domenica 22 giugno 2025

Questo non è uno Slogan, è questione di sopravvivenza !!

Solo un'insurrezione operaia anticapitalista, può schiacciare queste due piovre capitaliste assassine e guerrafondaie
I lavoratori vengono impiegati in tutti i settori: nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali, nei servizi comunali, nell'agricoltura, nell'industria, nei trasporti terrestri, marittimi e aerei, nell'energia e nei servizi pubblici, nell'edilizia, nella silvicoltura e altro ancora. Che si sia disoccupati, pensionati o gravati da un lavoro domestico non retribuito, apparteniamo tutti alla stessa classe operaia, unita dalla nostra esistenza sociale e dal nostro sfruttamento. Sopportiamo tutto il peso della dominazione capitalista: schiavitù salariata, repressione, privazione, genocidio, incarcerazione, tortura, violenza di genere, oppressione etnica, distruzione ambientale e tutte le calamità che questo sistema genera. Fino a poco tempo fa, in Iran, questa violenza ci veniva imposta direttamente solo dalla classe capitalista e dal regime islamico.
Ora, con la guerra in corso, ci troviamo di fronte a due mostri capitalistici: la borghesia iraniana e il suo regime da un lato, e i governi di Israele, degli Stati Uniti e dell'Unione Europea dall'altro.
Nonostante il loro conflitto interno, entrambe le parti impongono la stessa brutalità genocida. Sia dall'alto che dal basso - in quelli che sono tutti gli aspetti della vita - veniamo schiacciati dalla violenta macchina del capitale, che sia iraniano, israeliano, americano o europeo. Questa guerra non viene condotta tra "Stati", essa viene condotta contro di noi.
Decine di milioni di lavoratori ne sopportano il peso: sfollamento, senzatetto, fame, carestia, mancanza di acqua, di medicine, di cure, e morte di massa. Le nostre case vengono bombardate, i nostri cari giacciono insepolti, e il futuro dei nostri figli è incerto. A Teheran, Kermanshah, Isfahan e altrove, il costo della guerra è immenso. Tutte queste condizioni ci impongono di agire collettivamente, a livello nazionale e con un'organizzazione cosciente e consiliare.
Questo non è uno slogan. È una questione di sopravvivenza.
Dobbiamo unirci dove viviamo e dove lavoriamo – fabbriche, scuole, ospedali, porti, quartieri – per formare consigli. Questi consigli non dovrebbero essere isolati o locali; ma devono crescere in un movimento nazionale, capace di mobilitare tutte le risorse per poter soddisfare i bisogni urgenti: cibo, sicurezza, assistenza sanitaria, alloggio, istruzione. Questi consigli devono riunirsi, evolversi fino a diventare una forza anticapitalista unificata, e strappare  dalle mani della classe capitalista e del suo Stato il controllo della produzione, della ricchezza e delle infrastrutture. Proclamiamo al mondo che: noi vediamo tutte le classi dominanti – israeliane, islamiche, americane, europee – come i nemici genocidi della classe operaia.
Chiediamo ai lavoratori di tutto il mondo solidarietà e sostegno.
     
 

- Lavoratori anticapitalisti (Iran) - Giugno 17, 2025 - fonte: https://barbaria.net/ -
- foto: Proteste in Iran -

La Scomparsa della “Rivoluzione” ?!!???

L'anarchismo oggi
- Il pensiero libertario e la partecipazione popolare al XXI secolo -
di Miguel Amorós

« Non c'è anarchismo più autentico di quello capace di rivolgere verso di sé il più implacabile degli sguardi critici.» Tomás Ibáñez

Oggi, grazie a un apparato statale ipersviluppato, soprattutto sul piano militare, asservito a un mercato onnipresente, e in assenza di forze sociali che lo sfidino, la parola "rivoluzione" è scomparsa dal vocabolario degli oppressi e degli sfruttati. Da nessuna parte vediamo una massiccia convergenza di insoddisfazioni di vario genere che riesca a rendere inevitabili i grandi sconvolgimenti sociali. Nessuno sente l'avvicinarsi dei grandi cambiamenti, e sono pochi quelli che li vogliono. Anzi, al contrario, la maggior parte li teme. In queste condizioni, il rifiuto del principio di autorità – fondamentale per ogni libertario – si scontra con il muro invalicabile della rassegnazione e della paura, le piaghe ideali al fine di uno sviluppo infinito dello Stato. Il pensiero antiautoritario, incapace di coniugarsi con qualsiasi rivolta degna di questo nome, si rinchiude nella propaganda, laddove l'azione, rara e slegata dal pensiero veramente sovversivo, manca della “audacia dell'idea” (come direbbe Kropotkin) e quindi, dopo i primi momenti di euforia esistenziale, finirà per seguire percorsi che lo contraddicono, fino a svanire.
Da un lato, la lunga paralisi del movimento operaio ha ormai ridotto al minimo le organizzazioni anarco-sindacaliste; l'asse attorno al quale ruotava il movimento libertario. L'istituzionalizzazione burocratica delle trattative sindacali ha reso sempre più difficile l'azione diretta, per dei lavoratori sempre meno combattivi. Dall'altra parte, la disgregazione delle idee di modernità – universalità, ragione, progresso – ha fatto sì che l'anarchismo di oggi, quello che nasce dall'occupazione delle piazze, dalla musica punk e dall'alter-globalizzazione dei giovani, precipitasse nel presentismo, nell'intersezionalità, nell'identitarismo e nell'oblio. In aggiunta a tutto ciò, il fatto che la maggior parte delle persone coinvolte nei conflitti siano appartenenti alle classi medie salariate, che notoriamente si identificano con lo Stato, con i metodi autoritari e con le leggi borghesi, ha trasportato ogni e qualsiasi movimento di protesta all'interno di una fluidità relativistica, fatta di confusione e di possibilismo. Una volta evaporato il proletariato radicale, e consolidatasi la mentalità meso-cratica, anziché minare la supremazia dello Stato e il rispetto dei governi, la protesta sociale tende piuttosto a limitarsi nelle sue rivendicazioni, e a confinarsi nel locale, senza mettere di fatto in discussione la legittimità delle istituzioni, né tantomeno mettere seriamente in discussione il gioco politico del dominio. Con il pretesto di ottenere risultati immediati o di ripudiare la violenza, si evita l'impegno, e si rinvia la causa rivoluzionaria a un orizzonte lontano e irraggiungibile. Nella società, sotto il regime capitalista, ci sono stati molti cambiamenti regressivi, e non solo nel movimento sindacale: la divisione del lavoro, la sociabilità popolare, i legami generazionali, la diffusione delle psicopatologie, la burocratizzazione, ecc. Il sistema dominante è diventato più sofisticato, e man mano che il suo potere è cresciuto, e la sua portata è stata ampliata grazie alla tecnologia dell'informazione e del debito, si è rafforzato. Di conseguenza, lo schema bipolare della borghesia e del proletariato non spiega più nulla, poiché è stato troppo a lungo fuori dalla realtà. La rivoluzione risultante da un tale scontro di classe, è ora impossibile. Né tantomeno oggi esiste un progetto rivoluzionario credibile basato su questa presunta rivalità. La generalizzazione del lavoro salariato, dei servizi pubblici, dell'atomizzazione, dei consumi, della sorveglianza digitale e, ripetiamolo, dell'influenza politico-ideologica esercitata dalle classi medie, sono tutti fattori che hanno modificato sostanzialmente la natura delle classi e i loro rapporti di forza, acuendo gli antagonismi e la concorrenza, e disarmando le coscienze. I meccanismi di addomesticamento e di sottomissione appaiono essere sempre più efficaci, e i mezzi di controllo sociale dello Stato sono sempre più potenti. Il peso opprimente del presente, principale fonte di conformismo, e il conseguente disprezzo per la memoria, hanno diluito la fiducia nel futuro, e quindi nell'utopia su cui si basavano le speranze di trasformazione rivoluzionaria.
La questione sociale - che nella società delle classi contrapposte si rifletteva in modo unitario nell'obiettivo dell'emancipazione proletaria - oggi, senza un soggetto storico che la porti avanti, senza una comunità operaia che la incarni, senza un progetto sociale che la proponga, si disperde in una pluralità di questioni eterogenee e separate, ciascuna circoscritta nei propri "movimenti sociali": femminista, gay, ambientalista, antimilitarista, squatter, anti-sviluppo, pro-casa, vegana, ecc. Dove prima c'era una classe, ora ci sono diversi collettivi interclassisti, ognuno con i propri obiettivi e con le proprie dinamiche specifiche, incapaci di costituirsi come soggetto universale, dal momento che ognuno di essi non sarà mai in grado di fondere tutte le loro particolarità - comprese le proprie - in una sola. Non fanno nemmeno finta di provarci. Ciò che li caratterizza tutti, è la timidezza nell'azione e l'ambiguità dei loro obiettivi, che ben corrisponde alla volontà isolazionista, all'attivismo virtuale e al rifugio nel presente. In questo contesto, i gesti irrilevanti, le tattiche riformiste e la tendenza ad accogliere le istituzioni hanno la precedenza sulle reali alternative di cambiamento e sul desiderio di auto-organizzarsi per poterle realizzare. Dove mancano i riferimenti e prevalgono le misure legalitarie, dove l'azione si fonde con lo spettacolo e dove il dibattito rimane prigioniero delle reti sociali, ecco che l'autentica partecipazione si riduce a nulla: in uno scenario del genere, la democrazia diretta non è praticabile. E senza di essa, non c'è rivoluzione.
Molti degli autori vicini a essa, sono di grande valore – per esempio Murray Bookchin, James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem – ma tuttavia non esiste un ragionamento speculativo, economico o scientifico, che spieghi in maniera convincente il momento presente nella sua interezza, né tantomeno offra una base teorica completa con cui orientarsi nella prassi. L'epoca attuale non è favorevole a una libera discussione collettiva, e nemmeno a una discussione in generale. L'ordine stabilito tiene le masse occupate con altre cose. Il pensiero delle masse rimane pertanto dormiente. Le ideologie progressiste e le ortodossie del passato - siano esse di tendenza operaista o meno - sono anch'esse una misera compensazione, in quanto sono superate, fuori dai giochi, proprio come lo è il concetto di proletariato del XIX secolo. Piuttosto, purtroppo, i tempi si prestano assai bene a delle formule salvifiche come la decrescita, la fuga nelle campagne, il cosiddetto "assalto" alle istituzioni, il Green New Deal, o l'economia circolare. Il momento appare favorevole anche ai fondamentalismi redentori, ai patriottismi parrocchiali e ai catastrofismi apocalittici; tutti spesso usati dal dominio. Ecco perché il pensiero libertario contemporaneo, se vuole essere utile, deve prima lottare contro tutti i discorsi irrazionali e astenersi dall'inventare un nuovo credo post-moderno, e ancor meno creare un'organizzazione polimorfa per diffonderlo. Deve svelare le menzogne dell'economia, e correggere i torti della storia. Deve smascherare la predicazione demagogica del potere. Deve smascherare le illusioni dell'ideologia e dimostrare la perniciosa inutilità dello Stato. Con tutti questi obiettivi bene in mente, deve partire dall'esistente in modo critico e penetrarlo, promuovendo, in maniera generale, tutte quelle evoluzioni dirompenti che portino a una società senza padroni: il processo di deindustrializzazione, di de-mercificazione, di de-urbanizzazione, di smilitarizzazione, di decentramento e di de-statizzazione.
Ovviamente, i partigiani del libero accordo, dell'autogestione, dell'equilibrio con la natura e con le forme di vita collettive o comunitarie, sono ben lungi dal poter opporre alle forze del dominio una forza di maggiore grandezza. Ma è anche vero che si stanno facendo delle piccole battaglie negli ambiti più diversi, le quali devono necessariamente convergere tutte l'una sull'altra, dal momento che esse hanno la loro origine nelle contraddizioni del sistema stesso: in materia di affitti, sfratti, occupazione, pensioni, patriarcato, sessualità, alimentazione, sanità, immigrazione, carceri, infrastrutture industriali e stradali, media, difesa del territorio e così via. Quando le lotte avranno raggiunto un certo livello, allorché andranno oltre l'ordine pubblico, allora si libererà un'energia sufficiente ad aumentare la capacità popolare di auto-organizzazione, di solidarietà e di unità, creando così le condizioni perché possano emergere  strutture comunitarie – orizzontali, assembleari e federative – per formare delle istituzioni autonome, al di fuori dello Stato, che saranno in grado di resistere alle manovre dei partiti e alle manipolazioni esterne.
Un clima di guerra civile, favorisce il risveglio delle iniziative popolari, e lo sviluppo intellettuale e morale degli oppressi. La distruzione - come direbbe Bakunin -  diventa una forza creatrice. Ma in quello che è un contesto di potere quasi assoluto della classe dominante, l'azione costruttiva riesce a provocare più crepe nell'immobilità imposta dal suo dominio, di quanto riesca a farlo l'azione distruttiva, la quale è assai meno praticabile. Tuttavia, la negazione va di pari passo con l'affermazione. Più che di tattiche interne, violente o pacifiche, si tratta di strategie di separazione e di demolizione. Se dobbiamo cercare la partecipazione paritaria nella pratica, anziché il pragmatismo sotto l'egida di un leader, allora è una questione di dibattito e di rotazione dei compiti. Più che di organizzazione, si tratta di tessuto sociale, di spazi vitali in seno ai quali ripensare le relazioni sociali a tutti i livelli; o piuttosto di una contro-società ribelle, con le proprie abitudini cooperative e difensive che si ponga ai margini dell'establishment. E contro-società significa contro-cultura, alla cui ideazione e sviluppo lo spirito libertario - purché si liberi della zavorra di modalità ideologiche fallimentari e di cliché alla moda - ha molto da offrire.

- Miguel Amorós, pubblicato sul sito Kaos en la red, il 9 febbraio 2025 -
- fonte: Atelier d'Écologie Sociale et Communalisme -

sabato 21 giugno 2025

Dal Complesso di Masada alla Sindrome di Sansone !!!

Moshe Zuckermann è un sociologo e storico tedesco-israeliano che ha scritto molto sulle relazioni di Israele con la Germania, così come sul loro rapporto ideologico con l'Olocausto. Egli critica severamente la politica israeliana e la strumentalizzazione dell'antisemitismo da parte dei vari governi israeliano e tedesco. Contrariamente a quanto immagina una certa sinistra de-coloniale, questa critica non ha nulla a che vedere con la messa in discussione dell'esistenza dello Stato di Israele; su cui esiste un consenso, all'interno della sinistra israeliana, che non è inutile ricordare se si vogliono gettare le basi per una soluzione della situazione in Medio Oriente. La sinistra israeliana può criticare i miti fondanti di Israele e le circostanze della sua creazione, senza mettere in discussione la pretesa di uno Stato ebraico, e questo - aggiungiamo - indipendentemente da quello che si pensa circa la forma moderna dello Stato-nazione, di cui Israele, da solo, non ne può certo costituire l'immagine repellente. Solo un osservatore esterno può associare queste critiche – quelle delle circostanze concrete della creazione di Israele, o quelle della forma statale – con l'assurda idea di mettere oggi in discussione l'esistenza dello Stato di Israele (e di esso solo). Qualunque cosa si pensi del sionismo storico, e per quanto salutare possa essere la sua critica, sia gli israeliani che i palestinesi devono ora affrontarne le sue conseguenze, senza ripetere continuamente lo scenario alternativo di ciò che sarebbe potuto accadere altrimenti, cento o ottanta anni fa. Oggi, la sinistra globale sta sabotando quella che potrebbe servire come base progressista per una soluzione del conflitto, e lo fa continuando a mescolare costantemente il livello della critica storica e politica - il quale è assolutamente necessario - con la questione dell'esistenza stessa di Israele. Questo testo di Zuckermann segna una netta distanza; sia da una sinistra filo-Hamas, la quale continua a invocare l'autodissoluzione di Israele all'interno di uno "Stato binazionale" – visto che al momento è fin troppo evidente che nessuna delle due popolazioni nazionali desidera – sia da una sinistra, soprattutto tedesca, fanaticamente impegnata nella difesa del "diritto a esistere" di Israele, poiché, fondamentalmente, non è questa la domanda,che stacca così un assegno in bianco all'estrema destra israeliana. In questo modo, il progetto sionista, conclusosi con l'effettiva creazione dello Stato viene lasciato sempre "aperto", e viene reso soggetto a una discussione fittizia. Ma senza il pathos legittimante della sinistra tedesca e dell'estrema destra israeliana, che copre le proprie atrocità proprio con l'escalation del "rischio esistenziale",  l'esistenza israeliana funziona molto bene. Tutto questo finisce per essere solo un diversivo dai problemi concreti - sia interni che esterni - sia della popolazione israeliana che di quella palestinese. L'autore insiste sul fatto che la realtà dell'imbarbarimento non giustifica il godimento apocalittico del peggio. La discussione odierna riguarda le conseguenze della creazione di Israele – detta in altre parole, la creazione del problema palestinese – e non l'effettiva esistenza di Israele, cosa che non è più in discussione. Presuppone un quadro di analisi sionista, o post-sionista, che di per sé non ha nulla a che fare con la messa in discussione della realtà fattuale di Israele. Zuckermann mostra come questi dibattiti interni di una sinistra occidentale centrata su sé stessa (e sui fantasmi del suo passato) ignorino profondamente le realtà israelo-palestinesi. Dal 7 ottobre, l'aggravarsi di questo "conflitto per procura", come venne definito da Robert Kurz, non fa altro che confermare le sue opinioni, espresse quindici anni fa. In che modo possiamo superare il pantano ideologico che alimenta questo conflitto, e non contribuisce a risolverlo? Robert Kurz rimproverava agli antifascisti di produrre un'immediata identità tra forma-pensiero e ideologia, portando così a quel riduzionismo tipico della critica dell'ideologia che riempie giornali, librerie e talk show. La teoria critica mira invece a un livello più fondamentale rispetto a quello della semplice denuncia dell'ideologia e vuole mostrare da quale terreno nascono e prosperano le ideologie: «La forma-pensiero in sé ”non è" un'ideologia, ed essa, in sé, non produce ideologia. Piuttosto, è l'ideologia a essere una produzione affermativa dei singoli soggetti individuali concreti, che sono di per sé in relazione, essi stessi, alla loro propria costituzione di forma-soggetto e alle proprie oggettivazioni, in un tentativo di spiegare la relazione negativa con il mondo della socializzazione, attraverso il valore e la sofferenza che essa implica, evitando di mettere in discussione la propria forma-soggetto e la propria forma di socializzazione.» (Robert Kurz, "L'ideologia antitedesca. Dall'antifascismo all'imperialismo di crisi: una critica dell'ultimo settarismo della sinistra tedesca e i suoi profeti teorici", Unrast, 2003, p. 268.)  L'incapacità - da parte della maggioranza della sinistra che si definisce "antimperialista" o "antifascista" - di distinguere tra questi livelli, la porta a ignorare il punto di vista della forma, e a perdersi in in una caccia alle streghe e a discussioni terminologiche speciose e interminabili prodotte da una immediata identificazione tra forma e ideologia. Robert Kurz era indignato dal fatto che perfino lo stesso Moshe Zuckermann fosse l'oggetto di una simile caccia alle streghe: «L'apice della perfidia denunciatoria viene raggiunto nel momento in cui gli ebrei vengono, senza il minimo scrupolo, fatti oggetto di imputazioni basate sulla logica dell'identità nel momento in cui essi non corrispondono alle idee anti-tedesche riguardo a ciò che i “veri ebrei” dovrebbero pensare. Ad esempio, negli ultimi anni abbiamo assistito a un attacco senza precedenti contro Moshe Zuckermann, direttore dell'Istituto di storia tedesca dell'Università di Tel Aviv, un pensatore ebreo nella tradizione della teoria critica di Adorno, che agli occhi degli ideologi anti-tedeschi avrebbe commesso l'imperdonabile crimine di non condividere le loro interpretazioni controfattuali della situazione mondiale, e in particolare della politica israeliana sotto il governo di destra del Likud.» (Robert Kurz, Ivi., p. 280.)

*** Il testo di Zuckermann, qui tradotto, è apparso per la prima volta in Moshe Zuckermann, "Sechzig Jahre Israel. Die Genesis einer politischen Krise des Zionismus", Bonn, Pahl-Rugenstein, 2009, pp. 131-137. È stato poi ripubblicato nel 2013 in Karin Wilhelm, "Neue Städte für einen neuen Staat", Bielefeld, Transkript, 2013, p. 31-35. Ci siamo permessi di introdurre dei paragrafi per migliorare la leggibilità del testo. Lo pubblichiamo in francese con il gentile permesso dell'autore. (S.A.)

- Sandrine Aumercier - su  https://grundrissedotblog.wordpress.com/ -

"Il Diritto all'Esistenza", e l'Esistenza
- di Moshe Zuckermann - 2009 -

In tutto il mondo, i dibattiti su Israele hanno la sfortunata tendenza a dover fingere di chiarire qualcosa di principio, compresa la questione polemica del "diritto di esistere" dello Stato ebraico. È notevole vedere con quanta ovvietà la sua mera esistenza, che dura ormai da 60 anni [*alla data della prima pubblicazione di questo testo, S.A.], possa essere invece messa in discussione, al punto che anche coloro che non la considerano un legittimo argomento di discussione si trovano potenzialmente trascinati in un atteggiamento apologetico. Ci sono diverse ragioni per questo. Da un lato, Israele è stato infatti proclamato in circostanze che hanno dato alla sua creazione formale un carattere artificiale: si trattava della creazione di uno Stato, la cui idea astratta aveva preceduto sia il dominio effettivo del territorio che doveva ospitarlo, sia l'esistenza fisica di una società che doveva popolare quel territorio. Da questo punto di vista, al momento della sua effettiva creazione, Israele non era solo una "comunità immaginata", ma è anche stata immaginata in un momento storico nel quale le condizioni materiali e sociali minime, per la sua realizzazione, appartenevano ancora a un futuro lontano. In secondo luogo, fin dall'inizio, il diritto di Israele a esistere è stato messo in discussione dai suoi vicini arabi, sia a partire dalla loro ideologia proclamata, sia nei periodici tentativi di fare la guerra (e distruggere) allo stato sionista. Il fatto che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad possa ancora oggi rivendicare l'eliminazione di Israele, sembra irreale e obsoleto a quasi tutti gli stati arabi, ma Ahmadinejad può comunque attingere a una tradizione propagandistica non troppo lontana di quegli stessi stati. In terzo luogo, poiché la creazione dello Stato sionista è stata accompagnata dall'ingiustizia storica commessa contro i palestinesi, quello che gli ebrei hanno visto come se fosse un atto di emancipazione è stato, agli occhi di molti, contaminato dal dubbio morale. Poiché il conflitto israelo-palestinese, scaturito da questa ingiustizia storica, non ha ancora trovato una soluzione politica (né, in questo momento, offre la prospettiva di una soluzione), lecco che allora 'esistenza reale di Israele rimane comunque segnata da un sentimento di incompletezza, da un sentimento che abita non solo i palestinesi, come soggetto collettivo vittime di questo conflitto, ma anche molti israeliani che hanno fatto dell'incertezza sul futuro il colore fondamentale del loro orizzonte storico. E dal momento che - in quarto luogo - gran parte del popolo ebraico non ha scelto di vivere in Israele, e la pretesa che invece fosse così era notevolmente svanita nel corso dei decenni, l'indeterminatezza sul futuro aveva ricevuto quasi una sorta di "legittimazione" psichica collettiva; di certo, a nessuno [in Israele, in Sud Africa] verrebbe in mente di mettere in discussione il diritto dello Stato a esistere, ma tuttavia parlare di esistenza futura ora non è più un tabù, come lo era una volta. Pertanto, la certezza collettiva di sé [degli israeliani, S.A.] si è estesa e ha investito la possibilità, ora accettata, di vivere fuori da Israele. Eppure, è chiaro che la tenace perpetuazione del discorso riguardo il diritto di esistere di Israele, non lo rende certo né più forte né più accettabile del discorso riguardo il diritto di esistere di qualsiasi altro Stato al mondo. Il riconoscimento di uno Stato, o il rifiuto di riconoscerlo, è storicamente soggetto a delle fluttuazioni cicliche ed è sempre guidato da interessi particolari. Ciò induce a mettere in discussione il diritto di affermare l'esistenza, nel suo "principio", senza che però questo fonda qualcosa di essenziale, o esprima qualcosa di universalmente inconfutabile.
Il diritto di esistere che hanno gli Stati non è disponibile per chiunque. Ciò è legato innanzitutto al fatto che un collettivo umano realmente esistente venga codificato, in modo astratto, in quanto "Stato"; codificazione, da un lato derivata dalla storia e, dall'altro (almeno nei tempi moderni), realizzabile da questo collettivo stesso, nella forma di un atto di autodeterminazione sovrana. Tale autodeterminazione, può essere rivista solo dalla collettività che si autodetermina. Certo, altri collettivi possono negare ideologicamente il diritto a questa autodeterminazione; possono persino trasformare il proprio rapporto negativo con la collettività autodeterminata in delle azioni politico-militari. Ma se lo fanno, minacciano l'esistenza reale dello Stato. senza però eliminare il suo diritto inalienabile a tale esistenza. Così, quando l'ex primo ministro israeliano Golda Meir, affermò risolutamente che non esiste un popolo palestinese (non da ultimo, per minare la richiesta palestinese di uno Stato-nazione), una simile affermazione non aveva alcuna rilevanza rispetto all'autodeterminazione palestinese, e alla loro aspirazione a uno Stato palestinese; e quindi non aveva nessuna rilevanza per quanto atteneva al postulato del diritto di esistere di un tale Stato. Si trattava semplicemente di una testimonianza rispetto a quale fosse, all'epoca (e, per certi aspetti, ancora oggi), la reale situazione dell'equilibrio di potere e di dominio tra israeliani e palestinesi. A questo proposito, Meir e Hamas si sono completati a vicenda. Chi trae vantaggio dalla controversia sul diritto di Israele a esistere? Innanzitutto, tutti coloro che portano avanti l'ideologia dello sterminio di Israele; vale a dire, i propagandisti arabi o islamisti che considerano il sionismo come un "corpo estraneo" da eliminare in Medio Oriente. La loro retorica viene a essere formulata interamente nello spirito della polarità amico/nemico, nel quadro del conflitto in Medio Oriente, carico com'è di odio e risentimento. Deriva pertanto la sua presunta legittimità, dalla logica della reale situazione politica nella regione. Al contrario, tra gli antisionisti occidentali e gli oppositori di Israele, il discorso sul diritto di esistere è principalmente dovuto alla proiezione eteronoma delle loro stesse condizioni sul conflitto in Medio Oriente. Questo schema proiettivo, è chiaramente percepibile In quella che è la ricezione tedesca del conflitto israelo-palestinese, nella quale le costruzioni ideologiche di orientamento anti-israeliano, neonazista e di "sinistra", così come le patetiche contorsioni dei solidaristi filosemiti israeliani, che si dilettano nel risentimento islamofobo, costituiscono la rete nervosa delle specificità tedesche e della sua catarsi psico-ideologica. È evidente che la storia catastrofica degli ebrei nel XX secolo, determina sia il risentimento verso lo “Stato ebraico” (compresa la “solidarietà” con i palestinesi) sia la nevrotica “identificazione” con gli ‘ebrei’ in quanto “sopravvissuti alla Shoah”. Tuttavia, tutte queste proiezioni non hanno quasi nulla a che fare con la realtà di Israele, o con quella del conflitto israelo-palestinese. Perché non si tratta tanto del diritto di Israele a esistere, quanto piuttosto dell'esistenza di Israele. E il fatto che sia minacciato, non deriva da un discorso astratto su una qualsiasi definizione dell'essenza del "popolo ebraico", o sulla valutazione normativa del "percorso storico sionista", ma solo dalle minacce interne ed esterne reali e concrete. La reale esistenza di Israele è innegabile: il paese ha visto svilupparsi una società piena di diversità, con mondi umani sfaccettati, a volte antagonisti, una vita quotidiana colorata, spesso isterica, e un particolare universo di esperienze collettive, con le sue specifiche coordinate di coesione e di conflitto; una società con alte pratiche culturali e comportamenti popolari impressionanti. Con conquiste e possibilità - notevoli conquiste scientifiche e tecnologiche - vediamo una cultura del dibattito a volte nervosa, ma anche vitale: in breve, un organismo sociale plurale che, nonostante tutte le sue divisioni e incoerenze, esiste come realtà vivente. Volerla liquidare astrattamente - e il che significa eliminarla - è altrettanto assurdo quanto lo è feticizzarla astrattamente, vedendola come un "rifugio del popolo ebraico", o come "l'unica possibilità di una vita autenticamente ebraica".
Quindi cosa potrebbe davvero minacciare questa esistenza? In primo luogo, naturalmente, gli atti di guerra commessi su larga scala. Negli ultimi anni, in particolare, a causa delle dichiarazioni virulente del suo presidente, l'idea di un Iran potenzialmente dotato di armi nucleari è stata molto discussa. Un tale paese deve infatti essere considerato una minaccia strategica per Israele, soprattutto perché si può presumere che, nonostante tutti gli sforzi (occidentali) per impedirlo, gran parte del Medio Oriente sarà prima o poi dotata di armi nucleari. Ma poiché le armi nucleari non possono essere usate a volontà, ecco che allora la loro natura estremamente minacciosa è stata, fin dai tempi della Guerra Fredda, in qualche modo disinnescata a partire da una "valvola di sicurezza" intrinseca: il famoso equilibrio del terrore. Si dovrebbe presumere che tutti gli Stati interessati nella regione, siano da tempo a conoscenza del segreto meglio custodito; vale a dire che nessun paese nemico può minacciare l'esistenza di Israele (con il nucleare o con altri mezzi) senza rischiare la propria. Sono concepibili piccole guerre regionali, condotte in modo convenzionale, così come una diffusa attività di guerriglia e di terrorismo, ossia sporadici lanci di razzi sulle comunità di confine israeliane, nel nord e nel sud del paese. Ma chi parla di guerra nucleare si esprime in modo molto diverso, in un modo che, se pensato in maniera coerente, la cosa implica uno scenario in cui gran parte dell'intero Medio Oriente potrebbe essere raso al suolo Possiamo rifiutare una visione così apocalittica, e rappresentarla in modo perverso e divertente come se si fosse in un videogioco. È vero. Ma chi - giustamente! - parte dal presupposto che Israele non sia interessato a un simile sviluppo, non può allo stesso tempo supporre che lo sia un altro Stato. La paura di una catastrofe che minaccia la vita e l'esistenza non è un monopolio israelo-ebraico, né un privilegio ideologico. La minaccia militare che incombe su Israele continua quindi a essere parte integrante della sua esistenza - non perché minaccerebbe effettivamente la sua esistenza, ma perché può contribuire in modo decisivo a determinare la forma e il contenuto di tale esistenza, e persino i suoi limiti. In assenza di pace, il bilancio per la sicurezza continuerà ad assorbire la maggior parte del bilancio nazionale, vale a dire, le risorse necessarie per finanziare molti altri settori della società civile, e lo stato sociale della società israeliana. In assenza di pace, non solo i focolai dei conflitti interni e gli assi problematici della società israeliana non potranno essere adeguatamente affrontati e risolti, ma porteranno sempre più alla fuga di capitali e alla fuga dei cervelli, cose queste che stanno già assumendo proporzioni preoccupanti, fino al punto di scuotere le fondamenta della società civile e il sistema sociale dei veri ambienti di vita.
Un Israele che non si integra in Medio Oriente, un Israele che rimane volontariamente un "corpo estraneo" in questa regione, un bastione armato fino al collo in un ambiente ostile, un Israele che non ha alcuna prospettiva storica se non un conflitto permanente e irrisolto, un'ideologia di violenza permanente, uno stato di eccezione come matrice identitaria psico-collettiva, una tale Israele non sarà in grado di esistere a lungo termine – si decomporrà dall'interno, rovinata dalle dinamiche del proprio stato di emergenza, e si dissolverà in elementi incompatibili derivanti dalla sua eterogeneità, carica di contraddizioni e conflitti. Nessun paese confinante è in grado di infliggere a Israele il danno che Israele infliggerà a sé stesso a lungo termine, se non vivrà in pace con il proprio ambiente, anche se questo ambiente gli appare, ideologicamente e genuinamente, come se fosse una minaccia permanente.  In questo contesto, “lungo termine” non significa le centinaia di anni di violenza che l'Europa ha “avuto” per consolidarsi come unione attraverso atroci guerre di religione, le rivoluzioni e i massacri militari del XX secolo. Nel caso di Israele, il tempo sta per scadere perché "l'esperimento storico del sionismo” ha raggiunto il punto in cui la decisione di creare le condizioni per la propria sopravvivenza gli è stata strutturalmente imposta. Indubbiamente, Israele è indubbiamente passato dal complesso di Masada alla sindrome di Sansone: ora non si possono più "gettare gli ebrei a mare". Tutti loro – sia gli ebrei che i loro nemici – sono sul punto di affondare tutti insieme. Ma questa non è certo una prospettiva per l'educazione dei bambini, non è una prospettiva per l'autodeterminazione collettiva, non è una prospettiva per un'esistenza umana che prenda sul serio l'umanità, e che aspiri alla sua realizzazione. La capacità di Israele di esistere non si misura a partire da definizioni astratte della sua esistenza, né dalle disposizioni presumibilmente vincolanti della sua "identità"; la quale si impone solo assicurandosi un'ideologia egemonica. Si sono sviluppati mondi umani, che devono essere compresi in base alla loro evoluzione storica, e non in base a dei criteri ideologici e rigidi del programma purista che il sionismo classico si è posto (o che forse è stato costretto a darsi). Tra gli abitanti di questo paese è maturato un senso di appartenenza, il quale va decodificato a partire dalla logica di questa rete globale di esistenza ebraica (compresa la sua evoluzione storica), e non per mezzo dei postulati medi dell'ideologia del "nuovo ebreo". Ma è proprio riguardo a questo, che lo Stato di Israele deve decidere ciò che vuole. Questa decisione non è facile alla luce delle spaccature e degli intrecci interni. E tuttavia, c'è una cosa che Israele non ha il diritto di volere, ed è quella di mantenersi in uno stato di stagnazione indefinito, nella storica zona grigia di un'aporia tra un'occupazione veramente perpetuata e una richiesta ideologica di pace. I palestinesi non lo permetteranno, né lo permetterà "il mondo", ma certamente non lo permetterà la logica strutturale interna di Israele, che ha ora raggiunto un bivio storico; se quello Stato vuole sopravvivere alle avversità storiche che ha causato.

Moshe Zuckermann, 2009 – ***

venerdì 20 giugno 2025

Libri non tradotti in italiano !!

Prefazione a  "The Spectre of Capital. Idea and Reality"
- by Christopher J. Arthur -

Questo lavoro è incentrato sulla spiegazione dell'idea di capitale. La sua particolarità è quella di sostenere che il capitale è esso stesso una “Idea”, e lo è nello stesso senso in cui è stata concepita da Hegel nella sua filosofia. Per lui un'Idea non è un'entità mentale, bensì la piena attualizzazione di un concetto, della sua “verità”, per così dire. Il capitale, in quanto Idea, diventa continuamente presente nella realtà. Questo libro vuole dimostrare che il capitale è il soggetto spettrale della modernità. Il concetto di “spettro del capitale” è stato coniato da me in un articolo del 2001. Esso riecheggia lo “spettro del comunismo” del Manifesto. Ma il comunismo era un movimento reale che mirava ad abolire lo stato di cose esistente, governato dal capitale. Ma quanto è “spettrale” e quanto è “reale” il capitale stesso? Paradossalmente esso è entrambe le cose. Pur avendo una presenza puramente spettrale, è senza dubbio un vero potere sociale, e lo rimane anche di fronte a qualsiasi critica come quella qui presentata. ( Per questo motivo, nella frase del nostro titolo - “Idea e realtà” - la “e” non va presa in modo contrappositivo, ma è indicativa dell'identità). Il metodo seguito nella mia esposizione del capitale, in quanto forma sociale, si basa sulla logica propria del carattere peculiare del suo oggetto. Per una descrizione della logica interna del capitale, sono necessari i parametri della “dialettica di sistema”. Questa presentazione sistematico-dialettica si basa sulla logica filosofica di Hegel. Non si preoccupa di recuperare la grande narrazione della sua filosofia della storia per poi metterla in relazione con il materialismo storico. Si concentra piuttosto sulla sua logica delle categorie. In questo caso, essa viene considerata architettonicamente omologa alle forme sociali del capitale. La dialettica sistematica viene utilizzata per articolare le forme di questo ordine sociale, vale a dire il capitalismo. Il mio metodo di sviluppo logico della forma si fonda sulla constatazione che il movimento dello scambio è analogo al movimento del pensiero, nella misura in cui viene generato un regno di forme pure, le quali si pongono in relazione logica l'una con l'altra, senza alcun contenuto. La presentazione è quindi basata sulla “teoria della forma-valore”. Si tratta di un approccio relativamente nuovo alla critica dell'economia politica. Afferma che le relazioni di valore svolgono un ruolo attivo nel determinare la forma e gli scopi della produzione materiale. La forma sviluppata del valore (merce, denaro, capitale) costituisce la forma sociale caratteristica delle relazioni economiche attuali. Per la teoria della forma-valore, Hegel è un riferimento naturale, dal momento che la sua logica si adatta bene a una teoria delle forme. Inoltre, lo sviluppo del sistema delle categorie di Hegel è diretto ad articolare la struttura di una totalità, mostrando come essa si sostenga negli e attraverso gli interscambi dei suoi momenti interni. Ciò presuppone che la totalità sia strutturata a partire da relazioni interne; e ciò si verifica per definizione nell'ambito di una logica delle categorie. Io sostengo che il capitale sia una totalità di questo tipo. Una teoria della forma sociale attiva, in particolare quella che si riferisce alla forma valore, richiede perciò una presentazione dialettica coerente. L'ambito di questo progetto si limita pertanto alla teoria di una società puramente capitalistica. Di più, esso è limitato alla sua “teoria pura”, ovverosia ai suoi principi, distinti dagli stadi di sviluppo del capitalismo, e sulla base dei quali è possibile condurre lo studio empirico di un capitalismo esistente in modo storicamente fondato. Inoltre, esso è ancora più limitato in quanto tutta la sua attenzione è rivolta al concetto di capitale in sé. Infatti, considero il concetto di capitale talmente ristretto da escludere persino la rendita, poiché la considero un'impurità rispetto al punto di vista teorico, che spiega solo quelle forme che sono necessarie al capitale in quanto concetto o, come farò, all'Idea di capitale. Nonostante un'impostazione così ristretta, viene però dimostrato un risultato importante: la tendenza logica dell'Idea di capitale è quella di completarsi attraverso il suo stesso sviluppo immanente, e di porre quindi in essere tutti i suoi presupposti; esso è auto-fondato, si autodetermina e si autoriproduce. Le riserve necessarie rispetto a questa audace tesi vengono affrontate, in maniera adeguata, nel corso dell'argomentazione stessa, a seconda dei casi. Questo tipo di studio è il necessario prolegomeno per qualsiasi adeguato studio scientifico del capitalismo. Tuttavia, si tratta di un esercizio puramente concettuale, che sviluppa un sistema di categorie che sono in relazione quasi logica. Pertanto, questo libro non è un'opera di economia, ma di filosofia. Per esempio, il “concetto di capitale” qui presentato è ben lontano da un concetto economico correttamente articolato. Lo stesso vale per la “produzione” e per molti altri temi toccati. Ciò è dovuto al fatto che la logica peculiare dell'oggetto ha essa stessa un carattere concettuale. La possibilità stessa di una teoria pura, o di una realtà dell'Idea di capitale, dipende da un'affermazione ontologica relativa al modo in cui il capitale stesso astrae rispetto alle sue basi materiali e costituisce un regno di forme pure. Spero di rivendicare questa importante affermazione anche sviluppando le categorie del capitale all'interno di un quadro sistematico-dialettico. Al contempo, si tratta di una critica delle categorie economiche che esso rappresenta. La critica dell'economia politica viene qui intesa non come una critica dell'apologia borghese del capitale, ma come una critica del sistema del capitale stesso nella misura in cui le sue forme mancano di verità. Nello sviluppo delle mie idee, ho avuto la fortuna di far parte del gruppo di ricerca dell'International Symposium on Marxian Theory, fondato da Fred Moseley nel 1991. Oltre allo stesso Moseley, ringrazio in particolare, per i loro pazienti commenti sul mio lavoro in corso, i membri di lunga data: Riccardo Bellofiore, Martha Campbell, Roberto Fineschi, Patrick Murray, Geert Reuten e Tony Smith. (Questi pensatori sono anche quelli che hanno prodotto in inglese le opere più significative sulla critica dell'economia politica). Per aver commentato il manoscritto originale di questo libro, ringrazio soprattutto Geert Reuten e Tony Smith. Mi hanno salvato da molti errori; ma, naturalmente, non hanno alcuna responsabilità per il libro stesso.

Christopher J. Arthur

giovedì 19 giugno 2025

Definire il … nemico !!!

Dalla metafisica della contingenza alla determinazione del nemico
- di  Patrice Schlauch - 7 dicembre 2023 -

Sul populismo di sinistra di Chantal Mouffe
Allorché, in seguito alla crisi, il marxismo tradizionale ha perso le sue certezze storico-filosofiche, abbiamo visto come i suoi esecutori si siano diligentemente sforzati di rivederne le categorie, usando le teorie postmoderne del discorso, dell'azione e della politica, per le quali è un anatema perfino la critica di una totalità sociale. A partire dall'effettiva ristrettezza mentale del marxismo tradizionale, dalla sua ignoranza delle forme di pensiero e dell'ideologia, dalla sua teorizzazione dello Stato visto come mero fenomeno sovrastrutturale, e dalla sua nobilitazione della classe operaia in quanto soggetto rivoluzionari, insieme al presupposto di un superamento della relazione di capitale visto come conseguenza necessaria dello sviluppo economico, vediamo come anche la critica dell'economia politica in generale cada vittima del verdetto della "grande teoria" e dell’ "economicismo". Il padrino di questa demolizione, è stato ed è Antonio Gramsci, il quale, con i suoi concetti di società civile e di lotta politica per l’egemonia, ha fornito le fondamentali parole chiave al cosiddetto “post-marxismo”. Oggi, nell'ambiente del cosiddetto post-operaismo, e oltre, egli viene considerato come un teorico che avrebbe dimostrato delle prospettive di azione nella sfera politica e culturale, al di là delle determinazioni economiche dell'ortodossia marxista. Tra i suoi seguaci, vediamo la politologa Chantal Mouffe, che nel suo discorso a favore di una rinascita della politica, e di un nuovo populismo di sinistra, fa riferimento non solo al comunista Gramsci, imprigionato e morto sotto il regime fascista, ma anche al costituzionalista nazionalsocialista Carl Schmitt. Ciò che a prima vista potrebbe apparire come un sincretismo selvaggio, ecco che a un esame più attento si rivela come la conseguenza immanente di un modo di pensare che eleva la categoria della contingenza a metafisica politica e che, in ultima analisi, nella modalità del decostruttivismo non riconosce più alcuna forma sociale, ma solo l'immediatezza della decisione politica.

La “decostruzione del marxismo”: epistemologia e politicismo postmoderno
Il fatto che una sinistra auto-identificata trovi la propria strada partendo da Antonio Gramsci e arrivando a Carl Schmitt, la radica nella teoria postmoderna della conoscenza e della politica che Mouffe aveva già sviluppato negli anni Ottanta. Nell’opera fondamentale “Egemonia e strategia socialista”, scritta insieme a Ernesto Laclau nel 1985, i due attestano la «palese mancanza di una teoria del politico» nel marxismo, [*1] cosa cui intendono porre rimedio facendo riferimento al concetto di egemonia di Gramsci. In un dettagliato excursus, Mouffe e Laclau dimostrano, in parte correttamente, che il marxismo di origine ortodossa si basa su un riduzionismo economico-teorico.Gli ottimisti teleologi del progresso - Kautsky, Plekhanov e i loro simili - si basavano sulla contraddizione esistente tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione e, ricordando la necessità di uno sviluppo storico-materialista, si aspettavano che una rivoluzione sarebbe avvenuta da sé, per così dire, in un determinato momento. Non appena gli antagonismi di classe diventano sufficientemente acuti, ecco che entra subito in azione l'automatismo storico di quella che sarebbe una dialettica materialista positiva, e così la classe operaia segue la propria predestinazione rivoluzionaria. Com'è noto, la falsità del materialismo storico è stata poi dimostrata dal fatto che il proletariato non ha mai adempiuto alla sua presunta missione, ma ha piuttosto affermato le categorie della società borghese, adattandole alle proprie condizioni e lottando per il riconoscimento e la rilevanza del proprio lavoro, anziché formulare una critica della società del lavoro. L'entusiasmo socialdemocratico per la guerra, nel 1914, la repressione della Rivoluzione di novembre da parte di Friedrich Ebert e Gustav Noske tramite i Freikorps di destra, il crescente autoritarismo nell'Unione Sovietica capitalista di Stato e, infine, l'accettazione del fascismo e del nazionalsocialismo da parte di ampi settori della classe operaia, avevano praticamente confutato l'automatismo marxista della rivoluzione.  Tuttavia, non è questo fallimento storico della classe operaia a spingere Laclau e Mouffe a criticare l' economicismo e il riduzionismo di classe, ma soltanto il quietismo politico dell'ortodossia marxista. Essi vedono nella sua mancanza di impegno politico, nella riluttanza ad agire all’interno della forma politica esistente, e nel preferire una fiducia stoica nella “logica della necessità” [*2] quella che sarebbe un'insufficienza di fondo. Pertanto, appare logico che il giudizio di Mouffe e Laclau, sui sostenitori del revisionismo marxista, sia assai più positivo. Infatti, già a cavallo del secolo era stata affermata la necessità di un'azione politica contro l'ortodossia. L'enfasi, posta da Eduard Bernstein, su alcune categorie soggettive e politiche, quali la "volontà" o la "decisione etica" gli avrebbe valso il giudizio benevolo per aver rotto con il determinismo e affermato così la lotta nell'equilibrio politico del potere, e aver reso così visibile, in politica, la possibilità di una "articolazione aperta". È «l’autonomia del politico, l’aspetto veramente nuovo dell’argomentazione di Bernstein.» [*3] Ancora più favorevolmente di Bernstein, accolgono l’ex sindacalista di sinistra ,e in seguito mente del fascismo, Georges Sorel, il quale, come nessun altro all’epoca, dichiarò che la «volontà» immediata e l’altrettanto immediato «atto» erano i punti di fuga della sua teoria politica. Mouffe e Laclau interpretano il suo omaggio alla violenza, alla guerra e al mito unificante come se fosse una valida obiezione volontaria all'affermazione di una totalità sociale. Qui, la “lotta” figura come l’elemento esistenziale fondamentale di ogni identità politica, la quale si costituisce solo attraverso l’adozione di «chiare linee di demarcazione». «Il punto cruciale è - e questo fa di Sorel il pensatore più profondo e originale della Seconda Internazionale - che l'identità stessa degli attori sociali diventa indeterminata, e che ogni sua fissazione "mitica" dipende da una lotta.» [*4] Con Sorel, i soggetti sociali vengono separati dal loro contesto economico, e collocati nella sfera di una politica indeterminata, concepita solo come immediatamente politica. Questa accoglienza schietta di una teoria politica mirata alla decisione e alla lotta, preannuncia già il successivo adattamento, da parte di Mouffe, del decisionismo di Schmitt. E sebbene Mouffe e Laclau accolgano con favore la svolta politica di Bernstein e di Sorel, tuttavia essi criticano il fatto che, malgrado la loro relativizzazione delle determinazioni economiche, in ultima analisi continuano ancora ad aggrapparsi al rapporto di classe, come a una realtà sociale che precede quella politica. Il proletariato continua a funzionare come un “attore ontologicamente privilegiato”. «Questa risposta» al problema del determinismo marxista «nega ovviamente ogni opacità e densità delle relazioni politiche, come se si trattasse di un palcoscenico vuoto, sul quale delle figure costruite al di là di essa – le classi – combattono la loro battaglia». [*5] In realtà, la concezione marxista dello Stato testimonia una falsa neutralità dello Stato in quanto autorità, la quale  può essere perciò plasmata a piacimento dalla classe dominante, secondo i suoi propri interessi; come un mero mezzo di dominio di classe, il quale avrebbe dovuto essere conquistato subito, senza ulteriori indugi da parte del proletariato rivoluzionario, e utilizzato per i propri scopi. Ma non è questa posizione fondamentalmente filo-statale del marxismo a preoccupare Mouffe e Laclau; anzi, addirittura la condividono. Quello che però trovano discutibile in questa “risposta”, è il presupposto del primato delle forme sociali, le quali, nella sfera politica, vengono semplicemente “rappresentate”. Mentre «L'altra risposta», vale a dire la teoria dell'egemonia democratica da loro sviluppata, «sostituisce il principio di rappresentanza con quello di articolazione. L'unità tra questi attori, perciò non è l'espressione di un'essenza comune di fondo, ma il risultato di una costruzione politica e di una lotta politica». [*6] Pertanto, tali “attori” non devono e non possono esistere prima e oltre la politica; secondo Mouffe e Laclau, si formano esclusivamente nel campo della politica, vale a dire nella modalità della lotta per l’egemonia. Riferendosi a Gramsci, intendono tutto questo come se si trattasse di una lotta politica permanente per l'apparato di potere statale e per il predominio nella società civile. In questa “guerra di posizione”, come la chiama Gramsci, non ci sono classi determinate in maniera primaria dal punto di vista economico, ma si tratta piuttosto di “blocchi storici”, costituiti da diversi gruppi sociali, classi e subalterni, nei quali, «tra intellettuali e popolo-nazione, tra capi e guidati» esiste come una “coesione organica”, oltre alla “passione” che crea un legame affettivo comune. [*7] Per Gramsci, la società si dissolve in quelli che sono dei “rapporti di forza” i quali, sebbene plasmati anch’essi dalla situazione storica, possono, in ultima analisi, essere plasmati e trasformati solamente dalla spontaneità e dall’attività politica della “volontà collettiva”; occasionalmente definita anche “volontà collettiva popolar-nazionale”. La sua critica dell’economicismo, dal momento che scarta anche la critica di una totalità autonoma, si trasforma in un politicismo radicale «ed è» – secondo le sue parole – «anche degno di essere sottolineato il fatto che il fatalismo è solo un travestimento di quella che è una volontà attiva e reale, alla maniera dei deboli». [*8] Al falso oggettivismo di un “marxismo scientifico”, che conosceva solo leggi strutturali economiche, si sostituisce così un’altrettanto falsa autonomizzazione della politica, la quale consiste solo nell’equilibrio di potere tra blocchi concorrenti e volontà collettive, che non conoscono più alcuna contestualizzazione sociale. «La volontà collettiva», secondo Mouffe e Laclau, «è il risultato dell’articolazione politico-ideologica di forze storiche sparse e frammentate». [*9] Mouffe e Laclau, non solo riprendono il politicismo di Gramsci, ma lo radicalizzano ulteriormente.

   Mentre Gramsci ricadde sempre, ripetutamente e piuttosto bruscamente, nel pensiero economico-strutturale, i due invece si battono per la completa dissoluzione della società nel politico. Essi presuppongono che l'intera economia debba in realtà essere intesa come uno “spazio politico”. Lo sviluppo delle forze produttive, ad esempio, non è espressione di una costrizione economica allo sfruttamento e all'accumulazione, a cui i singoli capitalisti devono conformarsi nella concorrenza, e quindi razionalizzare la loro produzione; bensì è il risultato di una disciplina politica di lavoratori potenzialmente resistenti. L’intero sviluppo della tecnologia di produzione, come quello del taylorismo, non serve ad aumentare la produzione di plusvalore relativo, ma deve essere inteso come una “tecnologia di dominio”, così come l’intera produzione di merci si riduce a essere un “meccanismo politico” ai fini della contro-insurrezione preventiva. [*10] La società viene pertanto vista da loro come se fosse solo la somma delle lotte politiche tra quei gruppi in competizione per l’egemonia. Nella teoria post-marxista di Mouffe e Laclau, tali gruppi non hanno più una definizione sociale, o più precisamente, nessuna definizione, ma sono caratterizzati proprio dalla loro esistenza contingente. I collettivi politici sono il «risultato contingente di una lotta egemonica»; trovano la loro identità unicamente nella differenza relazionale con altri attori politici. Intendono il sociale come uno «spazio scucito» costituito da dei frammenti non fissati, e quindi «la dispersione stessa diventa il principio di unità»; un’unità, tuttavia, così fluida e così amorfa, così «incompleta e permeata dalla contingenza» al punto che l’affermazione di una sintesi sociale, per quanto fragile, diventa impossibile. [*11] «Il momento della creazione è radicale – creatio ex nihilo». [*12] Questa metafisica decostruttivista della contingenza, può essere illustrata contrapponendo al concetto di mediazione, che Mouffe e Laclau aborrivano,  quello di articolazione. Per loro, per “articolazione” si intende un’espressione (politica) che emana direttamente dal nulla, che non ha significato né contenuto, e rimane frammentata, instabile e contingente. Solo nel ricordare la differenza immediata allora «emerge una terra di nessuno che rende possibile la pratica articolatoria […]». [*13] Il concetto di articolazione funziona pertanto come cifra centrale della decostruzione di ogni mediazione sociale, per la quale non c’è spazio in un costrutto di pura immediatezza. «O l'organizzazione è contingente, e di conseguenza esterna ai frammenti stessi, oppure sia i frammenti che l'organizzazione sono i momenti necessari di una totalità che li trascende. È chiaro che solo il primo tipo di "organizzazione" può essere inteso come un'articolazione, mentre il secondo è, a rigore, una mediazione.» [*14] Secondo Mouffe e Laclau, è proprio questa differenza a segnare la differenza tra il marxismo e la sua “logica della necessità”, rispetto al loro postulato di una “logica della contingenza”. Non a caso sottolineano che la logica marxista dell'identità, secondo la quale l'intera società deriva da un unico principio o contraddizione – vale a dire quello tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione – risale alla dialettica idealistica di Hegel. Come in Hegel i momenti di mediazione contraddittoria si risolvono sempre in un'identità riconciliata, così anche nel materialismo storico - che secondo Engels, in realtà, capovolse solo Hegel - le forze motrici contrastanti della produzione capitalistica di merci culminano nella loro stessa abolizione, nella transizione al socialismo. L’affermazione secondo cui la mediazione dialettica «si occupa di un sistema di transizioni logiche» [*15] si applica anche al marxismo tradizionale, insieme a Hegel. Il fatto che Marx stesso abbia rotto con la dialettica positiva di Hegel, allorché criticò il rapporto di capitale vedendolo come una contraddizione persistente che andava oltre la trasfigurazione storico-materialista, deve essere frainteso a partire da una teoria, il cui rifiuto della logica dell'identità dialettica avviene solo a favore di un'ipostasi di pura contingenza. Non è la piacevole sublimazione nel socialismo, a costituire il punto di fuga della “Critica dell’economia politica”, bensì la crisi in quanto prodotto di una contraddizione sociale che crea le forme precarie entro le quali può muoversi, ma che allo stesso tempo fa sempre esplodere, queste forme, senza trascenderle. Questa dialettica è negativa perché nel suo stesso concetto non prevede l'abolizione pratica di una sintesi fondata sul capitale, ma intende piuttosto il movimento di contraddizione senza un telos positivo, l'illogicità del capitale, come  base catastrofica della socializzazione moderna, che di per sé non conduce ad altro che alla sua crisi fondamentale.

Excursus: La totalità mediata di Stato e Capitale
Il culto della contingenza, che si rifugia nell’irrazionalismo, non cambia la realtà di questa sintesi sociale, che si espande nella totalità, manifestandosi alle spalle dei soggetti e allo stesso tempo attraverso di loro. Totalità in questo senso non significa – ed è l’unico modo in cui Mouffe e Laclau possono concepirla – che ogni azione individuale sia immediatamente determinata o forzata da vincoli oggettivi, ma che la logica di accumulazione del “soggetto automatico” [16] prescrive la forma all’interno della quale gli individui, nonostante tutti gli impulsi individuali e talvolta contingenti, devono assicurare la loro autoconservazione, e che, inoltre, questa forma non rimane loro esterna, ma, in virtù della socializzazione, modella ancora la parte più intima della loro vita istintuale senza comprenderla pienamente. Questa totalità, che esiste solo perché viene riprodotta quotidianamente dagli individui e che tuttavia sfugge al loro controllo immediato in quanto entità autonoma, è stata descritta da Marx come feticismo, come una condizione di dipendenza da una seconda natura in cui i rapporti tra le persone si invertono in quelli tra le cose. Per "trovare un'analogia" per questa metafisica reale del capitale, secondo Marx, «dobbiamo rifugiarci nella nebulosa regione del mondo religioso. Qui, i prodotti della mente umana appaiono come entità indipendenti, dotate di vita propria, in relazione tra loro e con gli altri. Così sono i prodotti della mano umana nel mondo delle merci». Questa indipendenza è solo “apparenza” nella misura in cui nei beni, nel denaro e nella loro elaborazione cumulativa si sedimenta un rapporto sociale, creato in realtà dalle persone. Questa illusione ha tuttavia una validità reale, poiché manifesta la perversione della società in un tutto rivolto contro coloro che la riproducono. La degradazione degli individui ad appendici della loro stessa forma sociale appare con reale validità come la loro sussunzione sotto le merci che producono. «Il mistero delle merci consiste semplicemente nel fatto che esse riflettono agli uomini le caratteristiche sociali del loro lavoro come caratteristiche oggettive dei prodotti del lavoro stessi, come proprietà sociali naturali di queste cose; quindi anche il rapporto sociale dei produttori con il lavoro complessivo come rapporto sociale di oggetti esistenti al di fuori di essi. Attraverso questo quid pro quo, i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili o sociali.» [17] Il fatto che questa società del lavoro abbia il suo rovescio costitutivo nell'intera riproduzione domestica della forza lavoro, sia in termini materiali che psicologici ed emozionali, che il lavoratore salariato doppiamente libero possa vendere solo la sua pelle perché la sua autoconservazione è delegata al sesso femminile, è stato affermato da alcune femministe degli anni Settanta e in seguito da Roswitha Scholz nella loro teoria della separazione contro Marx e il marxismo, senza abbandonare la critica dell'economia politica. [18] Tuttavia, la consapevolezza di questa ambigua totalità sociale è difficilmente presente nel femminismo odierno perché il post-strutturalismo l'ha minata nella contingenza degli atti linguistici performativi. Anche lo Stato e la forma della politica sono momenti di questa totalità. Essi non sono una mera appendice dell'economia, come vorrebbe il marxismo ortodosso, che vede lo Stato come se fosse  semplicemente uno strumento della borghesia per far valere i propri interessi di classe; né tantomeno si collocano al di là dell'economia in quanto sfera autonoma, come hanno invece immaginato gli approcci politicanteschi a partire da Gramsci in poi. Già nella “Ideologia tedesca”, Marx ed Engels presupponevano che le forze centrifughe di una società basata sulla concorrenza richiedessero un’autorità violenta che si distinguesse da questa concorrenza, e costringesse i singoli capitalisti a forme ordinate di scambio. Dal momento che gli interessi particolari non coincidono con l'interesse generale della logica dell'accumulazione, ecco che allora la relazione di capitale diventa, secondo la sua logica, riferito a uno Stato che non coincide con esso. «Questa instaurazione dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro prodotto in un potere materiale su di noi, che cresce andando al di là del nostro controllo […], è uno dei momenti principali dello sviluppo storico fino ad oggi, ed è proprio da questa contraddizione tra interesse particolare e comune che l’interesse comune, come Stato, assume un carattere indipendente, separato dai reali interessi individuali e collettivi.» [*19] Questo riconoscimento dello Stato, visto come «esistenza speciale accanto e al di fuori della società civile» [*20] costituisce il risultato di una mediazione critica la quale non si limita a sussumere l’uno sotto l’altro. Sebbene Marx ed Engels derivino, logicamente, lo Stato dalla relazione di capitale, non è certo un caso che il loro discorso sul «potere oggettivo su di noi», e sull’indipendenza dello Stato, includa un vocabolario che Marx avrebbe poi utilizzato per descrivere il feticismo della merce. È a causa di questa derivazione, tuttavia, che qui lo Stato rimane, nonostante o proprio a causa della sua indipendenza, semplicemente relegato alla sua funzione di «capitalista totale ideale» [*21] . Il fatto che il monopolio della violenza - al di là di questa funzione - non sia solo subordinato allo scopo proprio del capitale, ma abbia anche una ragion di Stato in cui l'accumulazione capitalista, al contrario, funziona come mezzo per uno scopo statale, viene escluso dalla visione di Marx ed Engels, proprio a partire dal primato dell'economia. Questa natura egoistica dello Stato, diventa particolarmente chiara nel momento in cui ci si allontana da una prospettiva puramente logica, e si considera la genesi storica dello Stato e del Capitale. Mentre Marx, nel suo capitolo sulla “cosiddetta accumulazione primitiva”, affrontava gli inizi della produzione mediata dal mercato, e le violente trasformazioni dei rapporti di proprietà a essa associate, lo Stato, con la sua “legislazione del sangue”, le sue case di lavoro, la sua persecuzione dei vagabondi, dei mendicanti e di tutti coloro che non volevano lavorare, appare come se fosse solo e semplicemente una garanzia per l’ordine emergente del capitale. [*22] E tuttavia, il modo di produzione capitalistico va inteso come il prodotto di una concorrenza costitutiva tra Stati. I primi stati territoriali - emersi dalla disintegrazione delle strutture feudali del tardo Medioevo - distrussero, in un processo durato secoli, il complesso sistema di relazioni di potere e di autorità sfalsate e sovrapposte orizzontalmente e verticalmente, e lo fecero a favore di un unico monopolio della violenza. In questo processo, sia i patrimoni secolari che quelli ecclesiastici vennero consolidati e incorporati nello Stato territoriale, il quale mirava all'unità. In un tale sistema, i poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo dovevano essere conferiti unicamente a un principe sovrano; mentre in precedenza erano stati tutti conferiti ad autorità eterogenee, che arrivavano fino alle strutture feudali più basse, ad esempio sotto forma di giurisdizione patrimoniale. «Per sovranità» - come affermò Jean Bodin nella sua fondamentale opera sullo Stato del 1576 - «bisogna intendere il potere assoluto, e temporalmente illimitato, proprio dello Stato». [*23] Questo costituirsi della sovranità statale, internamente, corrispondeva all'impegno esterno di assicurare e, se necessario, espandere il territorio a spese degli Stati vicini. Costituire, difendere ed estendere territorialmente il potere sovrano in guerra, era il fine in sé dello Stato, che a partire da Niccolò Machiavelli è stato descritto con il termine di “ragion di Stato”. Mentre nel Medioevo cristiano l'azione monarchica si basava ancora su dei precetti religiosi, ai quali anche il principe doveva attenersi, la costituzione degli Stati territoriali garantiva una certa secolarizzazione della moralità delle autorità. «Bisogna», diceva Machiavelli, «capire che un governante, e in particolare uno di un impero di recente costituzione, non può tenere conto di tutto ciò che può portare buona reputazione al popolo, ma è spesso costretto a violare la lealtà, la pietà, l’umanità e la religione proprio per mantenere il potere». [*24] La nuova idea politica della ragion di Stato, venne intesa come un «imperativo incondizionato di autoconservazione dello Stato», [*25] e come predominio del benessere dello Stato su tutti gli altri interessi. [*26]
Furono questi primi proto-stati europei moderni che, nel perseguire la loro ragion di stato, si ritrovarono in uno stato di guerra quasi permanente tra loro, e svilupparono pertanto un bisogno di materiale bellico fino a quel momento sconosciuto. A partire dal XIV/XV secolo, e poi nel XVII secolo, si scontrarono sempre più spesso quelli che erano gli eserciti cavallereschi medievali, che potevano essere ancora tuttavia costituiti da strutture feudali sotto forma di feudi; ma anche eserciti mercenari molto più grandi, i quali poi furono sostituiti, solo alla fine del XVII e XVIII, secolo da eserciti permanenti non meno costosi. Lo sviluppo del potere distruttivo provocato dalla guerra, sotto forma di armi da fuoco  - e, di conseguenza, di imponenti fortificazioni e sistemi di difesa - non poteva essere finanziato solo dalle tradizionali imposte feudali, così come non potevano esserlo i nuovi eserciti. La monetizzazione, la standardizzazione e l'inasprimento del regime fiscale - nella forma dei primi sistemi fiscali moderni - aveva lo scopo di soddisfare le necessità materiali di questa fame di guerra. Tuttavia, non era solo il finanziamento della guerra a costituire un problema diffuso per gli Stati, ma lo era anche la costosa produzione dei mezzi di violenza. La produzione di cannoni, la costruzione di fortezze e l'armamento marittimo non potevano essere ottenuti al livello di sviluppo della forza produttiva del tardo Medioevo; motivo per cui l'economia di guerra diretta dallo Stato si espanse in modo significativo. Sia l'aumento dell'onere fiscale monetario, sia l'aumento della produttività imposto dallo Stato, contribuirono all'erosione delle economie di sussistenza feudali, e all'emergere delle prime forme capitalistiche di produzione e distribuzione. All'inizio dell'era moderna, questa prima produzione capitalista, non solo era diretta dallo Stato in ambiti importanti, ma serviva anche e soprattutto all'imperativo della ragion di Stato. Lo Stato aveva il primato sull'economia a esso subordinata. La situazione cambiò quando - a partire dal XVIII secolo - la produzione capitalista raggiunse proporzioni tali da cominciare a condurre una vita propria, al di là di qual era il suo scopo originario. «Il sistema di "economia politica" di un apparato militare e bellico distaccato dalla società, e gestito esclusivamente attraverso il lavoro astratto, si è reso indipendente dal suo scopo originario. La sete di denaro dei primi dispotismi militari moderni, ha dato origine al principio di "valorizzazione del valore", il quale, dall'inizio del XIX secolo, ha poi operato come capitalismo. Il rigido guscio del dirigismo statale-militare, è stato infranto solo per consentire alla macchina monetaria, ormai indipendente, di continuare a funzionare in quanto puro fine in sé stesso di un'economia "staccata" da ogni e qualsiasi legame sociale e culturale, e per dare libero sfogo alla concorrenza anonima.» [*27] Di conseguenza, si è verificato uno spostamento nel rapporto tra Stato e capitale, dove lo Stato ha assunto il ruolo subordinato di “capitalista totale ideale”. Il fatto che la natura egoistica dello Stato, oggi condizionata, non sia stata affatto abolita in modo così semplice, appare evidente, internamente, nella sua politica di sicurezza, che non è solo funzionale al capitale, ma anche rispetto all'irrazionalità delle guerre condotte fino ai giorni nostri; che raramente possono essere ridotte solo a calcoli di interessi economici nazionali. Naturalmente, la politica non è mai stata soltanto una sfera di esecuzione della ragion di Stato e dei vincoli di sfruttamento; ciò soprattutto perché - sia nel contesto delle democrazie di massa che in quello degli Stati autoritari - ci sono forme di ideologia che trovano la loro espressione in politica, e talvolta plasmano in modo significativo l'azione dello Stato. Il discorso sulla sovranità popolare contiene quindi una parte di verità, nella misura in cui le forme ideologiche di elaborazione della negatività sociale ,da parte della popolazione, trovano certamente spazio nell'apparato statale. Sebbene non sia possibile dedurre come queste si esprimano nelle specifiche condizioni storiche - soprattutto in tempi di crisi - esse non sono affatto del tutto contingenti, nel senso di un libero arbitrio slegato dal contesto sociale. Il soggetto borghese non entra nell'arena politica come se fosse quel soggetto autonomo e autodeterminato che crede di essere, ma vi entra come qualcuno che è dominato dalla sua seconda natura, e che è quindi costretto a reprimere la prima, di natura. Compensa l'impotenza che ne deriva, facendolo attraverso la modalità di una rivolta conformista, che proietta il suo disagio nei confronti della natura egoistica della società e delle sue contraddizioni su coloro che il popolo sovrano contrassegna come suoi avversari. «La rabbia è rivolta a chi si distingue senza protezione.» [*28] Ciò che, di conseguenza, si manifesta come ideologia, nello Stato e nella politica - e nel caso estremo del nazionalsocialismo stesso si solidifica in ragion di Stato - è esso stesso, in quanto cattivo modo di affrontare le contraddizioni, un momento della totalità, che poi attacca e difende simultaneamente nei nemici del popolo.

Antagonismo e definizione - populista di sinistra - di nemico
Tutto ciò che qui è stato solo brevemente delineato, appartiene a una totalità mediata di Stato e capitale, a partire dalla quale Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau astraggono secondo quella che è la loro post-strutturalista avversione alla mediazione. Il loro a priori epistemologico - che rifiuta la mediazione intellettuale e concettuale in quanto presunto pensiero identitario - si traduce nella negazione della mediazione oggettiva; vale a dire, nella negazione della vera sintesi sociale, che, nella forma dell'autonomia feticistica, fornisce il quadro dell'azione sociale, senza però determinarla. Per Mouffe e Laclau, la politica si sgretola in quella che è una somma di pratiche prive di contesto e di determinazione, definite solo dalla loro differenza assoluta, dal loro status di aggregati non mediati di contingenza. Queste monadi svuotate, entrerebbero in una relazione tra loro sotto forma di “antagonismo”, laddove il concetto di antagonismo funziona qui come cifra di una differenza senza mediazione. È un «testimone dell’impossibilità di una ricucitura finale», una «impossibilità del reale». [*29] Di conseguenza, questo antagonismo non può essere definito in termini di contenuto; le forze antagoniste sono caratterizzate unicamente dalla loro immediatezza, e dalla mancanza di mediazione. Nel loro confrontarsi, questi attori amorfi formano ciò che nel senso di Mouffe e Laclau è il politico. Egemonia significa: lotta tra articolazioni antagoniste. Chi stia combattendo, per che cosa, e per quali ragioni rimane assolutamente poco chiaro. Oltre alla contingenza, le uniche determinazioni di questo misticismo politico sono la “divisione” e la “separazione”, caratterizzate proprio dalla loro indeterminatezza. [*30] Questa enfasi sull'antagonismo - sviluppata per la prima volta da Mouffe e Laclau nel 1985, a partire  dall'autonomizzazione della politica e dei suoi attori, operata da Gramsci, e abolendo, grazie al determinismo, ogni condizione sociale - trova ora il suo coerente proseguimento nelle opere successive di Mouffe. In particolare, va citato il suo saggio del 2005 “Sul politico”, in cui mantiene sostanzialmente il suo concetto di egemonia, ma lo chiarisce sulla base della teoria politica di Carl Schmitt e sviluppa le implicazioni esposte nel 1985. Il punto di partenza del suo libro è l'osservazione che, dopo il crollo del socialismo reale e la conseguente mancanza di prospettive, la sinistra ha subìto una svolta neoliberista, e si è pienamente integrata in quella che chiama "democrazia consensuale". Ciò indica innanzitutto un'evoluzione reale, a partire dal fatto che il partito laburista britannico, i socialdemocratici tedeschi, la sinistra europea in generale e i partiti verdi hanno tutti aderito ai dogmi neoliberisti della deregolamentazione, della privatizzazione e dello smantellamento delle istituzioni dello stato sociale; partecipando in tal modo alla gestione della crisi politica. Tuttavia, secondo Mouffe, la politica neoliberista non affonda le sue radici in una crisi sociale degli anni Settanta – deindustrializzazione, elevata disoccupazione vista come risultato del crollo assoluto del saggio di profitto dovuto alla terza rivoluzione micro-industriale – ,dal momento che, in ogni caso, lei non riconosce alcuna determinazione sociale della politica, ma unicamente in una falsa comprensione della politica. Dopo la “fine della storia”, l’establishment politico - compresa la sua fazione di sinistra - si convinse che la politica potesse essere praticata solo in quanto processo razionale e tecnocratico di ricerca di soluzioni, che potesse procedere armoniosamente nella modalità della discussione, e al di là delle lotte egemoniche. Mouffe, descrive questa concezione della politica come una «visione antipolitica che rifiuta di riconoscere la dimensione antagonista costitutiva del ‘politico’». Insiste sulla necessità di una “distinzione noi-loro” e considera “reciprocità e ostilità” come “fatti inseparabili” facenti parte della politica. [*31] Mouffe non si concentra, in primo luogo, sulle differenze sostanziali che dovrebbero continuare a essere combattute in politica, ma rivendica piuttosto una differenza pre-sostanziale esistente di per sé.Questo perché non localizza l'antagonismo nella politica, che viene attribuita come “ontica”, ma nella sfera del politico, che viene esplicitamente descritta come “ontologica”. [*32] Dal momento che la democrazia consensuale neoliberista nega a priori questa ontologia dell’antagonismo, Mouffe fa ricorso alla teoria politica del pensatore che, a suo avviso, con la sua “critica provocatoria”, avrebbe attaccato più opportunamente il liberalismo  Nel suo attacco al linguaggio liberale, all'innocuo dibattito sui contenuti politici, attribuisce alla politica il ruolo di «sfera di decisione, e non di libera discussione», seguendo così Carl Schmitt. Ciò che Mouffe scrisse nel 1922, nella sua "Teologia politica", avrebbe potuto benissimo essere scritto dalla penna di Schmitt: «Oggi, non c'è nulla di più moderno della lotta contro la politica. Finanzieri americani, tecnici industriali, socialisti marxisti e rivoluzionari anarcosindacalisti sono tutti uniti nella richiesta che venga eliminato il dominio non oggettivo della politica sull'oggettività della vita economica. Dovrebbero esserci solo compiti tecnico-organizzativi ed economico-sociologici, ma non ci dovrebbero più esserci problemi politici. La forma prevalente di pensiero tecnico-economico non è più in grado di percepire un'idea politica. Lo Stato moderno sembra davvero essere diventato ciò che Max Weber vedeva in esso: una grande impresa». Riferendosi al contro-illuminismo politico del XIX secolo, Schmitt - nello spirito di Mouffe - porta avanti una riflessione sul divisivo, sulla decisione tanto contingente quanto ontologica, sulla «riduzione dello Stato a una decisione pura, non ragionante e non dibattimentale, non giustificante e quindi assoluta, creata dal nulla». [*33] Secondo Schmitt, la prima decisione che costituisce la politica, è quella tra amico e nemico; e che Mouffe affronta. Schmitt, più di chiunque altro comprese che in politica si devono sempre creare delle “identità collettive”, costituite ex negativo attraverso la “ostilità” antagonistica contro altre collettività. Un "noi", una "volontà collettiva", può «essere raggiunta solo identificando un "loro", un avversario che deve essere sconfitto per rendere possibile la nuova egemonia». [*34] Mouffe si riferisce qui essenzialmente al testo “Il concetto del politico”, del 1932, nel quale Schmitt colloca "l’essenza del politico" nell’antagonismo. «La distinzione specificamente politica, a cui si possono far risalire azioni e motivazioni politiche, è la distinzione tra amico e nemico.»[*35] Con questa definizione, Mouffe elogia il relazionale: l’identità è sempre riferita a qualcosa di esterno e di estraneo ad essa, e in ciò vede – non senza ragione – un parallelo con il post-strutturalismo, rivelando così anche la comunanza del suo pensiero con quello di Schmitt. Lei lo considera l'antenato del suo pensiero postmoderno sulla differenza, e un teorico della contingenza politica. [*36] Per Schmitt la definizione di amico e di nemico è, fino al 1933, quanto meno superficialmente contingente: il nemico non si definisce nelle categorie del morale, dell’estetico o dell’economico, né nelle griglie del bene e del male, del bello e del brutto, dell’utile e del dannoso. Schmitt si preoccupa piuttosto di una distinzione ontologica e contingente, poiché potenzialmente essa può essere riempita con qualsiasi contenuto; con una differenza senza mediazione. Il nemico è «in un senso particolarmente intenso, esistenzialmente qualcosa di diverso ed estraneo», esso segna «la negazione del suo modo di esistenza» e pertanto dev'essere combattuto «per preservare il proprio, essenziale tipo di vita». [*37] Detto nei termini di Mouffe, ciò significherebbe che non c’è alcuna “cucitura” possibile tra le “forze antagoniste”: esse si trovano tutte ugualmente nella vuota “terra di nessuno” della “articolazione” politicamente immediata dove ottengono la loro “identità”, “relazionalmente”, attraverso la “separazione” e la “divisione”. Mouffe si sforza ripetutamente di dipingere Schmitt quasi come un pioniere della politica democratica, il cui «riferimento enfatico alla possibilità sempre presente di distinguere tra amico e nemico, oltre che alla natura conflittuale della politica, costituisce il punto di partenza necessario per raggiungere gli obiettivi della politica democratica». [*38] Tuttavia, Mouffe evita le conseguenze del decisionismo di Schmitt, che rimangono deliberatamente non citate. Per il democratico Schmitt, uccidere rimane il mezzo ultimo per determinare il nemico: «I concetti di amico, nemico e lotta ricevono il loro vero significato a partire dal fatto che si riferiscono - e si riferiscono in modo particolare - alla possibilità reale dell’uccisione fisica». [*39] Per questo, Mouffe non vuole arrivare fino a Schmitt, dopo aver già postulato l'antagonismo come entità ontologica, e cerca tuttavia di contenerlo. Il “compito principale della democrazia” è quindi quello di sublimare l’antagonismo in “agonismo”. Se i nemici nell’antagonismo non avessero un terreno comune, la legittimità degli oppositori – come vengono oggi chiamati i nemici – verrebbe riconosciuta in uno “spazio simbolico comune”, costituito da dei principi etici e dall’impegno verso il sistema parlamentare. [*40] Ma poiché Mouffe si affida all’impossibilità assoluta della mediazione, e solo attraverso questa può giungere all’antagonismo di Schmitt, ecco che il suo tentativo di mediazione si impiglia in contraddizioni senza speranza. Riguardo alla trasformazione dell'antagonismo in agonismo, scrive: «Si tratta di una lotta tra progetti egemonici inconciliabili, i quali non possono mai essere razionalmente conciliati [!]. La dimensione antagonista è sempre presente [!]; si tratta di uno scontro reale, seppur regolato da un insieme di procedure democratiche accettate dai rispettivi avversari.» Ciò che per definizione è indomabile, dovrebbe essere domato, ciò che non può essere mediato dovrebbe essere mediato e gli antagonisti irrazionali e ontologici dovrebbero accettare improvvisamente una base comune di comprensione basata sull'intuizione razionale. Mouffe si limita a relativizzare la propria definizione di amico-nemico, e allo stesso tempo si aggrappa alla sua inconciliabile assolutezza. Ma poiché basa l'intera teoria sociale sull'assenza di coerenza, difficilmente può lasciarsi influenzare da tali riferimenti a contraddizioni argomentative.

   A metà strada tra antagonismo e agonismo, la politica deve perciò riflettere sull'ontologia del politico, e generare identità vere e proprie ex negativo, definendo nemici o oppositori. Tuttavia, poiché queste identità collettive non possono riferirsi primariamente a un contenuto comune che spazia dagli interessi sociali alle ideologie reazionarie – dopotutto sono emerse solo a partire dall’articolazione diretta nella sfera politica stessa, senza alcun a priori sociale – necessitano allora, a maggior ragione, di un legame affettivo. Mouffe - che rifiuta non solo il razionalismo del liberalismo ma anche il suo individualismo - immagina l'uomo vedendolo in un rovesciamento fascista di questi paradigmi liberali; come un animale da branco che deve essere innanzitutto attirato nel proprio campo politico, non con argomenti ma con un'influenza affettiva. «Una volta che [...] accettiamo di essere suscettibili all'attrazione della "folla", vista come parte intrinseca di noi, dobbiamo allora affrontare la politica democratica in maniera diversa: dobbiamo chiederci in che modo questo istinto possa essere mobilitato, senza che minacci le istituzioni democratiche.» [*41] L'ultima frase non fa altro che sottolineare, ancora una volta, quanto Mouffe sia consapevole della propria vicinanza alle idee di agitazione fascista. Nel fare ciò, non si vergogna di sostenere il suo psicologismo di massa-umano facendo ricorso a "Psicologia di massa e analisi dell'Io" di Sigmund Freud, che secondo lei avrebbe spiegato plausibilmente l'importanza della passione e della libido ai fini della costituzione di una massa. L'obiettivo del potere che crea una massa, come riassume Freud, è «stabilire una forte identificazione tra i membri della comunità, legarli in un'identità comune. Un'identità collettiva, un "noi", è il risultato di una carica libidica, che include necessariamente la determinazione di un "loro"». [*42] Ma Mouffe, nell'adottare questo obiettivo, ignora deliberatamente il fatto che, secondo Freud, un individuo può fondersi nel collettivo solo arrendendo il suo super-io in favore di un «ideale di massa incarnato nel leader» [*43] . Freud non era un teorico delle masse, come favorevolmente ritiene Mouffle, bensì era proprio un critico di quella regressione, e dei suoi sostenitori. Il nuovo populismo di sinistra, proclamato da Mouffe, deve - nello spirito della psicologia di massa affermativa - abbandonare le assurdità liberali, e fare appello agli istinti di gregge della gente. Per questo motivo, è profondamente invidiosa dell'estremista di destra austriaco dell'FPÖ, Jörg Haider, al quale gli austriaci si sono uniti, non per la sua ideologia ma per la sua concezione politica antagonista. «Vorrei piuttosto sottolineare che - contrariamente a quanto si crede - non è stato certo l'appello alla presunta [!] nostalgia nazista a essere responsabile della drammatica ascesa dell'FPÖ, quanto piuttosto la capacità di Haider di creare un potente polo di identificazione collettiva nel contesto dell'opposizione tra "il popolo" e le "élite del consenso".» [*44] Che ci sia un'identità tra l'uno e l'altro, che la nostalgia nazista consista proprio nella costruzione manichea di un antagonismo tra il popolo e l'élite traditrice, e che questo rappresenti sempre sia il pensiero nazionalista sia l'agitazione delle esigenze regressive della massa, è qualcosa che la populista Mouffe ha bisogno di negare dal momento che vuole traghettare Haider alla sinistra. Nel suo testo “Per un populismo di sinistra”, invita a rivolgersi agli elettori di destra, assumendo le loro legittime preoccupazioni e richieste, ma anche a fornire loro un «vocabolario alternativo in modo da poter ripensare queste richieste in termini di obiettivi egualitari». Mouffe ammette prontamente che la “leadership carismatica” potrebbe essere vantaggiosa tanto per la sinistra populista quanto per la destra. «Non c'è motivo di equiparare una leadership forte all'autoritarismo. […] Tutto dipende dal tipo di relazione che si instaura tra il leader e il popolo.» [*45] Finché il popolo applaude, e finché le masse si identificano con il leader, allora per la Mouffe non si può parlare di autoritarismo. Haider non ha mai sostenuto il contrario, dal momento che il fascismo prospera sulla denuncia di un'élite inautentica e dei suoi presunti sostenitori, nonché sul desiderio di sostituirla con un'autorità autentica, attraverso - per dirla con Schmitt - «un'incondizionata uguaglianza di specie tra capo e seguaci». [46] Continuando a cercare di astrarre dalla totalità sociale e dall'ideologia, e definendo gli antagonismi politici come delle articolazioni contingenti, la teoria di Mouffe non fornisce un giudizio plausibile e sostanziale per quello che è il suo populismo di sinistra. Sarebbe altrettanto facile sostenere una posizione di destra sulla base della sua teoria. Mouffe e Laclau spiegano il loro impegno nella politica di sinistra, come il risultato del loro sviluppo individuale casuale: «Per noi, la validità di questo punto di partenza si basa semplicemente sul fatto che costituisce il nostro passato». [*47] Tuttavia, la loro posizione politica non è così tanto arbitraria come credono Mouffe e Laclau. Infatti la definizione contingente del nemico, visto come forma di politica, rimanda, nonostante tutte le affermazioni contrarie, al contenuto di questa definizione formale. Il decisionismo astratto, che non attribuisce alcuna importanza al contenuto della decisione, porta, per sua stessa logica, alla sostanzializzazione di amico e nemico; cosa che si può osservare tanto in Schmitt quanto nella stessa Mouffe. Mentre nel 1932 Schmitt aveva già definito il politico come una “decisione a favore della risolutezza - non importa per che cosa”[*48], ovvero come forma priva di contenuto, già a partire dal 1933 si impegna nel tentativo di fissare il contenuto del rapporto amico-nemico. Nel senso di un «pensiero concreto e sostanziale del movimento nazionalsocialista», egli rifiuta l’arbitrarietà della decisione, facendolo a favore di una distinzione tra «compagni e stranieri». [*49] Ora è la “uguaglianza di specie” che fissa i partecipanti del collettivo, al di qua della linea antagonista, mentre al di là di essa viene già indicata l’identità del nemico. In contrasto con lo Stato del movimento, lo Stato liberale ci appare «solamente come un occultamento e un camuffamento di forze e poteri non statali - ma per niente apolitici, anzi sovra-statali, spesso persino sovversivi - che possono svolgere in segreto, in modo anonimo, invisibile e irresponsabile il loro ruolo di entità politicamente decisive sotto la protezione delle libertà liberali ». [*50] Quali forze si intendano qui è ovvio, e lo fu anche allora quando Schmitt scrisse poco dopo a proposito della ”infezione ebraica”, allorché pensò di vedere nel singolare collettivo dell’ebreo il «nemico mortale di ogni genuina produttività in ogni altro popolo», e da allora non perse mai occasione per dichiarare l’antagonismo tra tedeschi e gli ebrei come la causa primaria della politica. [*51]

   Chantal Mouffe - che non dice una parola sull'antisemitismo di Schmitt - non si spinge certo fino alla sua fonte di ispirazione. Ma dopo che nella sua fase iniziale aveva rifiutato qualsiasi definizione di antagonismo, anche lei ora occupa i poli dell'antagonismo facendo riferimento ad attori concretamente nominati. Da questa parte della “prima linea politica”, c’è il “popolo” attribuito positivamente, e dall’altra parte c’è la “oligarchia” di quello che è un piccolo gruppo di governanti cospiratori. [*52] E questo sviluppo non può sorprendere. Infatti, l'idea politica dell'antagonismo, che dissolve la totalità sociale nel calcolo dell'egemonia di quelli che sono gruppi concorrenti e ostili tra loro, contiene già in sé il manicheismo e la personificazione del dominio senza soggetto. Chantal Mouffe, dimostra involontariamente che la forma politica dell'antagonismo è indissolubilmente legata al suo contenuto politico-ideologico, e che un adattamento della teoria politica di Schmitt, non è possibile senza subirne simultaneamente le conseguenze nazionaliste. Che non esista una società, ma solo degli antagonisti politici, è già un'espressione della forma di pensiero di una falsa immediatezza, che non può assumere altro che un contenuto ideologico. Sebbene Mouffe non abbia fatto affermazioni antisemite nelle sue opere precedenti, la sua rivendicazione del popolo, il suo appello alla mobilitazione affettiva delle masse, la sua immediata determinazione antagonista del nemico sono tutte cose già al servizio dello schema di pensiero dell'antisemitismo. La riduzione, che Gramsci fa della società, vista come lotta per l'egemonia, e la pessima abolizione dell'economismo marxista tradizionale a favore di un politicismo senza mediazioni, così come la sua “filosofia della prassi”, oggi lo rendono attraente, non solo per la sinistra in generale, che cerca di compensare la propria reale impotenza attraverso l'allucinazione di lotte sovversive, ma anche per la decostruttivista Chantal Mouffe, che giustamente lo adatta alla sua divulgazione post-strutturalista della società tramite articolazioni contingenti di soggetti politici.  Benché lo stesso Gramsci non avesse compiuto appieno la dissoluzione della totalità nella politica, ma fosse invece partito - per quanto in maniera erronea - da strutture sociali antecedenti, la sua teoria mirava, in ultima analisi, alla diffusione di queste ultime nell'equilibrio di potere dei soggetti politici. Mouffe trae le conseguenze di questo modo di pensare, dichiarando che la sintesi sociale è una finzione, e intendendo il sociale solo come un'emanazione incondizionata di articolazioni politiche, alla stregua di una “creatio ex nihilo”, come una “terra di nessuno” senza “cuciture”. E poiché queste articolazioni si coagulano in antagonismi privi di mediazione sotto il segno dell'ipostasi postmoderna della differenza, è facile che si leghi al decisionismo di Carl Schmitt e alla sua definizione di amico-nemico. Come il suo antenato decostruttivista, anche Mouffe passa dalla contingenza radicale alla sostanzializzazione dell'antagonismo, all'ossessione, rivolta a sinistra, per il popolo e per i suoi nemici. La mediazione - che, sul piano reale, smentisce l'immediatezza dell'antagonismo, e su quello intellettuale impedisce alle masse di mobilitarsi affettivamente contro i nemici designati - ha una reputazione altrettanto negativa tanto presso Chantal Mouffe quanto presso Carl Schmitt. La loro comune avversione alla mediazione, è il segno di un modo di pensare che risponde all'esigenza regressiva di individuare finalmente il male di una società opaca nel nemico del popolo e di condannarlo all'innocenza.

- Patrice Schlauch - 7 dicembre 2023 - Pubblicato su fractura - Gruppe für kategoriale Kritik


NOTE:

[1] Così Michael Hintz e Gerd Vorwallner nella loro prefazione all'edizione tedesca, in: Laclau, Ernesto; Mouffe, Chantal: Egemonia e democrazia radicale. Sulla decostruzione del marxismo, Vienna 1991, p. 11.
[2] Ivi, p. 46.
[3] Ivi, pp. 73 e 69.
[4] Ivi, p. 79 segg. e 83.
[5] Ivi, p. 108.
[6] Ivi.
[7] Gramsci, Antonio: Quaderni del carcere, Volume 6: Filosofia della prassi, Amburgo 1996, p. 1490.
[8] Ivi, p. 1387.
[9] Laclau/Mouffe (1991), p. 111.
[10] Ivi, pp. 125-127.
[11] Ivi, pp. 114, 182, 155, 161ss.
[12] Ernesto Laclau, citato in Laclau/Mouffe (1991), p. 18 seg.
[13] Ivi, p. 162.
[14] Ivi, p. 141.
[15] Ivi, p. 143.
[16] Marx, Karl: Il Capitale. Critica dell'economia politica. Primo volume (Opere di Marx-Engels, Volume 23), Berlino 2008, p. 169.
[17] Ivi, pp. 86ss.
[18] Vedi Scholz, Roswitha: Il genere del capitalismo. Teorie femministe e metamorfosi postmoderna del capitale, Bad Honnef 2011.
[19] Marx, Karl; Engels, Friedrich: L'ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti, Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (Opere di Marx-Engels, Volume 3), Berlino 1962, p. 33.
[20] Ivi, p. 62.
[21] Engels, Friedrich: Lo sviluppo del socialismo dall'utopia alla scienza, in: Marx-Engels-Werke, Volume 19, Berlino 1962, pp. 177-228, qui p. 222.
[22] Marx (2008), pp. 741, 761.
[23] Citato in Münkler, Herfried: In nome dello Stato. La giustificazione della ragion di Stato nell’età moderna, Francoforte a. M. 1987, pag. 167.
[24] Citato in Münkler (1987), p. 49.
[25] Ivi.
[26] Sul rapporto tra totalità capitalista e ragion di stato come forma feticistica egoistica dello Stato nel primo periodo moderno, vedi Späth, Daniel: Querfront allerorten! o La “nuova destra”, la “nuova sinistra” e la fine della trascendenza socialmente critica. Parte 1: L’emergere della “nuova destra”. La crisi dell'Unione Europea e la svolta immanente del postmodernismo, in: Exit! Crisi e critica della società delle merci, numero 14, Angermünde 2017, pp. 95-212, qui pp. 101-107.
[27] Kurz, Robert: Il botto della modernità. Innovazione attraverso le armi da fuoco, espansione attraverso la guerra: uno sguardo alla preistoria del lavoro astratto, in: ibid.: Crisi mondiale e ignoranza. Capitalismo in declino, Berlino 2013, pp. 88-108, qui p. 106.
[28] Adorno, Theodor W.; Horkheimer, Max: Dialettica dell'illuminismo. Frammenti filosofici, Francoforte a. M. 2012, pag. 180.
[29] Laclau/Mouffe (1991), pp. 181 e 185.
[30] Ivi, p. 261.
[31] Mouffe, Chantal: Sulla politica. Contro l'illusione cosmopolita, Francoforte a. M. 2020, pag. 8 seg.
[32] Ivi, pp. 15ss.
[33] Schmitt, Carl: Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, Berlino 2015(a), pp. 68f.
[34] Mouffe (2020), p. 71.
[35] Schmitt, Carl: Il concetto del politico, Berlino 2015(b), pp. 19 e 25.
[36] Mouffe (2020), p. 23.
[37] Schmitt (2015b), p. 26.
[38] Mouffe (2020), p. 21.
[39] Schmitt (2015b), p. 31.
[40] Mouffe (2020), pp. 29ss.
[41] Ivi, p. 34.
[42] Ivi, p. 37.
[43] Freud, Sigmund: Psicologia delle masse e analisi dell'Io, in: ibid.: Edizione di studio, Volume 9, pp. 61-134, qui p. 120.
[44] Mouffe (2020), p. 89.
[45] Mouffe, Chantal: Per un populismo di sinistra, Francoforte a. M. 2018, pp. 33 e 83.
[46] Schmitt, Carl: Stato, movimento, popolo. La tripartizione dell'unità politica, Amburgo 1933, p. 42.
[47] Citato in Mattutat, Liza; Breunig, Felix: Involontariamente con Schmitt. La ricezione di Carl Schmitt nella teoria democratica di Chantal Mouffe, in: Hetzel, Andreas (a cura di): Radical Democracy. Sulla comprensione dello Stato di Chantal Mouffe e Ernesto Laclau, Baden-Baden 2017, pp. 65-84, qui p. 77.
[48] ​​Löwith, Karl: Il decisionismo occasionale di C. Schmitt, in: ibid.: Scritti completi, Volume 8, Heidelberg 1984, pp. 32-71, qui p. 44.
[49] Schmitt (1933), pp. 42 e 5ss.
[50] Ivi, p. 28.
[51] Schmitt, Carl: Gli ebrei nella scienza giuridica, Berlino 1935, pp. 16 e 34.
[52] Mouffe (2018), p. 16.