sabato 30 settembre 2023

Artsakh !!

Nel Nagorno-Karabakh: Esecuzione, Capitolazione, Occupazione
- La resa incondizionata della regione armena del Nagorno-Karabakh,  in seguito a un attacco da parte dell'Azerbaigian, sancisce anche la conclusione di una tutta una costellazione geopolitica storicamente cresciuta nel Caucaso meridionale -
di Tomasz Konicz

Con ogni probabilità, la propaganda relativa all'Azerbaigian, come modello ha preso quello della Russia. Il 19 settembre, l'esercito azero, di gran lunga superiore, ha nuovamente invaso la regione del Nagorno-Karabakh, prevalentemente abitata da armeni. Pochi giorni prima, per comunicare e simboleggiare la conquista finale delle aree di insediamento armeno, sui media e sulle reti del paese del Caucaso meridionale era apparsa una "A" rovesciata, simile a quella lettera "Z" usata dalla Russia per simboleggiare la sua guerra di aggressione contro l'Ucraina. L'esercito armeno - che non si è mai ripreso dalla sconfitta subita nell'autunno del 2020 dal modernissimo esercito dell'Azerbaigian -  non è intervenuto. Subito dopo l'inizio dei combattimenti, le autorità azere hanno riferito di aver informato dell'attacco sia la Russia che la Turchia. Dopo la guerra del 2020, nella quale l'Azerbaigian - in poche settimane di cooperazione informale con la Turchia - aveva ottenuto importanti conquiste territoriali, la situazione militare delle forze armate del Nagorno-Karabakh, che da quel momento in poi si erano trovate oggettivamente circondate, era diventata insostenibile. Inoltre, l'attuale campagna dell'Azerbaigian è stata preceduta da un blocco alimentare durato nove mesi, il quale ha chiuso il corridoio di Lachin dell'Azerbaigian: l'unica via di rifornimento tra l'Armenia e la Repubblica di Artsakh (come viene chiamata l'area di insediamento armeno dai suoi abitanti). Pertanto, l'attacco azero è stato più che altro un'esecuzione, nel corso della quale, in poche ore - in quella regione che dal crollo dell'Unione Sovietica era diventata praticamente indipendente - diverse centinaia di militari e di civili sono stati uccisi. Nel volgere di un giorno, le forze in Artsakh si sono arrese. La situazione dei circa 120.000 abitanti è drammatica. Nonostante il blocco mediatico imposto dall'Azerbaigian, continuano a trapelare notizie relative ad attacchi e omicidi di civili, mentre decine di migliaia di persone fuggono per cercare rifugio nelle basi militari delle "forze di pace" russe e del quartier generale russo che si trova nel territorio dell'aeroporto della capitale della regione, Stepanakert, o per raggiungere l'Armenia. Mentre si negoziano le modalità di resa, l'esercito dell'Azerbaigian è alle porte. Secondo il governo uscente del Nagorno-Karabakh, il regime del presidente Ilham Aliyev si rifiuta di fornire garanzie di sicurezza e dare assistenza alla popolazione armena. L'Azerbaigian, fino a domenica non ha inviato alcun significativo aiuto umanitario nelle aree di insediamento armeno conquistate. Dall'Armenia, alcuni convogli umanitari della Croce Rossa, accompagnati da truppe russe, sono stati in grado di raggiungere il Nagorno-Karabakh. Nella capitale armena Yerevana, la decisione della leadership armena del primo ministro Nikol Pashinyan di non rispondere militarmente all'attacco azero, ha innescato delle violente proteste. I violenti assalti, avevano come bersaglio sia il liberale filo-occidentale Pashinyan, di cui sono state chieste le dimissioni, sia la Russia, in quanto ex "potenza protettrice" dell'Armenia. A Yerevan, fuori dall'ambasciata russa, i manifestanti denunciavano, come colonizzatori, il presidente russo Vladimir Putin e il suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, nel mentre che il propagandista del Cremlino, Vladimir Solovyov, interveniva alla televisione russa per indignarsi a causa di queste proteste anti-russe. Nell'autunno del 2020, l'attacco azero al Nagorno-Karabakh si era concluso  con un cessate il fuoco che era stato mediato dalla Russia, in base al quale le truppe russe rimanevano di stanza nella zona di conflitto, al fine di prevenire un'ulteriore escalation. A quel tempo, il governo russo era ancora in grado di posizionarsi, come potenza d'ordine, in una regione geo-strategicamente importante, e ciò nonostante gli aiuti militari turchi all'Azerbaigian, che hanno favorito in maniera decisiva la sua vittoria. Pertanto, la perdita delle enclavi di insediamento armeno, che con la conquista della Repubblica di Artsakh ora diventa evidente, con ogni probabilità comporterà l'erosione finale dell'egemonia russa nel Caucaso meridionale.

Tutto ciò segna la fine di un'era. Per secoli, la Russia è stata considerata come la protettrice degli armeni cristiani e, fino a pochi anni fa, come uno stretto alleato dell'Armenia. Questo è cambiato dopo che, nel 2018, Pashinyan è andato al potere a seguito di un'ondata di proteste liberali, quando i crescenti accordi sulle armi tra Putin e il regime autoritario di Aliyev - la cui spesa militare era superiore al bilancio statale armeno grazie ai lauti proventi provenienti dal gas naturale - hanno portato a un cauto orientamento dell'Armenia verso l'Occidente. Lubrificate per mezzo di alcuni accordi miliardari, le relazioni tra i regimi autoritari di Mosca e di Baku apparivano migliori di quanto fossero quelli tra Putin e il liberale Pashinyan. La posizione passiva, assunta durante la guerra del 2020 - quando il governo russo non ha fornito alcun aiuto sostanziale all'alleato armeno, mentre invece i droni turchi sparavano sulle forze armate armene - è stata ampiamente interpretata come una forma di punizione. Di fatto, il governo russo ha venduto l'Armenia all'Azerbaigian e alla Turchia, che grazie ad alcuni accordi sulle armi e sull'energia nuotano nei petrodollari – avendo calcolato che il paese impoverito non avrebbe comunque altra scelta di politica estera se non quella dei legami con la Russia. Tuttavia, ora in Armenia sembrano determinati a considerare la perdita del Nagorno-Karabakh come il prezzo da pagare per il proprio orientamento forzato verso ovest, usandolo per liberarsi così dalla rovinosa morsa della Russia. Nel frattempo, i funzionari governativi hanno chiesto pubblicamente che le truppe russe che si trovano nel Nagorno-Karabakh vengano ritirate, e sostituite da forze di pace delle Nazioni Unite; mentre dal Cremlino viene apertamente richiesto che in Armenia ci sia un cambio di regime. Con la conquista del Nagorno-Karabakh da parte dell'esercito azero, diventa probabile che anche nel Caucaso finisca l'egemonia russa. L'Azerbaigian non ha più bisogno delle sue buone relazioni con la Russia, dato che è stato raggiunto quello che era un obiettivo strategico prioritario del regime. La guerra contro l'Ucraina, che consuma risorse su risorse, rende improbabile un intervento militare della Russia nel Caucaso, facendo sì che gli attuali attacchi azeri alle truppe russe e ai centri logistici nella regione - che hanno causato la morte di diversi soldati e ufficiali russi - divengano solo un rischio calcolabile.

Nel frattempo, la Turchia, partner della NATO, si spinge in quella che è una regione strategicamente importante. Non appena avviata la "pulizia etnica" del Nagorno-Karabakh – nei territori conquistati nel 2020 , l'Azerbaigian ha cercato perfino di cancellare quelle che erano le tracce storiche dell'insediamento armeno – il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha rivolto ancora altre minacce alla Repubblica di Armenia. Parlando alle Nazioni Unite, ha chiesto all'Armenia di aprire il corridoio Zangezur, che collegherebbe l'exclave di Nakhchivan, che appartiene all'Azerbaigian, con il resto del territorio del paese. Dopo la conquista del Nagorno-Karabakh, l'obiettivo strategico centrale della Turchia e dell'Azerbaigian è quello di costruire un ponte terrestre tra i due stati – e questo progetto può essere realizzato solo attraverso il territorio armeno. Gli attacchi azeri al territorio armeno hanno avuto luogo sporadicamente anche dopo la guerra del 2020. Esiste pertanto una grande convergenza di interessi tra quelle che sono le aspirazioni imperiali della Turchia e gli interessi geopolitici dell'Occidente, i quali, tradizionalmente, amano guardare dall'altra parte quando i suoi alleati e i suoi fornitori di gas calpestano i diritti umani o mettono in atto "pulizie etniche"; come è avvenuto di recente ad Afrin.

Creare un collegamento terrestre con l'Azerbaigian, rappresenterebbe un ulteriore accesso ai combustibili fossili del Mar Caspio e dell'Asia centrale, e un tale corridoio correrebbe a sud di quella che è la sfera di influenza russa ancora esistente. Inoltre, l'asse nord-sud tra Russia e Iran si troverebbe a essere tagliato nel Caucaso: un importante obiettivo geopolitico dell'Occidente. Nel 21° secolo, la tragedia dell'Armenia corrisponde la fatto che essa ostacola tali piani. Ciò spiegherebbe anche le moderate reazioni da parte di UE, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti rispetto alla rinnovata aggressione dell'Azerbaigian. Inoltre, l'Armenia impoverita, semplicemente, non dispone né di risorse né di fonti energetiche, che potrebbe usare come mezzo di pressione, o come leva, similmente a come fa l'Azerbaigian. Pashinyan sembra aver risposto tutte le sue speranze in una rapida integrazione in Occidente, per salvare quanto meno l'integrità territoriale del paese. Ma anche in una costellazione del genere, l'Armenia rimane in netto svantaggio rispetto a un regime basato sul gas naturale come quello dell'Azerbaigian: il 21 settembre, mentre il suo esercito ha preso d'assalto il Nagorno-Karabakh, a New York si poteva vedere il presidente degli Stati Uniti Joe Biden che posava davanti alle telecamere insieme al ministro degli Esteri azero Jeyhun Bayramov.

- Tomasz Konicz - Pubblicato il 28/9/2023 su Jungle World -

venerdì 29 settembre 2023

"Compagnerie"...

Succede. E non è che propriamente avvenga per un motivo preciso. È come qualcosa che scatta e ti chiede il perché. Così ieri sera, mentre seguivo una richiesta - che c'era stata - a proposito dell'edizione inglese di in libro di Zygmunt Baumann, cui avevo risposto dando la mia "dritta", e poi mi sono accorto che alla stessa richiesta aveva risposto in maniera ancora più precisa @Aldo Pardi. Ora, io Aldo Pardi lo conosco. E non perché lo abbia mai incontrato di persona, o sappia chi sia - se non per le sue interessanti referenze bibliografiche - quanto perché piuttosto mi sono ricordato che con lui, nel febbraio 2020, avevo avuto una "chat" su Messenger su argomenti che ricordavo "interessanti'. Mi sono anche rammentato del fatto che Aldo, qualche tempo dopo, mi "aveva tolto l'amicizia" - senza che io ne sapessi il motivo -, cosa su cui, al tempo, mi ero interrogato circa quali fossero stati i motivi. Poi, causa COVID - come si fa spesso in casi simili - avevo rimosso e non ci avevo più pensato. E questo fino a ieri, quando, dopo aver riletto l'antica conversazione ed essermi fatto venire la brillante idea di renderla pubblica (cosa che per correttezza avrebbe richiesto il parere dell'interlocutore) ho deciso di comunicargli la decisione di pubblicare lo scambio, approfittandone per chiedergli come mai fossi stato "de-amicato";  cosa di cui ovviamente non ricordava il motivo, e lo attribuiva al nostro comune "brutto carattere", come senz’altro sarà stato. Comunque abbiamo convenuto che, oltre a tornare a "frequentarci" , anche quella del pubblicazione della corrispondenza avrebbe potuto essere una buona idea (come ebbe a dire quello nel famoso aneddoto in cui era salito su un cactus, dopo essersi spogliato nudo), che magari qualcosa smuove. Eccola qui di seguito. Hai visto mai?!??

La conversazione (chat) sulla "compagneria"

- Domenica 9 febbraio 2020 -

Aldo Pardi: «Ciao Franco, grazie dell’amicizia. Su tante cose non siamo d’accordo, e hai come amici dei personaggi da avanspettacolo dell’”antagonismo” che io disprezzo (Scalzone, per esempio), ma ho rispetto per te e ti seguo con attenzione. Un caro saluto.»

Franco Senia: «Ciao Aldo. Apprezzo ovviamente la sincerità, insieme alla critica, anche quella a 360 ° e che può perfino arrivare ad investire persone come @Oreste, la cui amicizia (personale e stretta, e non limitata a fb) mi onora e del quale probabilmente, forse, apprezzeresti la caratura umana. Ma qui si entra nei percorsi umani personali, e io non so nemmeno se tu lo conosca personalmente (e magari è proprio per codesto che lo disprezzi... e io ne conosco diversi di ex potop che sono arrivati a considerarlo un pazzo da tenere lontano). Del resto, siamo quel che siamo, e siamo anche il modo in cui siamo arrivati ad esserlo. Detto ciò, ti ringrazio per l'apprezzamento, e se si dovrà discutere, si discuterà. Un saluro a te. Ciao»

A.P.: «Certo! Anzi, discutere con rispetto reciproco e con distacco laico è quello che ci serve di più. Conosco Scalzone, e conosco la sua cricca -  italiana ma anche parigina, perché ho vissuto a Parigi dieci anni - . fa parte di una cerchia di gente falsa e opportunista, del tutto degna de loro papa, Negri. Gente che gioca a fare l’”antagonista” ma che sono baroni universitari, gestori di una lobby de sistema accademico che funziona come lobby; ammanicati fricchettoni, reduci pasciuti, affaristi dell’editoria fricchettona ( come Derive Approdi o La Fabrique) e imprenditori della industria radical-chic “solidale” genere le “cooperative” casariniane a Padova (che beccavano soldi da Cacciari e Livia Turco, di cui Casarini in persona era « consulente ») e quelle fariniane a Milano. E potrei dirne centinaia di altre, compresa l’operazione « disobbedienti » prima con Rifondazione, poi con Sel.

F.S. «Un saluto ovviamente, e non un saluro!!»

A.P.: «Certo! (Continuo) il tutto compiuto secondo il più sfrontato dei narcisismi sussiegosi. Su tutto questo, il nostro « rivoluzionario » ha sempre taciuto, salvo poi andare a fare le sceneggiate in piazza. Cioè, finché si tratta di fare lo spettacolo della rivolta contro dei « grandi » caricaturali, va bene. Ma quando il padrone sono i nostri amichetti, « autonomi », si tace. E non ho toccato il versante « Bifo ».»

F.S.: «Certe cose di cui parli, fanno sicuramente parte delle "contraddizioni" di Oreste. Compresa la quota di narcisismo di cui parli. Certo, Oreste va "dappertutto", e -come dire - non rinnega nessuno. Per cui si tiene Tronti e Casarini e tutti quelli che hai nominato, e non si taglia nessun ponte. Ma non credo lo faccia per interesse personale. Forse per mettere in scena quello che hai appena chiamato spettacolo della rivolta. Ma solo per continuare a credere in quella che lui chiama compagneria e che gli serve per continuare a credere che "i bei tempi" ci siano stati davvero. Solo che se ci sono stati non erano certo belli, tutt'al più divertenti. Erano tempi, questo sì. Oreste vorrebbe continuare a viverci e fa di tutto per non essere lui quello che se ne chiama fuori. Banalmente, per quel che vale, gli voglio bene! Tutto qui. (Con Bifo è tutt'altro discorso. Non ho con lui un'amicizia personale. Ma ritengo che ogni tanto abbia dei buoni ... spunti, come li hanno i Sergio Bologna e i Renato Curcio)»

A.P: «Sono d’accordo con te, pienamente. Solo che per me questo è quello che Deleuze chiamerebbe: “vita all’insegna  delle passioni tristi”, cioè il sistema di vita del regime nemico. Che poi venga tenuto con la maschera luxemburghiana dell’”insorgenza generale”, è solo un’aggravante.»

F.S.: «Se io fossi Oreste credo ti risponderei touche!»

A.P.: «Poi capisco che tu abbia affetto, ci mancherebbe. Ahahahahaha credo mi manderebbe affanculo in ternano...io sono pure di Perugia.

F.S.: «Diciamo che va in giro a fare ... Buffalo Bill...»

A.P.: «Già...e fa danni immensi. Come con i Gilets jaunes che sono il corrispettivo dei “forconi” nostrani. Su Bifo e Curcio, sarebbe un discorso lungo...comunque, tra i due circoliamo tra millenarismo idealista ad uno spiritualismo cattolico episcopale...due figure emblematiche del gorgo ideologico in cui ci giriamo dalla fine degli anni ‘70. Per la grande disperazione di Panzieri, che ce l’aveva detto che sarebbe successo... Scusa, ti rompo le scatole la domenica pomeriggio...Abbi pazienza...»

F.S.: «Credo che i danni, per fortuna o purtroppo, siano relativi assai. Tutto quello che si muove - o é solo quello che vediamo noi - sembra essere già marcio e irrimediabilmente corrotto. Gli unici luoghi in cui le idee sembrano girare ed essere considerate alla fine appaiono essere i luoghi del "nemico", impestati di sovranismo razzista e antisemita. Ovunque si veda uscita dal capitalismo, si tratta di anticapitalismo tronco. Altrove si fa solo accademia, o sindacalismo, vale a dire ... capitalismo... Comunque , grazie per la piccola discussione. Tanto oggi è domenica e fuori il cielo è grigio  :-) »

A.P.: «La vedo proprio come te...ma poi mi chiedo: ma perché non provare a fare “altro”...e dare un senso si alle nostre generazioni inutili (che è la tragedia nostra...ci vorrebbe un bravo romanziere per narrarla...)...dobbiamo ritrovare dei luoghi, delle situazioni in cui affrontare i problemi - che ci portiamo appresso dagli anni ‘70 - , senza rimuoverli nell’ideologia. Un po’ come hanno fatto Kurz e quelli del gruppo “Krisis”. Non sempre condivisibili, ma dall’approccio ineccepibile: essere comunisti senza essere ideologici (come avevano tentato Deleuze e Foucault...e Panzieri...e gli anarco-comunisti italiani. Che, per inciso, erano del sud, alla faccia di ogni sviluppismo nazional-corporativo industrialista “operaio”...e conta un sacco...»

F.S.: «Credo che il bravo romanziere di cui siamo in cerca, debba ancora nascere! Vabbe' ... abbiamo tempo, vorrà dire che ci disporremo ad aspettarlo :-) Però, scusa, mi hai fatto tutta quella pappardella, e poi, colpevole la curiosità, ho visto che anche tu hai Oreste fra gli amici di fb!! Ahahahaha»

A.P.: «E certo! Devo vedere che combina!!! Ahahahahaha Un altro caro saluto Franco, e grazie della chiacchierata. Magari, quando ti va - ed è grigio- , ce ne facciamo un’altra più sulle “cose” e meno sulle persone...»

F.S.: «Ok. Sarà un piacere. Ciao».

- Mercoledì 27 settembre 2023 -

«Stavo rileggendo la nostra ormai antica conversazione di quasi 4 anni fa (...) e mi son detto fra me e me, mezzo scherzando mezzo no, che quasi quasi la pubblico la nostra conversazione.» (F.S.)

«Ciao Franco. Sarebbe una buona cosa, renderla pubblica. Se c'è una cosa di cui abbiamo bisogno, con urgenza e necessità, è di sassi nello stagno che, come bombe, rompano la cappa - le cappe - d'ipocrisia e conformismo gregario dove anneghiamo da troppo tempo, in una miserabile agonia. Un po' di sconvenienza ribalda, che muova le acque e rimetta in moto la critica, cioè la voglia di respirare aria nuova, drenando la palude - del falso e degli ideologismi falso-rivoluzionari(A.P.)

«Non è sapienza, il sapere» !!

La tragedia è il regno dell’irrazionale, il trionfo degli istinti che si traducono in atti estremi, per questo Platone la temeva e la avversava; perché fa emergere la materia informe e oscura della mente e la concretizza non in parole, ma in personaggi che agiscono e somigliano così tanto a veri esseri umani. Tutto nella tragedia avviene qui, nel mondo degli uomini e delle donne. Per le nostre sofferenze non c’è una spiegazione, né sono giustificate da una colpa o da un piano divino, esistono, esiste questo groviglio in cui siamo legati: sono una parte inevitabile del gioco e in fondo a tutto c’è il mistero. Giulio Guidorizzi ci rivela, con l’acribia del grecista, i segreti del mondo degli antichi, e ci mostra, con lo sguardo appassionato del narratore, quanto di noi ancora sopravvive di un tempo tanto lontano eppure vicinissimo. Le eroine e gli eroi del dramma greco portano infatti alla luce i mille volti che ci abitano, svelandoci ciò che eravamo, ciò che siamo e ciò che, malgrado i tempi che cambiano, continueremo a essere. Aristotele osserva che la tragedia comporta il passaggio tra una condizione e l’altra, dalla gioia alla sofferenza, e questa è la catastrofe. Tutto in poche ore, perché le convenzioni tragiche impongono che la sventura attacchi d’improvviso un uomo nell’arco di una sola giornata: Edipo era re la mattina e miserabile alla sera, Eracle trionfatore ma subito dopo folle e massacratore dei figli, Agamennone arriva in patria vittorioso ma nel momento del trionfo viene ucciso nella sua stessa reggia, persino Serse, il gran re persiano, convinto di essere invincibile, in una mattinata vede la sua flotta distrutta e si scontra con i limiti del suo potere. Ci può essere un ordine in questo caos? O non ce n’è alcuno? Eschilo si sforza di individuare una legge; il suo Zeus guarda dall’alto e dirige il timone della nave del mondo. Ma anche ammesso che esista una giustizia, e una regola che un uomo nella sua piccolezza non comprende, resta il fatto che noi non sappiamo dove vada la nave del mondo, o anche solo il nostro piccolo naviglio, perché il timoniere non lo dice. Forse il motivo che rende la tragedia così vicina all’uomo moderno è che, anche se ammettiamo che un essere umano decida quale via scegliere, o che un occhio guardi dall’alto le nostre cose e difenda la giustizia (ma, dice Euripide, non è vero che lo fa), possiamo comunque essere spinti alla rovina dalle energie irrazionali che ci agitano dentro, e di cui non abbiamo il controllo.

(dal risvolto di copertina di: Giulio Guidorizzi, "Pietà e terrore. La tragedia greca". Einaudi, pagg. 220, € 14,50)

Tragedia greca, così l'occidente scoprì l'interiorità
- di Piero Boitani -

Nell’ultimo libro della "Periegesi, la Guida della Grecia" che Pausania redasse nel II secolo della nostra era, viene ricordato un trivio sulla grande strada Schiste che conduce a Delfi. Al centro del trivio, dice Pausania, si trovano ancora le tombe di due protagonisti del mito, sovrastate da pietre scelte. È il luogo dove Edipo, senza conoscerne l’identità, uccise il padre Laio, e i due sepolcri sormontati da pietre sono quelli di Laio e del servitore che l’accompagnava. È l’incrocio più famoso dell’antica Grecia e della sua tragedia, quello dove si incontrano e si scontrano il caso e la necessità, la libertà e il destino. Ed è anche il luogo dal quale parte il libro di Giulio Guidorizzi: un volume nel quale l’autore fa critica narrando con vigore, chiarezza e concisione nonostante le biblioteche intere dedicate alla tragedia greca. Non per nulla, il titolo viene proprio dalla Poetica di Aristotele. «La tragedia è una forma mimetica di un’azione di carattere elevato, che ha un’estensione definita, in un linguaggio alto, divisa in varie e definite parti, di persone che agiscono e non raccontano, che attraverso la pietà e il terrore porta alla purificazione (kátharsis) da queste passioni». Eleos e phobos, pietà e terrore: se queste emozioni non vengono destate, non si dà tragedia, né tantomeno «purificazione» finale. Che non vuol dire «redenzione», perché nella tragedia greca, ancor più che in quella shakespeariana, la redenzione è del tutto assente. Il Libro di Giobbe, per quattro quinti il più tragico della Bibbia, conosce una redenzione finale, dopo che il patriarca si pente dinanzi a Dio. Nella stessa Heilsgeschichte umana, tragica dopo il Peccato Originale, ha luogo a un certo punto la Redenzione per eccellenza. Nulla del genere è consentito ad Agamennone, a Prometeo, a Edipo – non, almeno, a quello di Edipo re.

Gli eroi e le eroine della tragedia greca sono vittime, spesso inconsapevoli (perciò il «riconoscimento» ha un valore drammatico così forte), di una hamartía: la parola, che nel greco biblico vorrà dire «peccato», qui significa semplicemente «errore», accompagnato probabilmente da una «colpa» che è la generale fallibilità umana. Ecco perché Guidorizzi, nel primo capitolo del libro, che funge da introduzione generale su «Il tragico», parla di «ineluttabilità», di eventi concentrati nello spazio di un giorno, di «male oscuro», della differenza fra passioni epiche e passioni tragiche. Il contributo maggiore che la tragedia greca dà alla civiltà occidentale consiste, secondo Guidorizzi, nella «scoperta del mondo interiore». È certamente vero, ma la stessa cosa si verifica, in maniera diversa, nelle storie bibliche, dove proprio il rapporto col Dio unico costringe il personaggio a piegarsi su sé stesso e conoscersi. «Conoscere il bene e fare il male» è invece caratteristica saliente della tragedia greca, e Medea ne è l’esempio precipuo. Ma il paragrafo che Guidorizzi dedica al tema, nel quale in poche righe passa da Platone a Nietzsche, da Esiodo ad Aristotele sino allo spesso ignorato Gorgia, e da hamartía a hýbris, è uno dei migliori del libro. La seconda parte del quale, «La tragedia in azione», verte su sedici delle trentatré tragedie che ci sono rimaste dopo il cataclisma che ha sconvolto il mondo antico (il solo Sofocle aveva firmato un centinaio di plays). Tutta la discussione è qui illuminante ed elegante, talvolta commovente e straziante. Per esempio, sulle Supplici di Eschilo, tragedia «arcaica e strana» il cui protagonista è il coro, «e per di più un coro di donne egiziane»; oppure sull’Orestea, la trilogia più celebre dell’antichità, sovrastata dall’Inno a Zeus dell’Agamennone e tutta dominata dalla giustizia secondo vendetta o secondo la legge; o infine sui Persiani, la più antica, composta dopo la battaglia di Salamina, che ha al centro non i vincitori, coloro che hanno salvato la Grecia, ma gli sconfitti, Serse e i suoi, con il suo punto culminante, davvero straordinariamente emozionante, del racconto della battaglia fatto da un soldato persiano.

Tesa e intensa la sezione su Sofocle, cui fa da epigrafe il celebre discorso di Antigone, «Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo». Edipo re, Filottete, Aiace, Antigone, Edipo a Colono: qui sì che pietà e terrore la fanno da padroni, in particolare nella trilogia tebana, con i due drammi su Edipo e l’Antigone. Coinvolgenti le pagine sugli ultimi due, insuperabile il racconto dell’«incontro con la morte» dell’Edipo a Colono, scritto da Sofocle a novant’anni quando egli stesso doveva sentirsi sul punto di morire, dramma unico tra tutti quelli che abbiamo in cui il protagonista muore semplicemente sparendo alla vista e aprendo un mistero: «l’hanno afferrato», commenta Antigone, «plaghe occulte in una sorte arcana».

Se la tragedia greca terminasse qui, la nostra purificazione si potrebbe dire compiuta. Invece, occorre fare ancora i conti con Euripide, verso il quale Guidorizzi, come Aristotele, ha un debole. Da Alcesti in poi, passando tra le altre per le storie tremende di Medea e di Eracle, «il più tragico» dei tragici, come lo chiamava proprio Aristotele, si rivela il più paradossale, passionale, irrazionale, intellettuale, sperimentale e rivoluzionario dei tre, uno che arriva a domandarsi, quasi fosse sospeso tra Parmenide e Amleto, «che cos’è, poi, un dio, cosa non lo è, e cosa c’è nel mezzo?». È colui, infine, che conclude la propria carriera, e tutta la grande tragedia del V secolo, con le Baccanti, nelle quali compare Dioniso stesso, il dio all’origine della tragedia, a sconvolgere le menti delle sue seguaci sino al punto che Agave uccide il figlio Penteo e il Coro di baccanti si interroga: «Cos’è mai la saggezza? quale il dono più bello degli dèi ai mortali?». E si rispondono: «Non è sapienza il sapere».

- Piero Boitani - Pubblicato su Domenica del 4/6/2023 -

giovedì 28 settembre 2023

La Dottrina Politica dell’Emergenza e la Regolamentazione Statale del Mercato…

Comunismo di guerra: ne vuoi un altro po'?
- di Sandrine Aumercier -

Negli ultimi anni - per aggirare i crescenti rischi planetari, primo fra tutti la catastrofe ecologica - una parte della sinistra si è convertita alla difesa di uno stato di eccezione permanente. Nel corso delle loro cene, in nome dell'emergenza climatica, i grandi "democratici" non hanno più alcuno scrupolo nel sostenere la dittatura ecologica, e sono arrivati persino a prendere la Cina come esempio. Infatti, la Cina è il primo produttore mondiale di energie rinnovabili (e per inciso, anche il più grande produttore mondiale di carbone, ma in questo caso ciò non conta). Ora, questa tendenza sembra essere del tutto compatibile con quello che è il posizionamento dei nuovi rivoluzionari climatici. Nel 2017, Andreas Malm, riprendendo la formula da Alysa Battistioni, ha detto: «D'ora in poi, ogni problema è un problema climatico» [*1]. In effetti, questa sintesi lapidaria dei problemi del presente, sembra che stia imponendo una ben precisa direzione alla lotta. e vediamo quale. Dire che «ogni problema è un problema climatico», consente di individuare un nemico chiaramente identificabile nella sfera delle infrastrutture "fossili" e nella persona di coloro che queste industrie le posseggono. Per Malm - così come egli lo sviluppa nel suo libro "Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming" (Verso Books) - il capitale è intrinsecamente fossile. Pertanto, Malm definisce il capitale a partire da quello che è il tipo di energia che è stata privilegiata ai fini della sua espansione storica, e non a partire da quelle che, per il capitale, sono le sue categorie operative. Non è forse semplice, quasi fosse una passeggiata? Prendendo di mira le infrastrutture fossili e i loro detentori, stiamo perciò prendendo di mira il capitale stesso. Quello che ci mancava - e di cui avevamo bisogno - era solo la strategia appropriata, la quale ci viene esposta dallo stesso Malm nel suo "Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia" [*2]. E adesso, passiamo a considerare     quali sono le argomentazioni di Malm a favore del  "leninismo ecologico"; così come ci viene oggi da lui presentato nel centesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre:

1/ Lenin amava la natura (ragion per cui gli daremo a scatola chiusa la patente di “bravo ragazzo”). I decreti per la conservazione della natura, approvati dai bolscevichi non appena presero il potere, sarebbero la prova, secondo Malm, del fatto che i bolscevichi erano pionieri dell'ecologia. Seguendo l'agiografia marxista, Malm continua, attribuendo allo stalinismo i notevoli degradi ecologici dell'URSS, in modo da poter così salvare, nel suo bilancio finale, il leninismo. E conclude asserendo che: «Un bolscevico attribuisce un'importanza fondamentale alla conservazione della natura». Tuttavia, la politica di conservazione di Lenin - così come quelle che vengono messe oggi in atto dal mondo occidentale - rimaneva comunque guidata dall'unica preoccupazione di non sprecare inutilmente tutte le risorse necessarie alla produzione industriale pianificata. Della natura, egli conservava la medesima visione strumentale, tecnocratica e produttivistica della sua controparte capitalista [*3]. E in tal senso, la protezione della natura, così come la conoscenza scientifica delle sue leggi non erano altro che la forma di quello che era un interesse che era stato ben compreso. Tuttavia, ben presto, l'economia di guerra avrebbe mostrato quali erano i limiti delle leggi ambientali. Ci vuole una discreta malafede per riuscire ad affermare, come fa Malm, parlando di un paese ecologicamente devastato come la Russia, che: «La Russia dispone oggi delle più grandi riserve naturali del mondo, le quali sono anche le più protette (...). E questo è un guadagno duraturo dovuto alla rivoluzione!». Ragion per cui, le «zone protette» sarebbero quindi, ancora cento anni dopo, merito dei bolscevichi, mentre invece tutti i degradi esistenti sarebbero dovuti alla deviazione «burocratica» stalinista. Con una simile divisione dei ruoli, il dogma marxista dello sviluppo delle forze produttive rimane intatto, e in questo modo vediamo come un breve momento della storia venga perciò innalzato a mito del tutto avulso dal suo proprio contesto. Secondo un simile modello, la razionalità strumentale oggi potrebbe benissimo risolvere tutti i problemi che essa ha creato, a condizione però che la classe dominante venga cacciata (in modo da metterne così un'altra al suo posto). E se mai questa razionalità dovesse dare dei risultati contrari a quelle che sono le sue intenzioni, ecco che allora ciò avviene necessariamente solo perché essa è stata  ostacolata dagli attori del grande capitale; e non certo per delle ragioni immanenti a questa stessa razionalità!

2/ Secondo Malm, Lenin era un pensatore della catastrofe (ma non ne era certo uno dei suoi attori!). A testimone, Malm prende il testo di Lenin pubblicato nel 1917: "La catastrofe imminente e i mezzi per evitarla". Così, riciclando la ben nota formula di Lenin che definisce la rivoluzione come «i soviet più l'elettricità», Malm ci propone di «passare al 100% di energie rinnovabili» (vale a dire, di elettrificare tutta la produzione, e i trasporti). Per Malm - invocando la scienza che gli conviene ma di certo evitando di menzionare quello che è il groviglio delle sue contraddizioni - tutte queste misure sono «abbastanza realizzabili». E conclude: «Nella politica di Lenin, c'erano dei legami molto forti tra le categorie di emergenza, di coinvolgimento e di insurrezione, e lo stesso dovrebbe valere oggi per la nostra politica». Ma guardiamo più da vicino cosa proponeva Lenin nel 1917: «Le misure da prendere sono abbastanza chiare, semplici, perfettamente realizzabili, pienamente commisurate alle forze del popolo, e se queste misure non vengono prese, è solo, esclusivamente perché la loro applicazione danneggerebbe i profitti esorbitanti di un pugno di grandi proprietari terrieri e capitalisti. (...) Questa misura è il controllo, la sorveglianza, il censimento, la regolamentazione da parte dello Stato; la distribuzione razionale del lavoro nella produzione e nella distribuzione dei prodotti, il risparmio delle forze popolari, la soppressione di ogni spreco di queste forze, che devono essere risparmiate. Controllo, sorveglianza, censimento: queste sono le prime parole della lotta contro la catastrofe e la carestia» [*4]. Ecco qual è la fonte d'ispirazione per Andreas Malm, benché egli stia molto attento, però, a citarne soltanto la prima parte. Del cocktail, facevano parte anche la disciplina, il razionamento, il lavoro obbligatorio, la repressione del dissenso, il partito unico e la propaganda. À la guerre comme à la guerre, tutto questo non preoccuperà di certo una sinistra convertita alle nuove emergenze. Così, Malm, che sembra qui vedersi come se fosse egli il nuovo Lenin, sta solo cercando il suo posto nell'attuale panorama della crisi, in un paesaggio che vede emergere ideologie popolari regressive e - simmetricamente - mezzi politici sempre più repressivi per gestirlo. A suo agio in questo clima autoritario, Malm mira a nient'altro che espellere una classe politica in modo da poterne poi mettere un'altra al suo posto. Pertanto, il paradigma della presa del potere ci rimanda costantemente da un polo di antagonismi all'altro, dalla fascistizzazione/fascinazione della strada alla fascistizzazione/fascinazione del potere politico. Questi antagonismi si condizionano continuamente a vicenda. A volte, la ricerca dell'efficienza richiede un'insurrezione violenta dal basso, e a volte invece un intervento autoritario dall'alto; a fronte della volontà sbagliata o maliziosa dei decisori in atto, ci si attribuisce sempre una volontà di potenza ben intenzionata.

3/ L'esempio della sconfitta delle primavere arabe - nelle quali egli è stato coinvolto - rappresenta per Malm un ulteriore motivo per tornare ai nostri capisaldi: i bolscevichi, contrariamente alla tentazione autonomista, sapevano bene che il potere doveva essere conquistato. Secondo Malm, il potere politico - disprezzato dai recenti movimenti orizzontali - era stato lasciato vacante, a disposizione delle forze reazionarie, e quindi era assai importante non rifiutare il potere, bensì cercarlo. Per Malm, lo stalinismo rimane una rivoluzione tradita, e non l'esito naturale di una rivoluzione che prevedeva la presa del potere statale. Così, in tal modo, ecco che tutto il resto della storia viene a essere solamente un incidente del destino. Malm appartiene alla schiera di quelle persone particolarmente illuminate, le quali sono in grado di distinguere tra gli attori politici buoni e quelli cattivi, e tra le infrastrutture buone e le infrastrutture cattive del capitalismo. Ovviamente, lui si considera tra i buoni. Come qualsiasi dittatore in erba. Ogni libro di Malm, colpisce, con il martello dell'urgenza, sempre più forte e un po' di più, la testa degli aspiranti all'insurrezione. In "Clima, Corona, Capitalismo" (Ponte alle Grazie), propugna nuovamente il «comunismo di guerra»,  prendendolo a prestito dal nome della politica dei bolscevichi durante la guerra civile russa. Secondo Malm, questa «dottrina politica dell'emergenza» è la sola in grado di essere all'altezza dell'emergenza climatica. Egli ammette che stavolta il clima non è l'unico problema ecologico, ma sostiene che bisogna affrontare il clima e la pandemia a partire dal fatto che «è stata la realtà presente ad averli scelti». Pertanto, per Malm è l'attualità a dettare l'urgenza dei problemi; la sua analisi non si orienta a partire dallo studio delle dinamiche sistemiche del capitale, ma piuttosto procede dalla selezione di alcuni problemi, e di alcuni attori che devono essere colpiti da dei sabotaggi e da delle insurrezioni. Si potrebbe credere che Malm sia troppo giovane per avere imparato dagli errori dei vecchi. Ma purtroppo, nemmeno i vecchi marxisti avevano imparato nulla. Negli ultimi anni, anche il linguaggio di Slavoj Žižek - ad esempio - si è ammorbidito in direzione di una nuova legittimità "rivoluzionaria". Per decenni, Žižek ha amato ripetere che: «Per Lenin, così come per Lacan, l'idea ha continuato a essere quella secondo cui una rivoluzione viene autorizzata soltanto da sé stessa» (anche se Lacan non parlava della rivoluzione ma dell'analista, e inoltre Lacan metteva in guardia proprio contro la tentazione di compiere un giro di 360° per finire per tornare... nello stesso luogo di prima; cosa che significa il termine "rivoluzione"). Nei suoi primi scritti, Žižek è stato leninista, come lo era stato Robespierre, oppure stalinista; l'importante era scioccare le anime belle. Adorava confondere i suoi lettori e il suo pubblico per mezzo di colpi di scena pseudo-dialettici come questo, con un atto di fede stalinista: «Ragion per cui dobbiamo perciò porre fine a quel ridicolo gioco che contrappone il terrore stalinista alla"autentica" eredità leninista tradita dallo stalinismo: il "leninismo" è una nozione assolutamente e del tutto stalinista. Il gesto di retro-proiettare il potenziale di utopia emancipatrice propria dello stalinismo in un'epoca precedente, indica pertanto che le nostre menti non hanno la capacità di tollerare la "contraddizione assoluta", l'insopportabile tensione intrinseca al progetto stalinista in sé stesso. Ragion per cui appare fondamentale distinguere il "leninismo" (in quanto nucleo autentico dello stalinismo) sia dalla prassi politica che dall'ideologia del tempo di Lenin: la grandezza reale di Lenin non è identica all'autentico mito stalinista del leninismo» [*5].

Il brodo ideologico di Žižek non è dissimile da quello delle sue precedenti affiliazioni, allorché, negli ultimi anni, si è apertamente convertito, come Malm, al «comunismo di guerra» per «salvare il clima»: «Siamo in guerra per la sopravvivenza, e ora abbiamo bisogno, subito, di un po' più di buona dominazione» [*6]. All'obiezione del giornalista, secondo cui si tratterebbe di un programma populista, Žižek risponde che non è populista poiché una simile autorità sarebbe (a suo avviso) in contrasto con la volontà popolare. Ciò corrisponde a una valutazione inadeguata di quelle che sono le tendenze sociali più regressive che stanno nascendo dalla crisi. Ma Žižek continua a confondere sfacciatamente il suo pubblico, usando l'espressione «comunismo di guerra» e riferendola alle politiche di... Roosevelt! Come a dire che, forse, così come il nucleo autentico dello stalinismo è leninista, anche il nucleo autentico del keynesismo è leninista? Le interpretazioni sono aperte. «Non fraintendetemi!» - dice Žižek, in un'altra intervista di quello stesso anno - «Non abbiamo bisogno di un nuovo Comitato Centrale. Non abbiamo bisogno di uno Stato mondiale che tenderebbe alla corruzione, ma di una vera e propria collaborazione globale. (...) Dovremmo controllare il mercato - allo stesso modo in cui lo facciamo con altri settori - attraverso uno Stato di Eccezione. Nel Regno Unito, a tal riguardo è stato detto detto che l'emergenza sanitaria avrebbe dovuto essere trattata come una guerra. Il mercato deve essere utilizzato, ma deve essere anche regolato attraverso una Direzione statale» [*7]. In sostanza, è da un secolo che la "rivoluzione" sta aspettando "l'apocalisse", come la chiama Žižek. E questa rivoluzione non sarà altro che la regolamentazione statale del mercato, una proposta sembre nuova e attuale! Questo continuum apologetico che va dal robespierrismo al leninismo e dal keynesismo allo stalinismo (arrivando ad invocare addirittura il movimento dei "beni comuni"), non è privo di una certa criticità. Esprime l'arroccamento in una riflessione politica che, non mettendo in discussione e non interrogandosi sul proprio quadro di riferimento, pertanto, non può altro che finire per fondersi con quella che è la linea "apocalittica" del capitalismo, elevata e trasformata dal filosofo in Escatologia. Se lo Žižek di vent'anni fa e lo Žižek del giorno d'oggi sanno ancora riscaldare sempre la stessa minestra, ciò vuol dire che c'è quanto meno un elemento nuovo: l'urgenza assoluta del clima, la quale, oggi costituisce il nuovo consenso politico universale. In questo modo, la negazione viene perpetuata ad ogni livello grazie ai nuovi mezzi. Oppure: in segreto sappiamo, però ciò che diffondiamo è il contrario. O ancora: sappiamo, ma non facciamo niente. Piuttosto: più sappiamo e affermiamo di sapere, più facciamo il contrario.

Il negazionismo vecchio stile - per le compagnie petrolifere e per le lobby di estrema destra - consisteva nel finanziare l'istigazione del dubbio scientifico per quel che atteneva alla realtà del riscaldamento globale. Oggi, questa forma piuttosto rozza di negazionismo ha fatto il suo tempo. Certo, esiste ancora, ma non ha più i mezzi per riuscire ad aumentare il suo pubblico. È stato notevolmente indebolito dagli eventi estremi, i quali stanno ora diventando la nostra quotidianità. Pertanto, questa forma di negazione oggi si sta impercettibilmente trasformando, ed è entrata a far parte della melassa della complotto-sfera: la confusione tra meteo e clima, le minacce all'agenzia meteorologica spagnola, e persino il sospetto che il governo spagnolo manipoli il tempo, l'attribuzione della siccità alle "scie chimiche" che diffondono prodotti chimici, la caccia ai migranti in Grecia, i quali sarebbero responsabili dei mega-incendi [*8]... I social media, sono ormai i responsabili della diffusione della confusione, che viene messa in pratica senza che nessuno spenda un centesimo. Oggi, per quelle stesse compagnie petrolifere, il nuovo modo di negare - a fronte di quello che sarà il previsto esaurimento delle riserve petrolifere - consiste nel diversificare gradualmente la produzione di energia, mascherando questa conversione come se fosse invece un'«azione per il clima». Finché ce ne sarà ancora una goccia, non si tratterà di certo di interrompere la ricerca di nuovi idrocarburi, come dimostrato ad esempio dall'ultimo progetto della Total Energies in Suriname, o da quello della Conoco Philipps in Alaska (progetto Willow) approvato dall'amministrazione Biden; pur essendo quest'ultimo un eroe del reintegro negli Accordi di Parigi. Ma con il raggiungimento del picco di tutti i combustibili fossili combinati - che è stato annunciato ufficialmente per la prima volta dall'IEA, e che avverrà intorno al 2030 - per le compagnie petrolifere, e per la loro sopravvivenza, la diversificazione diviene semplicemente essenziale. A sostenere e finanziare sia le energie rinnovabili che gli idrocarburi, sono le stesse persone: la schizofrenia capitalistica non conosce limiti. Continuerà a giocare fino in fondo il gioco di una catastrofe contro l'altra, pur di non dire niente sulla catastrofe che essa stessa rappresenta. D'altronde, tutto ciò è perfettamente compatibile con una COP28 [a Dubai tra il 30 novembre e il 12 dicembre] presieduta da un magnate del petrolio! Tutto questo, perché, per salvare il clima, il capitalismo non ha alcuna soluzione da offrire. Le ricerche serie e indipendenti sull'industria mineraria, condotte dal collettivo SystExt - che consigliamo vivamente di leggere -  ci fanno sospettare che le conseguenze della decuplicazione delle attività estrattive, che vengono ora realizzate proprio in nome della transizione energetica, genereranno impatti catastrofici almeno pari a quelli del cambiamento climatico stesso. Inoltre, tutti questi studi dimostrano che non esiste una miniera pulita che sia una, e che ci si può aspettare solamente alcuni "miglioramenti", i quali non vengono mai definiti con precisione [*9]. E infine, come dimostrano le ricerche di Jean-Baptiste Fressoz, le nuove fonti di energia, insieme alla loro scia di inconvenienti, si aggiungono alle vecchie, non le sostituiscono.

L'unica domanda che ci possiamo porre, è se sia questo il livello a partire dal quale dobbiamo criticare il capitalismo e «salvare il clima». L'unisono assordante degli attivisti, dei politici e degli industriali circa la priorità assoluta di riuscire a salvare il clima, è l'espressione più compiuta del nuovo tipo di negazionismo; sostenuto tra gli altri proprio da Malm e Žižek. Imprigionata nelle sue vecchie contraddizioni, questa sinistra opportunista ormai non nasconde più né il suo autoritarismo né la sua sfrenata collusione con la destra securitaria, che ora viene legittimata per mezzo dell'«apocalisse» climatica. Infatti, tanto coloro che accusano i governi di esagerare o di fabbricare il riscaldamento globale per limitare le libertà, quanto coloro che invece, al contrario, chiedono una gestione autoritaria dell'emergenza ecologica, alla fine condividono un'illusione comune: quella di attribuire la responsabilità della catastrofe a un certo "grado" raggiunto dalla società: vale a dire, il consumo di massa o l'imperialismo politico; come se queste non fossero altro che le due facce dello stesso modo di produzione! Ora, dopo la pandemia, questa divisione ideologica ha il sapore di un déjà vu. Di una critica radicale del sistema capitalistico, si continua ancora a non parlarne, proprio perché l'obiettivo rimane solo quello di governare e amministrare meglio la catastrofe, eventualmente offrendo e proponendo i propri servizi. Se il sistema capitalista non collasserà prima dall'interno, ci troveremo in una situazione in cui non solo non ci saranno più risorse di combustibili fossili, ma non ci saranno più nemmeno i metalli essenziali necessari alla cosiddetta "transizione": non ci sarà più sabbia, non ci sarà più acqua dolce, non ci sarà più il fosforo necessario agli input agricoli, non ci saranno più pesci negli oceani... Il pianeta, ormai invivibile, non sarà altro che un'unica pattumiera di rifiuti e di veleni, alcuni dei quali destinati a sopravvivere per decine, o forse centinaia di millenni nell'ambiente, senza contare l'interruzione duratura dei cicli fondamentali. Il cinismo spudorato della tecnocrazia completa il quadro.

Prendiamo ad esempio l'analisi di François Grosse, esperto in questioni di riciclaggio, che ci mette in guardia a proposito dei limiti intrinseci del riciclaggio, con tanto di calcoli a sostegno. La sua proposta, considerata estremamente ambiziosa, consiste in un modello di riciclaggio pragmatico, che consente di differire di cento anni l'esaurimento definitivo delle risorse critiche: «Come vedremo nelle prossime pagine, per le società umane, guadagnare 100 anni nella lotta contro l'esaurimento delle nostre risorse costituisce già una scommessa. Attuare le decisioni necessarie a realizzare una simile ambizione, non significa solamente una necessità immediata - a fronte di quelle scadenze che apparentemente appaiono lontane, ma che la crescita economica in pochi decenni ha già compresso -  ma rappresenta anche un primo passo in quelle trasformazioni che serviranno a preparare la nostra società per la sua prossima evoluzione: un'evoluzione, il cui contenuto è ancora sconosciuto, ma che per il nostro sistema economico sarà senza dubbio altrettanto rivoluzionaria di quanto lo sarà per i nostri stili di vita» [*10]. La dimostrazione che viene fornita da François Grosse, è inconfutabile: forse non ci avevamo mai pensato, ma in effetti la promozione del riciclaggio richiede una quantità sufficiente di rifiuti da riciclare... Ora, già da sé sola, la crescita esponenziale del consumo produttivo fornisce una quantità sufficiente di rifiuti da riciclare, la quale, a sua volta, annulla assai rapidamente qualsivoglia beneficio ecologico dovuto al riciclaggio. Si tratta del serpente che si morde la coda. E il nostro tecnocrate - che ha già ricevuto l'approvazione di Dominique Bourg - ha elaborato in quattro e quattr'otto la formula miracolosa: «un'economia quasi-circolare», che a suo dire sarà in grado di dare respiro al sistema grazie a una tregua di cento anni, per la quale fornisce dei criteri quantificati. Con quel "quasi", si risolvono tutte le contraddizioni: e un'economia quasi-circolare è pertanto un'economia quasi-sostenibile! Bisogna notare il fatto che l'ingegnere non è interessato al funzionamento dell'economia, e non è interessato a quale, nel capitalismo, sia il significato di crescita, ma egli usa il termine crescita esclusivamente nel senso di «crescita dei consumi». Pertanto, la proposta potrebbe quindi giustamente trarre in inganno alcuni decrescisti fuorviati, i quali potrebbero pensare che si tratti di una proposta di decrescita, o anche alcuni economisti, ai quali questa proposta di "decrescita" (dei consumi) potrebbe sembrare che essa non influisca su quello che è il loro dogma della crescita. Come avviene nel caso di tutte le proposte che vengono espresse sotto forma di "quasi", tutti potranno riconoscervisi, e tutto continuerà più o meno come prima. Del resto, dopo di me il diluvio (in effetti, tra cento anni, François Grosse e i suoi diretti discendenti non saranno più in questo mondo per poter assaporare le conseguenze collettive della sua proposta; conseguenze che sono state rinviate a un'«evoluzione dal contenuto sconosciuto» ma «rivoluzionaria» che verrà dopo).

Di conseguenza, per sua stessa ammissione, vediamo che il sistema capitalistico e i suoi esperti non hanno più nulla da promettere (e questo perfino in quelli che sono gli scenari più "ambiziosi"), se non un centinaio di anni al massimo per mettere finire a questa corsa verso il niente! Solo un rallentamento dell'agonia, una leadership politica regolatrice o autoritaria, e dei mezzi tecnologici che a tutto ciò corrispondono: è questo il massimo che si può fare, fino al momento in cui non ci sarà più nulla da estrarre dalla terra o dagli oceani. E se a questa "emergenza" ormai si è convertita anche la maggioranza di sinistra, cosa potrebbe mai chiedere il popolo? Immaginare, in un simile contesto, qualsiasi tipo di emancipazione sociale significa sognare un'utopia. La questione dell'emancipazione - se essa ha ancora un senso - ci impone una revisione immediata delle attuali priorità, le quali non sono di certo il "clima", o una delle tante cause isolate che vengono selezionate dall'ideologia del momento, ma piuttosto una valutazione senza mezzi termini delle sinistre prospettive che ci vengono promesse dal proseguire in questa logica.

- Sandrine Aumercier, pubblicato il 17 settembre 2023 su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -

NOTE:

[1] Andreas Malm, « Le Bolchevik et la nature », Période, 2017. En ligne : http://revueperiode.net/le-bolchevik-et-la-nature/

[2] Andreas Malm, - "Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia". Ponte alle Grazie

[3] Per quanto, andrebbe considerato anche il lavoro pionieristico del geochimico Wladimir Vernadsky, il quale tuttavia non era un bolscevico.

[4] Wladimir I. Lenin, "La catastrofe imminente e i mezzi per evitarla", 1917. Online: https://www.marxists.org/francais/lenin/works/1917/09/vil19170910a.htm

[5] Slavoj Žižek, "Revolution at the Gates" (Londra: Verso, 2002), p. 193.

[6] https://taz.de/Slavoj-iek-ueber-Krieg-und-Klima/!5943165/

[7] https://www.fr.de/kultur/gesellschaft/slavoj-Žižek-wir-sind-bereits-mitten-in-der-apokalypse-92346380.html

[8] https://www.liberation.fr/environnement/climat/complotisme-climatique-en-plein-record-de-chaleur-lagence-meteo-espagnole-cible-dinsultes-et-menaces-20230505_REXJNQ2XKRFKTOWWTXIBO5OZFQ/ ; https://www.geo.fr/environnement/comment-la-secheresse-fait-elle-remonter-de-nombreuses-theories-complotistes-214639 ; https://legrandcontinent.eu/fr/2023/08/30/en-grece-des-chasses-aux-migrants-en-marge-des-megafeux/

[9] Vedi https://www.systext.org/node/2 È deplorevole che le raccomandazioni pratiche del gruppo SystExt rifiutino di trarre le conseguenze ultime derivanti da quelli che sono i loro severissimi verdetti sull'intrinseca impossibilità che possa esistere una miniera pulita!

[10] https://lapenseeecologique.com/une-strategie-quasi-circulaire-un-modele-deconomie-circulaire-des-matieres-premieres-non-renouvelables/#_ftn1 ; vedi anche François Grosse, "Croissance soutenable ? La société au défi de l’économie circulaire", Grenoble, PUG, 2023.

mercoledì 27 settembre 2023

Pensare… feudalesimo, colonialismo, capitalismo…

Pensare la fondamentale logica sociale del Medio Evo
- Estratto da Jérôme Baschet, "La Civilisation féodale, de l'an Mil à la colonisation de l'Amérique" -

«Il Medioevo ignorava ogni e qualsiasi autonomizzazione della sfera religiosa, dal momento che la società nel suo insieme, era la Chiesa in quanto comunità; mentre, come istituzione, essa era la parte dominante della società, determinandone così le principali regole di funzionamento. Come ha suggerito con vigore Alain Guerreau, abbiamo tutto l'interesse a considerare la Chiesa come se essa fosse il garante dell'unità della società feudale, la sua spina dorsale e il motore del suo dinamismo». (p. 225-226)

« La nozione di capitalismo, non è applicabile all'America coloniale, più di quanto lo sia all'Europa di quel tempo[...] La società medievale è una società complessa, la cui struttura consiste in un intreccio di relazioni multiple. Si possono individuare alcune articolazioni relative a quelli che erano i legami principali [...], e ad altri legami il cui ruolo è importante ma poi non così fondamentale [...], e altri ancora che, sebbene spesso appaiano assai evidenti, sono tuttavia chiaramente subordinati ai precedenti. [...] E sebbene i legami di vassallaggio giocassero un ruolo nel distribuire il potere di comando, arrivando fino alla signoria, essi hanno definito solo quelle che erano le relazioni all'interno della classe dominante, vale a dire che interessavano  l'1 o il 2% della popolazione. Per contro, la relazione di dominio e la posizione dominante della Chiesa (la relazione di Ecclesia*) costituiscono i due elementi fondamentali che ci permettono di definire il feudalesimo come un modo di produzione e allo stesso tempo anche, indissolubilmente,  come un modo di riproduzione sociale (va precisato che rifiutiamo il dualismo infrastruttura/sovrastruttura, all'interno del quale, il ruolo della Chiesa medievale non può essere inserito senza inutili contorsioni; e soprattutto perché il concetto di modo di produzione, nel senso già indicato, ha il vantaggio di invitarci a cogliere una logica sociale il più possibile globale) [...]. In un simile contesto, la nozione di economia diventa priva di significato, ed è perciò altrettanto impossibile isolare tanto una sfera specificamente economica quanto una extra-economica (oltretutto, la nozione di coercizione extra-economica corre il rischio di venire equiparata all'uso della forza, mentre invece essa non costituiva un fattore determinante, o discriminante nel caratterizzare le relazioni feudali). [...] Nel feudalesimo, l'estorsione di plus-lavoro avviene e si verifica come effetto del "fusione e dell'unione del potere sulle terre con il potere potere sugli uomini" (Guerreau), attraverso un insieme di obblighi che vengono imposti localmente, e questo a prescindere che i produttori abbiano praticamente l'uso dei mezzi di produzione che sono loro necessari. [...] È questo a caratterizzare la dipendenza feudale - la quale è indissolubilmente sia economica, che giuridica, che politica e sociale -  di modo che così essa non possa essere né economica, né giuridica, né politica, né sociale. Pertanto, la dipendenza feudale presenta in tal modo, allo stesso tempo, un carattere che è sia locale (da qui la sua dimensione interpersonale) sia "totale" (una garanzia di dimostrata efficacia); rivelandosi, allo stesso tempo, anche  relativamente equilibrata (poiché concede ai produttori un uso parziale dei mezzi di produzione, e permette che i villaggi possano affermarsi come comunità, e simultaneamente di differenziarsi al loro interno). Infine, la fusione del potere sugli uomini con il potere sulle terre, che caratterizzava il dominium, ebbe come conseguenza e condizione quella di determinare in maniera tendenziale lo stabilirsi delle persone sul territorio, in delle unità abitative e produttive fortemente integrate, all'interno delle quali venivano esercitati la maggior parte delle relazioni di sfruttamento e di dominio imposti sia dall'aristocrazia secolare sia dalla Chiesa. È la Chiesa, l'istituzione dominante della società feudale, il suo perno e la sua principale forza motrice. Non era solo il clero che costituiva l'ordine dominante del feudalesimo, disponendo di una ricchezza materiale eguagliata solo dal suo potere spirituale, ma era anche e soprattutto la Chiesa, in quanto institutio consustanziale al cristianesimo, che definiva le strutture essenziali necessarie all'organizzazione e alla riproduzione della società, vale a dire, anche alla sua proiezione verso il suo ideale, che era la salvezza individuale e la perfetta realizzazione della Chiesa celeste. Va sottolineato il ruolo svolto dalla Chiesa nella definizione delle strutture spaziali dell'Europa medievale [...] indispensabile al buon funzionamento della relazione di dominium. In questo senso, le unità di residenza e di produzione costituite dalle comunità di villaggio (e sulle quali si innestava il rapporto signorile) erano anche, almeno tendenzialmente, quelle in cui, attraverso la mediazione clericale, si esercitava la relazione tra gli uomini e le forze che governavano l'universo, cosa che contribuiva al carattere necessariamente integrato che abbiamo appena riconosciuto. La presenza dei cimiteri nel centro delle città e dei villaggi, è talmente importante da poter essere considerata un sintomo, se non addirittura un indicatore specifico della società feudale. Pertanto, non deve sorprendere che a partire dalla seconda metà del XVIII secolo i cimiteri siano stati allontanati dalle aree popolate, dove erano stati collocati anche nell'antichità. Il feudalesimo finisce nel momento in cui i morti, che la Chiesa aveva posto al centro dello spazio sociale, vengono cacciati dalle città e dai villaggi».

- da Jérôme Baschet, "La Civilisation féodale, de l'an Mil à la colonisation de l'Amérique" - 

[*]: Il concetto centrale di Ecclesia, in quanto istituzione onnicomprensiva delle relazioni sociali feudali medievali, è stato originariamente sviluppato dal medievista Alain Guerreau in due opere fondamentali: "Le Féodalisme, un horizon théorique" e "L'Avenir d'un passé incertain".

martedì 26 settembre 2023

Manifesto contro il Lavoro !!

Rottura qualitativa
- Sull'attualità della critica radicale del lavoro -
  di Norbert Trenkle

La coercizione fondamentale del capitalismo, è la coercizione del lavoro. In questa società, per sopravvivere bisogna lavorare: per conto proprio, come un artigiano che produce le sue merci, come un piccolo lavoratore autonomo, oppure sotta forma di venditore della sua propria forza lavoro, il quale in tal modo fa di sé stesso una merce. Pertanto, il lavoro non è soltanto quell'attività che produrre delle cose (utili o nocive), così come viene comunemente inteso. Ma esso rappresenta la forma, storicamente specifica, della mediazione sociale. È per mezzo del lavoro, che le persone realizzano il proprio contesto sociale capitalista, il quale poi si contrappone loro, apparendo loro come violenza oggettivata. La dominazione capitalista oggettivata, viene perciò direttamente vissuta anche nel lavoro. È nell'ambito del lavoro, che gli individui isolati devono sottomettersi direttamente alle imposizioni della concorrenza, della "razionalità" e della "produttività". Ed è qui, in quest’ambito, che gli individui devono ignorare che cosa stanno producendo, e i danni che, così facendo, potrebbero causare. Dal momento che, in ultima analisi, non si tratta altro che di riuscire a vendere quello che è il prodotto della propria forza lavoro, o la forza lavoro propriamente detta, visto che nella società delle merci non si può sopravvivere senza denaro. Sul posto di lavoro, facciamo tutti direttamente parte della macchina sociale che obbedisce al fine in sé dell'accumulazione del capitale, e dobbiamo obbedire alle sue leggi.

Non meraviglia, perciò, che fin dall'alba del capitalismo nel campo del lavoro siano scoppiati dei violenti conflitti. All'inizio si trattava ancora solo della costrizione al lavoro in generale. Le persone, che venivano strappate con la forza, e allontanate da quelle che erano le loro condizioni di vita e di produzione tradizionali, resistevano in massa a una tale costrizione; dal momento che non potevano permettersi di venire ingabbiati per l'intera giornata, senza alcuna autonomia. È avvenuto solo dopo secoli di disciplina brutale, imposta attraverso la fame, la violenza e l'indottrinamento ideologico, che il lavoro è potuto diventare così qualcosa di naturale, come ci appare oggi. Eppure, tuttavia, il desiderio di evadere - così come la volontà di sottrarsi ad esso - non è mai stato soppresso del tutto. Ciò perché, neppure il rapido aumento della produttività è riuscito a far scomparire la pressione esercitata dalla morsa del lavoro, e la sofferenza che esso provoca. È vero che in questi ultimi 40 anni - durante i quali la conoscenza si è imposta come la principale forza produttiva - il capitale si è progressivamente sempre più svincolato dal lavoro direttamente speso, in modo che l'accumulazione ora avviene principalmente sui mercati finanziari. Ma essendo state quasi completamente distrutte quelle che erano le basi dei modi di produzione e di vita non capitalistici, ora praticamente tutto il mondo viene costretto a vivere vendendo la propria forza lavoro, o qualche altra merce; allo stesso tempo in cui, però, dato che il capitale dipende sempre meno dal lavoro, avviene che le condizioni di tale vendita, nel loro complesso, non possono fare altro che peggiorare.

Oggi, pertanto, la contraddizione fondamentale non è più quella tra capitale e lavoro, bensì piuttosto tra la spinta del capitale a divorare il mondo intero, da una parte, e il numero crescente delle persone che non servono più a realizzare un simile fine distruttivo, dall’altra. In ampie zone del Sud globale, la maggioranza è stata da tempo dichiarata "superflua" a questo scopo. Tutte queste persone possono sopravvivere solo attraverso un mix di lavoro estremamente precario nel settore informale e di una sussistenza non meno precaria, che viene svolta e praticata principalmente dalle donne. Nei centri capitalistici, sono stati soprattutto quegli strati di lavoratori retaggio del vecchio fordismo, insieme al nuovo proletariato dei servizi, a essere stati inizialmente colpiti dalla svalutazione economica e morale della loro forza lavoro. Ma anche quelli che erano stati i vincitori relativi nel mondo del lavoro post-fordista - le cosiddette nuove classi medie - hanno dovuto lottare sempre di più per riuscire a mantenere la propria posizione sociale e cercare così di non cadere fuori dalla macchina del lavoro, in costante accelerazione. Negli ultimi anni, le aziende hanno dovuto fare alcune concessioni in termini di salari e di orari di lavoro a causa del fatto che c'è una carenza di manodopera, principalmente per motivi demografici. Ma si è trattato di un fenomeno temporaneo che terminerà al più tardi con la crisi economica globale che si sta già manifestando. Al di là di tutto questo, comunque, non si tratta solo dei perdenti sociali, ma anche di gran parte della classe media, già pressata dall'alto costo degli alloggi - che stanno diventando inaccessibili - e dall'aumento vertiginoso del costo della vita.

Ancora una volta, il motivo è che il capitale sta occupando sempre più l'intera superficie terrestre per i propri scopi; e la distruzione dei mezzi di sussistenza che ciò comporta ha ora un impatto diretto anche sui processi economici. Chiunque continui a elogiare e ad inneggiare al lavoro, facendo finta che la crisi possa essere risolta tirando la cinghia, abbassando il riscaldamento e rimboccandosi nuovamente le maniche, soffre di una perdita della realtà, quasi grottesca. Tutto ciò che si continua a chiedere, è che la macchina capitalista continui a funzionare, nonostante il fatto che non abbia nulla da offrirci, se non ancora più distruzione, oltre a condizioni di lavoro e di vita ancora peggiori. Invece, ciò di cui abbiamo bisogno è esattamente il contrario. Si tratta di contendere al capitale il tempo di vita e le risorse che continuamente ci ruba, e che trasforma in mezzi per distruggere il mondo. È questo l'unico modo che abbiamo per riuscire a fare spazio a un modo di produzione e di vita basato sull'attività libera e autodeterminata, sulla cooperazione e sulla solidarietà. Le richieste di infrastrutture sociali gratuite, e di socializzazione dei settori energetico e abitativo vanno in questa direzione. Esse mirano a sottrarre al mercato i settori fondamentali della sussistenza, e a organizzarli in termini comunitari, ossia come bene comune nel senso più ampio del termine. Allo stesso tempo, i passi in questa direzione ampliano il margine di manovra per ridurre la coercizione del lavoro, soprattutto attraverso un'ampia riduzione dell'orario di lavoro, e per chiudere i settori più distruttivi della produzione capitalista, come l'industria automobilistica.

Tutto ciò non ha niente a che fare con la "rinuncia", come quella che viene ora predicata continuamente e dappertutto. Al contrario, si tratterebbe invece di un guadagno, in termini di qualità della vita e di tempo disponibile, che potrebbe essere utilizzato soprattutto per una nuova divisione delle attività riproduttive, senza quelle differenze di genere che hanno funzionato come una sorta di base occulta e subordinata del lavoro. Pertanto, il superamento del lavoro è assai più che una semplice riduzione quantitativa del lavoro salariato, come viene auspicato nelle odierne utopie tecniciste; si tratta piuttosto di una rottura qualitativa rispetto alla forma reificata dell'attività e delle relazioni sociali che sta alla base del dominio capitalistico, ed è una condizione necessaria per l'emancipazione sociale.

- Norbert Trenkle - Pubblicato il 13/10/2022 su Jungle World 2022/41 -

lunedì 25 settembre 2023

Le catene del valore…

«Il laptop su cui scrivo queste parole è stato progettato in California e contiene materie prime estratte in Africa. Funziona grazie a componenti prodotti a Taiwan e assemblati in Cina. È transitato da un centro di distribuzione in Germania e venduto in un negozio di Milano. E lo stesso si può dire di oggetti molto più banali nonché di medicinali, alimenti, fonti energetiche e altre risorse fondamentali per il quotidiano funzionamento delle nostre società. Come in nessun’altra epoca le nostre economie dipendono dalla organizzazione di trasporti su distanze enormi. Dalla coordinazione di operazioni, fisiche e informatiche, che si devono svolgere in una tempestiva sequenza di hic et nunc. Ed eppure, i mezzi e i sistemi che garantiscono tale coordinazione sono rimasti a lungo poco raccontati. Forse poiché sono black box di cui percepiamo l’esistenza solo quando si inceppano. Forse poiché, al contrario, sono talmente onnipresenti da fare parte del paesaggio. Di certo poiché rappresentano una complessità difficile da sintetizzare. Una complessità che tuttavia qualcuno deve essere in grado di gestire, per far sì che da una caotica matassa di processi emerga un filo logico. O per meglio dire logistico.»

Dall’e-commerce alla guerra, dalla grande distribuzione ai vaccini: è la logistica a pensare come si muovono le nostre vite. Dietro ogni oggetto c’è una storia: com’è nato, su quali strade ha viaggiato, per quali infrastrutture è transitato. Cesare Alemanni ci racconta l’affascinante mondo della logistica. Che cosa hanno in comune i mattoncini Lego e i container? Perché Amazon ha cominciato vendendo libri? In che modo l’evoluzione logistica è connessa all’incremento delle disuguaglianze economiche? Perché la Cina è stata definita un “impero logistico”? Qual è il ruolo dei porti nella storia del mondo? Ricostruendo le vicende di idee e personaggi incredibili, La signora delle merci ci restituisce il senso profondo del viaggio delle merci, permettendoci di capire meglio passato e presente delle nostre società.

(dal risvolto di copertina di: Cesare Alemanni - La signora delle Merci - Luiss, €16)

La logistica fa girare il mondo intero, se funziona non la vedi
- Dalle catene di montaggio alla grande distribuzione che cosa c’è dietro l’arte di “organizzare le cose” -
di Alessandro Aresu

Il nostro mondo è fatto di oggetti e connessioni che hanno una storia, nel tempo e nello spazio. Diamo per scontata la loro modalità di costruzione, gestione, manutenzione, fino a quando succede qualcosa che altera un ritmo che consideriamo naturale. Per esempio, il sabotaggio di un’infrastruttura energetica. Oppure, il blocco o rallentamento di un canale di comunicazione, come abbiamo visto quando la nave Evergiven si è incagliata nel Canale di Suez. È in quei momenti che ci accorgiamo dell’esistenza della logistica, perché vediamo uscire dall’anonimato le reti che connettono il mondo e che contribuiscono a quell’accorciamento di distanze e intensificazione dei commerci su vastissima scala che chiamiamo per comodità “globalizzazione”. Il libro del giornalista e scrittore Cesare Alemanni, “La signora delle merci”, porta in superficie questa storia poco visibile in un libro agile e di facile lettura, e così chiarisce l’importanza dell’arte di ordinare le cose che avvolge il nostro pianeta. Si tratta di una storia di scambi, di mare, di potere, di organizzazione. Come scrive Adam Smith: «Attraverso il trasporto acquatico si apre a ogni sorta di industria un mercato più esteso di quanto possa consentire il solo trasporto via terra». L’età moderna rende più sofisticata la dimensione dello scambio insita nell’uomo, attraverso lo sviluppo tecnologico e una navigazione più avanzata, con cui è possibile facilitare i rapporti tra i popoli e intensificare i commerci. L’impero britannico, con la gestione del bottino coloniale da parte della Compagnia delle Indie Orientali, mostra l’entità di questa trasformazione e il suo peso politico, che viene accentuato dalla rivoluzione industriale. Nell’era americana, il commercio mondiale si regge anche sulla silenziosa presenza della marina militare degli Stati Uniti, con l’estensione delle sue operazioni e con la connessione del sistema di basi militari. Oltre a questa struttura politica, c’è un mondo di standard, di gestione e di amministrazione, che rende possibile la consegna delle merci secondo i desideri dei consumatori. La logistica è anche scienza dell’organizzazione, nella relazione costante tra le catene di montaggio delle aziende e le operazioni di trasporto di materiali e oggetti. Il suo sviluppo passa per l’invenzione e la diffusione di oggetti fondamentali, a partire dal container, che dagli anni ’50 del Novecento rende possibile un inscatolamento e rimpicciolimento del mondo, con un aumento decisivo dell’efficienza e delle economie di scala. Il ritmo del commercio marittimo è segnato dall’operato di grandi strutture complesse, come quelle delle compagnie di trasporto. Esse competono ormai su una scala globale, nel portare a diverse latitudini gli elementi che costituiscono le catene del valore dell’economia contemporanea, per assicurare l’assemblaggio di tutti i componenti e per rendere disponibili, da ultimo, i prodotti finiti ai consumatori.

È interessante vedere come questa vicenda, essenziale per la dimensione dello sviluppo economico globale, e per l’inclusione di masse sempre più elevate di popolazione, sia divenuta oggi un elemento di chiara contesa politica, più di quanto era stato previsto. Nel suo libro sulla Grande Recessione, il grande storico Adam Tooze scriveva: «Nelle discussioni sul commercio internazionale è ormai comunemente accettato che non sono più le economie nazionali a contare. Ciò che guida il commercio globale non sono i rapporti tra le economie nazionali, ma le società multinazionali che coordinano “catene del valore” molto ampie». Nel riequilibrio tra le ragioni dell’efficienza economica e quelle della sicurezza nazionale che stiamo vivendo, il fatto che il commercio si basi su una sorta di pilota automatico è stato messo in discussione dai principali governi. Gli Stati Uniti e altri Paesi effettuano una mappatura delle catene del valore in settori strategici, come i semiconduttori, le batterie, le biotecnologie, per individuare le vulnerabilità e le dipendenze verso gli altri. Significa che le catene del valore non sono considerate un dato di fatto bensì un oggetto essenziale della competizione. Il commercio riscopre così la sua dimensione politica, che influenza anche la logistica. D’altra parte, i progetti commerciali, come le cosiddette “nuove vie della seta” cinesi su cui si sofferma Alemanni, non sono mai solo economici ma hanno un valore politico. Come ricorda “La signora delle merci”, Pechino ha una leadership mondiale nella costruzione di navi da carico e domina la produzione dei container. La sua identità di fabbrica del mondo e di impero logistico si completano a vicenda. Ma nessun primato è scontato, perché oggi la potenza commerciale cinese deve e dovrà confrontarsi con diverse condizioni politiche nell’Indo-Pacifico. Nel mentre, la sfida logistica è pronta a muoversi in altri campi, come l’Artico e lo spazio, per aumentare il raggio d’azione del grande dispositivo del commercio.

- Alessandro Aresu - Pubblicato su TuttoLibri del 3/6/2023 -

Il feticcio moderno

La parola "feticcio" venne usata per la prima volta nel 1756 dallo scrittore francese Charles de Brosses. Il termine deriva dalla parola portoghese "fetisso", da cui deriva l'odierno "feitiço". Originariamente, il termine veniva usato per indicare i culti e i simboli religiosi dei popoli africani. Successivamente, questa parola è stata utilizzata e ridefinita da diversi pensatori. Il concetto di feticismo, troverà poi un posto centrale nella teoria critica di Karl Marx. Per Marx, feticismo non significa un semplice occultamento delle relazioni sociali dietro il rapporto tra le cose, quanto piuttosto il fatto che gli esseri umani vengono effettivamente soggiogati da delle forme sociali che essi stessi hanno creato senza volerlo e senza saperlo.

La teoria del feticismo si trova al centro della critica del mondo delle merci. Pertanto, non si tratta di una mera retorica filosofica, e non è priva di importanti implicazioni. Nella formulazione del concetto di feticismo, nel primo capitolo del Capitale (1867) - allorché Marx analizza la forma elementare della ricchezza nella società capitalistica – viene sottolineata la centralità del concetto. Il feticismo delle merci, si svilupperà, e si manifesterà in vari modi all'interno delle analisi teoriche di Marx. Si tratta di un concetto che indica chiaramente come il capitalismo sia inestricabilmente legato al mondo della religione. E questo non solo nel senso che la religione serve come strumento di dominio sociale, ma in un senso assai più fondamentale secondo il quale il capitalismo è un nuovo tipo di sistema religioso. Una religione che, tuttavia, non appare come tale agli occhi dei soggetti moderni, ma viene vista da loro, al contrario, come se fosse invece la sua più radicale negazione. Dal momento che, tuttavia, nel capitalismo gli esseri umani non si inchinano a un'entità metafisica situata in un al di là, ma a incarnare le cose sono delle vere e proprie astrazioni sociali, che a loro volta si incarnano nelle relazioni sociali e nel "metabolismo con la natura" (Marx). Quella che si impone, è una religione totalitaria, e questo indipendentemente dal fatto che le persone credano o meno nel potere di tutte queste astrazioni, dato che, finché il loro rapporti sociali rimarranno invariati, continueranno a esercitare la loro violenza.

Nelle sue "Lezioni Sulla Essenza Della Religione" (1851), Feuerbach osserva che: «Ogni oggetto, non solo può essere ma viene effettivamente venerato dall'uomo allo stesso modo di Dio, ovvero, in altre parole, in maniera religiosa. Tale stadio, in cui l'uomo trasforma tutti i possibili oggetti e cose, artificiali o naturali, prodotti della natura o dell'uomo, nei suoi dei senza alcuna critica o distinzione si chiama feticismo. In questo modo, ad esempio, i neri della Sierra Leone scelgono come loro divinità delle corna, delle chele di granchio, chiodi, ghiaia, case di lumache, teste di uccelli e radici, tutte cose che portano al collo dentro un sacchetto ornato di perline e di altri ornamenti. [...] Ma per quale motivo, l'uomo trasforma lumache, chele di granchio, bandiere e bandierine in delle divinità? Per fantasia, o immaginazione, che è tanto più forte quanto maggiore è l'ignoranza dell'uomo. I selvaggi non sanno cosa sia un orologio, una bandiera o uno strumento matematico, ragion per cui immaginano che tutte queste potrebbero essere qualcosa di diverso da ciò che realmente sono, facendole pertanto diventare delle entità fantastiche, un feticcio, un dio. Perciò, la causa, o la fonte teorica della religione e del suo oggetto, Dio, risiede nella fantasia, nell'immaginazione» [*1].

Per Marx, è la modernità a creare un rapporto feticistico di tipo nuovo. E se i moderni deridono i culti dei popoli arcaici, ciò è perché sono essi stessi a non rendersi conto della natura primitiva del proprio modo di vivere, di pensare e di produrre. E qui il problema non può essere risolto con una riforma del pensiero, ma c'è bisogno di una trasformazione radicale ed efficace di quelli che sono i loro rapporti sociali. Marx, nel Capitale, osserva: «L’arcano della forma di merce consiste, dunque, semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, e li fa apparire come caratteri oggettivi degli stessi prodotti del lavoro, come qualità naturali anziché proprietà sociali di quelle cose, e quindi restituisce a loro anche l’immagine del rapporto sociale fra i produttori da un lato e il lavoro complessivo dall’altro, per farli apparire come un rapporto sociale fra oggetti, un rapporto esistente al di fuori degli stessi produttori [...] la forma di merce, e così il rapporto di valore fra i prodotti del lavoro nel quale essa si manifesta, non ha assolutamente qualcosa a che fare con la sua natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quello che per gli uomini qui assume la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose, è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. In effetti, per trovare una analogia a questo fenomeno, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui, i prodotti del cervello umano si manifestano [–e non appaiono– al fedele] come figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto l’una con l’altra e tutte insieme in rapporto con gli uomini. In tal modo, nel mondo delle merci, si comportano anche i prodotti della mano umana. Questo io lo chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena prendono la forma di merce, e che perciò è inseparabile dalla produzione delle merci [...] Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in generale, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana rappresentino agli uomini giorno per giorno relazioni {perfettamente intelligibili}& e chiaramente razionali con il proprio simile e fra di loro e la natura. {I rapporti sociali possono però rappresentarsi soltanto per quello che sono}#. La figura del modo di vita sociale, cioè il processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbia soltanto quando, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sia sottoposto al loro controllo cosciente e condotto secondo un piano. Tuttavia, affinché ciò avvenga si richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni materiali di esistenza, che, a loro volta, sono il prodotto naturale e spontaneo, cioè organico, di uno sviluppo lungo e tormentoso della storia» [*2].

Forse sono davvero queste le condizioni necessarie affinché gli esseri umani possano liberarsi da quel "velo mistico e nebuloso" che struttura il mondo della merce. Tuttavia, questa potrebbe non essere una condizione sufficiente. Se la religione è l'organizzazione della violenza attraverso la violenza [*3], ecco che allora il "controllo cosciente e pianificato" del "processo di produzione materiale" avrebbe potuto essere solo un momento di rottura nella storia delle strutture del feticcio e del sacrificio. Però, il fatto che a essere in grado di forgiare nuovi dei o idoli sia sempre e solo la violenza, è un aspetto che non può essere trascurato dalla critica del capitalismo. La storia del XX secolo pone dei problemi cruciali per una teoria rivoluzionaria della società.

- Capitalismo Como Religião -

NOTE:

[*1] -  FEUERBACH, Ludwig. "Trenta Lezioni Sulla Essenza Della Religione".Milano, 1872.
[*2] - MARX, Karl. "Il Capitale, libro I". Napoli, edizione digitale.
[*3] - GIRARD, René. "La violenza e il sacro". Adelphi.

fonte: kolapsoglobal.blogspot.com

domenica 24 settembre 2023

Le profezie realizzate !!

Grossi guai nell'Eurozona
- L'inflazione si evita solo al prezzo di una deflazione radicale -
di Robert Kurz

I vari Paesi dell’Europa, si trovano sempre più invischiati nelle contraddizioni della politica monetaria. Solo con l'aiuto di un deficit di bilancio senza precedenti, è stato reso possibile inizialmente assorbire  la crisi economica globale, senza che però si intraveda una ripresa autosufficiente. Ora il postulato di una politica statale di austerità, e di una riduzione del debito, minaccia di soffocare nuovamente una fragile economia. Il consiglio di amministrazione del FMI sta flirtando con la "inflazione controllata"; vista come l’unico modo per rimandare ulteriormente quello che appare come un problema ingestibile. Non è certo una coincidenza, il fatto che l'eurozona si sia spostata, e ora si trovi al centro della crisi della politica monetaria. La costruzione dell'unione monetaria ha consegnato, ai vecchi Stati sovrani - con diversi livelli di produttività e con una forza patrimoniale diseguale - una banca centrale comune, la quale era stata invece progettata proprio per esternalizzare questa contraddizione interna attraverso un'economia in deficit, globalizzata. Via via che il suo potere si indebolisce, il possibile default sovrano dei Paesi dell'euro a capitale debole, è diventato un dispositivo esplosivo innescato nell'unione monetaria. Dopo tutte le garanzie e i sussidi per il sistema bancario in difficoltà, insieme ai programmi di stimolo economico in deficit, l'UE ha ora lanciato un terzo pacchetto di salvataggio, ancora più grande, per le finanze statali dei candidati al fallimento. Che in questa situazione l'Estonia venga ammessa nella comunità dell'euro, e che venga lodata per aver soddisfatto dei criteri di stabilità che ormai non esistono nemmeno più, è una barzelletta. La Banca Centrale Europea (BCE) ha già cominciato ad acquistare titoli di Stato senza valore.

Tuttavia, il problema non è la dimensione nominale dei deficit di quelli che sono i presunti "peccatori", quanto piuttosto il fatto che manchi loro qualsiasi forza patrimoniale. Il deficit nominale, misurato in termini di PIL nazionale, ad esempio, è più alto nella Repubblica Federale Tedesca di quanto non lo sia, ad esempio, in Spagna. Ma finora la RFT, grazie alle sue immense eccedenze di esportazioni, soprattutto nell'eurozona, è stata sempre in grado di tenere la testa fuori dall'acqua. È dal 2009, che gli altri Stati dell'UE fanno pressione per ridurre tale "squilibrio". Del resto, si è detto che la Germania non dovrebbe essere punita per la sua forza di esportazione, ma sono gli altri che dovrebbero creare condizioni simili anche per loro stessi. Tuttavia, queste condizioni consistono nel fatto che la RFT ha il più grande settore a basso salario dell'Europa occidentale, e che lo combina con la sua forza di capitale. Inoltre, le eccedenze di esportazione che ne derivano possono essere finanziate solo grazie ai disavanzi di quelli che, dal punto di vista del capitale, sono i paesi più deboli.

E così, ora il gatto si morde la coda. Il ciclo del deficit intraeuropeo si è interrotto, mettendo così a nudo le contraddizioni dell'unione monetaria. L'inarrestabile e incontrollato eccesso di denaro proveniente dalla BCE, e il completo abbandono dei criteri di Maastricht non porteranno all'inflazione dell'euro solo se, in cambio, i bilanci nazionali verranno tagliati radicalmente. Attualmente, la classe politica e i media tedeschi si stanno abbandonando allo sciovinismo nazionale nei confronti dei "peccatori". Mentre, al contrario, la sinistra si scaglia contro il "diktat" della RFT nell'eurozona e contro l'erosione delle sovranità nazionali. Questo discorso ideologico, non vuole riconoscere che esiste un'interdipendenza. Le politiche di austerità estrema, introdotte per salvare l'euro, porteranno inevitabilmente a uno shock deflazionistico. Nel momento in cui il potere d'acquisto indotto dallo Stato si esaurirà, a sommergere l'eurozona, non sarà solo la svalutazione generale del lavoro, ma anche quella del capitale fisico e delle materie prime. Ciò dimostra che la presunta forza di esportazione autonoma della RFT nell'UE ha i piedi d'argilla. Il salvataggio dell'euro e del sistema bancario, dipendenti già in larga misura dagli stimoli dello Stato, il quale ora poggia anche su titoli di Stato in difficoltà, è possibile solo al prezzo di una depressione nei Paesi dell'euro a capitale debole. La Grecia ha già tracciato la strada da seguire; Spagna, Portogallo e altri paesi seguiranno. Il risultato non può essere altro che quella di un'esplosione della disoccupazione di massa nella RFT, che poi, a sua volta, si ripercuoterà sul resto dell'UE.

Una politica di austerità, fatta con le buone o con le cattive, in quei Paesi dell'euro che hanno saldi commerciali negativi, e che equivale a un crollo dell'economia tedesca di esportazione, minaccia di mettere il bilancio della RFT, già da tempo sovraccarico, nella stessa posizione dei peccatori del deficit, contro i quali si punta il dito. Allora, a quel punto, la forza del capitale si trasformerà in debolezza del capitale. E quando le conseguenze deflazionistiche dei dettami dell'austerità diventeranno evidenti, ecco che allora ci sarà una nuova inversione di rotta che potrebbe portare a una combinazione caotica di tendenze deflazionistiche e inflazionistiche (stagflazione). Il governo Merkel non è in grado di imporre il proprio interesse personale all'UE, ma è indeciso tra la scelta della peste o del colera.

A fortiori, l'orologio non può essere rimesso indietro, riportandoci così in uno spazio economico e monetario nazionale; come vorrebbe quello che è il belante sciovinismo del Marco, il quale si è sempre basato su un orientamento unilaterale alle esportazioni. Ripiegata sulla propria economia interna, la gloria della Germania ora farebbe bene ad abbandonare del tutto quel fantasma. Così, le contraddizioni interne all'Unione monetaria europea diverrebbero il catalizzatore della seconda ondata della crisi.

- Robert Kurz - pubblicato sul settimane tedesco Freitag, il 20/5/2012