giovedì 30 novembre 2023

Lavorare stanca …

Il romanzo del lavoro
- di Angelo Ferracuti -

Rimossa come un anacronistico ferro vecchio del Novecento, torna in Italia - e già successo in Francia e in Inghilterra - una nuova letteratura che racconta il lavoro come autorappresentazione di classe con memoir, poesia, reportage e romanzo dal vero. Quello sporco, corporale, operaio, precario, sfruttato di cui non si sa niente, mentre però si contano oltre mille morti all’anno nonostante la retorica neoliberista ripeta da tempo che le classi sociali non esistono più — siamo tutti ceto medio. Questo immaginario cancellato torna anche grazie a un partecipatissimo festival autogestito alla ex Gkn di Campi Bisenzio, Firenze, presidiata da due anni, la fabbrica che produceva semiassi per la Stellantis. Là dove lavoravano 500 operai — licenziati dal fondo speculativo britannico Melrose Industries Plc con un’email per delocalizzare la produzione — la scorsa primavera ho partecipato anch’io al festival leggendo i versi di Luigi Di Ruscio, scrittore autodidatta e operaio emigrato, «poeta di miseria e fame — ha scritto Franco Fortini, di avvilimento e di rivolta». Un risveglio storico e una forma di resistenza culturale operaia di straordinaria forza politica voluta dai delegati di fabbrica, dall’Arci, dalla casa editrice Alegre e coordinata da due scrittori toscani (entrambi figli di lavoratori) che su questi temi hanno costruito una loro originale poetica, Simona Baldanzi e Alberto Prunetti. La prima in libreria con la storia operaia al femminile di Se tornano le rane (Alegre, 2022) e il secondo con la ristampa il 5 settembre del suo libro d’esordio, Amianto (Feltrinelli).

Quello di Campi Bisenzio, festival unico in Europa come il Working Class Writers Festival di Bristol, sostenuto da un crowdfunding, è stato un controcanto rispetto alle passerelle degli intellettuali e dell’effimero dei tanti salottini sparsi per l’Italia, un evento di impressionante forza simbolica con picchi di duemila partecipanti in una fabbrica presidiata mentre i liquidatori della proprietà minacciavano l’intervento della polizia e pesanti azioni legali. Dentro l’ex stabilimento c’erano militanti politici, sindacalisti, cittadini alla ricerca di legame sociale, di vita collettiva e di senso, quel concetto scomparso dalle scene sociali già quando Paolo Volponi dava alle stampe Le mosche del capitale — eravamo nel 1989, in pieno «finanz-capitalismo» e ben dentro la società dello spettacolo — e lo scrittore di Urbino si chiedeva angosciato come mai siamo giunti al punto che la sola «materia materiale» sia diventata il denaro, e come si sia annullata la profondità del mondo. Il racconto dei figli è stato prima un lavoro sulla memoria attraverso l’autobiografia, poi un racconto generazionale per ricostruire un immaginario dell’odierna classe lavoratrice, perché la nuova working class globale non è più quella fordista e delle lotte collettive del movimento operaio dei padri, piuttosto quella atomizzata della precarietà del mondo digitale, degli algoritmi, della logistica e dei rider raccontata nei film di Ken Loach. Anzi, proprio le sconfitte delle lotte operaie dei padri — come quella seguita alla marcia dei quarantamila quadri Fiat del 14 ottobre 1980 a Torino — hanno prodotto le vite precarie dei figli.

Figlia di una vestaglia blu (Fazi, 2006; Alegre, 2019) di Simona Baldanzi; La fabbrica del panico (Feltrinelli, 2013) di Stefano Valenti e Amianto di Alberto Prunetti (Alegre, 2014; Feltrinelli, 2023) sono stati l’inizio, come ha scritto quest’ultimo nella sua indagine Non è un pranzo di gala (minimum fax, 2022): «Siamo il rimosso che ritorna, la voce dei nostri vecchi che pensavate di aver messo a tacere una volta per tutte». Nel saggio Prunetti insiste molto sul «classismo strutturale del mondo delle lettere», e sui processi di precarizzazione e sfruttamento nell’industria culturale con «le stesse logiche del manifatturiero o della logistica»: partite Iva, minimi contrattuali, esternalizzazioni. Un altro punto nodale del saggio è la diversità degli scrittori working. Siamo sicuri di essere tutti uguali davanti alla pagina bianca? È solo una questione di immaginazione, di creatività? (Chi scrive è nato in una famiglia della classe media bassa dove nessuno leggeva libri e aveva fatto l’università, per sbarcare il lunario ha fatto molti mestieri, tra i quali il portalettere, e sa quali sacrifici immani ha dovuto sopportare per liberare il tempo di scrivere e non perdere la motivazione). A questo nucleo di testi aggiungerei Works (Einaudi Stile libero, 2016) di Vitaliano Trevisan; La straniera (La nave di Teseo, 2019) di Claudia Durastanti; Tuttofumo (Baldini+Castoldi, 2019) di Eugenio Raspi; e gli impeccabili reportage di Angelo Mastrandrea de L’ultimo miglio (Manni, 2021) sul mondo dell’e-commerce, di Amazon e della Città del libro di Stradella, Pavia, dove «si producono alienazione e sfruttamento non diversamente che in una miniera di carbone degli anni Cinquanta o in uno scantinato della delocalizzazione produttiva nell’Oriente estremo di casa nostra».

Amianto di Alberto Prunetti è l’epica e la biografia operaia di Renato, padre dello scrittore, tuta blu alla Solvay di giorno e cameriere al dancing Cardellino di sera, poi trasfertista «a Novara, Torino, Genova, La Spezia, Mestre, Terni, Taranto. Ovunque, sempre in periferia, senza mai vedere le cattedrali e le strade acciottolate dei centri storici». Luoghi dove «respirerà benzene, il piombo gli entrerà nelle ossa, il titanio gli intaserà i pori e una fibra d’amianto si infilerà nei suoi polmoni», scrive il figlio in un ibrido che mette insieme memoria intima, reportage e reperto storico, con una lingua ruvida, ritmica ed efficace, gergale alla Bianciardi, in quello che è un doppio romanzo di formazione ma anche un’autobiografia di classe e dell’Italia dove Prunetti racconta qual è stato il drammatico costo della vita per i tanti che come suo padre hanno costruito il miracolo del boom. Ma il maggiore pregio del libro è quello di saldare le storie e i destini delle generazioni, mettere in relazione la working class di ieri e quella frantumata di oggi: «Faccio un lavoro culturale e ho trentanove anni. Alla mia età mio padre operaio metalmeccanico sindacalizzato dalla Fiom si era già comprato la casa. Io, “lavoratore cognitivo precario”, arranco per pagare l’affitto», scrive. Una trilogia al presente, la sua, che comincia con questo libro e continua con 108 metri (Laterza, 2018), storia di un ragazzo italiano emigrato per lavoro a Bristol, e con Nel girone dei bestemmiatori (Laterza, 2020). Invece il nuovo romanzo del bernhardiano Stefano Valenti, Cronache della sesta estinzione (il Saggiatore, in libreria dal 22 settembre) racconta la storia di un uomo che ha perso il lavoro, senza più reddito, in attesa della liquidazione, che finisce a vivere in strada dentro un furgone acquistato con gli ultimi risparmi, parcheggiato sul viadotto della tangenziale. Il protagonista del romanzo è nato in una famiglia povera ed è stato «affittato» bambino a una famiglia borghese, ma è riuscito a studiare e laurearsi, ha fatto il traduttore e l’insegnante mentre negli ultimi anni è stato costretto ad accettare da un’agenzia interinale un lavoro da magazziniere della logistica. Adesso vaga in un mondo circostante dove immagina una catastrofe ambientale: «Il solfuro di dimetile (dall’odore di alga) invita gli uccelli marini a nutrirsi delle tonnellate di plastica scaricata in mare. I pesticidi versati nei fiumi indeboliscono i sensori olfattivi dei salmoni che non trovano la via verso i luoghi di nascita».

L’eroe di Valenti vive nella solitudine della società atomizzata dove ogni fallimento è una colpa personale, e si sconta con la vergogna e la paura di stare al mondo, e qui anche con un animistico desiderio di rinascita. Scritto per brevi frammenti linguisticamente elaborati ed epifanici, costato all’autore dieci anni di lavoro, qui vita e letteratura si incontrano, esperienza e finzione sperimentano una nuova rappresentazione del mondo.  Ma la letteratura working class torna anche con libri tradotti, come Alla linea (Bompiani, 2022) di Joseph Ponthus, straordinario romanzo in versi scritto da un operaio interinale, come quello altrettanto singolare di Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie, ripubblicato nel 2019 da Mondadori, o Cameriera di Sarah Gainsforth (in ebook nella collana Quanti Einaudi, 2022), e poi ancora il potente Metodo per diventare un altro (La nave di Teseo, 2023) di Édouard Louis, lucido e drammatico progetto metamorfico per sfuggire alla subalternità sociale e a una vita di povertà e duro lavoro, che segue Chi ha ucciso mio padre (Bompiani, 2019) e Il caso Eddy Bellegueule (Bompiani, 2014), e infine il bellissimo saggio narrativo di Cynthia Cruz Melanconia di classe (Atlantide, 2022). In questo libro la poetessa americana nata a Berlino alla sua vicenda personale alterna quella di musicisti e cineasti — Amy Winehouse e Barbara Loden tra gli altri — e racconta quella che definisce «la melanconia che nasce quando si abbandonano le proprie origini», lo strappo esistenziale di chi lascia la working class per entrare nel mondo borghese fra smarrimento identitario e coercizioni del pensiero neoliberista. È lo stesso dolore della perdita abilmente raccontato dal Nobel Annie Ernaux ne Il posto (L’Orma, 2014). A tutto questo si deve aggiungere il prezioso lavoro svolto da Alegre, casa editrice barricadiera che dà alle stampe libri di storie proletarie in una collana unica in Italia, Working class per l’appunto, dove pubblica libri come La porca miseria di Cash Carraway e Chav. Solidarietà coatta di D. Hunter, un classico come La strada di Wigan Pier di George Orwell, vibrante e partecipata inchiesta sul proletariato inglese dei distretti minerari degli anni Trenta del secolo scorso, e recupera Tuta blu di Tommaso Di Ciaula, uscito nel 1978 nei Franchi narratori Feltrinelli. Il libro di Di Ciaula è composto da blocchi narrativi compatti e cresce per accumulazione di memoria, dentro il ritmo meccanico di un ingranaggio, frammenti di vita lavorativa che incrociano descrizioni di paesaggio della campagna pugliese, gli interni cupi della fabbrica con le sue alienazioni e la nostalgia per la vita contadina, due mondi che confliggono in un momento di grande trasformazione e mutazione antropologica alla fine degli anni Settanta del Novecento, quando prende corpo il Paese consumistico. Quel consumismo che Di Ciaula intuisce nella sua duplice valenza distruttrice e oppressiva mentre descrive l’autostrada Bari-Taranto: «Se l’hanno costruita vuol dire che dobbiamo comprare più auto, più l’aria si ammorba, più i nostri compagni impazziscono alle catene di montaggio, più noi dobbiamo fare i salti mortali per mantenere le auto rendendoci più schiavi». Contestualmente, sullo sfondo dei suoi racconti e dei rabbiosi conflitti con i capireparto, le grandi speculazioni edilizie, il cemento che aggredisce costa ed entroterra di un Sud cresciuto disarmonicamente negli anni del «miracolo economico» e in quelli successivi. «La fabbrica si ingrandisce sempre di più, senza sosta. Sempre di più s’allontana la campagna», scrive dando notizia di questa metamorfosi.

Tra i nuovi poeti civili italiani che trattano i temi dell’alienazione e della fabbrica ci sono Fabio Franzin (’A fabrica ribandonàdha-La fabbrica abbandonata, Arcipelago Itaca, 2021); Nadia Agustoni (Lettere della fine, Vydia, 2015); il Matteo Rusconi di Trucioli (Aut Aut, 2021); il padovano Marco Carretta, classe 1984, Per far vivere altro cadiamo (Industria & Letteratura, 2023); e il nostro «Jacopone (da Todi) operaio» Luigi Di Ruscio, ormai diventato di culto e molto amato dai giovani poeti. L’irregolare degli irregolari apprezzato da Quasimodo sbarca in questi giorni negli Stati Uniti da Seagull Books, la casa editrice della Morante e di Fortini, con Selected Poems nella traduzione di Cristina Viti dalle Poesie scelte curate da Massimo Gezzi per Marcos y Marcos. Scrittore working class ante litteram, emigrato a Oslo negli anni Cinquanta, lavorò per oltre trent’anni come operaio metallurgico alla fabbrica di chiodi Christiania Spigerverk, rifiutato per decenni da tutte le più grandi case editrici italiane prima di approdare pochi mesi dopo la sua morte da Feltrinelli con le prose céliniane di Romanzi. La sua vita, che è stata anche quella di un migrante del dopoguerra, è un esempio struggente e unico di dedizione alla letteratura e fedeltà alla propria condizione di classe, quella di un figlio ribelle del proletariato marchigiano di Fermo spatriato tra i ghiacci scandinavi. Scriveva nelle ore rubate al lavoro, di ritorno dal turno di notte o prima dell’alba, quando partiva in bicicletta e attraversava al buio le strade ghiacciate per raggiungere la fabbrica alla periferia di Oslo. Perché — come dice Cynthia Cruz — «per definizione la working class deve lavorare, riposare e tornare a lavorare».

«La mia poesia non è un momento privilegiato, è tutto il mio scrivere che è il momento privilegiato. È un privilegio anche nel senso storico, senza la settimana corta, senza la paga oraria che mi fa comperare libri, non avrei potuto scrivere, come se dicessi che senza gli scioperi a oltranza che ha fatto la classe operaia norvegese negli anni Trenta non avrei potuto avere questo privilegio», disse in un colloquio con Giancarlo Majorino che chiude la raccolta Istruzioni per l’uso della repressione, la raccolta di versi uscita da Savelli nel 1980. «Senza l’avanzata della classe operaia occidentale non avrei potuto scrivere. Se fossi rimasto in Italia avrei potuto scrivere solo in galera, quando lavoravo in Italia non potevo scrivere, la settimana lavorativa era troppo lunga e spossante, ritornavo a casa solo per dormire». Scrisse della sua postura di poeta: «La presenza degli oppressi e stritolati è dietro le mie spalle e quando scrivo le scariche dell’Olivetti studio 46, macchina da scrivere rumorosissima, è come se partissero le scariche di un ammattito kalashnikov», quelle dell’ultimo che scriveva degli ultimi.

- Angelo Ferracuti - Pubblicato su La Lettura del 30/7/2023 -

mercoledì 29 novembre 2023

Ricorrenze !!

Il Terrore sotto Lenin
di Jacques Baynac - con Alexandre Skirda e Charles Urjewicz

A un secolo dalla sua morte, avvenuta il 21 gennaio 1924, cosa resta di Lenin?
Fondatore e teorico del bolscevismo, dopo il colpo di Stato dell'ottobre 1917, divenne il principale leader del partito unico al potere.
Mentre oggi alcuni cercano di riabilitarlo, è necessario guardare alle radici di quel regime che, a partire dal dicembre 1917, creò una terrificante polizia politica:
la Ceka, divenuta Ghepeù nel 1922 e poi NKVD nel 1934, responsabile dei Gulag.
Questa raccolta di testi getta una luce cruda sulla natura di un sistema politico basato sul terrore. Come disse Lenin: «Un buon comunista è anche un buon cekista».

INDICE:

"Socialismo e barbarie", di Jacques Baynac

"La Ceka: Decreti, articoli e documenti ufficiali"

"Il Terrore Rosso in Russia (1918-1924)", di S. P. Melgounov (storico russo [1876-1956])

"Tche-Ka (Materiali e documenti sul terrore bolscevico raccolti dall'ufficio di presidenza del Partito socialista rivoluzionario russo)"

"La repressione dell'anarchismo nella Russia sovietica", a cura del Gruppo di anarchici russi esiliati in Germania

"I dodici condannati a morte (il processo ai socialisti rivoluzionari di Mosca)", di W. Woïtinsky (ex bolscevico, poi menscevico)

"Abbasso la pena di morte", di Martov (membro del Bund)

"Contro-terrorismo rivoluzionario, l'attentato di Kovalevitch", di Alexandre Skirda (storico della Russia e dell'anarchismo)

"Henri Barbusse, i soviet e la Georgia", di David Charachidzé (giornalista e membro dell'Assemblea Costituente della Georgia)

"Solovki, una prigione nella Russia rossa", di Raymond Duguet (ufficiale francese durante la Prima guerra mondiale, autore di un'inchiesta su questa colonia penale russa).

"L'aspetto etico della rivoluzione", di Isaac Z. Steinberg (commissario del popolo per la giustizia nel 1917-1918).

"Lenin e la Vetcheka, o il vero Lenin", di Michel Heller (storico francese di origine russa, internato in un campo di lavoro nel 1950).

"Bibliografia".

https://www.lechappee.org/collections/poche/la-terreur-sous-lenine

martedì 28 novembre 2023

«Abbracciamoci»; l’ha detto la Radio !!

Guillamón, Agustín: Barcellona, maggio 1937, Syllepse Editions

Questo libro offre una nuova visione, inedita, degli avvenimenti del maggio 1937, originale e del tutto diversa da quella ci è stata proposta, fino ai nostri giorni, la storiografia accademica. Questa visione, si basa soprattutto su un rigoroso lavoro di ricerca negli archivi riguardo la vicenda di cui si parla, e su delle interviste fatte ad alcuni dei suoi protagonisti. Non è un "libro di libri" - uno di quei soliti libri imbevuti fatti di stralci e di dati presi da altri libri, che ci vengono poi propostici dalle case editrici commerciali. Quello che abbiamo qui, è un resoconto completo, se non addirittura insperato, di tutti i fatti ed eventi che hanno avuto luogo durante i sanguinosi giorni che vanno dal 3 al 7 maggio a Barcellona, qui raccontati dal punto di vista degli insorti che ne furono protagonisti, attraverso una documentazione rigorosa e indiscutibile. Le novità sono numerose, rimaste sconosciute prima della pubblicazione di questo libro, e che sicuramente d'ora in poi verranno riprodotte, e irrimediabilmente fraintese in quello che è il piccolo mondo plagiario del copia/incolla accademico. Anche se qui di seguito, viene dato un breve riassunto del libro, inevitabilmente, esso non potrà certo contenere tutta la freschezza, la complessità e la ricchezza dell'opera vista nel suo insieme.

È il 4 marzo 1937, quando, a partire dai decreti della Generalitat [Governo Autonomo della Catalogna], viene creato un Corpo Unico di Sicurezza (formato dalla Guardia d'Assalto e dalla Guardia Civile) e viene annunciato che in breve tempo verranno sciolte le Pattuglie di Sorveglianza. Immediatamente, questi decreti causano la riorganizzazione dei Comitati di Difesa - rimasti fino a quel momento in letargo - provocando così le dimissioni dei consiglieri della CNT [i ministri della Generalitat facenti parte della CNT], e dando luogo a un grave crisi di governo. Il 27 aprile 1937, l'assassinio di Antonio Martín, a Bellver de Cerdanya, porta alla rottura dell'accordo che era stato così faticosamente ottenuto. Manuel Escorza mette subito in allerta i Comitati di difesa; rivelando delle informazioni che riguardavano l'attuazione di un imminente colpo di Stato da parte del blocco controrivoluzionario. Manuel Escorza fa scoccare la scintilla, ma tuttavia si oppone a una rivolta, che considera prematura, poiché non  ha alle spalle una sufficiente preparazione, ed priva sia di obiettivi che di un adeguato coordinamento. La provocazione viene messa in atto il 3 maggio: quando lo stalinista Eusebio Rodríguez Sala prende d'assalto la centrale telefonica - con l'effetto di mobilitare subito I Comitati di difesa, i quali nel giro di due ore dichiarano uno sciopero rivoluzionario, prendono nelle loro mani il controllo di tutti quartieri operai, ed erigono barricate nel centro della città e in tutti i punti strategici. I Comitati superiori della CNT (a quel tempo rappresentati da Dionis Eroles e da Josep Asens) provano a cercare di controllare i Comitati di difesa; senza però alcun successo, e vengono sopraffatti. È la mattina del 4 maggio, quando Julian Merino, segretario della Federazione Locale (Barcellona) della FAI, convoca una riunione del comitato regionale della Catalogna, nel corso della quale riesce a formare un Comitato rivoluzionario segreto della CNT (composto da Julian Merino, Lucio Ruano e il sergente Manzana) e a creare due commissioni - una in Plaza España e un'altra al Centre-Parallèle - incaricate di coordinare ed estendere la lotta nella strada. Nel corso della stessa riunione, una delegazione della CNT, guidata da Santillan, viene incaricata di recarsi al Palazzo della Generalitat per negoziare una via d'uscita da questa situazione, mentre, nel frattempo Ruano aveva già piazzato i cannoni di Montjuic in Piazza San Jaime. In tal modo, così facendo, La CNT si dispone a giocare un doppio gioco: insurrezionalista e negoziatore. E tutto questo, nel mentre che Companys (il presidente della Generalitat) e Comorera (il segretario del PSUC) continuano a portare avanti il solito vecchio gioco della provocazione, con il chiaro intento di annientare gli insorti, e indebolire allo stesso tempo la CNT, in modo da poterla cancellare e formare così un governo forte. È il pomeriggio del 4 maggio, e gli operai di Barcellona - armati sulle barricate e pronti a dare battaglia - non sono ancora stati sconfitti, né dal PSUC (comunisti stalinisti), né dall'ERC (Sinistra repubblicana), né tantomeno dalle forze dell'ordine del Governo della Generalitat.

Questi lavoratori finiranno per arrendersi solo ai messaggi pacificatori che venivano trasmessi alla Radio. Il tentativo rivoluzionario di coordinare e dare un chiaro e preciso obiettivo all'insurrezione, così falliva. Nel momento in cui tutta la città di Barcellona traboccava di barricate, gli operai armati venivano sconfitti e umiliati dalle prediche radiofoniche dei Comitati superiori della CNT; e soprattutto, più in particolar modo, dal discorso degli «ABBRACCI» di Joan García Oliver, il quale attraverso la Radio continuava a chiedere agli operai sulle barricate di scendere, abbandonare la lotta e andare ad abbracciare come fratelli le Guardie d'assalto. È il 5 maggio, verso mezzogiorno, quando Sesé, segretario dell'UGT, viene colpito da un proiettile sparato dalla barricata del Syndicat des Spectacles della CNT, allorché l'automobile su cui viaggiava rifiuta di fermarsi al posto di blocco della barricata. Sesé, avrebbe dovuto assumere la carica di consigliere del Governo della Catalogna, in qualità di Ministro della Generalitat. Per ritorsione, Companys ordina all'aviazione di bombardare ripetutamente le caserme e gli edifici che erano in mano alla CNT. Gli Amici di Durruti diffondono un volantino nel quale si cerca di dare degli obiettivi concreti all'insurrezione: sostituire immediatamente la Generalitat con una Giunta rivoluzionaria; condanna altrettanto immediata di coloro che sono stati gli autori della provocazione (Rodríguez Sala e Artemi Aguadé); socializzazione dell'economia, costituire un affratellamento con i militanti del POUM, ed altro. Subito, i Comitati superiori sconfessano  questo volantino, il quale era riuscito a rilanciare la lotta sulle barricate. Il 5 e il 6 maggio la lotta nelle strade è al culmine. Il blocco contro-rivoluzionario segue le istruzioni che vengono della Radio e della Stampa, e per consolidare le sue posizioni tenta di abbattere, o di spingere ad abbandonare, le barricate. I rivoluzionari riprendono allora a combattere e tornano sulle barricate. Il 7 maggio, appare ormai chiaro che la rivolta è fallita. Gli operai incominciano a smantellare le barricate. Le truppe inviate da Valencia marciano lungo la Diagonal, occupando la città. Nei giorni successivi, i Comitati superiori della CNT cercarono di occultare ciò che era accaduto, ritoccando i verbali che venivano redatti; cercando in definitiva di evitare il più possibile la prevedibile repressione che sarebbe stata attuata, da parte degli stalinisti e del governo, contro la loro organizzazione, e contro i suoi protagonisti più in vista. Il necessario capro espiatorio che avrebbe dovuto caricarsi tutto sulle spalle, sarebbe stato il POUM. Se dovessimo riassumere in una sola frase il maggio '37, allora bisognerebbe spiegare che gli operai armati del tutto determinati sulle barricate, sono stati sconfitti dagli appelli di «cessate il fuoco!» trasmessi dalla Radio. La rivolta di Barcellona venne sconfitta grazie alla Radio.

Conclusione
Per la prima volta nella storia, un'insurrezione ha avuto inizio, protraendosi, contro la volontà dei capi dell'organizzazione alla quale apparteneva la stragrande maggioranza degli insorti. Ma anche se un ammutinamento può persino essere improvvisato, bisogna dire che una vittoria non può esserlo affatto (Escorza); e può esserlo ancor meno nel momento in cui tutte le organizzazioni operaie antifasciste - dall'UGT ai Comitati superiori della CNT - si mostrano ostili al proletariato rivoluzionario. I Comitati superiori misero in atto un doppio gioco: nel mentre che, da una parte, consentirono che venisse formato un Comitato Rivoluzionario della CNT, simultaneamente crearono anche una Delegazione che, in quanto CNT, si recava al Palazzo della Generalitat, a negoziare. Poi, ben presto, strapparono la carta dell'insurrezione per poter così scommettere su quel cessate il fuoco che gli assicurasse il loro futuro come burocrati. Così facendo, L'UGT e i Comitati superiori della CNT, l'ERC e il governo della Generalitat, gli stalinisti e i nazionalisti riuscirono a trasformare quella che avrebbe potuto essere una magnifica vittoria militare dei rivoluzionari - che era a portata di mano (secondo Julián Merino della FAI e secondo Rebull del POUM) - in una disastrosa sconfitta politica che aprì la strada a una feroce repressione. Lo hanno fatto tutti insieme - ma in modo diverso - svolgendo efficacemente il loro ruolo. Gli Stalinisti e i repubblicani direttamente sulle barricate della controrivoluzione. Gli Anarco-sindacalisti e Poumisti nell'ambiguità di «sembrare senza sembrarlo del tutto», di «dichiararsi rivoluzionari senza esserlo»; i primi consigliando la fine della lotta e raccomandando l'abbandono delle barricate; i secondi praticando l'«audacia» nel seguire i primi. Due piccole organizzazioni, gli Amici di Durruti e la SBLE (Sezione Bolscevico-Leninista di Spagna), avrebbero cercato di evitare la disfatta e di fornire all'insurrezione obiettivi chiari e precisi. Il proletariato barcellonese, essenzialmente anarchico, si è battuto per la rivoluzione, perfino contro le sue stesse organizzazioni e contro i propri dirigenti, in una lotta che aveva già perso nel luglio del 1936, allorché lasciava in piedi l'apparato statale e sostituiva alla lotta di classe il collaborazionismo e l'unità antifascista. Ma esistono alcuna battaglie che, per quanto perse, devono essere comunque combattute per il bene delle generazioni future, senza avere altro obiettivo se non quello di mostrare chi è chi; da che parte della barricata si trovano gli uni, dove si collocano gli altri, in modo da riuscire così a determinare i confini di classe, la strada da seguire, e gli errori da evitare.

- Agustín Guillamón -Pubblicato il 26/11/2023 su Pantopolis -

lunedì 27 novembre 2023

Cavalieri erranti in armature arrugginite…

La verità in un libro
- Li prendevano in giro, definendoli la feccia del mondo e i rifiuti della terra -
di Sergio Campos Cacho

Quando Arthur Koestler venne interrogato nella prigione di Pentonville, ormai al sicuro dopo la sua odissea francese, un agente dei servizi segreti britannici arrivò alla conclusione che l'uomo fosse per un terzo genio, per un terzo furfante e per un terzo pazzo. L'agente era riuscito a isolare i giusti ingredienti, ma non le proporzioni. Dopotutto, Koestler era arrivato in Inghilterra dopo essere appena scappato da un continente impazzito, con la paura e il disgusto ancora appiccicati alla pelle, dopo un paio di tentativi di suicidio e diversi esaurimenti nervosi. Come ebbe a dire Anthony Burgess durante il suo necrologio, Koestler aveva già vissuto tutti quegli incubi che poi George Orwell avrebbe più tardi immaginato nel suo "1984". In quella prigione, al cospetto di quegli agenti, lo straniero ungherese dev'essere loro apparso come se fosse un avventuriero squilibrato, piuttosto che quel brillante giornalista che era all'epoca. Il primo abbozzo di quelle esperienze che poi sarebbe andato a formare "Schiuma della Terra", Koestler lo aveva scritto a Marsiglia, quand'era ancora arruolato nella legione straniera - con i capelli pettinati e con quei baffi più tipici di un ufficiale che di una recluta - come appare nella fotografia del suo documento di arruolamento. Il primo titolo che gli era venuto in mente per il libro, era stato "Apocalisse in Francia". Le pagine che aveva scritto erano parte di quella serie di testimonianze rese da uomini che avevano vissuto il suicidio della democrazia francese - come, tra le altre, quelle di Feuchtwanger e quelle di Chaves Nogales - ma non si limitavano solo all'analisi politica, né tantomeno si concentravano solo sulle proprie avventure personali. Prima di ogni cosa, "Schiuma della Terra" è un libro giornalistico che riesce a mantenere in equilibrio quel che è interessante, vale a dire, l'epica di quel momento storico, con ciò che è importante, il destino di coloro che hanno vissuto e sofferto quell'esperienza.

In ogni caso, qualsiasi libro autobiografico va letto con cautela. I trucchi e le astuzie del cervello distorcono la memoria, che ne rimane scomposta, come se si trattasse dei pezzi disordinati di un puzzle nel quale ce ne sono alcuni che non si incastrano, mentre altri invece scompaiono, e dove ce ne sono persino di quelli che a quel puzzle non appartengono – i falsi ricordi – e tutto ciò, ovviamente, solo a condizione che l'autore scriva in buona fede, e senza propositi falsificatori. Tutto ciò che Koestler vi racconta, combacia perfettamente con quelli che erano i suoi taccuini, con i diari della sua fidanzata dell'epoca, Daphne Hardy (G. nel libro), e con tutti i documenti d'archivio francesi e britannici che Michael Scammell ha consultato per scrivere la sua monumentale biografia. Gustav Regler (Albert), uno dei suoi compagni a Le Vernet, ha detto che si tratta di un «libro eccellente, nelle sue parti puramente giornalistiche», ma che non è molto d'accordo con quelle che sono le valutazioni personali che contiene, le quali erano ovviamente più soggettive. Quel che Regler non sapeva - così come tutti i lettori del libro - era il vero motivo per cui Koestler - che aveva un passaporto di una nazione neutrale come l'Ungheria - venne arrestato. Lo scoprì un po' più tardi, e il motivo era la sua precedente collaborazione con Willi Münzenberg e con Otto Katz, i due geni della propaganda sovietica che si trovavano allora a Parigi e che stavano cercando di sfuggire sia ai nazisti che ai sovietici, muovendosi tra i nazisti e le autorità francesi.

Per quanto riguarda la vita nei campi di concentramento, Koestler cede il ruolo di protagonisti ai suoi compagni, soprattutto a Leo Valiani, “Mario” nel libro. Così, ad esempio, nella scena in cui, a La Vernet, i prigionieri protestano per cercare di impedire di essere rasati come se fossero dei galeotti, Koestler si concentra sulla difficoltà a mettere tutti d'accordo, e a redigere pertanto una documento consensuale di denuncia, ma tuttavia non racconta però la cosa più divertente – come spiega Regler nelle sue memorie – e cioè che, quando si trovò di fronte il barbiere, gli strappò le forbici dalle mani e si tagliò i capelli da sé solo, mettendosi a urlare, dopo averlo fatto, che quella cosa avrebbe voluto farla fin da quando era bambino. Poi, in quanto al protagonismo di Valiani, Koestler si scusò poi con lui per aver esposto e messo in mostra il suo valore. Lo farà in una lettera del 1942, che si trova conservata all'Università di Edimburgo:

«Suppongo che che il "Mario" di "Schiuma della Terra" ti abbia piuttosto turbato E' stato l'unico momento sentimentale che mi sono concesso, e ti ho semplicemente usato come se tu fossi un modello: i modelli non sono niente di più che un pretesto; e, naturalmente, essi rimangono sempre disgustati da ciò che i pittori, o gli scrittori fanno con loro. A questo libro serviva un eroe: cum granum salis; e tanto peggio per Vernet che non avrebbe potuto trovare un eroe più vero. Beh, spero che tu mi abbia perdonato».

Koestler non ha mai dimenticato i suoi compagni di sventura. Aiutò Valiani e Regler a trovare un editore per le loro opere, e distribuì molto denaro tra i rifugiati più bisognosi che si sono poi rivolti a lui. Nutriva un vero e proprio affetto per quelli che aveva definito come «cavalieri erranti in armature arrugginite», erano coloro i quali «gli stalinisti chiamavano trotskisti; i trotskisti chiamavano imperialisti e gli imperialisti, rossi di merda», erano uomini che in Germania avevano combattuto contro il fascismo, ed erano stati traditi dalla democrazia francese che li aveva perseguitati, senza mai trovare consolazione nel mito comunista, che poi aveva finito per dimostrare di essere solo un totalitarismo criminale. Era stata la realtà a mettere a nudo la demistificazione che ha consentito che potesse emergere quel genere di uomo ammirevole, il rinnegato.

"Schiuma della Terra" è stato ripetutamente pubblicato sia in inglese che in francese, ma ha avuto un relativo maggior successo in altre lingue. Durante gli anni '40, ha visto tre edizioni in italiano,per poi non essere stato mai più ristampato fino al 1989, e al 2005. La prima edizione tedesca è apparsa nel 1971; la seconda, nel 1993. È stato pubblicato in greco solo nel 1977. Una curiosità: l'unica edizione svedese è del 1942, con il titolo "Och vi som älskade Frankrike!" ["E dire che noi amavamo la Francia!"], ma nel 2009 è apparso come audiolibro. Le uniche edizioni in spagnolo, fino ad oggi, sono state realizzate in Argentina: la prima nel 1943, e una seconda nel 1951. Forse questa sfortuna editoriale è stata influenzata dalla cattiva reputazione che Koestler si è acquisito nel tempo: un intellettuale legato a una concezione dualistica dell'esistenza, lucido e indistruttibile nelle sue polemiche politiche e culturali, ma pericoloso nei suoi episodi di alcolismo e di erotismo violento che erano frutto di eccessi giganteschi come quell'arroganza che faceva impazzire i suoi detrattori – penso a Gershom Scholem, per esempio. Ed è stato per questo motivo che i suoi sostenitori – Martin Amis, Christopher Hitchens e Anthony Burgess, tra i più accreditati – lo ammirarono sempre con una certa cautela, accresciuta dalle voci che si diffusero subito dopo il suicidio di Koestler e di sua moglie, che insinuarono – falsamente – che egli l'avesse costretta a togliersi la vita insieme a lui, oltre che dal giudizio secondo cui il suo abbandono della politica, che barattò con lo studio delle esperienze extrasensoriali, fosse stato qualcosa di più che un mero capriccio eccentrico. Al cospetto della figura di Koestler, rimasero scossi più dall'orrore del tabù che dalla forza del totem.

Il successo che ebbe "Schiuma della Terra", consolidò il riconoscimento che Koestler si era guadagnato grazie al suo libro più famoso, "Lo Zero e l'Infinito" [N.d.T: libro sui processi in Unione Sovietica, mai pubblicato in italiano], tracciando così quello che poi sarebbe stato il suo percorso di intellettuale, culminato nell'organizzazione del Congresso per la libertà culturale nel giugno 1950 a Berlino, e nel suo discorso conclusivo, al grido di «Amici, la libertà è passata all'offensiva!»

Ciò che motivò quel clamore rimane ancora valido anche in questi giorni di tempesta, come quelli del presente, che vede una nuova guerra alle porte dell'Europa, in quelli che sono tempi di sofferenza, paura, dubbi e ansie per l'immediato futuro, quando il presente scricchiola sotto i nostri piedi come se fosse quasi un sottile strato di ghiaccio, e scopriamo così la fragilità delle nostre certezze. Quando vediamo la libertà e la democrazia messe in discussione da orde di piccoli vocianti e chiassosi, e diventa difficile, per noi, spiegare quali strade sbagliate sono state prese per essere arrivati a questa situazione, quali avvertimenti sono rimasti inascoltati, e quali sono stati ignorati in nome della tranquillità e della condiscendenza con i nemici della libertà. La lettura di "Schiuma della terra" diventa, pertanto, un talismano contro gli ammonimenti che sono stati ignorati, i richiami inascoltati, contro la nostra pigrizia allorché si tratta di difendere quella libertà che oggi - come lo era prima e come sempre sarà -  ancora una volta bisogna che si lanci all'attacco.

Sergio Campos Cacho  - Epilogo di "Escoria de la tierra" pubblicato in Argentina dalla  Ladera Norte -

fonte: la Biblioteca Fantasma

domenica 26 novembre 2023

La Critica, il Capitale e la sua gestione, a Firenze...

Nella prima metà degli anni '70, a Firenze, dove rispetto al resto del Paese, per quel che riguardava i gruppi extra-parlamentari di sinistra, esisteva una situazione anomala nella quale, rispetto a LC (Lotta Continua), era PotOp (Potere Operaio) l'organizzazione maggioritaria; mentre LC veniva sbeffeggiata dai potoppini che, da parte loro, ne parlavano facendo uso di un "affettuoso" «è la nostra federazione giovanile».

A quei tempi, in quella che era tutto sommato un’atipica situazione urbana, Michelangelo Caponetto (senz'altro dotato di un bel nome fiorentino e alla guida del corteo nella foto!) era solito proclamare la superiorità della compagine che dirigeva sostenendo che, avendo letto il Capitale di Marx, (e non solo quelle famose 30 pagine di Hegel in tedesco che allora si mormorava fossero richieste per entrare a fare parte della congrega operaista!!); insomma, a partire da quell'attenta lettura, per "loro" (naturalmente, voleva dire soprattutto "io") riuscire a gestire l'economia d'impresa - facendolo assai meglio di quanto fossero in grado di fare i borghesi -sarebbe stata una sorta di passeggiata.

Inutile però dire - è storia - che nel momento in cui, nel quadro dell'Università di Firenze e del suo consiglio di amministrazione, riuscirono a mettere le mani e a  impossessarsi della Clup - la casa editrice universitaria fiorentina - in men che non si dica - dopo aver pubblicato un paio di libri "dei loro", riuscirono a farla ... fallire.

Contagionisti Vs. Miasmatici !!

Eroica, folle e visionaria parla di auto-esperimenti e auto-sperimentatori, medici che hanno deciso di provare le proprie idee direttamente su se stessi, spesso con un tocco di pazzia e di incoscienza, altre volte con sincero altruismo e cocciuto coraggio. D’altra parte per ogni nuova medicina o per ogni nuova tecnica medica deve esserci pur stato un primo “fruitore”. Una scoperta deve essere provata su qualcuno per essere certi che funzioni. Quel qualcuno, in molti casi, è stato lo stesso che ha avuto l’intuizione e ha deciso di metterci il corpo per dimostrare di avere ragione. Talvolta il gesto non ha portato a risultati apprezzabili e si è perso nel nulla, altre volte è stato fatale; in qualche caso ha spianato la strada a un premio Nobel e ha segnato un avanzamento fondamentale delle nostre conoscenze. Ma perché sperimentare su di sé? La motivazione più alta è un generoso «non farei mai ad altri quello che non ho il coraggio di fare a me stesso». Ma a leggere le molte storie raccontate in questo libro si scopre che c’è anche chi l’ha fatto solo per comodità, o perché non veniva creduto da nessuno, o perché era semplicemente incapace di fidarsi di qualcun altro. Molti, poi, lo hanno fatto per pura curiosità, e alcuni persino per rabbia o per ripicca. Silvia Bencivelli scrive con penna ironica e leggera, toccando gli argomenti chiave del rapporto tra medicina, società e potere, coinvolgendo il lettore in alcune delle più incredibili storie della medicina, dal Seicento ai giorni nostri. Incontreremo medici che si fecero pungere intenzionalmente da zecche e zanzare per dimostrare l’origine di una malattia, spericolati inventori di rivoluzionarie tecniche chirurgiche, avventati sperimentatori di sostanze ignote e persino chirurghi che si auto-operano, per farsi pubblicità o perché privi di alternative. Sono vicende che non lasciano certo indifferenti, e nel loro complesso tracciano una storia
della medicina decisamente diversa da quella che viene generalmente raccontata.

(dal risvolto di copertina di: Silvia Bencivelli, "Eroica, folle e visionaria. Storie di medicina spericolata". Bollati Boringhieri, pagg. 280, € 19)

Se dimostrare di avere ragione è una malattia
- Medicina spericolata -
di Massimo Bucciantini

Questo libro è un tesoro di storie. Tutte vere, come si premura di dire l’autrice – «o almeno: è vero per quello che possiamo conoscere oggi di vicende avvenute nel passato». Sono scritte in forma ironica e leggera, e raccontano di medici, microbiologi, chimici che hanno praticato esperimenti sul proprio corpo, artefici e cavie contemporaneamente, mossi da una insaziabile passione scientifica. In certi casi il motore è la fama e il successo; in altri, invece, si tratta di giovani ricercatori tenaci e disubbidienti ai loro superiori e al potere accademico, in altri ancora di personaggi un po’ incoscienti che non sempre si rendono conto del pericolo che corrono. Come è riportato in quarta di copertina, «in molti casi non è successo niente. Qualcuno ci ha lasciato le penne. Qualcuno ci ha preso il Nobel. Spesso è così che sono arrivati i “grandi balzi” che oggi fanno di noi una specie longeva, sana, passabilmente felice». Ecco, credo che queste righe iniziali possano essere sufficienti per far capire il senso del libro.

Va però detto che queste storie non sono narrate in forma aneddotica. Silvia Bencivelli non è alla ricerca del caso curioso, da settimana enigmistica o da “medaglione” di fine Ottocento, non ci vuole sorprendere a tutti i costi, né soltanto divertirci con racconti comici e macabri allo stesso tempo. A un certo punto, ma siamo proprio all’inizio, si rende conto che sta andando in quella direzione, e subito cambia percorso. Scrive: «Ma a raccontarla così si rischia di fare la storia per aneddoti e a darne una rappresentazione lineare, di progresso in progresso, come se si trattasse di una marcia inevitabile e gloriosa verso le meraviglie della medicina attuale. Soprattutto si rischia di dimenticare che non c’è mai il genio che da solo fa la grande scoperta, e un attimo dopo il mondo cambia». Basta leggere Esploratori e germi, Acqua sporca e Vaccini – tre dei suoi capitoli più belli – per accorgersi che queste storie non sono affatto semplici, e che se si semplifica troppo alla fine si resta con un pugno di mosche. Insomma, divulghi ma non spieghi. A riprova del fatto che comunicare la scienza è un mestiere difficile, che non si può improvvisare.

Un esempio per tutti: la scoperta della causa della febbre gialla. La febbre gialla è il primo virus umano a essere isolato (1927). Il vaccino arrivò dieci anni più tardi, ma la lotta per sconfiggerla fu durissima. I tentativi furono numerosi, e il racconto che ne fa Bencivelli è avvincente. Per molto tempo sembrò impossibile che una comunissima zanzara avesse messo k.o. l’esercito napoleonico (a tal punto che nel 1802 l’imperatore rinunciò alla conquista dei Caraibi e della valle del Mississippi) e ottant’anni dopo che avesse impedito, sempre ai francesi, la costruzione del canale di Panama. Né migliore sorte toccò agli americani durante la guerra del 1898 per il controllo di Cuba. Non è stato facile capire che il contagio non avveniva da persona a persona in assenza di quell’insetto-vettore. La convinzione, antica e saldissima, della diffusione aerea delle malattie (sostenuta a spada tratta dalla corrente dei medici «miasmatici»), fece sì che per tutto l’Ottocento la trasmissione della malattia da parte di insetti venisse considerata un’ipotesi irrilevante, e persino ridicola. In questa fase lunga e conflittuale non mancarono medici – giovani e meno giovani – che, per verificare che la malattia non fosse direttamente contagiosa tra esseri umani, si sottoposero a degli esperimenti che sono stati definiti tra i più disgustosi della storia della medicina. Ci fu chi assaggiò la saliva dei malati più gravi, «chi dormì nei loro letti sudici, si fece alitare numerose volte sulla faccia, si inoculò del vomito nero una ventina di volte attraverso ferite che si inflisse nelle braccia, se lo applicò negli occhi come collirio, ci fece i suffumigi per ore».

Dalla comunità medica internazionale furono formulate teorie alternative del tutto plausibili per la scienza di allora. Una delle quali – sostenuta dal grande successo ottenuto dai “pasteuriani” – era che anche nel caso della febbre gialla, come per il tifo e la tubercolosi, l’agente patogeno fosse un batterio. Alla fine dell’Ottocento, la competizione tra medici inglesi e americani (questi ultimi guidati da Walter Reed) produsse un’accelerazione della ricerca. Restava solo un “piccolo” dettaglio da considerare, e cioè che tra le specie viventi solo quella umana si ammalava di febbre gialla, e dunque gli esperimenti potevano essere effettuati solo sugli esseri umani. Se non si voleva ricorrere a persone inconsapevoli (emarginati, disabili e quanti altri) non restava altra strada che i volontari – le cavie – fossero da scegliere tra gli stessi ricercatori.

Qui mi fermo. Non voglio togliere al lettore il piacere di scoprire come si giunse alla vera causa della malattia. Ma non molto diverso è il paesaggio che abbiamo di fronte quando si prende in esame il caso del colera. Arrivato in Europa intorno al 1817 – probabilmente portato dalle grandi navi commerciali provenienti dall’India e dal sud-est asiatico –, dà vita a un dibattito scientifico in cui le domande su come avviene il contagio e su come si può prevenire danno vita a una serie molteplice di risposte in cui pezzi di teorie, poi rivelatesi sbagliate, coesistono e si intrecciano ad altre che poi si sono dimostrate corrette, e dove si capisce che la distinzione tra «contagionisti» e «miasmatici» – ovvero tra chi sostiene che la malattia passi tra un essere umano malato e un essere umano sano e chi, invece, continua a credere che la malattia è provocata dall’aria malsana – non è mai così netta. Quando sei alla fine, ti viene voglia di tornare a leggere Nemesi di Philip Roth.

- Massimo Bucciantini - Pubblicato su Domenica del 23/7/2023 -

sabato 25 novembre 2023

Scrivere…

«Scrivere, non è facile. È faticoso come spaccare pietre. Na le scintille e le schegge, però, volano come se fossero acciaio tagliato a specchio.[...] Ma nessuno si sbagli; alla semplicità ci arrivo solo lavorando molto. [...] e scrivere è solo il mio modo di difendermi.[...] Ed è un bene che quello che sto per scrivere io lo trovi già scritto dentro di me: mi basta solo copiare me stessa, con la delicatezza di una farfalla bianca.[...] Scrivo solo perché in questo mondo non ho nulla da fare: sono stanca, un surplus di eccedenza il mio, e nella Terra degli uomini non c'è alcun posto per me. [...] Così scrivo a causa della mia disperazione, della mia stanchezza, dacché non sopporto più la routine di essere io, e se non fosse per la novità continua apportata dallo scrivere, morirei ogni giorno, simbolicamente. E sono già pronta ad andarmene; discretamente dalla porta di servizio. Tanto, ho già sperimentato quasi tutto, incluse passioni e disperazioni. Ora vorrei ora vorrei solo conservare quello che non ero insieme a quello che sono diventato.»

- Clarice Lispector - da "A HORA DA ESTRELA", 1977. EDITORA ROCCO LTDA -

VARIA

Varia: Il nuovo volto del capitalismo
N° 6 della rivista di teoria critica Jaggernaut
Éditions Crise & Critique ISSN: 2534-6377 / 17 euro

Nella sua preveggenza, Walter Benjamin ebbe ad affermare in maniera premonitoria che: «Se  le cose continueranno ad andare in questo modo, sarà una catastrofe». Cent'anni dopo, Robert Kurz sottolineava come «oggi, la realizzazione di un universalismo capitalistico equivarrebbe alla perfetta universalizzazione della catastrofe che oggi si manifesta in tutti i settori della nostra vita». Ormai, non è più possibile ignorare la crisi pluridimensionale della società capitalista globale e il suo potenziale esplosivo, che investe e coinvolge la totalità della vita sulla Terra. Questo sesto numero della rivista "Jaggernaut" intende affrontare quelle che sono le espressioni convergenti di questo tempo della fine, analizzando le forme che assume in campo economico, estetico, digitale, ideologico, patriarcale e musicale. Originariamente, Jaggernaut è il nome del carro processionale della dea indù Vishnu. «Il culto di Jaggernaut» – scrive Karl Marx – «comprendeva un rituale assai pomposo, e dava luogo a un'esplosione di fanatismo che si manifestava sotto forma di suicidi volontari e di mutilazioni. In quelli che erano i giorni di grandi feste religiose, i fedeli si gettavano sotto le ruote del carro che trasportava la statua di Vishnu-Jaggernaut». Una metafora, questa, che Marx userà più e più volte nel parlare di esseri umani letteralmente gettati «sotto le ruote delllo Jaggernaut capitalista», al fine di sottolineare in tal modo quale sia la dimensione sacrificale, feticista e distruttiva del capitalismo.

SOMMARIO

"Il nuovo volto del capitale mondiale. L'analisi del capitalismo globalizzato che ne fa Robert Kurz", di Jordi Maiso
"L'estetica della modernizzazione. Dalla dissociazione all'integrazione negativa dell'arte", di Robert Kurz
"Relazione di genere e patriarcato capitalista. Alcuni aspetti della critica della dissociazione del valore", di Roswitha Scholz
"Per una critica categoriale della tecnologia digitale", di Eric Arrivé
"Che 'le cose continuino così, ecco la catastrofe!'. Attualità di Walter Benjamin", di Herbert Böttcher
"La barbarie e i Barbari. Note sul processo sociale della crisi brasiliana", di Felipe Catalani
"Una lettura adorniana della Critica dell'economia politica? La Neue Marx-Lektüre, teoria della forma-valore e dialettica negativa", di Vincent Chanson
"La contraddizione e il sacro" di Luis Andrés Bredlow
"Françoise Gollain, lettrice di André Gorz", di Nuno Machado
"A proposito di 'Modernità e Olocausto' di Zygmunt Bauman", di Moishe Postone
"Il feticismo nella musica. Lavoro, rituale, sacrificio e reificazione della ripetizione: considerazioni sulla musica techno come immagine sonora del 'tempo della fine'", di Frederico Lyra de Carvalho

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

venerdì 24 novembre 2023

Tornare alle origini ?!!??

Al posto dell'impero, l'isolamento
  di Tomasz Konicz  [***]

Tornare alle origini?
In quelli che sono i suoi ultimi giorni di vita, il capitalismo sembra tornare alle sanguinose origini all'inizio dell'età moderna, quando i nascenti Stati-Nazione cominciarono a intraprendere le loro incursioni imperialiste nelle Americhe, in Asia e in Africa. Cosicché, di conseguenza, sarebbe poi emerso il sistema globale capitalistico, con la sua suddivisione in centri, in semi-periferia e in periferia; il quale però ora sta cominciando a sgretolarsi a causa della globale crisi economica, sociale ed ecologica del capitale. I conflitti già scoppiati, così come quelli che si trovano in procinto di farlo, sono pressoché impossibili da tenere sotto controllo: Ucraina, Israele e tutto il Medio Oriente nel suo complesso, Taiwan, il Sahel, l'Iran, il Caucaso, il Kosovo. Quel che sembra sempre più probabile, è una guerra imperialista su larga scala, simile alla prima guerra mondiale, la quale va intesa come catastrofe primordiale del XX secolo. Ma quest'apparenza esteriore è ingannevole. La logica interna che governa questa dinamica geopolitica di fronteggiamento –  che è già assai spesso militare – rimane sempre quella della crisi sistemica capitalista, che ora viene vista in quella che è la sua dimensione socio-ecologica. Un imperialismo di crisi, da intendersi come una lotta da parte dello Stato, per il dominio, nella fase in cui il processo di valorizzazione del capitale si va contraendo, e diminuisce fino a scomparire.

Das Kapital, in quanto «contraddizione in processo» che ora, in assenza di un nuovo regime di accumulazione, va sempre più sbarazzandosi della propria sostanza - il lavoro creatore di valore – e lo fa sulla base di una razionalizzazione che viene mediata grazie alla più sfrenata concorrenza, in quello che è ormai un processo di crisi discontinuo e pluridecennale: deindustrializzazione, gigantesche montagne di debito, laddove, negli Stati falliti della periferia, vediamo anche un'umanità sempre più economicamente superflua. Mentre, a livello della sua dimensione ecologica, assistiamo al modo in cui il dissolversi del lavoro salariato, per quel che riguarda la produzione di merci, serve solo ad aumentare la fame di risorse da parte della macchina dello sfruttamento globale, che così poi, a sua volta, contribuisce ad alimentare la crisi del clima e delle materie prime. Di conseguenza, le contraddizioni che ne risultano – disordini sociali, sconvolgimenti economici, scarsità di risorse, eventi climatici e meteorologici estremi, ecc. – spingono verso le avventure imperiali - in ultima analisi militari – proprio quegli apparati statali, i quali,  minacciati dalla disintegrazione, dispongono tuttavia ancora di mezzi di potere adeguati.  Ciò che vediamo aumentare, è la disponibilità ad assumersi dei rischi geopolitici e militari, e questo proprio perché le opzioni di azione a disposizione delle classi dominanti e dei regimi, stanno diventando sempre più limitate.

L'aggressione imperialista della Russia contro l'Ucraina, condotta da una posizione di debolezza a causa e sulla scia delle rivolte sociali in Bielorussia e in Kazakistan - e motivata dall'erosione dell'influenza russa nello spazio post-sovietico - ne è un esempio paradigmatico. In preda al panico per le "rivoluzioni colorate" in quella che è tuttora la sua sfera di influenza socialmente distrutta, il Cremlino ha optato per l'opzione militare. Anche la Turchia e l'Azerbaigian stanno usando la guerra come se fosse un parafulmine sociale. E questo, con l'aiuto della corrispondente propaganda nazionalista volta a far dimenticare l'inflazione e la crisi, avviene anche attraverso la pulizia etnica nel Nagorno-Karabakh o ad Afrin, In modo da poter così aprire delle nuove aree di insediamento (Nagorno-Karabakh), oppure a costruire delle prigioni a cielo aperto per i profughi della guerra civile, sorvegliate dagli islamisti (Afrin/Idlib).

Dal punto di vista dei lavoratori salariati della periferia, l'attuale prassi imperialista di crisi appare loro esattamente come il contrario di quello che era lo sfruttamento imperialista dei secoli passati. A quei tempi, l'imperialismo riforniva di nuove regioni e mercati il mercato globale capitalista; e quindi anche di nuova forza lavoro, per quanto lo facesse attraverso la schiavitù e per mezzo del lavoro forzato. L'imperialismo di crisi, invece, da parte sua si sforza e cerca in tutti i modi di isolarsi dai salariati "superflui" che cercano di fuggire dalle regioni economicamente devastate della periferia meridionale; parti delle quali zone diverranno ben presto semplicemente inabitabili, a causa della crisi climatica. Invece, talvolta i rifugiati diventano un'arma geopolitica: il cinico gioco che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta facendo con i movimenti dei rifugiati – così come l'attuale rifiuto da parte dell'Egitto di accettare l'evacuazione della popolazione civile di Gaza per dare così a Israele mano libera nell’agire contro Hamas - fa parte di questa nuova forma di conflitto.

Anche la pulizia etnica, insieme alle ondate di espulsioni, ne è un risultato (come avviene in Iran e in Pakistan, dove è stato annunciato che verranno deportati diversi milioni di afghani). In questo modo, la periferia, economicamente collassata, e con i suoi Stati falliti, svolge solo il ruolo di rifornire il centro capitalista di materie prime. Pertanto, l'imperialismo nell'attuale fase di crisi - durante la quale la globalizzazione con i suoi cicli di deficit minaccia di crollare - corrisponde a una combinazione di isolazionismo e di estrattivismo delle risorse. Nello sfruttamento imperiale della periferia da parte dei centri, possiamo osservare una tendenza storica verso forme di dominio e di controllo sempre più informali: la spinta che nel XIX secolo aveva portato, prima a controllare direttamente le colonie e i "protettorati", e poi, nel XX secolo, aveva lasciato il suo posto all'imperialismo informale, praticato dagli Stati Uniti attraverso il rovesciamento e l'installazione di regimi dipendenti, in modo che così alla fine era rimasta solo la dipendenza finanziaria degli Stati indipendenti dalle istituzioni finanziarie globali dominate dall'Occidente, quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Oggi, invece, in quella che è la fase finale del sistema capitalista mondiale, il dominio imperialista sembra ridotto a essere solo il mero mantenimento di tutte quelle vie estrattive, attraverso le quali le risorse e i vettori energetici devono essere trasportati dalle aree di collasso economico ed ecologico, a quelli che sono i centri in crisi rimasti.

La crisi sistemica si concretizza anche nei conflitti militari; in quelli attuali, come Israele e la Striscia di Gaza, e in quelli storici, come nell'ultima grande spinta disgregativa durante la "primavera araba" in Libia o in Siria: gli attori post-statali emersi dai processi di disintegrazione sociale e statale – milizie come la Wagner o la Azov, sette genocide come quella di Hamas o come lo "Stato islamico", così come racket e bande – stanno acquisendo sempre più importanza nei calcoli imperialisti, proprio perché vengono strumentalizzati dalle potenze regionali, le quali ora agiscono sempre più liberamente, o dalle grandi potenze impegnate in quella che è una lotta senza speranza per l'egemonia. Tuttavia, è da tempo che queste forze anomiche si sforzano di agire come se fossero fattori di potere indipendenti. Così è stato, per esempio, per il caso del califfato genocida dello "Stato Islamico", che durante la rivolta della Wagner  è tornato per un breve momento a balenare – e sembra essere anche il caso di Hamas, che con la sua offensiva di furia omicida di massa, sperava di provocare una guerra regionale.

Il caos geopolitico e l'aumento dei conflitti, sono anche il risultato di quella che da un decennio si configura come la decennale perdita dell'egemonia economica degli Stati Uniti, la quale sta portando a ciò che potremmo definire un “disordine mondiale multipolare” (tanto per capovolgere, mettendola a testa in giù, una delle frasi preferite di Vladimir Putin). I sovra-indebitati Stati Uniti, ormai in una situazione di declino imperiale, non sono più disposti a - o non sono in grado di -  svolgere il famigerato ruolo di "gendarme del mondo", come hanno fatto in quelli che sono stati i suoi interventi degli anni '90, facendo sì che oggi, ogni genere di potenza regionale importante, a sua volta spinta dalla crisi, possa adesso sviluppare maggiormente e sempre più le proprie ambizioni imperiali. Gli Stati Uniti si stanno concentrando sulla lotta egemonica contro la Cina e i suoi alleati eurasiatici, costruendo un sistema di alleanze che si estende oltre l'Atlantico e il Pacifico.

Questa lotta globale senza speranza, tra l'Eurasia e l'Oceania – unitamente a tutti i prodotti della decadenza anomica di crisi, e insieme al numero crescente di contrapposizioni tra stati regionali, i quali interagisco tra di loro  – nel quadro di crisi-imperialista, ne costituisce il livello conflittuale più alto. Ed è senza speranza, poiché un'egemonia globale - come quella detenuta dalla Gran Bretagna, prima, e dagli Stati Uniti poi - non può più essere ottenuta; e questo a causa della mancanza di un’adeguata base economica. L'egemonia degli Stati Uniti, come forma di costruzione di alleanze accettate, si è basata sulla congiuntura fordista del dopoguerra e fino agli anni '70, ed è stata poi mantenuta nel quadro dell'economia neoliberista delle bolle e dei corrispondenti cicli del deficit - con gli Stati Uniti in quanto  paese deficitario più importante - e fin dall’inizio, dopo la fine della Guerra Fredda, si è ulteriormente ampliata.

Ora, gli Stati Uniti non possono più permettersi né l'una né l'altra cosa, almeno a partire dall'avvento dell'attuale stagflazione. Ciò che rimarrebbe sarebbe solo un dominio nudo e crudo; e questo anche nel caso della Cina, la quale è altrettanto sovra-indebitata, e soffre da tempo. sia a causa delle bolle immobiliari, sia in quanto finanziatrice della crisi del debito globale. Di conseguenza, l'imperialismo in crisi sta scivolando sempre più verso una guerra su larga scala, la quale, nel caso non fosse possibile trovare una via d'uscita sociale dalla crisi capitalistica permanente, condurrebbe il processo di civilizzazione a una fine barbara. Di conseguenza, in questi conflitti in rapida escalation, una vera vittoria potrebbe essere quindi ottenuta solo con mezzi non militari: attraverso e grazie allo sviluppo di una nuova forma post-capitalistica di riproduzione sociale. Tutta la speranza e tutto l'orrore si trova oggi a essere racchiuso in questo semplice fatto.

Tomasz Konicz [***] - Pubblicato il  23 novembre 2023 - su Jungle World, 16.11.2023 -

*** NOTA: Il lavoro giornalistico di Tomasz Konicz è finanziato in gran parte grazie a donazioni. Se vi piacciono i suoi testi, siete invitati a contribuire - sia tramite Patreon che con un bonifico bancario diretto, dopo una richiesta via e-mail:  https://www.patreon.com/user?u=57464083 - https://konicz.substack.com/

«Futuri Uniti d’Africa» !!

Nata nel 2014 come rivista dedicata alla fantascienza di origine perlopiù nigeriana, Omenana si è presto trasformata in una piattaforma di riferimento per gli appassionati di narrativa speculativa proveniente tanto dall'Africa quanto dalla diaspora africana. In questa raccolta, i curatori hanno selezionato sedici tra i migliori racconti apparsi sulla rivista negli ultimi anni: storie di creature mitiche, vendicatori bionici, terre desertificate, città sotterranee, improvvisi superpoteri e maledizioni, in una tensione continua e rivitalizzante tra lontananze, assenze e ritorni. A uscirne è un caleidoscopio di voci provenienti da luoghi tra loro distanti come - oltre alla stessa Nigeria - il Kenya e il Sudafrica, il Gabon e lo Zimbabwe, in un viaggio tra futuri alternativi e mondi paralleli che attraversa fantascienza e realismo magico, orrore soprannaturale e leggende urbane, mitologie antiche e afro-futurismi prossimi venturi. Intoduzione di Mazi Nwonwu.

(dal risvolto di copertina di: AUTORI VARI, "Omenana. Racconti fantastici dal continente africano". Prefazione di Djarah Kan, introduzione di Mazi Nwonwu, traduzione di Giulia Lenti NERO Pagine 204, €20)

Fantafrica. Via dall'Occidente verso le stelle
- di Matteo Trevisani -

Una donna che ruba i corpi e le esistenze dei suoi amanti. Uomini che scappano — forse da sempre — dalla prigionia delle loro migrazioni, in un destino che li rincorre attraverso le generazioni. Una giovane donna che prega i suoi antenati di proteggerla dallo schianto, quando finalmente si lancerà da una rupe per dimostrare chi è davvero. Ragazze invisibili, intelligenze artificiali a uso degli scrittori, viaggiatori del tempo pieni di ripensamenti che dicono sempre la cosa sbagliata. Sono solo alcune delle trame che testimoniano la straordinaria ricchezza presente in Omenana. Racconti fantastici dal continente africano (traduzione di Giulia Lenti, Nero), libro che porta in Italia una nuova antologia di autrici e autori africani di fantascienza e, più in generale, di speculative fiction. Come ricorda Djarah Kan nella prefazione al volume, omenana (che è anche il nome di una seguita rivista letteraria nigeriana, fondata nel 2014 a Lagos, che ospita racconti di scrittori africani della diaspora e del continente) è una parola igbo che sta a indicare sia ciò che resta della tradizione dopo il passaggio del colonialismo sia il divino nelle sue manifestazioni soprannaturali. In effetti, posto che bisognerebbe parlare di culture tradizionali al plurale, data l’enorme varietà di lingue, religioni, mitologie e popoli del continente africano, il legame con l’antica storia culturale e con i suoi miti fondativi rende le fantascienze africane uniche nel loro genere, come se ci fosse, nel loro nucleo originario, già una predisposizione alla metamorfosi e alla mescolanza ontologica, al connubio tra reami diversi, tra i vivi e i morti, tra il passato e il futuro.

Leggere i racconti di Omenana offre uno strano senso di spaesamento: ci si ritrova catapultati, senza appigli, nel cuore pulsante e immaginifico di un continente intero. Superato lo stordimento iniziale si ha l’impressione che una storia comune sia il suo punto di partenza, che da lì si inseguano visioni di un futuro plurale. Sono racconti traboccanti, a volte caotici o paradossali, di leggi inviolabili e disobbedienze, mutazioni genetiche e rituali antichi, di un progresso tecnologico che non è mai salvezza, in cui l’Africa e il destino dei suoi popoli sono punto di partenza e sintesi ultima. Non è peraltro la prima volta che i lettori italiani hanno la possibilità di conoscere l’inventiva fantascientifica africana: Futuri uniti d’Africa (a cura di Francesco Verso, traduzioni di Stefano Ternavasio e Francesca Secci, Future Fiction) è un’antologia che due anni fa ha avuto il merito di far scoprire al pubblico italiano differenti voci dal continente molto diverse tra di loro per profondità speculativa, stile e argomenti.

Nell’introduzione alla raccolta, si evince come per l’Africa la fantascienza sia molto di più che un semplice genere letterario: lo scrittore Wole Talabi scrive di come la science fiction possa (e forse debba) giocare un ruolo decisivo nello sviluppo tecnologico dei Paesi africani, mettendo i giovani nella condizione di immaginare e desiderare un futuro originale, che non sia preso in prestito dall’Occidente e dalle sue narrazioni, che non sia cioè più usato come arma nei confronti dei popoli. La fantascienza avrebbe quindi il compito di formare i loro futuri scienziati e ingegneri. Il rapporto con l’Occidente e la colonizzazione è infatti il sottotesto doloroso da cui germogliano molti dei racconti delle autrici e degli autori, pure se non vivono e non sono nati in Africa. Anche se la storia coloniale getta la sua ombra sulle pagine, la possibilità stessa di una fantascienza africana indipendente dalle altre ha il potere di decolonizzarne l’immaginario, usando temi come quelli familiari — ben noti all’Occidente ma declinati in maniera differente — da cui possono emergere nuovi significati. In Futuri uniti d’Africa, uno dei racconti migliori dell’antologia, Istantanee virtuali della scrittrice motswana Tlotlo Tsamaase (originaria del Botswana, una delle autrici più conosciute in Italia), l’aldilà è un luogo computerizzato. Lì una figlia, nata da una «Struttura di Nascita» di vetro e acciaio che decide della vita e della morte di tutti, cerca di entrare in contatto con una madre che non la riconosce: la sua anima non ha abbastanza valuta da spendere per farsi ricordare, come se alcune delle maledizioni della vita possano proseguire anche dopo la morte. Temi familiari e riflessioni anticolonialiste sono presenti anche nella raccolta di racconti Totem nelle nostre ossa (traduzioni di Maria Michela Dichio e Roberta Loi, Future Fiction, 2022) e soprattutto nella novella Silenziosa sfiorisce la pelle (traduzione di Giulia Lenti, Zona 42, 2022), della stessa Tsamaase, in cui l’autrice mette in scena una storia di resistenza e oppressione mescolando realismo magico e surrealismo, con efficaci slanci lirici. La protagonista, che sta lentamente perdendo il colore della pelle, metafora della perdita dell’identità originaria, si trova con la sua compagna a dover salvare il treno che i morti del suo Paese usano per dire addio ai loro cari, messo in pericolo da una città che l’ha esclusa: «Combatterò la morte di cui è avvolto il mio nome. Salirò sul treno e diventerò ciò che siamo. È una menzogna, stare vicino ai morti non ci distrugge, ci sveglia, ci rende vivi».

È un farsi carico delle storie di quei luoghi per trasportarle nel mondo nuovo, al costo di sacrificare quanto abbiamo di più caro. È una responsabilità che investe anche il protagonista del racconto L’incantatore di satelliti di Mame Bougouma Diene (traduzione di Stefano Ternavasio, Moscabianca, 2022) che ascolta il grido di dolore della sua terra, un tempo continente lussureggiante, che viene trafitta da un raggio che ne depreda le risorse. Anche se nel mondo occidentale la fantascienza africana sta vivendo oggi un momento di grande visibilità, sarebbe un errore ritenerla soltanto un fenomeno recente. Sebbene le sue origini possano essere fatte risalire ai primi del Novecento, fu negli anni Settanta con la corrente dell’Afrofuturismo che nacque negli Stati Uniti l’esigenza di porre l’Africa al centro delle riflessioni sul futuro dell’umanità intera. Fu un momento di grande sperimentazione artistica, dove personalità eccezionali come la scrittrice Octavia E. Butler, il musicista Sun Ra e il pittore Jean-Michel Basquiat trasportavano preoccupazioni, identità e istanze propriamente afroamericane al centro del dibattito artistico occidentale, in un delirio psichedelico e performativo di assoluta libertà espressiva. Gli alieni e i robot della fantascienza classica entravano nel dibattito coloniale assumendo su di sé il ruolo dell’assolutamente Altro e dello schiavo, e il continente africano — con il suo immenso corpus di leggende tradizionali di divinità, spiriti della natura e antenati — tornava a essere la fucina di mitologie che per anni avrebbe forgiato le armi per gli artisti che ora raccolgono quell’eredità. Oggi, una delle scrittrici più conosciute e premiate del genere, l’americana Nnedi Okorafor, più che «afrofuturista» si definisce «africanfuturista», sottolineando il bisogno di spostare del tutto il baricentro delle narrazioni fantascientifiche dagli Stati Uniti all’Africa, decolonizzandone lo sguardo. E in effetti il romanzo Laguna (traduzione di Chiara Reali, Zona 42, 2017) nasce come reazione alla visione del film District 9 del regista sudafricano Neill Blomkamp, in cui la rappresentazione dei nigeriani non era stata, secondo l’autrice, all’altezza delle aspettative. Come nel film, in Laguna si descrive un’invasione aliena a Lagos, principale città nigeriana (la capitale è Abuja). La città, che coincide perfettamente con la laguna del titolo, è l’epicentro di una rivelazione che scuoterà tutto il pianeta. La protagonista è una biologa marina, Adaora, che entrando in contatto con le entità extraterrestri e con una loro manifestazione, a cui dà il nome di Ayodele, si fa portavoce delle loro istanze in una Nigeria in agitazione. È un romanzo polifonico e coraggioso sull’accettazione, il futuro e l’identità, il cui ritmo è quello sincopato di un testo hip hop che parla di alieni in cerca di una nuova casa e di antiche divinità yoruba dei crocevia. Il percorso contrario si trova a fare invece la protagonista che dà il titolo a Binti, altro romanzo di Okorafor, Premio Nebula e Premio Hugo nel 2016 (traduzione di Benedetta Tavani, Mondadori,2019), una ragazza di etnia himba che scappa dal suo villaggio sulla Terra per imbarcarsi su un’astronave verso la prestigiosa università galattica Oomza. Durante il viaggio si troverà ad affrontare le Meduse, una specie aliena determinata a distruggerla e da cui forse, alla fine, verrà accettata.

La nuova fantascienza africana si confronta con protagoniste e temi femministi, mostrando come sia possibile e addirittura necessario intrecciare il racconto della specificità africana con quello di altre narrazioni meno esplorate, avendo come orizzonte un’idea di modernità e di futuro che, finalmente liberato, non sia solo tecnologico o futuristico, ma anche sociale, ecologico e personale. Identità, spiritualità e cosmologie africane si intrecciano in Convergenza nell’architettura del coro (traduzione di Giusi Palomba, Zona 42, 2021), dell’autore queer nigeriano Dare Segun Falowo: è una favola mitica e onirica che racconta di Osupa, una comunità isolata nata «nella fuga dalla spada e dal fuoco della guerra», di un vascello d’osso che arriva dal cielo per rapire i suoi membri, e di due giovani, ostaggi dei loro stessi sogni. Grazie al lavoro pioneristico di alcune case editrici oggi i testi di speculative fiction di matrice africana stanno trovando lettori anche in Italia, anche se siamo lontani dai numeri delle altre pubblicazioni fantascientifiche non occidentali, come quelle cinesi o coreane: quelli citati sono solo alcuni degli autori tradotti in italiano o già presenti sul mercato anglofono, dove gli scrittori africani stanno trovando più possibilità espressive. Ora che, dopo essere migrata in Occidente, la fantascienza africana sta tornando a casa, non ha tanto senso chiedersi se oggi sia pronta per essere letta, ma soltanto se l’Occidente sia finalmente pronto a comprenderla.

- Matteo Trevisani - Pubblicato su La Lettura del 23/7/2023 -

giovedì 23 novembre 2023

Archeologia !!

La cosa era nell'aria da tempo, e sapevamo che il nostro love affair con la Federazione Anarchica italiana non sarebbe durato. Quella Commissione di Corrispondenza della FAI che aveva cominciato il suo lavoro col rivoluzionare i grigi bollettini, che l'avevano preceduta, con dei ciclostilati che prevedevano immagini e colori. Era passato un secolo da quel 1971 in cui Congresso della FAI ci aveva affidato la Commissione di Corrispondenza e le cose avevano cominciato a succedere.

Cos’, alla fine del percorso, entrammo nella sede della redazione del giornale, Umanità Nova - io e Franco - recando con noi il "prezioso" indirizzario coi nomi cui spedire il Bollettino della Commissione di Corrispondenza della F.A.I. e il registro in cui si teneva traccia delle "quote" pagate dai diversi gruppi e dai singoli militanti, a livello internazionale, quote delle quali la redazione di Umanità Nova - il giornale della FAI - così come i suoi redattori non avevano mai versato una lira.

Venimmo “accolti” da Aldo Rossi e Anna Pietroni, inseparabili come sempre. C'era Attilio Paratore col suo sfottò romanesco, che non mi risparmiò una sua trita battuta sulle barricate parigine. Non c'era però il mio amico Luca Villoresi. Pazienza, tanto non mi avrebbe certo dato man forte; ci saremmo salutati un paio d'anni dopo in un altra situazione. La sede del giornale la ricordo in penombra, non so perché, forse per fare meglio risaltare quello che nella mia memoria continua ad essere l'aspetto vampiresco di un figuro come Antonio Cardella, trasferitosi da Palermo a Roma, in pianta stabile, come "commissario politico" (più o meno lo stesso ruolo che, secondo loro, avrebbe dovuto svolgere a Firenze Gino Cerrito nei confronti del nostro gruppo Durruti, ma che venne mandato allegramente in culo, avendo così poi modo di sfogarsi in un libro come "Il ruolo dell'organizzazione anarchica"; 1973).

Di Cardella, molti anni dopo, avrei poi letto, nel suo "Anni Senza Tregua" (2005) una "analisi" di un mio intervento, a partire dal quale mi marchiava di qualcosa che lui definiva come il «peggior situazionismo» (credo che la morte dell'autore, avvenuta anni dopo, mi abbia risparmiato chiedergli quale secondo lui sarebbe stato il... miglior situazionismo!) - senza sapere che, così scrivendo, mi stava facendo un gradito e non voluto complimento.

Comunque, non durò molto la consegna. E che si doveva fare ?!?? Non ci stavamo punto simpatici, e ogni minuto che passava l'aria si faceva sempre più irrespirabile. Ce ne andammo quasi senza salutare. Era finita. Almeno per me!

(nella foto, Firenze, Piazza del Carmine. 1972)

«Qualcosa sta per rompersi»…

Inflazione, crollo finanziario o recessione?
- Quale delle tre preferiresti? Una breve panoramica - usando l'esempio degli Stati Uniti - di quelle che sono le contraddizioni della politica di crisi capitalista -
di  Tomasz Konicz [***]

È tempo di festa!  Recentemente, i mercati azionari statunitensi hanno dato il via a un vero e proprio spettacolo pirotecnico [*1]. Il 3 novembre, dopo che sono stati pubblicati i pessimi dati relativi al mercato del lavoro negli Stati Uniti, si è chiusa anche quella che è stata la migliore settimana di contrattazioni dell'anno in corso. A tutto ottobre, l'economia americana ha creato solamente 150.000 nuovi posti di lavoro, rispetto ai 297.000 del mese di settembre, spingendo così il tasso di disoccupazione relativo al periodo dal 3,8% al 3,9%. Questo rallentamento totale, che equivale a un dimezzamento della crescita dell'occupazione, indica un grave rallentamento economico, se non addirittura una recessione. Questo non è certo un motivo per la festa di cui si diceva e che viene celebrata sul mercato azionario! Eppure, questa reazione apparentemente assurda dei mercati finanziari - i quali di fatto stanno esultando per l'aumento del tasso di disoccupazione - ha di certo una sua logica di crisi. I mercati, in questo modo, stanno semplicemente speculando sulla fine di quella politica che, per combattere l'inflazione, si basava sugli elevati tassi d'interesse delle banche centrali. La diminuzione del numero dei posti di lavoro, e l'aumento della disoccupazione indicano che la crescita dei salari sta rallentando e che la domanda dei consumatori si sta indebolendo; il che dovrebbe servire a mitigare ulteriormente quella che è un’ostinata e persistente inflazione. L'obiettivo vuole essere evitare che si inneschi una spirale inflazionistica salari-prezzi in cui l'aumento dei prezzi e dei salari si alimenterebbe a vicenda. L'ondata di inflazione può essere contenuta solo se ci saranno più salariati con un minore potere di acquisto: e semplicemente questo il calcolo speculativo che sta dietro i fuochi d'artificio delle quotazioni in borsa. Ora, il lavoro della Federal Reserve statunitense sarà molto più semplice, ha osservato Reuters [*2], nel mentre che anche l'aumento dei salari rallentava fino al 4,1%; il livello più basso da giugno 2021. Ciò renderebbe assai improbabili degli ulteriori rialzi dei tassi dei quali si è discusso (per il momento la Fed non vuole parlare di possibili tagli dei tassi). E all'inizio di novembre 2023, è esattamente su questo che le borse stavano speculando sul loro mercato finanziario al rialzo. Per il settore finanziario, l'aumento dei tassi di interesse - lo strumento più importante nella lotta all'inflazione - è un veleno. Sebbene la politica monetaria restrittiva delle banche centrali sia quanto meno riuscita a frenare l'inflazione in quello che è il centro del tardo capitalismo, allo stesso tempo - così facendo - ha messo sotto pressione la sfera finanziaria delle società sovra-indebitate, i cui operatori di mercato come minimo speculano sulla fine degli aumenti dei tassi di interesse. Pertanto, quella stessa politica di crisi che viene utilizzata per combattere l'inflazione, ora sta simultaneamente destabilizzando la sfera finanziaria. A un certo punto, «qualcosa dovrà pur rompersi», come ha  detto all'inizio di ottobre Mohamed El-Erian, economista capo di Allianz, descrivendo la situazione frantumata della sfera finanziaria vista alla luce della politica degli alti tassi di interesse attuata delle banche centrali [*3]. La relazione sul mercato del lavoro del mese di settembre - quando erano stati creati quasi 300.000 posti di lavoro - è stata «una buona notizia per l'economia», ma «una cattiva notizia per i mercati (finanziari) e per la Fed». Ci si può però chiedere, che cos'è esattamente che può «rompersi» nella gonfiata sovrastruttura finanziaria delle imprese sovra-indebitate del centro capitalista?

Un mercato obbligazionario instabile
Innanzitutto, si tratta dei mercati obbligazionari – la base del sistema finanziario globale [*4] -  che sono stati al centro dell'ultimo «terremoto finanziario» del marzo 2023 [*5], allorché un certo numero di banche si è trovato in difficoltà - o hanno dovuto addirittura essere liquidate - dopo che la politica degli alti tassi di interesse aveva fatto crollare il valore di mercato dei titoli di Stato. Le obbligazioni emesse da paesi centrali, come la Germania o gli Stati Uniti, conservate come garanzia a basso rendimento fino alla loro scadenza nominale, ma il loro valore di mercato diminuisce nella misura in cui vengono aumentati i tassi di interesse (dal momento che così hanno un rendimento inferiore), cosa questa che può mettere in difficoltà perfino i grandi operatori di mercato, non appena sono costretti a dover improvvisamente vendere obbligazioni. Questo è stato il caso della Silicon Valley Bank, lo scorso marzo: è stata costretta a vendere urgentemente delle obbligazioni, che ha portato alla sua insolvenza, e ha innescato una crisi bancaria. Pertanto, i tassi d'interesse e il valore delle obbligazioni hanno un valore proporzionalmente inverso: quando i tassi d'interesse scendono, i prezzi delle obbligazioni salgono, mentre l'aumento dei tassi d'interesse provoca la diminuzione dei prezzi delle obbligazioni. Lo stress e la pressione. indotti dalla lotta contro l'inflazione e dagli elevati tassi d'interesse di riferimento nel settore finanziario, sono perciò visibili in quello che è l'andamento dei tassi d'interesse dei titoli di Stato statunitensi. All'inizio di ottobre, i titoli decennali statunitensi ha raggiunto un tasso di interesse del 5%; il livello più alto dalla crisi finanziaria globale del 2007 [*6]. Il valore di mercato delle obbligazioni a lungo termine, in media, dal picco del 2020 è diminuito del 46% [*7]. Questo elevato tasso di interesse obbligazionario, sta avendo un impatto sull'intera sfera finanziaria, così come anche sulle finanze pubbliche: non è più solo una questione di vendite di emergenza da parte di banche a corto di liquidità, che si trovano in difficoltà a causa del calo del valore di mercato delle obbligazioni.

Tassi d'interesse sui Titoli e oneri di bilancio
Tuttavia, gli alti tassi di interesse, e il calo del valore di mercato dei titoli di Stato statunitensi ("Treasury") non sono dovuti solo alla lotta contro l'inflazione da parte delle banche centrali; ma anche allo stesso governo. Secondo Reuters, l'aumento del debito pubblico del governo degli Stati Uniti, sta portando a un'«impennata di emissioni obbligazionarie», cosa che rende ancora più dispendioso per il governo il pagamento del debito (l'aumento dell'«offerta» di debito pubblico, nel momento in cui essa diventa più conveniente, può essere venduta solo a tassi di interesse più elevati) [*8]. Di conseguenza, Washington deve spendere sempre più risorse per il pagamento del suo debito. L'aumento dei tassi di interesse, nei primi nove mesi di quest'anno è costato ai contribuenti statunitensi 625 miliardi di dollari [*9]; il che rappresenta un aumento del 25% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Entro la fine dell'anno, si prevede che il servizio del pagamento degli interessi consumerà più di 800 miliardi di dollari [*10]. Per fare un confronto, la voce del bilancio della difesa di Washington, nel 2022 è stata di 877 miliardi di dollari [*11]. Inoltre, nell'ambito della lotta contro l'inflazione, la Federal Reserve statunitense sta anche riducendo il proprio bilancio gonfiato, il quale che era arrivato a 8,9 miliardi di dollari, riducendo drasticamente i suoi consueti acquisti di obbligazioni e titoli - che erano abituali nell'era della bolla di liquidità [*12] - facendo così in modo che i nuovi acquisti siano inferiori al valore dei titoli in scadenza [*13]. In precedenza, Washington era stata in grado di fare affidamento sul fatto che la Fed acquistasse semplicemente i titoli di stato con il denaro appena stampato, in modo da finanziare così il deficit di bilancio. Questa operazione di stampa di denaro - che aveva inflazionato il bilancio della Fed, portandolo da meno di un miliardo, nel 2008, a quasi nove miliardi di dollari nel 2022 - è stata ostacolata dall'inflazione. Oramai, Washington non può più semplicemente limitarsi a stampare denaro fresco in modo da mantenere basso così il costo del debito nazionale. Il Financial Times parla di un «eccesso di offerta» di titoli di Stato [*14], e scrive che questo accelera la loro svalutazione.

Sfera finanziaria e tassi d'interesse di riferimento
Gli elevati tassi d'interesse con cui le banche centrali stanno imponendo per combattere l'inflazione, si ripercuotono sull'intera sfera finanziaria: ad esempio, l'infuocato mercato immobiliare degli Stati Uniti, dove i tassi d'interesse ipotecari sui mutui sono saliti arrivando fino all'otto per cento; il livello più elevato raggiunto negli ultimi 20 anni [*15]. Due anni fa anni, i tassi d'interesse sui mutui ipotecari si aggiravano in media intorno al 3% [*16].  L'esplosione dei costi, indica che ci sono sempre meno lavoratori dipendenti che possono permettersi la proprietà della casa; il che accelera ulteriormente l'erosione sociale negli Stati Uniti (la proprietà della casa rappresenta la sicurezza sociale centrale della classe media negli Stati Uniti). Attualmente, per permettersi una casa è necessario un reddito medio annuo di $ 115.000, cifra che è di circa $ 40.000 in più rispetto al salario medio [*17]. La percentuale di salario, che gli acquirenti di immobili dovrebbero spendere per il loro indebitamento è così salita al 40%, rispetto a quello che negli 25 anni era stato circa il 35%. Una tale situazione, non solo di fatto blocca l'ascesa sociale della classe media, ma sta anche facendo rapidamente aumentare il pericolo che negli Stati Uniti ci possa essere un'altra crisi immobiliare e una recessione economica, come sta già avvenendo nella Repubblica Federale Tedesca [*18]. Ovunque, nella sovrastruttura finanziaria, laddove si sono accumulate enormi passività, c'è quel qualcosa che minaccia di «rompersi». Ad esempio, il debito delle carte di credito, che nel 2023, per la prima volta, supererà la soglia dei mille miliardi di dollari, o il debito societario delle imprese, per le quali nei prossimi anni scadranno debiti per circa 3 mila miliardi di dollari. Il volume del mercato del debito societario delle imprese statunitensi con il rating più alto ammonta a 8,4 mila miliardi di dollari; il tasso di interesse è salito a poco più del 6%, rispetto a quello che nel 2020 era solo del 2% [*19]. Alla fine, gli alti tassi di interesse stanno destabilizzando anche i mercati azionari, che continueranno a essere soggetti a forti fluttuazioni e a una grande instabilità (all'inizio di ottobre, un buon report sul mercato del lavoro ha fatto crollare il Dow Jones di 430 punti) [*20], e questo finché i rendimenti obbligazionari si manterranno elevati [*21]. È quindi improbabile che l'impennata del rialzo dei mercati menzionati all'inizio di questo articolo, possa essere mantenuta a lungo termine. L'era delle bolle durature nei mercati finanziari sembra essere già finita. Una discesa dei tassi d'interesse ridurrebbe rapidamente questa pressione di crisi che pesa sull'intero sistema finanziario. Si ridurrebbe il rischio che qualcosa si «rompa» immediatamente. Da questo ne deriva una costellazione apparentemente assurda nella quale le cattive notizie provenienti dal mercato del lavoro - che potrebbero indicare la fine della politica dei tassi d'interesse elevati - vengono accolte con favore dai mercati azionari. Per il momento, il tasso di inflazione reale effettivo non può servire a questo scopo. Di fatto, negli ultimi mesi è addirittura leggermente aumentato [*22] – e con il suo 3,7%, si trova ancora assai lontano da quei due punti percentuali previsti dalla politica monetaria. Dopo che nel maggio 2022 aveva raggiunto il picco dell'8,6%, la Fed è riuscita a far scendere l'inflazione portandola nel giugno 2023 fino al 3% grazie agli alti tassi di interesse, e ponendo fine alla stampa di denaro per l'acquisto di obbligazioni; ma da allora l'inflazione dei prezzi ha nuovamente accelerato. Essenzialmente, l'inflazione è notevolmente accelerata a causa di fattori esterni [*23] derivanti dal limite ecologico raggiunto dal capitale [*24]; fattori che semplicemente si collocano fuori dal controllo della Fed.

Recessione imminente nella trappola della crisi
Pertanto, di conseguenza l'inflazione può essere combattuta solo riducendo i consumi, grazie all'aumento della disoccupazione, e attraverso una diminuzione di fatto dei salari (negli ultimi mesi, i salari reali sono aumentati un po' più dell'inflazione). Tuttavia, l'esultanza dei mercati per i modesti numeri sul mercato del lavoro si è ben presto mescolata allo scetticismo. La relazione ha innescato un «mix di preoccupazione e di rassicurazione», come ha titolato il New York Times (NYT), dato che le preoccupazioni per un «surriscaldamento» inflazionistico dell'economia potrebbero trasformarsi nella paura di una recessione [*25]. Secondo un recente sondaggio tra gli economisti, citato dal NYT, una risicata maggioranza relativa del 49% degli intervistati si aspetta che ci sarà una «recessione nei prossimi 12 mesi», mentre il 42% ritiene che a livello economico sia ancora possibile un «atterraggio morbido». I media sono persino arrivati ad avvertire che i mercati avrebbero letteralmente inscenato un «rallentamento verso la recessione», dal momento che gli indicatori fondamentali indicavano una contrazione [*26]. In primo luogo, la forte crescita negli Stati Uniti (l'1,2% nel terzo trimestre del 2023, rispetto al secondo trimestre) si deve al consumo privato generato dalla riduzione dei risparmi che si erano costituiti durante la pandemia. Inoltre, la classe media statunitense, un tempo numerosa, si è dissolta a tal punto che un lungo boom dei consumi finanziato dal credito, come era comune nell'era della bolla finanziaria neoliberista, non è più possibile. Secondo dati recenti, circa il 62% dei salariati negli Stati Uniti  - «in forte espansione» - non è in grado di costituire riserve finanziarie significative [*27]. Vivono di stipendio in stipendio. La famosa e ampia "classe media", negli Stati Uniti è quindi a tutti gli effetti una reliquia del passato [*28]. A questo si aggiunge l'aumento della spesa pubblica negli ultimi due anni (che, come detto, sta portando ora a un forte onere di interessi sul bilancio statunitense) [*29]. Gli Stati Uniti, che, dopo la fine della pandemia, hanno potuto – anche grazie alle misure protezionistiche – registrare il miglior sviluppo economico tra tutti i paesi industrializzati, ora, nel medio periodo, si trovano a essere effettivamente minacciati da una recessione. La paura dell'inflazione, e la minaccia di un crollo finanziario, si stanno trasformando ora nella paura della recessione, la quale, se sarà abbastanza profonda potrebbe anche avere un effetto destabilizzante. Tutto questo, è semplicemente la concretizzazione della trappola della crisi che sta alla base [*30] e in cui si trova la politica economica tardo-capitalista [*31]. Con l'avvento e lo scoppio dell'inflazione, non è più possibile continuare a mantenere il capitalismo - che sta soffocando nella sua produttività -  in quella che appare come una sorta di vita da Zombie, in cui ci si continua a indebitare nel quadro di un' economia delle Bolle, nutrita dai mercati finanziari [*32]. Ed ecco che, di conseguenza, ora i politici non possono fare altro che scegliere quale sarà la strada della crisi da percorrere: recessione, crollo finanziario o inflazione? E questo perfino anche negli Stati Uniti, che finora, grazie al protezionismo dell'amministrazione Biden [*33], erano riusciti a socchiudere un po' la porta alla crisi, sganciandosi così, in qualche modo da quello che è stato lo sviluppo della crisi nell'eurozona. Ma ora, questa dinamica di crisi può solo essere ritardata.

- Tomasz Konicz [***] - 10/11/2023 -

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NOTE:

1 https://www.ft.com/content/52e76c22-3e0a-420b-8fdb-b5594d74cba8

2 https://finance.yahoo.com/news/traders-see-fading-chances-fed-124624382.html

3 https://fortune.com/2023/10/06/strong-jobs-data-good-news-for-economy-bad-news-for-markets-el-erian/

4 https://francosenia.blogspot.com/2022/09/tediosi-monotoni-e-mortalmente-noiosi.html

5 https://francosenia.blogspot.com/2023/03/le-lacrime-di-sharon-stone.html

6 https://finance.yahoo.com/news/u-10-treasury-yields-hits-220507474.html

7 https://www.thestreet.com/investing/stocks/bond-market-meltdown-whats-happening-what-it-means-and-why-you-should-care

8 https://finance.yahoo.com/news/u-10-treasury-yields-hits-220507474.html

9 https://www.bloomberg.com/news/articles/2023-07-13/us-racks-up-652-billion-in-interest-costs-as-higher-rates-bite

10 https://www.axios.com/2023/10/16/interest-rates-federal-debt

11 https://www.statista.com/statistics/262742/countries-with-the-highest-military-spending/#:~:text=The%20United%20States%20led%20the,to%202.2%20trillion%20U.S.%20dollars.

12https://francosenia.blogspot.com/2021/04/la-generosita-monetaria-e-il-grande.html

13 https://www.federalreserve.gov/monetarypolicy/bst_recenttrends.htm

14 https://www.ft.com/content/7dada684-a6cd-413b-9adb-477b34a7a9f6

15 https://fortune.com/2023/09/29/mortgage-rates-two-decade-high-housing-market-home-sales-drag/

16 https://edition.cnn.com/2023/11/07/investing/home-prices-affordability/index.html

17 https://fortune.com/2023/10/18/how-bad-housing-market-affordability-redfin-115000-salary/

18 https://finance.yahoo.com/news/wave-cancellations-german-housing-construction-073436367.html

19 https://www.ft.com/content/eca88341-4d17-4147-94c5-19d9bc873937

20 https://finance.yahoo.com/news/dow-plunges-430-points-yields-041424884.html

21 https://finance.yahoo.com/news/stocks-wont-have-sustainable-rally-until-bond-yield-hits-pre-financial-crisis-level-183141192.html

22 https://www.statista.com/statistics/273418/unadjusted-monthly-inflation-rate-in-the-us/

23 https://www.konicz.info/2021/08/08/dreierlei-inflation/

24 https://www.mandelbaum.at/buecher/tomasz-konicz/klimakiller-kapital/

25 https://www.nytimes.com/2023/11/03/business/economy/jobs-report-october-2023.html

26 https://realmoney.thestreet.com/stocks/we-re-rallying-right-into-a-recession-16137281

27 https://www.cnbc.com/2023/10/31/62percent-of-americans-still-live-paycheck-to-paycheck-amid-inflation.html

28 https://www.cnbc.com/2023/01/18/amid-inflation-more-middle-class-americans-struggle-to-make-ends-meet.html

29 https://thenextrecession.wordpress.com/2023/10/27/us-economy-expanding/https://thenextrecession.wordpress.com/2023/10/27/us-economy-expanding/

30 https://www.konicz.info/2011/08/15/politik-in-der-krisenfalle/

31 https://francosenia.blogspot.com/2022/12/al-capezzale-del-capitale.html

32 https://www.konicz.info/2017/08/07/wir-sind-zombie/

33 https://francosenia.blogspot.com/2023/08/bidenomics.html