martedì 26 agosto 2025

Nessuna Lacrima per la Nazione !!

La Fine dell'Economia Nazionale
- di Robert Kurz -

Che, alla fine del ventesimo secolo, il cosiddetto capitalismo speculativo della simulazione si trovasse nel bel mezzo di un rapido processo di decomposizione e di dissoluzione categorica, era già chiaro sotto molti aspetti. Non solo  il contesto sociale si era dissolto in un'atomizzazione  mai vista prima, e non solo c’erano intere parti del mondo che stavano già sperimentando un collasso della civiltà per mezzo di grandi crolli economici; ma stava vacillando anche la nazione borghese, categoria essenziale della socializzazione capitalistica. Se la nazione era stata inventata solo nel corso della storia della modernizzazione capitalistica, ecco che ora, alla fine di questa storia, essa esplodeva anche al proprio interno: e anche sotto questo aspetto, l'economia fuori controllo del capitalismo in crisi, faceva saltare in aria la "bella macchina", e distruggeva il suo stesso sistema di riferimento. È chiaro che, naturalmente, non c'è alcun bisogno di versare lacrime per la nazione. Fin dall'inizio, essa è sempre stata un costrutto macchiatosi del sangue della competizione capitalistica, della repressione sociale, e dell'esclusione in tutti i sensi. Questa forma distorta di un falso "noi", è sempre servita a disorientare e ad addomesticare i movimenti sociali, al fine di legare a essa le vittime della "bella macchina", per mezzo di una lealtà irrazionale. Tuttavia, il ritrarsi dello Stato, vale a dire, il decomporsi della nazione in un cieco "processo naturale" di capitalismo in crisi, non porta alla libertà sociale, ma piuttosto agli orrori della desocializzazione. Al posto del distruttivo "noi" nazionale, non emerge alcuna nuova forma sociale, ma quel che vediamo è solo il regime di terrore economico dell'economia imprenditoriale e delle sue conseguenze. La nazione non scompare, così semplicemente; se non altro perché non esiste nessuna struttura più sviluppata che ne prenda il posto. Nella sua assenza di struttura, la società si mostra selvaggia. La nazione non viene superata positivamente, grazie a una coscienza sociale della società mondiale, la quale in gran misura esplode a fronte a di enormi shock che avvengono a tutti i livelli sociali, come se si trattasse della rottura di una diga, di una grande frana o di un terremoto. Pertanto, la cosiddetta "globalizzazione" - una parola chiave degli anni '90 - descrive effettivamente quello che è un processo reale, a livello del suo manifestarsi. Si tratta, tuttavia, di un concetto falso nel momento in cui si vuole designare, con essa, un mero cambiamento strutturale del capitalismo "eterno"; quando invece, in realtà, la crisi categorica della nazione distrugge la struttura della modernizzazione. Dato che il capitalismo non può vivere senza che ci sia quella coerenza nazionale - che ora invece sta venendo dissolta dalla "mano invisibile" - ecco che le diverse spiegazioni ingenue dei [suoi] sostenitori non possono fare altro che riconoscere quello che sarebbe un nuovo progresso borghese in un mondo apparentemente "senza limiti": «In passato, si studiava la "economia nazionale". L'oggetto di tale studio era un sistema economico regolato da valute, imposte e politiche nazionali isolate, le cui reazioni ai cambiamenti provenienti dal mondo esterno venivano studiate e interpretate.  L'epoca della "economia nazionale" è giunta al termine. Gli economisti nazionali sono diventati economisti mondiali. […] Il globalismo è il risultato necessario di un'economia di mercato, o di una società capitalistica. L'economia di mercato non si lascia intrappolare entro i confini nazionali, ma si diffonde. Essa attrae le industrie e le valute nazionali, e le respinge per mezzo delle nuove forme di manifestazioni economiche. È pertanto inevitabile che le aziende tedesche e i loro concorrenti in altri paesi diventino attori globali, fondendosi tra loro e assumendo una nuova identità sovranazionale. […] Così, se Daimler, BMW, Deutsche Bank, e quasi tutte le grandi aziende tedesche cercano sedi al di fuori dei confini tedeschi, e se, al contrario, le società straniere rafforzano le loro basi in Germania, mentre le valute nazionali vengono sostituite da un sistema monetario posizionato a un livello superiore, ecco che allora questo cosmopolitismo dell'economia diventa il risultato, prevedibile e desiderabile, di un paradigma produttivo superiore di quella che è la politica economica, e che, da sola, «si rende garante del progresso dell'umanità» (Mundorf, 1999).

Questo argomento, fenomenologicamente limitato, che qui viene presentato con intento apologetico, lo si incontra anche, a sua volta, in tutti coloro che sono i superficiali "allarmisti" e critici della globalizzazione, i quali non vogliono riconoscere nemmeno alcuna crisi categoriale, ma intendono solo leggere nei fondi di caffè dei "mercati" chi saranno i nuovi arrivati, e chi i perdenti, nel "futuro del capitalismo" (Thurow, 1996b). In entrambi i casi, l'essenza della globalizzazione non viene nemmeno vista, a causa della mancanza di conoscenze teoriche sulla crisi. In effetti, il "paradigma altamente produttivo" della Terza Rivoluzione Industriale porta al "cosmopolitismo dell'economia"; ma lo fa solo per l'economia, o per dirla più precisamente: per una certa parte dell'economia, la quale però rappresenta una forma di decadimento del tutto. La trasformazione in atto, non è il prolungamento di una tendenza secolare, ma costituisce una rottura strutturale. Non si tratta affatto di una semplice espansione del commercio internazionale sul mercato mondiale, né di un semplice aumento quantitativo dell'esportazione di capitali tra le diverse economie nazionali, quanto piuttosto della dissoluzione di queste stesse economie nazionali. In altre parole: il centro economico di questo costrutto moderno - la "nazione" - viene a essere devastato dalla crisi del capitalismo. Con la ritirata degli Stati, o (in parallelo) con la virtualizzazione capitalistica finanziaria dell'economia, la globalizzazione appare come, da un lato, un prodotto immediato della Terza Rivoluzione Industriale e della sua "razionalizzazione delle persone"; dall'altra parte, però, i tre successivi processi di ritrattazione statale, di virtualizzazione e di globalizzazione hanno delle ripercussioni e si scontrano tra loro, anche se, sotto questo aspetto, l'economia reale costituisce solo un'appendice delle dinamiche speculative globalizzate. Che cosa differenziava il precedente spazio di riferimento dell'economia nazionale, dal mercato mondiale? Fondamentalmente, la forma dell'economia nazionale consisteva in un sistema di filtri, come se fosse, in una certa misura, una sorta di "strato di ozono" politico-economico che proteggeva doppiamente ogni spazio nazionale; sia verso l'interno che verso l'esterno: verso l'interno, c'era il filtro dalle "radiazioni pesanti" della competizione economica interna e della razionalità economica delle imprese a un livello compatibile con il sistema; verso l'esterno, il filtro dalle "radiazioni pesanti" di un mercato mondiale essenzialmente non regolamentato. Tali filtri erano, ovviamente e in primo luogo, i sistemi fiscali nazionali, giuridici e sociali, la moneta nazionale, e molti altri meccanismi di regolamentazione, i quali, come gli aggregati infrastrutturali, venivano tutti garantiti dallo Stato nazionale. La globalizzazione non è stata altro che una conseguenza logica del processo di disoccupazione strutturale di massa, e di deregolamentazione statale, scatenato dalla Terza Rivoluzione Industriale. È stato un vero e proprio processo di escalation. La razionalizzazione e l'automazione portano a una nuova qualità della disoccupazione strutturale di massa e, insieme a essa, a una riduzione del potere d'acquisto e delle entrate statali. Lo Stato, da parte sua, reagisce a questo con delle restrizioni sociali, che riducono ulteriormente il potere d'acquisto. Le aziende, a loro volta, reagiscono a questo inaridimento del mercato interno per mezzo della loro "fuga in avanti" nel mercato mondiale. E poiché fanno tutti la stessa cosa, avviene, naturalmente, una competizione fatta di annientamento reciproco, accompagnata da una concentrazione globale del capitale. Lo Stato reagisce, da parte sua, con una sorta di panico della deregolamentazione, al fine di mantenere il capitale all'interno della "localizzazione" nazionale; cosa che, al contrario, porta le aziende a mettere uno Stato contro l'altro, perseguendo una strategia globale di diversificazione in quella che è la corsa alla riduzione dei costi. Allo stesso tempo, questo "decomporsi" degli elementi dell'economia imprenditoriale al di fuori dei confini nazionali e continentali, viene reso possibile - e tecnologicamente guidato -  da quella stessa rivoluzione microelettronica, la quale, a sua volta, automatizza il processo produttivo e "razionalizza" la forza lavoro umana. Già alla fine degli anni '80, l'ex capo della Volkswagen Carl H. Hahn sottolineava questo sviluppo: «Per i sottoprocessi di produzione, sono possibili diverse sedi. E così la realizzazione, a loro volta, di una serie di vantaggi per i paesi specifici – come salari bassi, sindacati cooperativi, una minore densità di regolamentazione o l'esenzione fiscale – che possono essere combinati con dei vantaggi per delle aziende specifiche. Nel corso del progresso tecnico, i processi di produzione della maggior parte dei beni sono diventati sempre più frammentati, il che ha reso possibile una più ampia internazionalizzazione della produzione. Ciò è stato facilitato dal fatto che le moderne tecniche di comunicazione hanno sostanzialmente ridotto il flusso di informazioni all'interno delle società transnazionali. La produzione estera delle grandi imprese industriali del mondo deve rappresentare un terzo di tutto il commercio mondiale» (Hahn, 1989).

Secondo le informazioni provenienti dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, otto anni dopo, nel 1987, i due terzi del commercio mondiale consistevano già in transazioni di questo tipo. La medesima società poteva suddividere le proprie attività a livello globale: la sede ufficiale dell'azienda può essere a Francoforte e l'attività finanziaria può essere a Londra, mentre il contabilità operativa viene svolta da un team di elaboratori elettronici di dati a basso costo in India e i prodotti preliminari possono essere realizzati da dei "dipendenti a contratto temporaneo" e a basso costo in Ungheria; invece le indagini (a causa delle basse imposte) verranno effettuate negli Stati Uniti, e i profitti contabilizzati in "paradisi fiscali" come l'Irlanda, ecc. In parte, si può trattare anche di società di capitali, e in parte di fornitori indipendenti dei relativi "servizi" nell'ambito del cosiddetto outsourcing. Prima dell'era della tecnologia microelettronica, un simile sfruttamento dei differenziali di costo su scala mondiale, il quale rimane in uno stato "liquido" permanente, sarebbe stato del tutto impossibile. Ciò dimostra che in realtà una parte ampia e crescente del mercato mondiale non consiste più in uno scambio tra economie nazionali coerenti, ma costituisce piuttosto parte di una divisione delle funzioni interne delle corporazioni, le quali agiscono su un piano immediatamente globale. Queste imprese o, meglio, questi agglomerati di imprese non agiscono più "a livello internazionale", e non sono più strutturate come delle "multinazionali", ma appartengono a una dimensione "transnazionale" finora sconosciuta. L'economia delle imprese, che fino ad ora era incorporata nello spazio di regolamentazione dell'economia nazionale, ora lo rompe agendo immediatamente sul terreno del mercato mondiale, libero da regolamenti, che sta appena oltre l'economia nazionale (trans-nazionale). Questo processo non è altro che la conseguenza di una radicalizzazione micro-economica: il punto di vista macroeconomico non viene semplicemente liquidato all'interno del campo dell'economia nazionale, ma a essere liquidato è proprio questo settore stesso. E mentre la distruzione dei meccanismi di filtraggio dell'economia nazionale sortisce l'effetto di aumentare ulteriormente la disoccupazione di massa, e innesca l'estinzione di massa delle imprese, vediamo che invece i giganti trans-nazionali si uniscono, per la battaglia in un mercato mondiale senza filtri, nel quale la razionalità imprenditoriale, ormai divenuta sfrenata, si apre la strada. L'economia delle imprese è ormai "degradata"; è lo stesso spazio economico che ora si trova al di fuori, o "oltre" la civiltà borghese e le sue istituzioni, laddove la vita comincia a fuggire. È proprio su questa nuova qualità della globalizzazione, rispetto ai precedenti sviluppi del mercato mondiale, che a partire dall'Ottocento si sono sempre basati gli spazi coerenti dell'economia nazionale. Al di sopra di questo livello della globalizzazione del business industriale, si trova un secondo livello della globalizzazione della finanza capitalistica, ed è quello che è effettivamente in carica. È stato così facendo, che la virtualizzazione dell'accumulazione del capitale, a causa della mancanza di sostanza di lavoro aggiuntivo, ha completamente ribaltato, su scala mondiale il rapporto tra flusso di merci e flusso della finanza: il movimento della finanza globale non è più l'espressione dei rispettivi flussi di beni e di servizi, ma, al contrario, è il flusso di beni reali (e, all'inverso, il flusso di beni e servizi, quindi, della riproduzione materiale dell'umanità) che ora consistono in quella che è solo un'espressione - e persino un sottoprodotto - di una "accumulazione fantasma" autonoma di capitale monetario speculativo. Il fine in sé capitalistico, acquista qui la sua forma più pura, ma anche una forma di irrealtà, la quale sembra ora dominare la vita reale, fino a quando non sia ancora avvenuto il collasso nei centri occidentali. Il simulatore di accumulazione fantasma della speculazione sul capitale, non solo regola il flusso delle merci ai bisogni fantasma della merce stessa; ma esso è anche, logicamente, il centro della globalizzazione, perché, in senso lato, può essere, allo stesso modo della produzione effettiva di merci, immediatamente globale. Mentre, infatti, le merci e le strutture produttive rimangono delle cose tangibili del mondo macro, e quindi non possono essere davvero "senza luogo", ma devono rimanere nei luoghi, o muoversi attraverso essi; i flussi finanziari di moneta elettronica sono invece come le particelle subatomiche della fisica, i cui luoghi non possono essere determinabili con precisione. Con l'aiuto della tecnologia della comunicazione, una massa di denaro - tanto mostruosa quanto irreale - si muove alla velocità della luce e in "tempo reale", sfruttando, 24 ore su 24, i micro-vantaggi nell'insieme delle finanze mondiali. Nel senso comune, non si può parlare  di "investimenti". Ed è proprio qui che si rivela l'impotente dipendenza dell'economia reale da quelli che sono i "complessi finanziario-industriali" trans-nazionali, le cui imprese industriali trans-nazionali si sono formate a loro immagine. Naturalmente, le vecchie istituzioni economiche nazionali e, soprattutto, gli Stati nazionali non stanno semplicemente scomparendo dalla scena. Ma sono stati indeboliti tanto quanto lo sono stati  i sindacati o le associazioni dei datori di lavoro. In questo modo,  nella maggior parte degli stati del mondo, la "moneta" - l'unità monetaria di ogni economia nazionale - è completamente scomparsa, o è sprofondata diventando un insignificante "denaro dei poveri", mentre la connessione reale nell'economia globale, laddove ancora ha luogo, avviene attraverso una valuta estera con elementi di una funzione monetaria mondiale (dollaro, Marzo, yen, ecc.). Anche l'esperimento kamikaze della politica monetaria dell'Euro - in cui una moneta trans-nazionale artificiale viene collocata su un intero spazio nazional-economico del tutto eterogeneo, con dei diversi modelli di produttività, sistemi giuridici, ecc. -  non è altro che un fenomeno di dissoluzione dell'economia nazionale. Queste politiche monetarie "fuggenti in avanti", che avvengono nell'interesse degli attori globali europei, e che nella loro strategia di flessibilità globale, attraverso l'abolizione di varie aree monetarie all'interno dell'Unione Europea, risparmiano sui costi di transazione, si svolgono sulle spalle del resto delle economie "sub-globali", con le loro strutture regionali e con le loro relazioni di lavoro. Non solo la politica monetaria, ma anche - sotto tutti gli altri diversi aspetti - la politica, che per definizione è limitata al quadro nazionale-statale, non può che reagire solo in modo debole e ristretto alla modalità invariabilmente rozza della microeconomia transnazionale.

«I manager esprimono sempre più disprezzo per i loro governi eletti. Si sta diffondendo un nuovo atteggiamento. Gli autoproclamati "attori globali" del mercato mondiale guardano dall'alto in basso i capi di governo nazionali, sempre più indifesi e impotenti. La globalizzazione dell'economia rende le grandi imprese indipendenti dal mercato interno e dai governi locali. I manager spesso vedono la politica come un'azienda di servizi [...]. Secondo il Kiel Institute for the World Economy, sono gli Stati nazionali che devono attrarre a sé il capitale mobile. Per gli imprenditori - scrive la professoressa di Harvard Rosabeth Moss Kanter -  il mondo è solo "un'unica grande corsia di negozi commerciali". I rappresentanti di tutti i partiti sono irritati. Anche il primo ministro bavarese, Edmund Stroiber, ha criticato aspramente e apertamente i doppi standard dei manager, che "vogliono giocare a golf in Germania e investire all'estero". Alcuni manager esibiscono apertamente la propria nuova consapevolezza di potere. Gli esperti di bilancio del Bundestag sono stati sorpresi, ad esempio, da un gioviale capo della Daimler-Benz, Jürgen Schrempp, durante un tour alla fine di aprile. A cena si vantava che la sua azienda fino alla fine del secolo non avrebbe pagato un centesimo di tasse sul reddito: "Non otterrete nulla di più da noi". Imbarazzati, a loro volta, i deputati fissarono i piatti [...] Anche quando gli uomini d'affari invitano i ministri, questo non dà alcuna garanzia che verranno trattati bene. Ingenuamente, il ministro dell'Ambiente Angela Merkel era andata a una tavola rotonda dell'associazione dei grossisti e dei commercianti stranieri, e si è ritrovata in un'aula di tribunale. Al posto di clausole ecologiche sul mercato mondiale, il capo dell'associazione, Michael Fuchs, ha discusso con il ministro il problema dell'ubicazione. Se riuscisse a rimuovere il trucco del suo "protezionismo verde", il piano per il trattamento dei rifiuti dovrebbe essere dimenticato. "Non siamo mai stati pubblicamente sfiorati dall'economia", si è lamentato un assistente. "Non si umiliano gli ospiti". Ci vuole un po' di tempo per abituarsi allo stile grossolano [...] »(Der Spiegel 26, 1996). In questo schizzo della metà degli anni '90, possiamo ancora notare un certo disagio, e persino come una sorta di un certo tipo di "indignazione democratica", relativa all'autonomia del capitale transnazionale. Tale commozione è tanto inutile quanto inappropriata, poiché la democrazia non è altro che un episodio che, in linea di principio, ha danzato al ritmo del fischietto del “quarto potere” economico, così come, nella sua forma soggettiva, il cittadino era stato intrinsecamente creato in quanto soggetto economico capitalista e schiavo del sistema del mercato del lavoro. L'economia aziendale transnazionale del capitalismo in crisi. rende tutti questi fatti chiari a tutti, e tuttavia limita drasticamente i processi elettorali democratici, rendendoli quasi privi di significato. Pertanto, le “contese politiche” sono diventate deplorevolmente squallide e noiose, dal momento che la politica, in attesa di un’economia nazionale che “mendichi” di fronte all’economia aziendale transnazionale, non può più formulare alcuna alternativa, nemmeno nella forma precedentemente sfrondata dal sistema. Analogamente alla cosiddetta politica estera, la politica non ha più alcuna grande rilevanza, e la tensione sociale è passata dai mercati finanziari e dai loro attori al circo mediatico. Ogni tentativo di trasformare la funzione, e la sfera della politica, in qualcosa che vada oltre la struttura degli Stati-nazione, e concepisca i rispettivi organismi globali come se fossero un contrappeso all'economia economica transnazionale, è fallito miseramente. Il ruolo dell'ONU - che non rappresenta più la somma di tutti gli Stati-nazione del mondo - è diventato ancora più piccolo, e non più grande. Negli ultimi anni, nulla è stato più ridicolo della retorica di una critica sociale disarmata, da parte dell'intellighenzia verde-sinistra del '68, circa la cosiddetta "politica interna del mondo", o a proposito di una "democratizzazione" delle istituzioni economiche internazionali, come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Dopo che il governo "rosso-verde" ha assunto un progetto, quantomeno poco chiaro, di una "riforma ecologico-sociale della società industriale" – dall'energia atomica alla gestione dei rifiuti, passando per i requisiti legali di protezione ambientale – esso si è sciolto; non dopo una legislatura, o nel giro di pochi mesi, ma in poche settimane. Sotto il dettato dell'economia economica transnazionale, la corsa autodistruttiva della competizione statale e regionale delle "localizzazioni" (di ogni genere di dumping sociale, fiscale ed ecologico) accelera sempre più, di mese in mese. Una "politica mondiale interna" presuppone sempre - in tutte le sfere - uno "Stato mondiale"; e questa non è altro che una cattiva utopia, dal momento che gli Stati, per loro stessa essenza, così come le imprese capitalistiche, possono esistere solo al plurale. Uno “Stato senza frontiere” sarebbe una contraddizione in termini, così come lo sarebbe una “economia imprenditoriale a livello sociale generale”. Tuttavia, gli accordi bilaterali e multilaterali tra organismi concorrenti non possono mai produrre un quadro vincolante per tutti; vale a dire, una meta-istanza socialmente generale (ora: socialmente globale). Con la Terza Rivoluzione Industriale, la macroeconomia e la microeconomia diventano incompatibili tra di loro e collassano, e si comportano proprio come (nelle loro logiche conseguenze) si comportano l'economia e la politica aziendale. La politica, che dovrebbe rappresentare il tutto, e confrontarsi con la sfera dell'economia economica transnazionale, è degenerata fino a diventare un particolare soggetto di concorrenza; l'economia delle imprese, la quale rappresenta gli interessi particolari delle imprese, agisce ora a un livello superiore, sotto forma di "interesse generale" (in termini capitalistici, e non in vista dell'interesse economico-nazionale dello Stato-nazione). Questo paradossale capovolgimento, mostra chiaramente come non si tratti affatto di una nuova struttura con capacità di riprodursi, quanto piuttosto di una rottura della polarità strutturale tra mercato e Stato, tra economia e politica, tra microeconomia e macroeconomia, tra individuo e società, ecc., che rende così possibile il capitalismo nel suo insieme. Il soggetto borghese, di per sé schizofrenico - che in linea di principio si costituisce nella forma contraddittoria del "burgeois" (borghese) e del "citoyen" (cittadino) - non è più in grado di integrare definitivamente la sua identità contraddittoria di dottor Jekyll e di mister Hyde in una "persona totale" ragionevolmente vitale. L'individuo totalmente astratto, è "socialmente incapace", e il "borghese" transnazionale non è più mediato dal "citoyen" statale-nazionale. La "scissione di personalità" del rapporto capitalistico manifesta una nuova qualità, che non può trovare sbocco nelle forme capitalistiche. Il soggetto dell'economia imprenditoriale transnazionale, sempre più dissociato dalla sua cittadinanza, non rappresenta più alcun "progresso" capitalistico. Quest'ultima forma di “modernizzazione” è, simultaneamente, autodissoluzione e autodistruzione della modernità, e sotto molti aspetti è anche disumanizzazione, che si trova a essere arretrata anche rispetto alle società arcaiche, e pertanto agli stessi standard della propria civiltà. Di conseguenza, la globalizzazione non può essere rivendicata e appropriata da parte di una critica sociale anticapitalista che abbia una qualche “ idea di progresso”; essa costituisce la proprio la smentita di quel vecchio marxismo che assume, in termini generali, la concezione filosofica borghese dell’Illuminismo. Nella globalizzazione, il capitalismo non si eleva a nessun nuovo stadio di sviluppo, ma conduce una vita apparente oltre quelli che sono i limiti della propria vita; un po' come nel "Waldemar" della storia di Edgar Allan Poe, che ipnotizzato in punto di morte, e rimanendo tale per molto tempo sull'orlo tra la vita e la morte, fino a che, risvegliato dal sonno dell'ipnosi, si disintegrò istantaneamente in una massa informe di carne in putrefazione. Ad agire come attori nell'economia economica transnazionale, non sono più gli allegri e gioviali "cosmopoliti" , ma si tratta piuttosto dei fantasmi di un irreale sradicamento sociale, che corrisponde allo sradicamento del capitale monetario simulato elettronicamente.

«I membri di questa nuova classe di giocatori globali che, tra l'altro, comprende anche accademici del jet-set e un certo gruppo di atleti d'élite, oltre a esperti di media e artisti dell'intrattenimento, si concentrano principalmente su quelli che Marc Auge chiama i non-luoghi del sistema di comunicazione globale: aeroporti, catene alberghiere, aree VIP, supermercati duty-free e treni ad alta velocità. L'etnologo parla di sale di transito, dove loro, che da tempo hanno familiarità con le macchinette automatiche e le carte di credito, seguono i gesti del traffico silenzioso. Poiché un luogo è caratterizzato da identità, relazione e storia, uno spazio che è ovunque e da nessuna parte e che è caratterizzato dall'essere né relazionale né storico è definito come un non-luogo. Strutturalmente, un World-Traveller-Suit, come il minibar, la Pay-TV e il Manager-Magazin illustrati, non è diverso da un campo profughi secondo quelli che sono gli standard stabiliti dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. In entrambi i casi, si tratta di un domicilio temporaneo, che ci fa sentire soli, ma proprio come gli altri. Uno è solo lussuoso e l'altro abominevole» (Bude 1995). In un contesto simile non si può parlare di una "cultura mondiale"; poiché la cultura, anche quella capitalistica di massa, intesa come compenetrazione reciproca, come amalgama creativa e come creazione di nuove forme espressive, è sempre legata al luogo, alla relazione e alla storicità. Né lo spazio sociale è sganciato dall'economia delle imprese, globalizzata e illimitata. Gli spazi di transito senza luogo dell'economia imprenditoriale transnazionale, che si trova in rigoroso isolamento dal mondo realmente sociale, culturale e persino geografico, lo attraversano allo stesso modo in cui i paesaggi sono tagliati da autostrade, cavi in fibra ottica, gasdotti o tratti di treni ad alta velocità. Proprio come i vagabondi della miseria si trovano rigorosamente rinchiusi nei campi d'asilo, di deportazione o profughi, così i vagabondi di lusso dell'economia aziendale globalizzata vivono in luoghi altrettanto delimitati e in stanze quasi ermeticamente sigillate. Ma è proprio lì - laddove si trovano i blocchi tra la coerenza moribonda e dissolvente del mondo della riproduzione nazional-economica e statale-nazionale, tra le regioni orrendamente de-civilizzate del collasso e i non-luoghi dell'economia imprenditoriale globalizzata - che si trova un nuovo tipo di demarcazione che oggi è ancora più decisiva di quanto lo sia stata in tutte le precedenti frontiere politiche. Ad esempio, nel suo Manifesto del Futuro, l'esegeta postmoderno dello Zeitgeist e ricercatore di tendenze, Matthias Horx, il quale pretende di segnalare "l'uscita dalla cultura della lamentela", chiarisce il significato di "apertura cosmopolita":

«Qual è il quadro di riferimento del nostro concetto di uguaglianza? Il nostro confortevole benessere nazionale? O un pianeta dove c'è un denso flusso di merci, idee e traffici, dove c'è miseria (!), ma anche vitalità (!), creatività e voglia di ascendere? A un certo punto dobbiamo scegliere. Tra un modello di uguaglianza, che, nel migliore dei casi, equivale ad una "auto-provincializzazione" [...] e un modello aperto, più contraddittorio, ma anche più "onesto", solo su scala planetaria [...] Coloro che accettano la globalizzazione devono riconoscere che tutto questo aumenta la disuguaglianza nella società. Se lasciamo i poveri nel paese, essi possono anche diventare criminali ed esecrabili (!). O ci supererà [...] La nostra cultura e la nostra società possono impegnarsi in un'utopia (!), che va di pari passo con la perdita di sicurezza e con la minaccia di vecchie pretese e implicazioni? […] Una certa quantità di disuguaglianza "dinamica" è come un soffio di vento in una stanza soffocante, o un ruscello di acqua dolce in uno stagno stagnante» (Hox, 1999, 241). Qui la domanda verte su Quale forma di nuova demarcazione sia più disgustosa: lo sciovinismo assistenziale e il sinistro nazionalismo xenofobo della deportazione reazionaria della "maggioranza silenziosa" reazionaria? Oppure l'ideologia del terrore economico di questo "nuovo centro" dei vincitori della globalizzazione. Un afflusso rigorosamente dosato di poveri, provenienti dalle regioni devastate dal collasso dell'economia di mercato globale, dovrebbe essere permesso solo al fine di forzare l'accettazione sociale della "crescente disuguaglianza", ivi compresa la "miseria", vista  come una cosa ovvia; e per mettere le persone l'una contro l'altra, in quanto concorrenti della loro stessa esistenza. Ciò che viene sostenuto qui è la "parità di opportunità" dei combattimenti tra gladiatori. Ciò che viene gioiosamente celebrato è l'antica differenza tra il razzismo collettivo europeo-continentale e il razzismo individualista anglosassone nel contesto della globalizzazione. In entrambi i casi, sia l'assunto che il risultato continua a essere la dottrina malthusiana secondo cui, se misurata con dei criteri capitalistici, c'è sempre "troppa gente", e pertanto ci deve essere una selezione esistenziale, la quale corrisponde sempre a un cordone sociale insormontabile. Non tutti i filtri economico-nazionali o statali-nazionali sono stati rimossi, ma la pressione dell'economia imprenditoriale transnazionale deregolamentata continua ad aumentare. Le chiacchiere dei politici democratici a proposito della "mancanza di alternative" alle loro misure restrittive e antisociali, dimostrano solo che da tempo hanno finito con il loro latino, e che ora sono guidati da dei poteri che vanno oltre le istituzioni borghesi. Da un punto di vista superficiale e, in modo tradizionale, secondo categorie meramente sociologiche (piuttosto che critiche del sistema), sembra che lo Stato e la politica siano stati degradati a "camerieri del capitale" (Der Spiegel 26/1996). Ma questo non fa che confermare l'idea del vecchio marxismo, secondo cui lo Stato-nazione non sarebbe altro che il "comitato esecutivo della borghesia". Tuttavia, nel senso di una classe-soggetto socialmente coerente, questa "borghesia" non esiste più. Come soggetto economico capitalista formale, come "homo oeconomicus" e come "imprenditore della propria forza lavoro", visto secondo il concetto rigoroso di proprietario del capitale della totalità dei membri della società - ivi compresi i salariati - il "borghese" si è volatilizzato. Fino alla Terza Rivoluzione Industriale, si poteva ancora parlare dello Stato nazionale come del "capitalista totale ideale" (Marx), se non della totalità sociologica dei proprietari del capitale, almeno come l'istanza del sistema di produzione di merci che sintetizza formalmente tutti i soggetti formali dell'economia. Ma è proprio questa funzione sistemica che lo Stato nazionale perde, nella globalizzazione, come conseguenza della Terza Rivoluzione Industriale. Egli non può più essere il "capitalista totale ideale"! Naturalmente, questo sviluppo può essere descritto anche a livello sociologico: le élite funzionali sono ancora una volta divise, a tutti i livelli della riproduzione capitalistica, in una nuova e ulteriore dimensione.

Dal momento che le élite dell'economia economica transnazionale non possono, né sviluppare un interesse economico comune con il resto delle gestioni tradizionali incentrate sull'economia nazionale (nei vecchi termini della sociologia di classe: la "borghesia nazionale"), né sostenere un interesse politico-strategico comune con la "classe politica" nazionale-statale. Il momento "strategico" non solo è passato dalla politica ai mercati finanziari transnazionali, e a questo livello non produce più alcuna istanza di sintesi, ma coincide immediatamente con il calcolo microeconomico dell'economia imprenditoriale, che ormai opera al di là di tutte le vecchie istanze "di sintesi". Internamente, lo Stato-nazione cessa di essere - come organismo di regolamentazione - il "capitalista totale ideale"; allo stesso modo in cui cessa di essere il soggetto strategico all'esterno. "Interno" ed "esterno" smettono di essere chiaramente definibili, visto che il sistema di riferimento di queste relazioni è dissolto. Tutto questo, significa anche la fine del vecchio imperialismo nazionale, il quale aveva dato inizio al suo declino già nell'era della "Pax Americana" occidentale, dopo la seconda guerra mondiale; e questo nella misura in cui il carattere totalitario del capitalismo, nella fase finale della seconda rivoluzione industriale, era passato dalla politica all'economia, e con la lotta degli stati-nazione per il controllo delle "zone di influenza" si era ritirato. Invece, gli Stati Uniti, con il sostegno delle potenze secondarie occidentali, hanno assunto il ruolo di "poliziotto mondiale" in nome dei principi generali del capitalismo e (anche allora) di un mercato mondiale "libero". Nella Terza Rivoluzione Industriale, la globalizzazione rende ormai la lotta degli Stati-nazione per la "spartizione del mondo" come qualcosa di completamente anacronistico. Il "capitalista totale ideale" non solo è escluso in senso economico-sociale, in quanto istanza di aggregazione strategica di interessi, ma rappresenta quel campo di riferimento delle strategie imperiali, che in un mondo dominato dall'economia delle imprese transnazionali cessa di esistere. Nella sfera dissociata del "non luogo", il dominio territoriale non ha più alcun senso, qualunque sia la sua forma. Laddove gli interessi strategici orientati alla microeconomia possono esistere solo essendo "presenti" ovunque e in nessun luogo, anche il mondo territoriale cessa di essere un oggetto strategico, per diventare un mero luogo in cui si svolgono le scene. Naturalmente, in qualità di fornitori di servizi dell'economia economica transnazionale, gli Stati nazionali sono adatti solo condizionatamente e temporaneamente. Poiché in questo sviluppo, i due poli della socializzazione capitalistica in crisi crollano a tutti i livelli e dimensioni, e non possono più essere uniti in uno stesso denominatore, rendendo così obsoleta l'idea di un nuovo e duraturo ruolo ridotto dello Stato-nazione in quanto "nuovo stato-commerciale" (Rosecrance 1987) o in quanto "stato di competizione nazionale" (Hirsch 1995). Tale concettualizzazione continua ad essere inserita all'interno di un cambiamento strutturale del capitalismo, o di un processo di trasformazione che viene assunto come una nuova tappa nello sviluppo di una "modernizzazione eterna", mentre invece, di fatto, è stata a lungo una crisi categoriale della forma sociale capitalistica in quanto tale che segna la fine definitiva della "modernizzazione". In questo senso, l'economia transnazionale delle imprese non costituisce - né in senso sociologico né strutturale - una nuova istanza di potere economico che rappresenti un'altra epoca della storia capitalistica, o che subordini lo Stato-nazione solo in un altro modo. Piuttosto, la globalizzazione è la forma di una manifestazione della crisi stessa, e i "decisori", che fanno parte delle élite funzionali transnazionali dissociate e senza luogo, vengono essi stessi diretti. E' chiaro che lo sforzo dello Stato, per gestire la crisi nella competizione delle "localizzazioni" nazionali, si limita alle infrastrutture e alle altre condizioni strutturali, nel modo puntuale e "insulare", richiesto dal capitale globalizzato, mentre nelle parti desolate ed economicamente dissociate di ogni territorio, sono le stesse cose, dall'acqua alla polizia, quelle che subiscono un processo di abbandono. Gli spazi nazionali vengono scomposti in regioni (ancora) accoppiate e in regioni paria, dove le vecchie e le nuove disuguaglianze di sviluppo vengono a essere ulteriormente aggravate. È visibile anche lo sforzo da parte del "Leviatano democratico unito", sotto la direzione della "polizia mondiale" degli Stati Uniti, con azioni militari congiunte, fatte per contenere le guerre civili che scoppiano in tutte le regioni di collasso. Non si tratta più di "zone di influenza", nel vecchio stile, ma di una sorta di "imperialismo della sicurezza"; l'obiettivo non è la conquista, quanto piuttosto la "rassicurazione" che i circuiti dell'economia aziendale non vengano disturbati. Ma gli Stati-nazione sono sempre meno in grado di soddisfare tutte queste esigenze. Il capitale globalizzato, per il quale si suppone che servano, toglie dalle loro mani tutti i mezzi necessari, e lo fa con crescente ferocia, mentre allo stesso tempo i focolai di crisi si moltiplicano a passi da gigante. A ogni nuovo collasso finanziario, si avvicina la fine dell'economia monetaria, la quale, naturalmente, alla fine prenderà il sopravvento anche sullo spazio transnazionale senza luogo del capitale. E l'economia industriale globale, con le sue isole sparse di produttività, di certo non opera a un nuovo livello praticabile, ma il suo spazio di manovra si restringe a ogni impulso della globalizzazione. La concentrazione senza precedenti di capitali, che si è forgiata negli spazi transnazionali nel corso della "fuga in avanti" dell'economia delle imprese, preannuncia un cannibalismo economico nel mercato mondiale non regolamentato. I cosiddetti nuovi padroni del mondo, nella loro caccia alla diminuzione del potere d'acquisto e della redditività globale, possono solo divorarsi l'un l'altro, e quindi distruggere le "sovraccapacità" economiche reali, facendo sparire da questo mondo le ultime vestigia della "normalità" capitalista.

- Robert Kurz, dallo "Schwarzbuch Kapitalismus" [Il Libro nero del capitalismo], 1999 -

Qualcuno verrà (correndo)... con Faulkner !!

"Some Came Running" - film del 1958 di Vincente Minnelli - racconta la storia di uno scrittore, Dave Hirsch, interpretato da Frank Sinatra: siamo nel 1948, e Hirsch torna nella sua città natale (nell'interno dell'Indiana) dopo che a Chicago è stato messo, ubriaco, su un autobus dai suoi amici. Hirsch è un tipo ironico, disincantato dalla vita e molto critico con sé stesso e con gli altri, che non crede nelle buone intenzioni, e così via... Oltre ad essere un veterano dell'esercito, Hirsch è anche uno scrittore pubblicato e consolidato (con libri che parlano proprio della vita così come si svolge in questa cittadina di campagna cui sta tornando a malincuore); un'attività di cui egli tuttavia non è entusiasta, arrivando perfino a rifiutare un incarico relativo a essa, affermando addirittura di aver smesso di scrivere, e che quella storia che gli hanno commissionato appartiene ormai al passato... Nel film, si può vedere quanto Hirsch - oltre a essere uno scrittore -  sia soprattutto un lettore di Faulkner. E nella letteratura, di lettori di Faulkner ne abbiamo un bel po’; dal figlio di Elizabeth Costello, in J.M.Coetzee; a Fredric Jameson, che parla di Faulkner come dello «scrittore dell'adesso»; oppure Jean Echenoz quando scrive di Ravel. E così, proprio all'inizio del film, vediamo Hirsch mentre si sistema in una stanza d'albergo, che quando disfa la valigia e riordina i suoi pochi averi, mostra alla telecamera quei libri che porta sempre con sé e lì, in primo piano e in un posto di rilievo, vediamo Faulkner: lo scrittore di questo mondo di diffidenza e durezza in cui vive Hirsch.

sabato 23 agosto 2025

Il primo a raccontarla…

«Sorrido sempre quando qualcuno intervistandomi mi chiede se le recensioni siano un modo per sbarcare il lunario (a differenza dei libri, che sarebbero, si sottintende, la “cosa vera). Per me le recensioni sono il pezzo forte». Cosí si legge nel Manifesto di un critico, un saggio che è una vera, illuminante dichiarazione di poetica. Il critico serio, sostiene Mendelsohn in quelle pagine, non si limita a imporre il suo «mi piace» o «non mi piace» (come malauguratamente i social media ci abituano a fare), ma dà «a te lettore gli strumenti per farti una tua idea», condividendo la sua conoscenza, esplicitando le ragioni su cui si fonda il suo giudizio, e soprattutto cercando di trarre un senso dall’opera di cui si sta parlando. Ed è esattamente ciò che questo critico serio non manca di fare negli scritti raccolti in ognuna delle tre sezioni tematiche di cui si compone Estasi e terrore: «Miti di ieri », dedicata a testi antichi e alla vita dei loro autori, «Miti in technicolor», su film e serie televisive, e «Miti d’oggi», che accoglie temi contemporanei e di stampo autobiografico. Che si tratti del rapporto fra teatro tragico e spazio pubblico nell’antica Atene o della parabola artistica di Almodóvar dagli esordi fino a Volver, della persistenza del mito del Titanic nella cultura contemporanea o di una relazione epistolare intrattenuta per un decennio con la scrittrice Mary Renault, o di qualunque altro tema, Mendelsohn ha sempre qualcosa di nuovo da insegnarci, e riesce a trovare un significato profondo e sorprendente laddove forse non avevamo mai pensato di cercarlo. E allora questi scritti, che si potrebbero anche leggere come frammenti di un’eclettica e proteiforme autobiografia intellettuale, si impongono soprattutto come luminosi esempi di quello che andrebbe considerato un genere letterario a sé stante: la recensione seria, ovvero quella scritta da chi, ogni volta che entra in un cinema o in un teatro, ogni volta che apre un libro o ascolta un brano musicale, sente che «c’è in gioco qualcosa di straordinariamente importante».

(dal risvolto di copertina di: Daniel Mendelsohn, "Estasi e terrore. Dai greci a Mad Men". Einaudi, pagg. 394, € 22)

I miti fanno viaggiare gli uomini e i libri
- di Stefano De Matteis -

Sì, lo dichiaro subito, sono un fan di Daniel Mendelsohn, perché ho trovato “Gli scomparsi” bellissimo e importante con quella intensità linguistica e quella forza letteraria che l’ha trasformato in un libro necessario e indispensabile non solo per quel ricco e altalenante scaffale sull’Olocausto. Ma quando ho aperto “Estasi e terrore”, mi è venuto da storcere il naso. Innanzitutto perché è una raccolta di saggi e queste non sempre hanno la compattezza di un libro. Poi si dichiara apertamente che è frutto di un’idea redazionale e quindi per un verso ho cominciato a sentire puzza di marketing per un altro ci intravedevo il classico “sfruttamento” di un autore di successo. Dichiaro pubblicamente che, appena ho iniziato a leggere, ho dovuto ricredermi: Mendelsohn affina qui le sue migliori armi letterarie e di studioso dei classici, per compiere attraverso i miti uno straordinario viaggio nella storia vissuta dagli uomini o narrata dalla letteratura. E ci fa da guida così nell’officina della mitologia per studiarne il meccanismo che li produce e per analizzare come questi si irrobustiscono nel tempo. Una tecnica che esplicita in uno dei capitoli centrali, che parte da una sua passione, quella per il Titanic.

   Dal 15 gennaio del 1912, quando la più grande metafora della modernità si scontra con la forza della natura incarnata in un iceberg, l’umanità non ha mai smesso di interrogarsi, facendo ricorso alle più diverse forme della rappresentazione: solo nell’anno successivo al disastro gli furono dedicate più di cento canzoni, cui seguirono ricostruzioni, biografie e analisi (da cui lascia fuori lo straordinario poema di Enzensberger) fino ai notissimi colossal cinematografici. Tutte interpretazioni legittime, ci dice Mendelsohn, ma nessuna del tutto convincente: se vogliamo comprendere davvero perché questa storia non riusciamo a dimenticarla, bisogna voltare le spalle ai fatti e inquadrare il Titanic nell’ambito a cui realmente appartiene, quello del mito. Questo intreccia più piani e riferimenti a costruire nuclei di azione che sono, nello stesso tempo, emotivi e ideologici, sociali e culturali, materiali, come le classi, e “spirituali”, come l’amore, a costruire una trama che ci pone interrogativi sul passato e sul presente, su loro (ieri) e su noi (oggi). Lo stesso vale per l’11 settembre, dove la domanda riguarda come la storia possa diventare dramma e quanto i film nati dalla strage siano all’altezza del compito. Appare evidente che la cultura di massa, presa com’è a rendere credibili e veritiere, lineari e semplificate le sue produzioni, toglie ai temi affrontati quella complessità che è propria del mito, a partire dallo sfondo che li sostiene e che riguarda il più ampio schema morale cui si riferisce. Forse, il confronto con i classici ci dice di più, infatti l’autore individua nel parallelo con i Persiani di Eschilo assonanze significative. «Non sarebbe affatto impossibile scrivere una vera tragedia, una tragedia greca, sull’11 settembre e le sue conseguenze…», a partire «dal destino in apparenza inevitabile che può precipitare nel caos i più grandi imperi per l’azione di un manipolo di nemici resi immuni dalla paura della morte dal proprio fervore ideologico. O potrebbe parlare di un impero reso profondamente vulnerabile dal rifiuto di prendere sul serio i propri nemici… oppure potrebbe parlare dell’apparentemente irriducibile estraneità dell’Occidente all’Oriente…».

  Sebbene l’autore sia sempre interessato a confrontarsi con i miti d’oggi cui dedica tra l’altro uno spassosissimo capitolo sulla nascita e, soprattutto, sull’inondazione attuale del memoir la linea che accomuna i saggi è il continuo e ripetuto riferimento ai classici, ai miti di ieri di cui la prima parte rappresenta non solo l’esercizio di una conoscenza approfondita, ma anche il piacere didattico e divulgativo nel rileggere il passato per ritrovarne l’attualità, andandola a cercare nel confronto lì dove meno ce lo si aspetti. Da giovane universitario l’impatto con Erodoto fu scioccante: un credulone che si dilunga nei dettagli più astrusi da cui derivava la «sensazione che provi quando ti trovi in vacanza con un genitore di cui ti vergogni. L’unica cosa che desideri è mettere un po’ di distanza fra te e lui, col suo carico di guide turistiche, vecchie macchine fotografiche e souvenir pacchiani – per non parlare della sua camicia hawaiana». Ovviamente il tempo e il corpo a corpo con l’autore gli farà cambiare opinione: ne apprezzerà lo stile sofisticato, la ricerca e la capacità del mostrare i conflitti. Ed ecco che così l’opera apre numerosi link, creando un circuito fittissimo di collegamenti ipertestuali e che sembrano seguire la regola della libera associazione. (Sì, c’è molto Freud in queste pagine, dichiarato e citato, come un bastone a cui sorreggersi e un metodo per capire anche se stessi e le scelte che compiamo). Segue il confronto con Tucidide, sottoposto da una parte della critica recente a diverse forme di manipolazione interpretativa. Non mancano occasioni per misurare avvenimenti odierni, come la sepoltura dell’uomo considerato il responsabile dell’attentato alla maratona di Boston, con Antigone o ragionamenti sull’attualità delle Baccanti o sulla necessità dell’Eneide. A mano a mano che si va avanti, affiora sempre più precisa la chiave dell’intero volume. Innanzitutto il critico «serio» è quello che sa mescolare competenza e gusto, ed è capace «di mediare con intelligenza ed eleganza fra un’opera e il suo pubblico; educare e istruire in modo appassionante e, se possibile, divertente»: il suo ruolo è quello di chi ci aiuta a capire, non solo l’opera, ma il mondo di ieri assieme a quello di oggi e viceversa. Ed è per questo che le sue recensioni non sono un modo per sbarcare il lunario, ma «il pezzo forte». C’è comunque un filo ulteriore che unisce i testi: capiamo (anche grazie a Freud) che nelle sue passioni ha continuato ad occuparsi principalmente di conflitti che trasformano coloro che sono coinvolti rendendoli irriconoscibili a sé stessi, ma è attratto soprattutto da «bande di reietti sopravvissuti a una terribile persecuzione…» e che ci narrano «una storia che sia il vecchio sia il nuovo mondo conoscono fin troppo bene e Virgilio è stato il primo a raccontarla».

- Stefano De Matteis - Pubblicato su La Domenica del 28/7/2024 -

domenica 17 agosto 2025

Traducibilità…

   Nel suo saggio "Sul dicibile e l'idea", contenuto nel libro "Che cos'è la filosofia?", Agamben si interessa di ciò che ... "quasi" si può dire o si può esprimere; quel punto in cui si annuncia... la "certezza", senza che tuttavia essa arrivi mai a completare definitivamente quel suo ciclo. Così, in tal modo, l'idea spinge il dicibile verso un'astrazione che riguarda il linguaggio. E tuttavia, questo linguaggio non si riferisce a un linguaggio specifico, quanto piuttosto alle possibilità relative a «tutti i nomi e a tutte le lingue». Come esempio, Agamben si avvale dello storico Arnaldo Momigliano, e si riferisce alla sua idea secondo cui «il limite dei Greci, consisteva nel fatto che non conoscevano le lingue straniere»; cosa che, peraltro, costituisce anche il limite di ogni pensiero unilaterale. Ed è per questo motivo che Agamben propone l'ipotesi secondo la quale  il dicibile - «l'elemento linguistico proprio dell'idea» - non sia semplicemente il «nome», ma piuttosto la traduzione, «o ciò che in esso è traducibile». Pertanto, la traduzione emerge come se quello fosse un compito allo stesso tempo etico ed estetico, che attraversa i diversi ambiti che regolano la convivenza degli esseri in comunità. Però, la traduzione si sviluppa anche lungo un paradosso: noi comprendiamo il senso generale di un testo – la trama di romanzi quali Don Chisciotte o Moby Dick, per esempio – proprio allorché ne leggiamo una traduzione; ma, attraverso la lettura, quel che "capiamo" è anche che nessuna di quelle parole è stata scritta dall'autore. La consapevolezza della "artificialità" della traduzione, tuttavia, non impedisce al lettore di godere del testo, e di portarlo con sé per il resto della propria vita, cucendolo alla propria soggettività (come fece Jorge Luis Borges, il quale, da bambino, lesse per la prima volta il Chisciotte in inglese, e poi in seguito ebbe a dichiarare come fosse stato invece l'originale spagnolo a essergli sempre sembrato una traduzione).

   Per Agamben (sempre in questo saggio "Sul dicibile e l'idea"), è la "traducibilità"a garantire il movimento del pensiero nel tempo, ponendolo all'incrocio di una possibilità e di una impossibilità, e situandolo così «sulla soglia che unisce e divide i due piani del linguaggio»; quello semiotico e quello semantico (il piano della materialità e il piano del significato). Ed è stato per questo motivo che Walter Benjamin ha sempre sottolineato la "rilevanza filosofica" della traduzione; cosa che poi Agamben sviluppa in dettaglio. La possibilità di tradurre costituisce, in larga misura, un atteggiamento verso il mondo e verso l'altro, verso il diverso, verso il lontano (ed ecco perché, per il Novecento, il caso di Joseph Conrad è paradigmatico e suscita così tanti commenti e riutilizzi narrativi). In quest'ottica, ecco che la "traducibilità" fa parte della consapevolezza che dobbiamo avere a proposito del fatto che la mia lingua non è il centro del mondo; ovvero, non è l'istanza regolatrice degli affetti e degli orizzonti: riconosco i limiti del mio mondo esercitando il desiderio di tradurre ciò che ancora non conosco. È pertanto, a questo punto della traducibilità che si trovano le riflessioni di Agamben su Hölderlin e sulla lingua, pur provenendo esse da dei contesti e da delle pubblicazioni diverse: ciò perché è anche a partire dalla traduzione che Hölderlin si situa di fronte al proprio tempo; oltre che a una contemporaneità obbligatoria nei confronti di alcune figure dello stesso periodo (Hegel, Napoleone), Hölderlin stabilisce - attraverso la traduzione - una contemporaneità all'antichità che non è contemporanea; nello specifico quella a Pindaro e Sofocle.

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 16 agosto 2025

La "Educazione" di Hannah Arendt, e quella di Donald Trump !!!

   Spesso, appare difficile comprendere in che modo il mondo accademico, e in particolare il mondo filosofico (in quelle che sono oltretutto le sue tendenze che pretendono addirittura di essere le più democratiche), finisca poi per partecipare alle forme più autoritarie della politica. Così, le recenti misure, in America -  volte a eliminare l'”affirmative action” nelle università, o semplicemente a tornare al principio di segregazione, che si pensava fosse stato definitivamente abbandonato a partire dagli anni '50, non sono l'unico risultato di una governance che è diventata improvvisamente dittatoriale, o che ha completamente abbandonato i principi di razionalità.

   Ma questo tipo di posizione lo si trova anche nella letteratura della filosofia e delle scienze umane, proprio tra gli autori che sono i più commentati o i più insegnati, vale a dire i più autorevoli oggi nel campo della teoria politica. Questo è purtroppo ciò che Kathryn Belle ci dimostra, a proposito degli anni '50, nel suo libro su "Hannah Arendt e la questione nera", tradotto in francese da Benoît Basse, nella raccolta diretta da Emmanuel Faye (la versione originale inglese è stata pubblicata nel 2014 da Indiana University Press con il nome dell'autrice Kathryn B. Gines).
L'autrice e l'editrice si chiedono come una teorica politica, nota per le sue critiche all'antisemitismo, all'imperialismo e al totalitarismo, possa prendere posizione, con le sue "Riflessioni su Little Rock", contro le leggi volte a porre fine alla segregazione nelle scuole pubbliche americane, contro la decisione della Corte Suprema e contro tali posizioni dei liberali. Come e perché, agli afroamericani negli stati del sud, dovrebbe essere negato l'accesso alle scuole pubbliche? Come possiamo assumere una posizione che è oggettivamente la stessa di "quella dei bianchi razzisti"? In nome di quale visione dell'educazione e della società futura, si chiede Emmanuel Faye nella sua prefazione?

   Il filosofo francese nota infatti che lo scritto di Arendt – per non parlare del commento di K. B. Gines – viene preso assai poco in considerazione dalle scienze dell'educazione: viene lasciato da parte, o, quando viene citato, ciò avviene nel tentativo di minimizzarne il contenuto. Si dice che Arendt abbia ritirato dalla rivista Commentary, che intendeva associarlo a una risposta critica di Sydney Hock, il suo articolo su Little Rock. La teorica americana ebbe comunque a pubblicare il testo due anni dopo su un'altra rivista, senza una risposta da parte del suo avversario. Molti altri intellettuali americani, e non solo neri, discussero pubblicamente contro la posizione politica di Arendt - così come fecero Sydney Hook, James Baldwin e Ralph Elisson - senza però che Arendt rispondesse in modo soddisfacente alle loro argomentazioni. In questo modo, secondo Faye, Arendt avrebbe «schivato il dibattito» (p. 13). In sostanza, Hannah Arendt ritiene che la segregazione scolastica – a differenza dei diritti matrimoniali, per esempio – non sia un problema politico, ma solo un problema sociale. Scrive che «la discriminazione è un diritto sociale [tanto indispensabile quanto l'uguaglianza è un diritto politico]» (cit., p. 12) La questione non è abolire la discriminazione, ma mantenerla nella sfera sociale, laddove è legittima. E questo perché la società americana è segnata dalla "tradizione della schiavitù". La segregazione è «radicata nella tradizione americana, e questo è tutto» (citato a p. 51). Relegare la discriminazione razziale a essere solo una questione sociale,  è questo ciò che Belle critica, in quanto, così com'è anche per molti altri autori, essa costituisce una questione politica, allo stesso modo in cui lo è l'antisemitismo. Inoltre, Belle è indignata a causa del ritratto condiscendente, dato dalla teorica americana, a proposito delle persone di origine africana, che vengono descritte come "parvenu", anziché come dei "paria consapevoli". Le rimprovera di non essersi messa nei panni delle donne nere e delle famiglie nere, e di non essere informata circa le loro motivazioni. Di conseguenza, Belle non si concentra sulla problematica relativa a Little Rock, che è poi il punto di partenza del libro, e la cui trattazione occupa i primi tre capitoli.

   Si impegna piuttosto a rileggere anche gran parte dell'opera di Arendt, vedendola dal punto di vista di quella che lei chiama la "questione nera", così come viene affrontata in "Vita activa. La condizione umana"; in "Sulla rivoluzione"; e in "Sulla violenza" (capitoli da 4 a 7). La questione nera riguarda tutto ciò che tocca la schiavitù, la segregazione, il colonialismo, l'imperialismo, la parità di diritti. Belle la distingue dal problema nero, nel senso che, per lei, come per Richard Wright in passato, «non esiste un problema nero negli Stati Uniti, ma c'è solo un problema bianco» (citato da Jean-Paul Sartre, p. 25). E questo è il problema del razzismo. Si tratta, ad esempio, del razzismo sistemico nei sistemi educativi, e non della presenza di studenti neri che ne abbasserebbero il livello. È il fatto di considerare gli studenti neri come degli esseri incompetenti e violenti (p. 238); si tratta di non considerare - nella Rivoluzione americana -  la contraddizione tra libertà e schiavitù (p. 153); si tratta di limitarsi a denunciare la violenza anticoloniale e negare che esista qualsiasi forma di ribellione, o di rivoluzione, contro la colonizzazione; il che inoltre contrasta con le osservazioni fatte sulla necessaria resistenza ebraica (p. 229).

    Il libro di Kathryn Belle è il risultato di un'indagine meticolosa e sincera, condotta secondo un approccio scientifico irreprensibile. Una lettura del genere appare indispensabile fin dal momento in cui si intenda affrontare la teoria politica di Arendt e, più in generale, le questioni del razzismo e della segregazione in relazione alle scienze umane. La questione non riguarda tanto il pensiero di Arendt in quanto tale, o le sue posizioni di intellettuale, ma piuttosto l'uso che intendiamo fare oggi della sua teoria politica, e della sua concezione dell'educazione e della segregazione. Lungi dall'essere intellettualmente autorevole, il riferimento a Hannah Arendt rischia di apparire piuttosto problematico per i sostenitori dell'uguaglianza nelle scuole pubbliche, per i teorici della democrazia, per i difensori del pensiero critico e più in generale per i progressisti e i liberali. Somiglia piuttosto, nel momento in cui scriviamo, a quelli che sono i discorsi e le decisioni politiche del governo degli Stati Uniti, e non solo in quelli che sono i suoi obiettivi – il diritto alla segregazione, o il rifiuto di porvi fine – ma gli somiglia anche nella forma, vale a dire, nell'eludere l'argomentazione e il dialogo e nel mettere al bando l'approccio scientifico.

- Alain Patrick Olivier - Pubblicato su Raison présente 2025/2 N° 234 -

- Kathryn Sophia Belle, Hannah Arendt et la question noire, Traduit de l’américain par Benoit Basse, avant-propos d’Emmanuel Faye, Paris, 2023, Kimé, collection « Philosophie critique », 280 pages, 25 € -

venerdì 15 agosto 2025

4 Precauzioni !!

«Non possiamo scegliere tra combattere l'antisemitismo e condannare Israele per Gaza»
-  Eva Illouz, Haaretz, 8 agosto 2025 -

In genere, nelle società occidentali gli intellettuali non hanno una vita difficile. Di solito, osservano il normale caos delle vicende umane, ed emettono verdetti che ricordano alla comunità i valori fondamentali. Eppure la situazione che oggi si trovano ad affrontare gli intellettuali ebrei contemporanei appare molto più tesa: essa si confronta non solo con delle follie umane radicalmente contraddittorie, ma anche con quelle che sono delle lealtà contrapposte. Quando si gira la testa verso sinistra, non si può non notare lo spettacolare ritorno dell'antisemitismo anche all'interno delle società democratiche occidentali. Questo fenomeno è palpabile nell'aumento vertiginoso dei crimini d'odio contro gli ebrei, in tutta l'Europa occidentale e negli Stati Uniti: nella diffusa ossessione pubblica per Israele e per le sue azioni, nella demonizzazione del sionismo visto come ideologia particolarmente criminale, e nel boicottaggio degli israeliani e ci ricorda la stigmatizzazione e la ghettizzazione degli ebrei in passato. Tutto questo, con il pretesto di affermare che l'antisemitismo non esiste, che è un argomento manipolatorio usato dagli ebrei o, meglio ancora, è solo una reazione comprensibile a causa delle azioni di Israele. Dopo il 7 ottobre, l'intellettuale ebreo è stato costretto a tornare sobrio, e a riconoscere che l'antisemitismo - la forza irrazionale che governa gli affari umani - proviene dai ranghi di quelli che oggi sono i suoi attivisti apparentemente più democratici. Ma quando quello stesso intellettuale gira la testa a destra e guarda Israele, vede una società il cui governo crede che Dio sia personalmente coinvolto nelle sue decisioni antidemocratiche. E questo governo ha dichiarato lo stato di guerra senza fine contro i palestinesi, preferendo la forza alla diplomazia. A partire da un misto di negligenza e di incompetenza, insieme a un inestinguibile desiderio di vendetta, alimentato dall'eccezionale crudeltà con cui gli ebrei (e alcuni non ebrei) sono stati massacrati il 7 ottobre, questa società si rifiuta di vedere e registrare le morti e la fame che ha causato. (Le immagini degli ostaggi torturati, servono a far rivivere periodicamente l'agonia collettiva degli israeliani). Quello che vede, è pertanto un governo che ha di fatto seppellito l'idea di Israele in quanto stato ebraico e democratico. Di fronte a questa realtà a due facce, su quali valori si deve fare affidamento? Quale gruppo si dovrebbe rappresentare e difendere?
Come ha proposto il filosofo Raphaël Zagury-Orly *, non dobbiamo scegliere tra la lotta contro l'antisemitismo, e la condanna di Israele per i suoi misfatti. Dobbiamo mantenere comuni questi due fili. Sì, questo compito richiede che abbandoniamo le logiche binarie e facili rispetto a questo conflitto. Oggi, ci troviamo di fronte a una nuova sfida, e bisogna che la nostra critica debba impegnarsi su due fronti: rimanere costantemente vigili a proposito della storia univoca di questo conflitto, esaminandone attentamente la terminologia utilizzata, in modo da dargli un senso. Consiglio quindi di prendere le seguenti precauzioni.
La prima è storica: Israele non è nato nel peccato. La sua creazione, non è stata una vendetta per l'Olocausto. Né tantomeno è stata "colonialista", nel senso in cui i tedeschi o gli inglesi si erano appropriati della Namibia o dell'India. Gli ebrei hanno sempre avuto un legame storico con Israele, e ci sono sempre stati; il che rende inappropriato il concetto di colonialismo. Questo paese è stato creato legalmente, a partire da una vittoria militare contro gli eserciti arabi che avevano respinto la decisione dell'ONU di riconoscerlo, nel 1947. I suoi 7 milioni di cittadini ebrei non avevano alcuna altra patria a cui tornare. Se la parola giustizia ha un significato, permettere a uno dei popoli più perseguitati della storia di vivere in pace su un minuscolo fazzoletto di terra, dovrebbe sicuramente essere un imperativo morale per il mondo. Se i cristiani, gli indù e i musulmani godono di milioni di miglia quadrate, è responsabilità morale del mondo garantire agli ebrei un territorio grande quanto il New Jersey in modo da poter assicurare la loro esistenza nazionale. Qualsiasi messa in discussione delle origini legittime dello Stato di Israele va respinta e abbandonata.
Seconda precauzione: sin dalla sua creazione, Israele si trova in uno stato di guerra permanente; un fatto questo, intimamente legato all'odio singolare che gli ebrei e Israele sembrano suscitare. Dopo la seconda guerra mondiale, milioni di persone sono state sfollate,  e le loro sofferenze sono state in gran parte dimenticate. Rispetto a quella di altri gruppi di sfollati, la storia del popolo palestinese deve essere vista in questa luce. Dobbiamo chiederci perché sono stati apolidi per così tanto tempo, quale ruolo gioca Israele in tutto questo, ma anche quali responsabilità hanno in questo tragico destino il mondo arabo, i palestinesi e le organizzazioni internazionali.
Terza precauzione: bisogna prestare attenzione alla realtà sul campo. L'Europa vive in pace, ma non è così per gli israeliani, né ora e né in passato. Hanno dei veri e propri nemici, i quali rendono miserabile la loro vita quotidiana. L'attuale dibattito sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio, dimentica che se Hamas avesse liberato gli ostaggi civili che deteneva, avrebbe di fatto posto fine alla guerra e, con essa, anche alla distruzione delle vite dei palestinesi. Sì, anche Israele ha una certa responsabilità per le sofferenze dei palestinesi a Gaza, e ha causato distruzioni sproporzionate, ma Hamas ha certamente una responsabilità politica. Il 7 ottobre, Hamas sapeva che la risposta israeliana sarebbe stata feroce. Tuttavia, non ha mai offerto i suoi tunnel alla propria popolazione in modo che potesse lì rifugiarsi. Si rifiuta di rilasciare gli ostaggi: cosa che alimenta la politica militare estremista del governo israeliano. Come riferisce Ahmed Fouad Alkhatib, un palestinese nato a Gaza e direttore di Realign Palestine, gli abitanti di Gaza sono furiosi con i combattenti di Hamas, i quali saccheggiano il cibo in spregio degli abitanti di Gaza. «La loro rabbia è diretta principalmente contro Hamas, che viene ritenuta responsabile di aver messo il popolo di Gaza in questa situazione, a causa del suo persistente rifiuto di porre fine alla guerra che ha scatenato.» Israele è impegnato in una guerra che non ha iniziato. Dobbiamo perciò riconoscere che i palestinesi sono degli attori politici con interessi, e che spesso ricorrono alla violenza per raggiungere i loro obiettivi. Riconoscere il loro diritto a uno Stato, come faccio io, non significa che siano vittime pure e innocenti. Anche 22 Stati membri della Lega Araba hanno riconosciuto questa realtà chiedendo ad Hamas di disarmare la scorsa settimana, in una dichiarazione che storicamente è decisiva e senza precedenti. Così facendo, la Lega Araba ha dimostrato di sapere ciò che molti progressisti occidentali sembrano incapaci di capire: Hamas è un attore politico pericoloso, determinato a destabilizzare l'intero Medio Oriente.
La quarta precauzione è quella per cui non dobbiamo fare a Israele delle richieste he non siano state rivolte a nessun altro paese. Il boicottaggio degli israeliani in quanto israeliani, è puramente e semplicemente razzista. Chi mai penserebbe di boicottare gli accademici iraniani a causa del loro regime canaglia? Chi si sognerebbe di boicottare gli americani a causa delle molte guerre di dominio politico ed economico condotte dal loro paese? Come mai gli oltre 85.000 bambini che sono morti di fame nello Yemen, a causa della guerra civile negli ultimi dieci anni - oppure i milioni di sfollati in Sudan - non hanno toccato la sensibilità degli artisti, degli intellettuali e degli studenti occidentali, curiosamente assenti da queste tragedie?  

  Il mio punto di vista è pertanto relativamente semplice: spesso la critica di Israele diventa pericolosamente vicina all'antisemitismo, e deve essere esaminata attentamente. Molti benefattori riciclano inconsapevolmente delle visioni del mondo antisemite. Coloro che hanno un minimo di conoscenza della storia del conflitto, dovrebbero smettere di incolpare Israele per la tragedia in corso. E in questo caso, la nostra compassione per i civili, palestinesi o israeliani, non può essere la nostra unica guida morale e intellettuale. L'Unione europea e gli Stati Uniti devono chiedere congiuntamente un cessate il fuoco da entrambe le parti. Incolpare solo una parte, qualunque essa sia, non ci porterà lontano. Le masse di israeliani che lottano per la loro democrazia, e contro le politiche del primo ministro Benjamin Netanyahu devono essere sostenute, e non boicottate. Allo stesso modo, i palestinesi che sostengono una riforma dell'Autorità Palestinese per sostituire Hamas, devono essere sostenuti da Israele e dal resto del mondo. Gaza deve essere ricostruita in modo che si possa creare uno Stato palestinese vitale che non minacci l'esistenza stessa di Israele. Nonostante le difficoltà, bisogna stabilire una forma di fiducia tra due popoli profondamente traumatizzati. Il mondo ha bisogno di linee rosse. Se il governo Netanyahu cerca l'occupazione permanente di Gaza minando, come sta cercando di fare, il suo sistema giudiziario – e quindi democratico – le garanzie e le sanzioni potrebbero allora essere una risposta adeguata. Nel frattempo, gli amici di Israele non devono chiudere un occhio sulla natura del governo di Gerusalemme, sulle sue priorità sbagliate, sulla sua incompetenza e sulla sua ormai ingiustificabile guerra a Gaza. Ma dobbiamo anche tenere a mente che l'estremismo interno di Israele è alimentato dall'antisemitismo esterno.

-  Eva Illouz, Haaretz, 8 agosto 2025 - fonte: https://www.lapaixmaintenant.org/

Gli Ebrei, e i loro Amici…

Gli ebrei mi lasciano perplesso
- di Ruben Honigmann -

   Negli ebrei, c'è qualcosa che non smetterà mai di stupirmi: la loro capacità di rimanere sorpresi per l'ostilità nei loro confronti. A ogni omicidio, a ogni attacco, a ogni massacro o pogrom antisemita, è come se cadessero dalle nuvole. La mancanza di empatia da parte del solito affabile fruttivendolo ci offende, ci indigna la reazione del segretario generale dell'ONU, e le contorsioni semantiche di Jean-Luc Mélenchon - degne dei migliori studenti della Yeshivah - ci appaiono insopportabili: la solitudine radicale del popolo ebraico perseguitato ci muove alla rivolta. Ogni volta, ci stropicciamo gli occhi - come se quello fosse il primo giorno - nel vedere dei figli di papà di Harvard che denunciano il  «genocidio in corso a Gaza», o nel vedere i "Queers for Palestine" che strappano i manifesti in cui si vedono gli ostaggi israeliani. L'aria si fa soffocante, nel sentire quattro pagliacci del collettivo Tsedek prendere il posto della  clownesca "Unione Ebraica Francese per la Pace" svolgere il loro ruolo di utili ebrei per l'antisemita Houria Bouteldja, mentre fingiamo stupore quando scopriamo che, non appena viene invitato il coefficiente ebraico, tutte le inter-sezionalità diventano un gioco a somma zero. Ma per l'esattezza, cosa c'è esattamente di così sorprendente in tutto questo? Che cos'è che ci si aspetta – messianicamente  – che ci dovrebbe rivelare una delusione così ingenua? In nome di che cosa, si spera che tutto ciò che finora è sempre stato, potesse cessare miracolosamente di continuare a verificarsi?

   Per quale miracolo, coloro che hanno bruciato gli ebrei di Strasburgo nel 1349, che hanno assassinato i loro vicini a Barcellona nel 1391, o che hanno bruciato le abitazioni ebraiche a Baghdad nel 1948, avrebbero smesso di continuare ad avere dei successori nel 2023? Chi mai può credere che i cosacchi, le Einsatzgruppen, gli agenti di Stalin o le truppe degli Almohadi avrebbero agito solo per dei motivi, e in circostanze, peculiari di quello che è stato un determinato tempo, o di uno specifico gruppo? Di quale schizofrenia collettiva soffriamo se, nel mentre brandiamo l'indistruttibilità del popolo ebraico, allo stesso tempo rimaniamo scossi a causa di ogni tweet antisemita da parte dell'ultimo influencer in voga? E soprattutto, che senso ha commemorare, a Purim, l'archetipo del progetto genocida di Haman, cantare ad Hanukkah l'oscurità dell'esilio, e ricordarci solennemente, nel corso del Seder di Pesach, che «in ogni generazione, esse (le nazioni) si sollevano contro di noi, per farla finita con noi»? A quale mascherata stiamo giocando quando leggiamo, nel corso di tutto l'anno, gli avvertimenti di Mosè a proposito delle «madri che mangeranno i propri figli» [*1], o  le imprecazioni di Isaia contro il suo popolo infedele, e le lamentazioni di Geremia sulla decadenza di Israele, se poi non siamo capaci di farle nostre nel momento in cui la realtà viene a scontrarsi con i testi? Legittimamente, si può anche non dare alcun credito a questi testi. Ma non possiamo dire che i nostri antenati - proprio coloro i quali ci hanno reso ciò che siamo, e che sono gli artefici di quei «4000 anni di Storia» di cui noi così tanto ci vantiamo, non vedessero alcun senso in tutto questo.

   Ma c'è in me uno stupore ancora più grande: quello che mi viene suscitato da coloro i quali, con discrezione e nobiltà, con parole e piccoli gesti sfidano la legge antisemita della Storia. La dignità del genitore di uno studente della scuola pubblica dove vanno i miei figli, con il quale non si era mai andati oltre quella fase minima delle chiacchiere e che, dopo diversi giorni di riflessione, mi ha scritto la sua compassione con parole semplici, scusandosi per non aver scritto prima, perché «tutte le parole sono goffe». L'eleganza di quell'amico arabo che, durante un pranzo programmato da tempo, si guarda bene dal tirare fuori "la situazione", ben sapendo che questo porterebbe solo a un dialogo tra sordi, il quale non potrà fare altro che alterare un'amicizia che ci sta a cuore. Infine, il coraggio del compagno non ebreo di un amico, un eminente artista le cui opere circolano in un ambito unanimemente pro-Hamas, e che sceglie di soffrire in silenzio, e vivere nella sua carne la solitudine ebraica dei propri cari. In nessun caso si tratta di persone che traboccano sionismo o filo-semitismo. Semplicemente, intuiscono, nell'intimità del loro essere, il mistero di Israele. La tradizione ebraica definisce questo tipo di persone con una formula: “hassid oumot haolam”. "Oumot haolam",  sono le nazioni del mondo. “Hessed” - la radice di "hassid" - significa semplicemente generosità o pietà (da cui “hassidim”).

   Ma il suo significato primario indica un eccesso [*2], uno straripamento, qualcosa che fa saltare in aria l'ordine naturale - e quindi crudele - delle cose. Insomma, si tratta di una violazione che sconvolge le coordinate della realtà. L'odio verso gli ebrei è la regola, e non c'è da stupirsi. Ma ciò che è sconcertante è il contrario: coloro che sconvolgono il corso intangibile della Storia. E poi c'è il colpo di martello, quello che ha offuscato tutti i nostri radar morali e mentali. Mi riferisco al gesto - incredibile e insopportabile - compiuto al momento della liberazione dell'ostaggio Yocheved Lifschitz, 85 anni, consegnata dal suo carceriere di Hamas alla Croce Rossa. L'anziana signora, prima di separarsi dallo scagnozzo armato e mascherato, lo vuole salutare. Si gira verso di lui, e gli porge la mano. E il terrorista l'afferra e l'accarezza con un gesto inconfondibilmente caloroso. Certo, si può tranquillamente invocare la sindrome di Stoccolma, la follia della vecchia, o la cinica strategia di comunicazione di Hamas, e continuare ad andare avanti. Ma nessuno può negare che quest'uomo, per due secondi, si sia trovato a essere animato da un brivido che assomiglia all'umanità. La scena mi ha ricordato un passaggio di "Maus", in cui Spiegelman padre racconta come ad Auschwitz egli abbia stretto "amicizia" con una delle guardie delle SS, un po' meno crudele delle altre, con cui gli capitava di parlare del più e del meno durante i momenti rubati alla quotidianità infernale del campo di sterminio.

   Ora, questo tizio di Hamas, nei prossimi giorni, verrà certamente liquidato dall'IDF, così come avverrà con la maggior parte dei suoi compari, e io sarò l'ultimo a commuovermi. Il suo gesto non lo salva, né tantomeno lo esonera da nulla. Quaggiù non c'è la minima traccia dell'amore di Cristo per il nemico, da andare a cercare. Rappresenta solo un segnale per cui anche coloro che definiamo, in mancanza di una parola migliore, come barbari e selvaggi, possono essere anch'essi attraversati da qualcosa che, contro la loro stessa volontà, ci meraviglia. Ma lo stupore si trova sempre a essere, letteralmente, all'origine stessa del mondo. Nel secondo versetto della Torah, l'universo è "Tohu-Bohu"; un hapax biblico, questo, di cui nessuno conosce il significato. Rashi - in quella che è la prima delle migliaia di glosse, in francese medievale, che scandiscono il suo commento alla Torah e al Talmud - introduce, nel caos semantico, il discernimento: "Tohu", scrive, significa "estordison", vale a dire, ciò che accade nel momento in cui un uomo viene colpito dallo stupore e dalla meraviglia [*3].

   Così, gli ebrei, e i loro amici, sono quelli che si stupiscono, quelli che non vengono mai a patti con il mondo così com'è, e loro stessi, a loro volta, sono stupefacenti. Quella che è la popolazione più anziana  del mondo, si trova a essere perennemente stupita, come un neonato, stupefatta in ogni momento da tutto ciò che la circonda. Ed è questo - questa insaziabilità, questa incapacità di essere sazi di significato - che non le viene perdonato.

Ruben Honigmann - Pubblicato il 1° novembre 2023 su https://k-larevue.com/

NOTE:
1    Deutéronome ch.28, v.57
2    Cf Lévitique 20,17 et Pirqé de Rabbi Eliezer, traduit et annoté par Marc-Alain Ouaknin et Eric Smilevitch, Verdier, 1992, p130, note 6.
3    Cf Alain Weill, Quand Rachi parlait français. Les laazim de Rachi dans le Tanakh. 2023, p.17

mercoledì 13 agosto 2025

«L’archeologia è un mezzo per conoscere sé stessi» !!!

La ricostruzione di un capolavoro investigativo senza pari nella recente archeologia europea.
Una sepoltura rituale. Una donna, un bambino. Le circostanze della morte inspiegate. Scoperta dai nazisti nel corso degli anni trenta e usata per i loro scopi di propaganda razziale, la tomba – rinvenuta nel cuore della Germania e risalente a 9000 anni fa – è poi caduta nell’oblio. Ora il caso irrisolto della sciamana di Bad Dürrenberg viene riaperto. E si tratta di uno dei ritrovamenti archeologici più interessanti d’Europa. I nazionalsocialisti avevano scambiato lo scheletro per quello di un vecchio dalla pelle chiara, un antenato degli ariani. In realtà, appartiene alla donna più importante della sua comunità: aveva la pelle scura, ed è stata una delle ultime “donne magiche” a vivere nell’Europa centrale ai tempi dei cacciatori-raccoglitori del Mesolitico, prima che Homo sapiens diventasse stanziale. Harald Meller e Kai Michel ricostruiscono, con l’aiuto di tecnologie all’avanguardia, l’avvincente destino di una donna avvolta dal mistero, si addentrano nelle radici della spiritualità di una comunità scomparsa nel pieno dei grandi stravolgimenti dell’evoluzione della nostra specie e ci mettono di fronte alle nostre origini di esseri umani. Ma mostrano anche come l’ideologia possa manipolare la ricostruzione della preistoria umana stravolgendo il passato. Conoscere la storia della sciamana ci aiuterà a capire chi siamo.

(dal risvolto di copertina di: HARALD MELLER e KAI MICHEL, "Il mistero della sciamana. Un viaggio archeologico alla scoperta delle nostre origini". FELTRINELLI, Pagine 366, € 24)

La maga di pelle nera era l’antenata dei nazisti
- di Fabio Genovesi -

   Un mattino di maggio nelle campagne di Bad Dürrenberg, Sassonia, un operaio scava per piazzare una conduttura dell’acqua nel nuovo parco termale. L’inaugurazione si avvicina, c’è poco tempo e deve sbrigarsi, ma ecco che un tempo diverso e lontanissimo arriva a fermare i lavori. Quando la terra sotto la vanga diventa rossa, e da quel colore magico spuntano delle ossa. L’operaio chiama l’istituto di preistoria di Halle, e in un attimo studiosi e soldati contornano la fossa, si affacciano a scoprirne il contenuto e si ritrovano a fissare, muti e increduli, uno specchio. In realtà hanno scoperto la sepoltura di un uomo che tiene in braccio un neonato, contornati da un corredo così vario e ricco per quantità e qualità che un romanzo fantasy non saprebbe aggiungerci altro. Eppure quegli uomini osservano uno specchio. Perché è il 1934, siamo nel Reich Millenario di Hitler. Che invece di Mille anni ne sarebbe durati una dozzina, ma quel mattino era nel pieno del suo delirante furore. Così l’istituto di preistoria ammira, chiara e inesorabile davanti a sé, la prova che gli occorreva, e annuncia al mondo che le vere origini degli Ariani non vanno cercate in India, in Tibet o uno di quei posti lontani, scomodi e diversi, bensì nel cuore della Heimat: gli Ariani devono la loro esistenza a «uno sviluppo completamente autoctono in Germania». Ecco cosa vedono nella tomba gli studiosi nazisti, esattamente quello in cui credono, quello che gli occorre, quello che sono. Insomma, osservano uno specchio. Non si curano del neonato che il loro Ariano regge in braccio, né del ricchissimo corredo di denti e ossa animali, utensili e misteriosi oggetti votivi. Vedono le ossa di un uomo, bianche come la pelle che un tempo certamente le copriva, fiero come il suo trionfo sulle difficoltà naturali quando diede inizio al disegno voluto dal Destino: il dominio del popolo germanico, antichissimo, autoctono, superiore.

   Ecco perché, dopo quella dozzina d’anni, sparito Hitler e sparite le svastiche, la tomba di Bad Dürrenberg è sparita con loro, dimenticata da una società che adesso la trovava poco interessante e addirittura scomoda. Fino agli anni Novanta del Novecento, quando è stata riscoperta, perché dopo mezzo secolo di oblio si sono posati su di lei occhi nuovi e diversi, che ci hanno visto qualcosa di nuovo e diverso, e tanto suggestivo: ancora una volta, insomma, osservavano uno specchio. Come i nazisti si emozionavano a vederci un originario combattente ariano, la moderna umanità resta incantata ad ammirare i resti di un antico sciamano. Gli sciamani, negli anni del consumismo e dell’economia al potere ci attraggono, ci ammaliano, ci seducono. Forse perché «la visione scientifico-meccanicistica del mondo ha reso muta la natura. Il silenzio del mondo, causato dalla perdita delle reti umane e animistiche, ha portato a un dolore fantasma che ci affligge senza che ne conosciamo veramente il motivo. Siamo tormentati da un desiderio appena cosciente e indefinibile, dietro al quale si cela un bisogno di risonanza sociale». Gli sciamani ci chiamano dal profondo di questo nostro desiderio mistico, e credere di averne trovato uno in questa tomba è una tentazione irresistibile, anche per studiosi severi come Michel Kai e Harald Meller autori de Il mistero della sciamana (Feltrinelli): oggetti misteriosi, maschere di corna di cervo, doni votivi che abbondano intorno alle sue ossa, già a una prima occhiata tutto accende in noi il fuoco dell’entusiasmo, e su questo fuoco i successivi test scientifici rovesciano altra benzina, illustrandoci uno scenario che non solo smentisce le certezze dei sogni nazisti, ma le ribalta nel loro incubo più nero. Nero come il colore dei capelli del loro ariano, nero come la sua pelle.

   A quei tempi infatti, nove millenni fa, gli abitanti della futura Europa avevano la pelle scura, e a sbiancarla — con un senso dell’ironia che solo la realtà possiede così acuto — sarebbero arrivati i popoli dal sud, i primi contadini provenienti dall’Anatolia, che portarono con sé l’agricoltura, il bestiame, la ceramica, e il colore chiaro dell’incarnato. La pelle bianca, invece di essere bandiera di purezza e identità, lo è del nostro passato migratorio. Ma la tomba risale a un tempo precedente, infatti vi è sepolto un uomo di colore. Anzi, la realtà è ancor più spiazzante, perché si tratta di una donna. La cui sepoltura sontuosa in un luogo speciale ci mostra quanto fosse ascoltata, rispettata, venerata dalla sua comunità. Testimonianza di un mondo lontano, prima che l’agricoltura imponesse i meccanismi soverchianti della proprietà, delle differenze sociali, del patriarcato. Questa donna ci guarda da un’epoca in cui l’uomo sopravviveva perché collaborava, perché una comunità aiutava quelle vicine nelle stagioni in cui la terra era più generosa con lei, per poi ricevere la stessa attenzione nelle opposte occasioni. Senza classi sociali a separare gli individui, e senza differenze di genere. Nessuno era destinato per nascita a badare alla casa — che nemmeno esisteva — e donne e uomini cacciavano, vagavano, esercitavano le arti curative. Insomma, nella tomba dove i nazisti vedevano il loro fiero ariano originario, oggi c’è una donna di colore che dispensa conforto e cure alla comunità, trovando comunque il tempo per essere una madre amorosa, che dopo millenni ancora stringe al petto il suo bambino.

   Niente potrebbe risultare più appetibile al palato della nostra epoca, eppure la tomba ci riesce. Abbiamo detto infatti che la signora di Bad Dürrenberg è una sciamana. Contornata di oggetti mistici e sacri, era un’anima speciale, in contatto con gli spiriti della Natura e dell’Aldilà, possedendo doti e conoscenze che forse risiedono in tutti noi, ma solo qualcuno è in grado di accedervi. Gli sciamani, anche la loro storia è molto cambiata nel tempo. Il nome deriva da figure specifiche dell’area siberiana, raccontateci con spregio dai colonizzatori e dai sovietici come la forma più antica di quei sacerdoti che sostenevano gli interessi delle élite, responsabili della cacciata dell’uomo dal paradiso del «comunismo primitivo». Poi il ribaltamento: dagli scritti degli anni Cinquanta ai movimenti hippy e New Age, da Mircea Eliade a Jim Morrison, gli sciamani diventano guide e spiriti superiori, tanto preziosi nel silenzio di un mondo che ha perso le sue reti umane e spirituali, in preda al dolore di una perdita così lontana che non riusciamo a ritrovarne il motivo, consumandoci in un desiderio che inutilmente proviamo a soddisfare con la ragione e il materialismo. Lo sciamanesimo ci promette una fuga dal soffocante grigiore dell’oggi, verso un passato ancestrale e un mondo ultraterreno, un richiamo così forte nel silenzio tecnologico della solitudine contemporanea.

  E allora, appassionati e incantati, percorriamo fino alla fine le pagine di questo libro, scritto con l’accuratezza degli scienziati ma insieme con la suspense di un’indagine da detective, su un cold case che da nove millenni attendeva di essere risolto. La soluzione, oggi, è che la tomba di Bad Dürrenberg ci mostra effettivamente un’antica sciamana, come negli anni Trenta ci ha mostrato un guerriero ariano, e chissà se diventerà qualcos’altro un giorno nel futuro. In ogni caso, sarà quel che ci occorre. Perché l’unica certezza è quella che i due autori scrivono solo di passaggio: «L’archeologia è un mezzo per conoscere sé stessi». Proprio in come guardiamo il mondo e gli altri, noi capiamo cosa cerchiamo, cosa vogliamo, cosa siamo. Intorno a noi, davanti ai nostri occhi, il mondo è un enorme castello degli specchi. Cerchiamo, ammiriamo, descriviamo, ma mentre pensiamo di riflettere, inevitabilmente noi ci riflettiamo.

- Fabio Genovesi - Pubblicato su La Lettura del 21/7/2024 -