Al di là dell'identità e della forma di valore
- di Sergio Tischler -
«Tutto ciò che vive è irripetibile. È inconcepibile che due esseri umani, due cespugli di rose selvatiche siano identici...
La vita si spegne laddove si cerca di cancellare le differenze e le particolarità, con la violenza.»
- di Vasilij Grossman -
Fino a che punto la politica rivoluzionaria è stata parte della forma-valore ed è rimasta intrappolata in quella forma di relazioni sociali? Fino a che punto il leninismo è stato parte di una tale logica identitaria? Fino a che punto la dialettica negativa ci permette di cogliere teoricamente questo fenomeno della lotta di classe? Fino a che punto abbiamo riprodotto una prassi politica che, lungi dall'andare oltre la forma-valore, l'ha riprodotta in varie forme di potere e di organizzazione? In che misura la rivoluzione costituisce la produzione di una nuova identità, di una nuova totalità oppure, al contrario, essa implica lo straripamento e il superamento dell'identità-totalità in quanto forma delle relazioni sociali? E in che misura tutte queste domande condensano, in quella che è una formulazione concettuale, una parte sostanziale della storia della lotta di classe, dalla sua formulazione teorica più sviluppata (Marx) fino ai nostri giorni? Porsi tutte queste domande non ci obbliga al rigore di avere risposte – generali o specifiche – ad esse. Possiamo, tuttavia, avanzare alcune idee al riguardo.
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Una di queste idee, corrisponde a ciò che chiamiamo la forma identitaria della lotta di classe, ed è qualcosa che va compresa nei termini del processo oggettivo e contraddittorio della totalizzazione della vita sociale propria del capitale.
Marx espone questo processo nella sua opera fondamentale. In quanto forma generalizzata di ogni relazione sociale, la merce presuppone un meccanismo, una logica sociale, in cui la diversità della produzione materiale può essere socializzata solo per mezzo del denaro, in un'omogeneizzazione che avviene nello scambio. Questo scambio ha come fondamento il lavoro. Ma non il lavoro oggettivato nei valori d'uso, bensì il lavoro astratto; vale a dire, il lavoro oggettivato nel tempo: un'astrazione rispetto al lavoro concreto e ai valori d'uso. Questo tipo di astrazione – di carattere oggettivo, o "reale", per usare l'espressione di Alfred Sohn Rethell – si sviluppa storicamente con lo scambio di merci, e acquista un carattere universale nel capitalismo, come lavoro socialmente necessario, la cui riproduzione (accumulazione di capitale) avviene su un campo di battaglia in cui ci si nutre di plusvalore e si uccide per appropriarsi di esso (profitto). Il tempo, dominato dall'astrazione e autonomizzato come tempo astratto che domina il sistema, punta l'indice della catastrofe e della morte (guerre, espropriazioni, genocidi). Oggi, Gaza ne è la sua espressione più brutale e dolorosa.
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L'identità tra la vita sociale e la forma merce costituisce un momento di riproduzione del capitale, del dominio in termini politici e culturali, e si esprime in maniera fondamentale nella sua forma di cosa (reificazione o cosificazione) che viene assunta dalle relazioni sociali. In altre parole, l'identità è parte costitutiva del modo di esistenza delle relazioni sociali del capitale. Marx l’ha posto tutto ciò nei termini del feticismo delle merci; un feticismo che non si limita solo alla cosiddetta sfera economica, ma che si estende anche alla relazione capitalistica nel suo complesso, la quale comprende tanto la dimensione politica (Stato) quanto la forma culturale dominante. Ma per quanto dominante possa essere tale momento, esso rimane un momento di quella che è una forma sociale lacerata dall'antagonismo e dalla contraddizione; vale a dire, una forma che implica la non-identità, la quale sta dentro e contro l'identità (il momento negativo della relazione).
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Come fare a comprendere questo momento negativo, e il suo dispiegarsi in termini di lotta? Da un lato, la cosa può essere intesa come se fosse lo svolgersi di una lotta che nega la forma esistente (e l'identità che la definisce), al fine di produrre una nuova sintesi identitaria (la rivoluzione come realizzazione della totalità e come l'avvento di una nuova identità universale nella figura del proletariato trionfante). Questa visione ha costituito il modo più diffuso di intendere la dialettica come dialettica rivoluzionaria (per dirla nei termini di Lukács, forse il suo principale esponente teorico). Per lui, la dialettica era l'antidoto al positivismo e al marxismo volgare della maggior parte dei teorici marxisti della Seconda Internazionale. La rivoluzione è stata dialettica, così come lo è stato il soggetto storico. Con la rivoluzione si è reso possibile realizzare la totalità, in quanto vera identità del soggetto/oggetto, così come la scomparsa dell'antagonismo nelle relazioni sociali. Oggi ci troviamo di fronte alla crisi di una simile concettualizzazione (la dialettica positiva dell'identità vista come filosofia dell'emancipazione). Il suo riferimento storico, è il fallimento sovietico (in quanto progetto di emancipazione) e quelle esperienze che, in un modo o nell'altro, hanno seguito il leninismo, visto come paradigma della rivoluzione. Un fatto questo, la cui interpretazione fallisce, se la si ricava da una visione basata sul primato del fattore soggettivo della rivoluzione, in particolare di quello che è stato il ruolo svolto dall'avanguardia rivoluzionaria, e dai suoi intellettuali. Se è vero che quel fattore è stato fondamentale, allora è importante stabilire che esso fa parte della rivoluzione intesa come oggetto; cioè, vista come se fosse un processo oggettivo e contraddittorio, dove il soggetto rivoluzionario è parte di (e si trova di fronte a) determinazioni che non sono state stabilite da lui. Ciò che intendiamo con questo, è che la deriva autoritaria della rivoluzione russa non è spiegabile in termini meccanici e lineari; vale a dire che non è spiegabile solo come il semplice risultato della materializzazione di una visione verticale della rivoluzione, centrata sul partito e sullo Stato, così come sulla ragione strumentale in quanto componente dominante della nuova costellazione del potere. Tutte queste determinazioni di natura soggettiva – i pesi soggettivi del soggetto rivoluzionario – sono stati di certo un fattore fondamentale nella forma politica che si è venuta a istituire; ma la questione è assai più complessa; tra l'altro, anche perché qui entra in gioco la forza totalizzante del Capitale come sistema, il quale, in termini generali e nelle sue molteplici espressioni, rappresenta l'antitesi, all'interno del processo rivoluzionario stesso. Tuttavia, l'antitesi è stata presentata in modo reificato, come qualcosa di esterno alla figura di quel sistema di Stati che ha attaccato il nascente potere rivoluzionario. Ciò allora rafforzò le tendenze interne del potere autoritario, poiché la lotta, nei termini di difesa della rivoluzione, venne vista come difesa dello Stato rivoluzionario, e spinse così il processo verso la definizione della rivoluzione secondo la sua identità con la forma di Stato. Con ciò si è prodotta una chiusura politica ed epistemica: il momento ideologico ha finito per imporsi su quello della critica, il cui significato è invece quello di aprire le categorie, e aprire il mondo. (L'esperienza più cospicua di questa critica dal basso, è stata il soviet). La chiusura si è espressa, tra l'altro, proprio nella reificazione di un'istituzionalità definita in termini di categorie identitarie che, in quanto tali, rivendicano universalità: Partito-Stato-Classe-Lavoro, come ideologia di una nuova sintesi del mondo.
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L'affermazione dell'esperienza russa, vista come un canone classico della rivoluzione, ha finito per rafforzare il modo di pensare la lotta di classe, e il marxismo, in termini di identità. In una simile cosificazione, ecco che questi concetti sono stati positivizzati, e degradati, sotto forma di ideologia, la cui funzione è quella di una chiusura identitaria dove la negatività perde ogni contenuto critico e creativo, e si trasforma in un mero momento di affermazione del potere istituito.
La "Teoria Critica" della cosiddetta prima generazione della "Scuola di Francoforte", è stato uno dei momenti brillanti della critica di questa forma ideologica. Una parte fondamentale della nostra argomentazione, si basa su tale critica; in particolare, si basa sulla dialettica negativa di Adorno, sulla sua teoria della negatività e sulla critica della positivizzazione delle categorie e dei concetti. Tra l'altro, questa prospettiva ci consente di pensare a come il contenuto delle rivoluzioni del canone classico, sia stato un antagonista di quella promessa emancipatrice che esse suscitavano ideologicamente. L'impegno per lo Stato, si rivelò antitetico a quello per l'emancipazione. L'idea che l'emancipazione possa essere prodotta verticalmente, a partire dal dispiegamento della ragione strumentale e dalla razionalità del potere burocratico, ha fallito. E questo, non per ragioni circostanziali. Il fatto è che, se l'obiettivo della rivoluzione è l'abolizione della forma valore, vale a dire, del capitale, allora l'unico modo per riuscire a raggiungere questo obiettivo, è aprire un processo che, dal basso, sfidi le categorie del dominio, tra le quali lo Stato. Se il partito e lo Stato sono categorie pensate e organizzate secondo la produzione di una nuova sintesi, di una nuova totalità, ben lungi dal rompere con la forma valore, allora esse la riproducono nelle diverse costellazioni di potere. La rivoluzione così pensata, rimane intrappolata proprio nella forma di dominio che il discorso cerca di superare. Viene intrappolata nell'identità, la quale è ora il segno del sistema. Non si tratta, quindi, di una rivoluzione nel senso di Marx. Vale a dire, la rivoluzione non va pensata nei termini di strutture di soggezione, ma, al contrario, come una rottura che apra la storia come un processo di auto-determinazione. (È per questa ragione che oggi si può dire che la Comune di Parigi è più attuale della rivoluzione bolscevica). Di fatto e di concetto, la forma di identità che la lotta di classe ha assunto è stata quella della negazione della rivoluzione, in quanto critica radicale del capitale. Solo a partire dall'uso della critica, si può parlare di autodeterminazione, e di superamento delle strutture di soggezione. E questo implica anche la comprensione secondo cui l'abolizione dell'opera astratta, in quanto categoria universale, non può essere attuata a partire dalla particolarità dello Stato. E non solo perché questa particolarità sia insufficiente, di fronte alla totalità organizzata intorno al lavoro astratto, ma fondamentalmente perché questa particolarità è una particolarità di quella totalità, e pertanto la riproduce. La totalità non è l'espressione dell'assenza di antagonismo (o del suo superamento), ma essa costituisce l'identità della forma antagonista dell'esistenza sociale.
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Per dirla con il linguaggio dello zapatismo, l'idea di un'identità di lotta e di emancipazione, potrebbe essere espressa nell'immagine della piramide. La piramide che riproduce altre piramidi. Da un lato, la piramide rappresenta la verticalità della nostra vita quotidiana, soggetta alla logica del tempo astratto; vale a dire, la verticalità del dominio del capitale, espressa e mascherata nelle categorie che si manifestano secondo un linguaggio di reciprocità e di orizzontalità, come quelle che sono costitutive dello Stato liberale, come forma politica e culturale. Dall'altra parte, l'immagine della piramide ci dice che la lotta anti-capitalista non può essere piramidale, bensì deve essere un processo di abolizione delle piramidi. Questo processo può essere interpretato come Il Comune. Si può dire che quello che fanno gli zapatisti è "El común"; un processo che non è lineare, bensì contraddittorio, il quale che non mira a una nuova sintesi totalizzante, ma a un mondo aperto, dove la negatività sfida l'egemonia e il dominio. Se il telos della forma leninista classica del partito – inteso come avanguardia rivoluzionaria – è lo Stato, esso è tale poiché la forma statale si trova già in questa forma come la scissione esistente tra i dirigenti e i diretti; vale a dire che l'antitesi della rivoluzione esiste già nella forma organizzativa stessa, e questa forma tende a riprodurre la scissione soggetto/oggetto relativa, nella sfera politica, alla forma valore e a quella del lavoro astratto. La tendenza a positivizzare il partito come categoria, crea un'immagine di soggetto puro, portatore di una verità che si oppone proprio alla non-verità di quella realtà che si cerca di superare; e che, in termini epistemici, si traduce in un pensiero anti-dialettico, costruito a partire da antinomie fisse. In questo senso, uno dei contributi più importanti dello zapatismo, è stato quello di concepire sé stesso - e il soggetto rivoluzionario in generale - come un soggetto contraddittorio, la cui prassi anticapitalista implica la lotta per superare la classica forma verticale di organizzazione rivoluzionaria. Vale a dire, la forma identitaria della lotta di classe.
Che cosa rappresenta "El Común zapatista"? Forse non siamo fuori strada se, in termini generali, diciamo che essa rappresenta la lotta contrapposta a quella forma. Ci troviamo quindi di fronte all'emergere di una nuova idea di rivoluzione, contro il codice che ne ha dominato l'interpretazione, la quale si è basata sulle categorie di totalità e di identità. Questa idea emergente, non è qualcosa che deriva da una sorta di storia autonoma del concetto, ma fa parte essa stessa della lotta di classe, è parte della critica che si attualizza nelle lotte per le lotte stesse.
- Sergio Tischler - Agosto 2025 - Pubblicato su Comunizar -