistra (politica, movimentista e sindacale) fatta di alter-mondialisti, di socialdemocratici ed economisti costernati, capaci solo di approntare misture indigeribili fatte di keynesismo e di altre ideologie di servizi pubblici, che dovrebbero servire come ultimo relitto, cui aggrapparsi, per una sinistra anti-liberale oramai del tutto mortificata.
La critica, alla radice, della società attuale deve tener conto del fatto che le forme/categorie del valore, della merce, del lavoro e del denaro non sono affatto trans-storiche, ma specifiche della società capitalista; così come deve sapere che la politica, nella sua forma moderna dello Stato, non è esterna al rapporto con il capitale (presupposto classico della sinistra statalista), ma gli è del tutto immanente.
A fronte della dimostrazione per cui la produzione industriale moderna è intrinseca alla socializzazione capitalista, si tratta di costruire una teoria storicamente specifica dello Stato moderno: Stato e Industria non vanno intesi come forme sociali trans-storiche.
In questo inizio del XXI secolo, la critica dell'economia politica si è trasformata:
1. Non si può criticare il capitalismo a partire dall'Industria (la vecchia utopia dell'automazione tecnologica del movimento operaio dell'800)
2. Come non si può criticare il capitalismo a partire dallo Stato (un'altra vecchia eredità dei club rivoluzionari del 1789)
3. Come non lo si può criticare dal punto di vista del lavoro e della ridistribuzione del valore (lavoro e valore sono forme intrinsecamente capitaliste - volere la "giustizia economica" e l'"uguaglianza sociale" all'interno del capitalismo non ha niente di anticapitalista, dal momento che tale "giustizia" presuppone una società del lavoro che continua a rappresentarsi nel valore e nel suo movimento automatico, coercitivo e totalitario)
4. Come non si può criticare la classe dei capitalisti-funzionari del capitale a partire dagli operai prestatori di lavoro astratto per il capitale.
Dal momento che tutte le classi sociali esistono nel presupposto del loro rapporto con il capitale, nessuna lotta può essere condotta sulla base dell'affermazione dello Stato, dell'Industria, del lavoro, della ridistribuzione del valore e del denaro, della "giustizia economica", del diritto al lavoro.
La rivoluzione non è l'affermazione di queste forme ma ne è, al contrario, la negazione (auto-negazione, dal momento che non esistono altro che queste forme).
Questo libro di Tom Thomas, come tutti gli altri suoi, è scaricabile gratis dal suo sito, Démystification.
Pum, pum! Chi è? La polizia!
E' alto quattro metri e pesa quattro tonnellate e mezzo. Armato di una specie di cannone mitragliatore, può sparare 6mila proiettili al minuto. Si sposta ad una velocità massima di 10 kilometri l'ora e può essere pilotato, a scelta, da un essere umano installato dentro la cabina di comando, oppure per mezzo di uno smartphone.
Kuratas - così è stato battezzato questo mostro d'acciaio - è stato sviluppato dalla società giapponese Suidobashi Heavy Industry, che intende metterlo in commercio ad un prezzo che si aggira intorno al milione di euro.
lunedì 20 agosto 2012
Pussy-Riot …d’antan
Parigi, Notre-Dame, 1950.
Quattro membri del gruppo Lettrista - Michel Mourre, Ghislain Desnoyers de Marbaix, Serge Berna, Jean Rullier... Mourre era un ex-frate domenicano - inscenano una protesta. Il testo, letto da Mourre dal pulpito, durante una pausa della messa di Pasqua:
Oggi giorno di Pasqua dell'Anno Santo,
Qui, sotto l'emblema di Notre-Dame di Parigi,
Io accuso la Chiesa Cattolica universale di un dirottamento letale della nostra forza vitale verso un cielo vuoto,
Io accuso la Chiesa Cattolica di truffa,
Io accuso la Chiesa Cattolica di aver infettato il mondo con la sua mortifera moralità,
di essere la piaga infetta sul corpo decomposto dell'Occidente.
In verità vi dico: Dio è morto,
Vomitiamo l'insipienza agonizzante delle vostre preghiere,
Perché le vostre preghiere sono state il fumo grasso sui campi di battaglia della nostra Europa.
Perciò andiamo avanti nel tragico ed esaltante deserto di un mondo dove Dio è morto,
Fino a quando rifaremo questa Terra con le nostre mani,
Con le nostre mani orgogliose,
Con le nostre mani che non si uniscono per pregare.
Oggi giorno di Pasqua dell'Anno Santo,
Qui, sotto l'emblema di Notre-Dame di Parigi,
Noi proclamiamo la morte del Cristo-Dio, affinché l'uomo possa finalmente vivere.
domenica 19 agosto 2012
Riportando (quasi) tutto a casa
Credo sia Unamuno, in "Nebbia", che, riferendosi alla cosiddetta "mania di viaggiare", asserisce che la cosa ha a che fare con la topofobia, piuttosto che con la filotopia. Come a dire, si viaggia perché si odia - non ci piace - il luogo in cui si vive e non perché si ami il luogo verso cui ci si dirige. Un po' come la famosa affermazione, di non ricordo chi, a proposito del fatto che si può essere vegetariani per odio alle piante, e non per amore verso gli animali. Detto questo, e pagato il solito tributo ai riferimenti che qui e là mi assillano, torno a scrivere - o quel che è - su quel che succede e che, in varie gradazioni, mi tocca. Di quel che ho saputo mentre ero ancora via, di quel che ho appreso al momento in cui sono tornato, e di varie cose su cui mi è capitato di rimuginare.
Giovedì scorso, nel paese di Nelson Mandela, 34 minatori sudafricani sono stati passati per le armi dalla polizia. Sassi e bastoni contro fucili mitragliatori. Nei filmati, si vedono i poliziotti dopo il massacro. Molti di loro sono neri, e sorridono. Non credo serva aggiungere altro.
Intanto, apprendo con ritardo, è morto Harry Harrison. Uno dei pochi autori di fantascienza capace di coniugare avventura spaziale e commedia, ma anche di disegnare uno dei più impietosi ritratti del nostro futuro. Libro e film imperdibili; mi era capitato di parlarne qui. Sul sito del guardian, si può leggere la sentita commemorazione che ne fa Christopher Priest.
Ultimamente, nel luogo dove quotidianamente mi reco per scambiare tempo con reddito, è in corso una "trattativa" su orari e tempi di lavoro. Mi spiego: ogni tanto succede che qualche dirigente, a livello più o meno nazionale, si accorge che orari di lavoro e di apertura al pubblico non sono uniformati a livello nazionale, e non corrispondono al concetto di "servizio" in auge al momento. Ovviamente, tutto questo si traduce immediatamente in un tentativo di peggiorare le condizioni di vita, riducendo flessibilità e orario di servizio in modo da aumentare, ad esempio, i tempi di percorrenza ed altre cose del genere.
La trafila è la solita. Il direttore convoca i sindacati e le RSU ed illustra loro la proposta, intrisa delle magnifiche sorti e progressive. Sindacati e RSU, pieni di buona volontà, si risolvono poi a parlarne con l'assemblea, non senza prima aver cercato di dimostrare di essere pronti a far capire alla dirigenza che sì, si può trovare un accordo; una piccola correzione là, un'altra qua ... L'assemblea dice no. Punto e basta. Ma loro, no. E che diamine!?! Non si può mica fermare il progresso, il liberismo, la concertazione. Sennò che cazzo ci stanno a fare, loro!?? E perciò, alla faccia dell'assemblea, si tratta! Perché - ci fa sapere il delegato della cgil - il sindacato tratta. E un sindacato che non tratta non è un sindacato. Sono più o meno tutti d'accordo. Sindacati confederali e non, cub usb rdb sindacati più o meno gialli, rossi e viola a pallini blu. Tutti d'accordo, tranne l'assemblea. Quella non conta. E, in fondo, non ha mai contato. Diciamocelo!
Ah, la foto qui sotto l'ho scattata in un vecchio negozio di ceramiche, in via Cavour, a Siracusa. Non c'entra niente. Forse!
sabato 4 agosto 2012
venerdì 3 agosto 2012
imparadisamenti
Una donna di Santa Barbara, Tarragona, Spagna, ha dovuto dimostrare al Vaticano che suo padre, repubblicano spagnolo ed ateo, non era la persona che pretendevano di beatificare. La storia è cominciata quando Pepita Pla, residente a Santa Barbara, ha ricevuto una comunicazione dalla Santa Sede, in cui la si informava che suo padre sarebbe stato fatto santo. Strano, dal momento che il padre aveva combattuto per la Repubblica, durante la Guerra civile spagnola, ed era stato perfino nelle prigioni franchiste di Saragozza e Madrid. "Mi hanno chiamato per telefono, tre mesi fa, ed ho pensato che si trattava di uno scherzo. Ho perfino risposto in malo modo" - racconta Pepita. Sono stati necessari tre lunghi mesi, per dimostrare, da parte della famiglia Pla, fornendo gli atti di nascita e di morte del combattente antifranchista, che stavano cercando di fare santo la persona sbagliata. Il prete del villaggio ha dovuto attestare la validità della documentazione!
"Quando ero piccola, ricordo che davanti alla chiesa del villaggio c'era esposto un cartello con sopra scritti i nomi degli spagnoli uccisi nel corso della guerra e c'era il nome di uno che si chiamava come mio padre (n.d.a.: Josep Pla Arasa). E lui, mio padre, arrabbiato, rispondeva sempre, quando glielo chiedevano : No! Non sono io!" ricorda Pepita, sollevata per aver risolto la faccenda.
giovedì 2 agosto 2012
studenti
Houston, Texas, 20 maggio 1967 - Un agente di polizia sorveglia alcuni dei 500 studenti della Texas Southern University (un college frequentato solo da neri) arrestati durante una sommossa in cui un poliziotto è rimasto ucciso, ed altri tre sono stati feriti. Gli agenti sostengono che i colpi contro di loro sono stati sparati da dietro una finestra del dormitorio, quando erano intervenuti, dopo aver saputo che il raduno in corso nel campus era diventato violento.
mercoledì 1 agosto 2012
il giocoliere
Guy Debord non è stato sepolto. Secondo le sue volontà, i suoi resti sono stati cremati e poi dispersi nel vento, lungo uno dei suoi amati lungosenna. Il messaggio è chiaro: nessun posto dove andare ad adorare la sua memoria, nessun luogo dove celebrare importanti anniversari o lasciare un qualche segno di apprezzamento. Insomma, un rifiuto di eternità e di posterità, il suo abbraccio all'effimero e alla sparizione. Nessuno potrà dire che Debord probabilmente si sta rigirando nella tomba, oppure accennare al fatto che starà ridendo dentro la sua fossa. Cose del genere. Eppure, quasi diciott'anni dopo il suo suicidio, commesso all'età di 62 anni, non sta certo riposando pacificamente!
Dimenticare, non è stato certo dimenticato e, ancor meno, ha raggiunto l'oblio. Le sue opere continuano a motivare e ad ispirare. La psicogeografia e la deriva urbana continuano ad essere popolari fra urbanisti ed artisti vari. Programmatori e giocatori digitali, in Europa e negli Stati Uniti, apprezzano non poco il suo Kriegsspiel (una sorta di incrocio fra un wargame e gli scacchi). Ed infine, ma non ultimo, la sua critica della società dello spettacolo continua ad essere considerata un buon punto di partenza per i giovani rivoluzionari, in Francia.
D'altra parte, però, le opere di Debord sono state ri-confezionate e vendute dalla sua seconda moglie, Alice Becker-Ho. Durante gli ultimi 18 anni, "la signora Debord" ha deciso di distribuire i film del defunto marito, come DVD prodotti dalla Gaumont. Poi, ha fatto pubblicare la corrispondenza "completa", però in forma abbreviata, dall'editore Fayard. Quindi, ha deciso di vendere gli archivi completi del marito, a scelta fra la Biblioteca Nazionale di Francia e la Beinecke Library dell'Università di Yale, al primo dei due che le versasse la somma di 2,34 milioni di dollari, entro il 2011.
Inoltre, "la signora Debord" ha usato la sua influenza legale e commerciale per far cambiare la presentazione di tali opere, e far sopprimere la dicitura che promuoveva "l'uso non autorizzato" di tali opere.
Certo, la sua condotta avrebbe anche potuto essere peggiore. Infatti, si è astenuta dallo scrivere libri e dall'apparire in qualche documentario o trasmissione televisiva per elencarci le virtù del defunto marito.
E qui, rispunta la domanda precedentemente posta a proposito di contorsioni dentro la bara (inesistente o meno).
Ma forse Debord, a conti fatti, non avrebbe storto troppo la bocca per questo suo "utilizzo". Guy Debord era una persona molto complicata. Finché è stato vivo, lui, ma anche lui e la moglie, è stato sostenitore, organizzatore e beneficiario di vari tipi di truffe. A detta del suo "Panegirico", durante la giovinezza è stato anche un ladro. Negli anni '50 e '60, insieme alla prima moglie, Michelle Bernstein, ha fatto diversi "soldi facili" pubblicando cose come "oroscopi per cavalli da corsa" ed altro. Ed anche nel 1993, giustifica la pubblicazione delle sue "Memorie" (originariamente concepito e prodotto come regalo che veniva spedito ai destinatari) scrivendo: "E' stato un regalo, ma ora deve cessare di esserlo (...) In sintesi, preferisco vendere il mio prestigio e recuperare le mie perdite attraverso adeguati compensi in contanti".
L'emblema di questo lato di Guy Debord è la copertina del suo libro del 1985, "Des contrats, Le temps qu'il fait", progettato secondo i desideri dello stesso Debord. L'illustrazione mostra "Le Bateleur", che è una carta nel mazzo dei Tarocchi di Marsiglia. In una delle ultime lettere, Debord spiega che questa immagine è "la più misteriosa e la più bella, secondo il senso che io do a queste parole (...) Mi sembra che questa carta aggiunga, e senza volerlo enfatizzare, qualcosa che può essere visto come una certa padronanza della capacità di manipolazione, e così facendo richiama opportunamente l'entità di tale mistero" (Lettera a Georges Monti).
Il "mistero" di questa manipolazione veramente magistrale consisterebbe dunque nel saper raggiungere i suoi effetti desiderati senza alcuno sforzo apparente, senza che la manipolazione sia mai percettibile. Ma allora, se la manipolazione è davvero impercettibile, come si può sapere che c'è realmente manipolazione?
Le risposte, quiete, continuano a marcire.