domenica 14 settembre 2025

IO LI ODIO I "NAZISTI dell'ILLINOIS" ?!!??? (foto I.A.)

Credo che questa domanda ce la dovremmo porre tutti!

Oggi, il mondo sembra somigliare un po' troppo da vicino a quelli che furono i primi momenti a partire dal 12 dicembre 1969 (minchia, se ne è passato di tempo!), quando allora, che le bombe le mettevano gli anarchici, si doveva, vittime di un PCI che contribuiva a "creare il mostro", cercare di trovare il modo - sganciandosi da un Valpreda che li per li apparve essere troppo compromesso e in odore di provocazione - di salvare capra e cavoli.
«Un compagno non può averlo fatto!»; così cantò la prima canzone di risposta (si sarebbe dovuto aspettare, di li a poco, "La strage di stato", per riuscire a dire qualcosa di sensato da usare contro la marea...) Figuriamoci che per affermare che no, che anche i "compagni" possono fare cose terribili, abbiamo dovuto aspettare la voce sensata di Oreste Scalzone a ricordarci, in epoca facebook, che anche i compagni "sbagliano" (qui la faccina, se è il caso, mettetecela voi, ché il mio senso dell'umorismo è terribile!) e fanno cazzate. Oggi, invece,abbiamo a che fare con un altro "pilastro" novecentesco. Quello dell'odio. Trascorsi gli anni di Sanguineti (Edoardo, quello con una "t" sola, beninteso) e del "diritto all'odio" - che ci veniva ricordato persino sulle magliette di Derive Approdi (ne conservo anch'io una, e ogni tanto la indosso, per andare a dormire!) - oggi ci viene ripetuto da ogni dove che no, che "odiare" (il concetto viene espresso anche e soprattutto in inglese) non è cosa buona da praticare, in alcun modo. Sembra che su questo siano tutti d'accordo ormai, quasi una sorta di campagna antifumo, ma per il benessere del fegato! Piuttosto che dei polmoni…
Per poter sostenere la loro tesi, secondo cui Tyler Robinson non può essere un compagno (su Mangione - nella foto con Tyler fatta dalla A.I. hanno preferito calare il silenzio, per mancanza di argomenti e per manifesta coda di paglia, come a suo tempo hanno fatto in Italia per Cospito) arrivano così a propinarci persino brutte vignette fatte in proprio - come se fossero documenti storici accademici - per dimostrare la loro tesi, arrivando ad asserire che in una famiglia di destra nascono e crescono necessariamente tutti di destra, fino alla morte. Dimentichi, come sono, che questa cosa, mentre vale manifestatamente per personaggi come Di Battista, è stata, e viene continuamente, smentita dalla verità della Storia, laddove non è affatto raro che si diventi "compagni" proprio per reazione all'avere una famiglia fascista; anche perché di compagneria figlia di operai ne conosco ben pochi, e la cosa la dico in un consapevole empito di "individualismo metodologico", e da figlio di operaio! Insomma, la chiudo qui, vi sto dicendo che, contrariamente a quanto dicono Veltroni & Gad Lerner, quello che ha sparato "senza sbagliare", uccidendolo, su un "fascista dell'Illinois" (scommetto che il film è piaciuto a tutti, haters e non!!), ha fatto ciò che la sua coscienza gli ha suggerito, e che fareste bene a guardare ai precedenti, in tal senso. Volendo, potete pensare anche a voi stessi, e a tutte le volte che, per convenienza o altro, avete inghiottito l'ingiustizia - la frase sbagliata detta da qualcuno sul treno, al bar, sul posto di lavoro,dovunque - e ve ne siete stati zitti. Niente di più, niente di meno.

sabato 13 settembre 2025

Dedicato agli Irregolari !!

Vi racconto una storia. Prendetela così, come vi viene, in questi tempi... irregolari...

«Viva quel comunista che la fece così bella, impugnò la rivoltella contro Casalini…..»

  ...Nemmeno in questi pochi versi arrivati in qualche modo fino a noi - parte di una canzone, probabilmente scritta a caldo - si fa menzione del nome di Giovanni Corvi.
Destino comune, con ogni probabilità, a chiunque sia un senza-partito ("cani sciolti", verranno chiamati più tardi quelli come lui, in un'altra epoca) ed è per questo, forse, che continuerà a rimanere un senza-storia. Oggi, nel Web, a fare una ricerca, accade di leggere che la qualifica di "comunista", o di "socialista", è stato il "nemico" ad affibbiargliela. I comunisti, gli anarchici, i socialisti hanno preferito - ogni volta che ne hanno accennato - considerarlo come un esaltato, se non propriamente uno squilibrato.
E per lo più è stato cancellato, quel Giovanni Corvi, operaio, carpentiere, nato a Teglio, in provincia di Sondrio, nel maggio del 1898. S'era fatta tutta la Grande Guerra, e oltre. Congedato nel 1920, si era trasferito a Roma in cerca di lavoro.
Ma si vede che all'inizio non gli sia andata proprio benissimo - la ricerca di un lavoro -  tant'è che dalla schedatura della polizia risulta anche qualche reato minore contro il patrimonio e le persone. Ma è il 12 settembre del 1924, quando assurge agli onori della cronaca: su un autobus, estrae una pistola e fa fuoco contro Armando Casalini, deputato fascista e importante esponente delle Corporazioni, uccidendolo. Arrestato, dichiarerà di aver voluto così vendicare Giacomo Matteotti.

   Definito "comunista" dalla stampa, non ci sarà nessun partito politico, od organizzazione di sinistra, che se ne farà carico, così come nessun partito politico, od organizzazione di sinistra, s'era prima fatta carico di dare seguito alle proteste popolari che, in tutta Italia, erano sorte spontaneamente a partire dall'assassinio del deputato socialista. Così, un irregolare, incontrollabile, aveva anticipato di vent'anni le azioni dei gappisti. E farà la fine di tanti altri irregolari che avevano sfidato il regime. Di lui, ne viene disposto l'internamento presso il manicomio provinciale di Roma. Assolto dall'imputazione di omicidio «per totale infermità mentale», continuerà a essere continuamente dimesso e internato. Fra manicomi criminali e confino di polizia, fino a quando non sparirà, dopo essere stato prelevato dalla polizia nazista, in uno di quei tanti campi di concentramento repubblichini, venendo trasferito «verso ignota destinazione». Era Giovanni Corvi.

giovedì 11 settembre 2025

Marx: Il Manifesto 2.0 !!

La "Critica del Programma Gotha": un manifesto 2.0 !!
- di Gabriel Teles -

Nel 1875, Karl Marx scrisse un documento unico. Non si trattava di un trattato filosofico o di un saggio giornalistico,bensì di una critica approfondita, chirurgica, schietta e, ancora oggi, rimasta spesso trascurata. Mi riferisco alla "Critica del programma di Gotha", scritta come fosse una lettera-commento al progetto di unificazione, dei socialisti tedeschi, attorno a un programma comune. A prima vista, potrebbe sembrare quasi un episodio minore nella traiettoria del pensiero marxiano. Tuttavia, come sostiene il marxista indiano Paresh Chattopadhyay, si tratta di un vero e proprio «secondo Manifesto del Partito Comunista»: più maturo, meno pamphlet, ma non per questo meno rivoluzionario. Per comprendere la portata di questa formulazione, è necessario tornare al contesto. Nel 1875, i seguaci di Marx e i seguaci di Ferdinand Lassalle - una figura centrale dello Stato tedesco e del socialismo riformista - cercarono di fondere le loro organizzazioni nel neonato Partito Socialista Operaio di Germania (in seguito SPD, acronimo di Partito Socialdemocratico di Germania). Il programma che avrebbe sintetizzato questa fusione, era stato scritto per lo più da dei lassalliani, e recava in sé profondi segni di un socialismo statalista, legalista e conciliante. Marx, dopo aver letto il testo, rispose con la "Critica del programma di Gotha", inviato tramite una lettera a Wilhelm Bracke, ma che non venne mai pubblicato integralmente per tutto il corso della sua vita, e venne reso noto pubblicamente soltanto nel 1891. Ciò che Marx offriva in quel testo, non era solo una critica congiunturale. si trattava piuttosto della riaffermazione radicale dei fondamenti della sua teoria dell'emancipazione. In esso, Marx contestava, ad esempio, l'idea che «il lavoro sia la fonte di tutta la ricchezza e di tutta la cultura», sottolineando come una tale formulazione - cancellando l'apporto della natura e del contesto sociale - non facesse altro che ripetere feticisticamente il discorso borghese sul valore del lavoro. Ma più di questo, Marx rifiuta l'idealizzazione del lavoro, così come esso esiste sotto il capitalismo. Non si tratta di riscattare il lavoro salariato, ma di abolirlo!

Il lavoro come prigione (e non come virtù)
Marx ribadisce che il lavoro, nella forma in cui esso viene organizzato sotto il capitale, rimane inseparabile dall'alienazione. L'emancipazione umana, pertanto, potrà avvenire solo con l'abolizione della forma sociale del lavoro astratto, subordinato com'è alla produzione di valore. Ecco perché egli rifiuta la formula lassalliana dell'«equa distribuzione dei frutti del lavoro», dal momento che tale formula conserva, alla sua base, la struttura dello sfruttamento. Il punto è cruciale, e molte letture riformiste del marxismo insisteranno sulla difesa della redistribuzione del prodotto, ma senza mai toccare la struttura della produzione. Marx, al contrario, denuncia il nocciolo della dominazione capitalistica: la separazione tra produttori e mezzi di produzione, il controllo del tempo della vita attraverso una logica di valorizzazione cieca e disumana, la subordinazione del fare all'avere. Nella fase più alta del comunismo – che egli si limita ad abbozzare – Marx propone che il lavoro cessi di essere "un mezzo di vita" e divenga la "prima necessità vitale". Ciò significa, in termini concreti, la riconciliazione tra attività e pienezza, tra il fare umano e la libertà. Un lavoro che non sia più dettato dalla sopravvivenza, o dalla coercizione del valore, ma dall'autorealizzazione degli individui. È importante sottolineare: in Marx non troviamo esattamente alcuna distinzione tra "socialismo" e "comunismo"; come se essi fossero due regimi, o due modi di produzione distinti. Questa scissione, molto presente nelle letture successive – specialmente in quella del marxismo sovietico – non corrisponde affatto alla concezione marxiana originaria. Ciò che Marx propone è una distinzione tra due fasi del comunismo: una fase iniziale, ancora segnata da alcune tracce della vecchia società (come il principio distributivo di "uguale diritto" proporzionale al lavoro), e una fase superiore, dove il principio di uguaglianza formale viene superato a partire dal soddisfacimento dei bisogni reali. Entrambe le fasi appartengono al processo di superamento del modo di produzione capitalistico, e alla costituzione della nuova socievolezza comunista. Pertanto, ciò che in Marx viene solitamente chiamato "socialismo", in realtà, no è altro che lo stadio inferiore del comunismo; uno stadio ancora condizionato dalle limitazioni ereditate dalla società borghese. Non si tratta di un sistema autonomo o permanente, quanto piuttosto di una fase necessariamente transitoria, che si completa solo con l'estinzione della forma-valore, dello Stato e della divisione del lavoro così come la conosciamo.

Il socialismo non è la gestione statale del capitale
Uno dei bersagli più duri della critica di Marx, è la concezione lassalliana dello Stato. Per Lassalle e i suoi seguaci, lo Stato poteva essere uno strumento neutrale di giustizia distributiva. Marx, tuttavia, mette in guardia: lo Stato non è un arbitro al di sopra delle classi, bensì una forma politica che corrisponde a certi rapporti di produzione. Nella società capitalista, lo Stato moderno è una forma di riproduzione della dominazione borghese. Aspettarsi che sia esso l'agente dell'emancipazione, sarebbe un'illusione fatale. In tal senso, la Critica del Programma di Gotha anticipa molti di quei dibattiti che sarebbero poi fioriti soltanto nel XX secolo, specialmente tra i marxisti critici dello statalismo sovietico. La denuncia del feticismo di Stato, la difesa dell'autogestione dei produttori associati, il rifiuto della centralizzazione burocratica vista come via al socialismo; tutto questo lo si trova, in embrione, in questo breve testo del 1875. Questo aspetto della Critica del Programma di Gotha appare essere particolarmente scomodo per quei progetti "di sinistra" che ancora ripongono speranze nella conquista dell'apparato statale, visto come via di trasformazione. Marx non solo rifiutava la neutralità dello Stato; ma egli denuncia la sua forma strutturale, in quanto separata e contraria all'autodeterminazione popolare. Lo Stato, nella società capitalistica, esiste per garantire la riproduzione delle condizioni di sfruttamento, per quanto ciò avvenga sotto le spoglie del cosiddetto "interesse generale". La sua burocrazia, le sue leggi e i suoi meccanismi di coercizione non sono strumenti vuoti, bensì forme sociali specifiche che esprimono la scissione tra lavoro e controllo, tra produzione e decisione. Marx anticipa, in questo breve scritto, una delle impasse storiche della modernità politica: la tendenza dei movimenti di emancipazione a istituzionalizzarsi all'interno delle forme statali, che si supponeva che invece essi superassero. La critica di Marx allo Stato non è funzionalista, non si limita a sottolineare che lo Stato è "controllato" dalla borghesia,  ma va più a fondo, affermando che lo Stato è - nella sua forma stessa - la negazione dell'autogestione e della libera associazione tra gli individui. Il problema, perciò, non sta solo in chi occupa lo Stato, ma consiste proprio nel fatto che esso separa strutturalmente i produttori dall'esercizio collettivo del potere. Quello che abbiamo visto, in molti casi, è stata solo la sostituzione della borghesia con una nuova élite politico-burocratica, mantenendo intatta la separazione tra popolo e potere. In nome del socialismo, sono stati ricostruiti gli stati autoritari, i partiti unici, la pianificazione verticale e la repressione del dissenso. E tutto questo in nome di un progetto che, per Marx, poteva invece essere realizzabile solo attraverso la fine dello Stato in quanto tale. Il cosiddetto "comunismo di Stato" rappresenta la negazione pratica di tutto ciò che la Critica del Programma di Gotha afferma: la necessità di un'autogestione generalizzata, la soppressione della divisione tra leader ed esecutori, la dissoluzione delle forme sociali ereditate. Leggere oggi la "Critica" significa quindi affrontare una sfida teorica e politica di prim'ordine. In tempi di ricostruzione della critica anticapitalista, la tentazione di salvare lo Stato, visto come strumento di giustizia, riappare in nuove forme: come "Stato sociale", "neo-sviluppismo" o "governo progressista". Ma Marx avverte: senza la trasformazione radicale delle forme sociali che sostengono lo Stato – il lavoro alienato, la proprietà privata dei mezzi di produzione, la divisione tecnica e politica del lavoro – non c'è emancipazione. C'è solo la gestione della barbarie.

Perché lo ignoriamo (ancora)?
La domanda che sorge spontanea è: perché questo testo, che possiede una tale densità teorica e politica, viene così poco letto? Una possibile risposta è scomoda: la Critica del Programma di Gotha non offre illusioni, non promette scorciatoie istituzionali, non si fida dello Stato, non addolcisce il lavoro. In tempi di politiche "di sinistra", che generano solo miseria capitalistica con una patina umanista, il testo di Marx suona come una provocazione. Inoltre, la Critica richiede una lettura più rigorosa della teoria del valore, del lavoro e dello Stato; temi che vengono spesso sostituiti da degli approcci moralistici o culturalisti da parte del marxismo contemporaneo. Non c'è modo di leggerlo senza affrontare la radicalità del comunismo, visto come una rottura totale, non solo con il mercato, ma anche con la forma statale, la forma lavoro e la forma legge. Forse è per questo che la Critica del Programma di Gotha rimane, ancora oggi, quasi una sorta di "documento maledetto" all'interno del corpus marxista. A differenza di testi assai più popolari - come il "Manifesto del Partito Comunista" o la Prefazione a "Per la critica dell'economia politica" -  questo scritto non si presta a interpretazioni concilianti né a usi istituzionali. Spinge il lettore e il movimento operaio a confrontarsi con le proprie illusioni: sullo Stato, sulla legalità borghese, sul lavoro in quanto virtù morale. È un testo che disarma le fantasie del riformismo. La difficoltà della sua ricezione è legata anche al fatto che esso richiede una rottura non solo politica, ma anche ontologica. Marx propone non solo nuove politiche o nuove istituzioni, ma un nuovo modo di vivere: un mondo senza lavoro alienato, senza valore, senza Stato, senza capitale. Questo radicalismo, ancora oggi, continua a fare paura, spaventa anche quei settori che si dicono marxisti, ma che si limitano a una gestione progressiva dell'esistente. È più comodo parlare di redistribuzione del reddito, o di espansione dei diritti, piuttosto che affrontare ciò che Marx ha effettivamente proposto: l'abolizione delle forme sociali fondamentali del capitalismo. Inoltre, il testo sfugge alle consuete categorie della politica moderna e non si inserisce né nel quadro della socialdemocrazia né in quello del marxismo-leninismo classico. La sua critica allo Stato lo rende indigesto a tutti coloro che credono nella via istituzionale; il suo rifiuto della pianificazione autoritaria lo allontana dalle esperienze del "socialismo reale". Ciò che rimane, è una critica tagliente e una scommessa strategica sull'autorganizzazione dei lavoratori, un'idea che è stata soffocata. tanto dalle armi del Capitale quanto dai decreti del Partito-Stato. Per tutte queste ragioni, rileggere la Critica del Programma di Gotha è più di un esercizio filologico. È un atto di reincontro con la dimensione più radicale del comunismo marxiano: quella che non cerca di migliorare il mondo del capitale, ma di superarlo. Nell'epoca della precarietà strutturale, della finanziarizzazione della vita e dell'automazione gestita dagli algoritmi, Marx ci ricorda che nessuna tecnica o Stato può sostituire l'azione cosciente e organizzata dei lavoratori stessi. L'emancipazione sarà opera loro – o non lo sarà.

Un Manifesto oltre il Manifesto
Definendo la Critica del Programma di Gotha il «secondo Manifesto del Partito Comunista», Chattopadhyay non suggerisce una ripetizione, bensì un approfondimento. Il Manifesto del 1848 era un grido di battaglia, scritto nel pieno della rivoluzione. D'altra parte, la Critica, quasi trent'anni dopo, è una sintesi riflessiva e matura dell'esperienza del movimento operaio e delle insidie della prima istituzionalizzazione. Se il Manifesto proclamava che «i proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene», la Critica mostrava dove ora si nascondono queste insidie: nel lavoro alienato, nello Stato burocratico, nell'ideologia dell'uguaglianza formale. Ecco perché va letto, studiato, dibattuto e riportato al centro delle formulazioni socialiste del XXI secolo. Nell'era dell'automazione e dell'intelligenza artificiale, quando la promessa della liberazione dal lavoro nasconde l'intensificazione della sorveglianza e dello sfruttamento, il gesto di Marx ci interpella nuovamente: non basta ridistribuire i frutti del lavoro, ma è necessario trasformare il lavoro stesso, abolire la sua forma alienata e liberare il tempo umano dall'orologio della produzione di valore. Gli ingranaggi del capitale, si adattano rapidamente: gli algoritmi sostituiscono i capi, le piattaforme frammentano i legami e l'illusione dell'autonomia nasconde il controllo totale del tempo, del corpo e della soggettività. In un simile scenario, la Critica del Programma Gotha riemerge come un faro concettuale. Non è nostalgia, ma necessità: ci ricorda che l'emancipazione non riguarda l'espansione dei consumi, ma la distruzione dei meccanismi sociali che ci costringono a vivere per produrre. Una società comunista, come quella delineata da Marx, è una società in cui il fare cessa di essere uno strumento di sopravvivenza, e diventa espressione di una vita piena, nel corso della quale il tempo libero non è solo tempo di ozio, ma diventa tempo per sé stessi, per gli altri, per il creato. L'intelligenza artificiale, lungi dall'essere un nemico in sé, potrebbe essere un'alleata di un'umanità liberata dalla costrizione produttiva. Ma questo sarà possibile solo se si spezzerà la forma sociale che converte tutta l'innovazione in un’intensificazione dello sfruttamento. Ciò che è in gioco, quindi, non è la tecnologia in sé, ma la struttura sociale che la comanda. E questa struttura – fondata sull'estrazione del plusvalore, sulla separazione tra produttori e mezzi di produzione, sulla concorrenza e sulla proprietà privata – è precisamente ciò che la Critica ci insegna a identificare e combattere. Svuotando il lavoro di ogni significato, il capitalismo digitale ci dà paradossalmente l'impulso a pensare al suo superamento. Se le macchine svolgono già parte del lavoro necessario, perché mai continuiamo a essere sottoposti alla logica della scarsità e del sacrificio? Perché non riorganizzare la vita sociale sulla base dei bisogni umani e dei poteri collettivi? Questa è la domanda alla base della Critica del Programma di Gotha, che ritorna con forza in un'epoca in cui il lavoro perde centralità economica mentre acquista, simultaneamente, centralità esistenziale. Senza tale rottura non ci sarà alcuna rivoluzione. E non ci sarà rottura senza ascoltare, ancora una volta – e con la radicalità che richiede – il secondo manifesto. Un manifesto silenzioso, senza slogan, ma che pulsa in ogni riga della critica marxiana: liberarsi dal lavoro del capitale, liberare il tempo dalla merce, liberare la vita dall'astrazione della legge del valore. Leggere oggi la Critica del Programma di Gotha significa aprire, ancora una volta, la possibilità di Comunismo; non come un progetto di governo, ma come uno stile di vita a venire.

- Gabriel Teles - Pubblicato il 9/9/2025 su https://blogdaboitempo.com.br/

mercoledì 10 settembre 2025

Bloccare Tutto ?!!???

Il 10 Settembre, Critiche temporanee
- Il seguente testo è stato diffuso dai compagni di "Temps Critiques" alle 10 del mattino del 10 settembre 2025. Il testo si rivolge alla campagna per "Bloccare tutto il 10 settembre",costruita, con molta fanfara, per tutta l'estate. Mentre andiamo in stampa, le azioni si stanno ancora svolgendo in tutto il paese.
- by Ill Will -

L'appello a "Bloccare tutto" il 10 settembre 2025 è molto diverso dall'appello dei Gilets jaunes a occupare le rotatorie nell'ottobre-novembre del 2018. La sua origine non è chiaramente identificabile, anche se "Les essentiels", un piccolo gruppo freixista, sembra essere alla sua origine. Soprattutto, non contiene alcun riferimento che possa significare una o più collettività attorno a un emblema riconoscibile, come potrebbero essere stati i gilet gialli o gli ombrelli di Hong Kong. È come se l'umore attuale fosse di rivolta, o almeno di rabbia o indignazione (è un discorso molto ampio), come se fosse tutto ciò che serve per trasmettere l'appello e abbracciare ogni possibile richiesta e modalità di azione, dalle più limitate, come staccare la spina dai dispositivi, alle più estreme, come circondare Parigi. In tutta questa vaghezza e gassosità, è facile dimenticare che non c'è un solo nemico dall'altra parte (chiunque sia il nemico principale: lo Stato e la sua polizia, il governo, Macron), ma tutta un'organizzazione di relazioni sociali a cui partecipiamo, volenti o nolenti, con la loro disposizione di dipendenza e sedimentazione reciproca gerarchica, e che struttura il dominio in un modo molto più complesso di quello che opporrebbe "loro" e "noi", come se ci fossero solo due forze che si fronteggiano e fosse sufficiente che "noi" prendessimo l'iniziativa, da un momento all'altro, quindi – e perché non il 10 settembre?
    A posteriori, il movimento dei Gilets jaunes ha mostrato una sorprendente capacità di designare obiettivi che tenevano conto delle posizioni geografiche e sociali dei suoi partecipanti. Erano consapevoli della loro incapacità di bloccare veramente qualsiasi cosa, perché erano consapevoli della loro relativa estraneità al rapporto tra sfruttamento e produzione. I luoghi scelti per l'occupazione costituivano quindi non un nodo di produzione ma un luogo di circolazione di cui chiunque poteva appropriarsi, anche solo temporaneamente, o almeno deviare la propria destinazione (da scambi di flussi a scambi di parole, senza che ciò fosse formalizzato nel discorso fine a se stesso, come talvolta accadeva per Nuit debout, né nel gergo caro ai "radicali"). In breve, hanno trasformato concretamente la loro debolezza in un punto di forza, piuttosto che semplicemente esibire questa debolezza sotto gli occhi di tutti, come fecero all'epoca i fautori della falsa "convergenza delle lotte". La forza dei Gilets jaunes è stata, tra le altre cose, quella di mantenere un equilibrio tra l'azione diretta, la libertà di parola ma misurata (le questioni divisive sono state il più delle volte messe da parte o secondarie) e la riflessività quotidiana del movimento su se stesso. Non si è mai persa nelle erbacce del discorso, né si è impegnata in un dialogo con le autorità o i media – da qui la sua relativa irriducibilità, e il fatto che non c'è mai stato nulla da negoziare.
    Qual è la situazione oggi? I motivi per essere arrabbiati sono ancora lì, e persino amplificati. Non abbiamo molte informazioni affidabili sulle persone dietro l'appello del 10 settembre, ma quello che sappiamo per certo è che non hanno modo di "bloccare tutto", a meno che i camionisti non entrino in azione. Al contrario, durante la crisi sanitaria, abbiamo visto che le frazioni di dipendenti o altri lavoratori improvvisamente designati come essenziali lo erano proprio perché la loro attività è continuata durante la crisi e, in confronto, l'attività provvisoria di altri è cessata. Secondo alcuni sondaggi, come quello di Le Monde del 2 settembre 2025, l'iniziativa è particolarmente radicata nelle città di piccole e medie dimensioni, meno nelle metropoli, che sono sia comuni ai Gilets jaunes – un movimento poco urbano – sia diversi da essi, poiché non riguardano essenzialmente le periferie. Gli operai e i pensionati, due gruppi centrali tra i Gilets jaunes, sono sottorappresentati. Al contrario, i dirigenti, gli studenti delle scuole superiori e le persone economicamente inattive sono sovra-rappresentati. E' guidata meno dall'esperienza vissuta della precarietà economica che da una forte politicizzazione della sinistra, anche se vuole essere autonoma dai partiti e non adotta la grammatica dell'azione propria dei sindacati. A questo si aggiunge il desiderio di impegnarsi "per gli altri", che sembra motivare la loro mobilitazione. Ora, anche se realmente esistono degli "altri", essi non costituiscono a priori il "bersaglio" privilegiato della frangia politicizzata, che ragiona solo in termini di "cause" piuttosto che di situazioni concrete (la questione del potere d'acquisto appare solo indirettamente, attraverso la volontà di combattere le disuguaglianze sociali; e la critica allo Stato-consumismo appare rischiosa se, allontanandosi dal suo originario inquadramento di decrescita, finisce per unirsi a una critica più ampia dell'intervento sociale dello stato, come si può vedere con la proposta di nuovo bilancio, la priorità del debito del governo, la restrizione dell'assistenza medica agli stranieri, ecc.). In breve, questa preoccupazione volontaristica rischia di ricevere poca ricompensa: una leadership senza esercito.
    Questa esternalizzazione non si manifesta qui in un appello a bloccare gli spazi pubblici, come nelle rotonde o nelle manifestazioni di piazza, ma piuttosto nell'organizzarci in modo da poter fare tutto da casa e alle nostre condizioni, assecondando l'idea che siamo noi a dominare le macchine piuttosto che loro a dominare noi. L'idea è quella di bloccare individualmente il "sistema" economico, come se fosse qualcosa di esterno a noi. Prima di tutto, è una concezione di un popolo senza macchia che non può fare a meno di evocare brutti ricordi (*1); finge anche che questo "popolo" si sia già messo in moto grazie alla sua capacità di "hackerare" le micro-tecnologie. Mentre alcuni (es. Paolo Virno [*2]) si vantano della presunta "intelligenza collettiva" dei movimenti, che hanno già incorporato l'intelletto generale, e, perché no, l'IA già che ci siamo [*3], basta a far dubitare della sua presunta "autonomia", perché qui siamo ben lontani dalle originarie tesi operaiste che Virno rivendicherebbe come proprie.
    L'appello a uno "sciopero dei consumatori" si aggiunge a questa esteriorità e indica le origini sociologiche dei promotori della campagna, dato che una percentuale relativamente ampia della popolazione ha già "scioperato" contro le vacanze e qualsiasi cosa che non sia l'acquisto di beni di prima necessità. Allo stesso modo in cui l'imposizione dell'articolo 49.3 da parte del governo ha affogato il movimento pensionistico del giugno 2023 sotto un diluvio di argomenti democratici avanzati da forze che hanno poco a che fare con il movimento stesso, il movimento del 10 settembre ha già compiuto l'impresa involontaria di essere affogato, prima ancora della sua possibile schiusa, sotto i tentativi di infiltrarsi nelle forze politiche (i partiti dell'ex "nuovo fronte popolare" e i vari gruppuscoli della "sinistra" di sinistra") o sindacati (SUD), che hanno giurato di non farsi ingannare una seconda volta, dopo la loro cecità nei confronti del movimento dei gilets jaunes.
    La "indeterminatezza" di cui alcuni [*4] parlano è pertanto assai più bassa di quanto non fosse con i Gilets jaunes; per quanto riguarda la questione del suo potere, essa non può essere valutata in assenza di una reale messa in moto di ciò che è, per il momento, solo un appello e non un movimento. Oggi c'è una certa confusione tra quello che un tempo si chiamava "movimento sociale" – anche nelle sue varianti di "nuovo movimento sociale", dal 1986 in poi, per esempio in Francia con il movimento dei macchinisti e degli infermieri, durante il quale il filo rosso delle lotte di classe non era ancora stato tagliato (i coordinamenti hanno temporaneamente soppiantato i sindacati) – e movimenti come quelli emersi dalla seconda metà degli anni 2010 in poi. Seguendo le orme di Stéphane Hessel, l'iniziativa "Nuit debout" ha promosso l'indignazione e il parlare in pubblico attraverso le tendenze cittadine; i Gilets jaunes, dal canto loro, esprimono l'immediatezza di una situazione di stallo e di un'azione diretta, seppur con un graduale riferimento alla Rivoluzione francese che storicizza e politicizza il movimento dall'interno, piuttosto che attraverso l'intervento di forze esterne. Nonostante le critiche che gli sono state rivolte [*5], la promozione del RIC [un'iniziativa per i referendum] in ultima analisi una funzione della tendenza creativa istituzionale del movimento, piuttosto che segnalare una volontà di istituzionalizzarsi; insomma, si cercavano pratiche di democrazia diretta che si trovino al di fuori delle forme custodite nelle lotte proletarie storiche. Questa tendenza controbilanciava una tendenza al degagismo [*6], il quale è presente anche nell'appello odierno, che sembra combinare il cittadinismo e il populismo di sinistra (cfr. il che spiega il suo pieno sostegno da parte di La France Insoumise). Altrettanto dubbia appare l'idea che questa "indeterminatezza" alla fine rafforzi il potere; infatti, il potere presuppone una forte determinazione - come abbiamo visto nella reazione dello Stato -  a qualsiasi forza che lo minacci realmente (i Gilets jaunes in Francia, la criminalizzazione delle lotte altrove). I gilets jaunes hanno acquisito questa forza non dall'indeterminatezza della loro composizione di classe e dall'eterogeneità delle loro rivendicazioni, bensì dalla loro azione, dagli scontri con lo Stato che si sono verificati ovunque i loro vari collettivi di lotta siano intervenuti nello spazio pubblico.
    Come ha scritto Michaël Foessel su Libération il 4 settembre 2025, la mobilitazione virtuale di un "On ne veut plus" [Non vogliamo più] dal basso corrisponderebbe così  a un "On ne peut plus" [Non possiamo più] dall'alto; una situazione che è stata storicamente definita all'inizio del XX secolo come costituente la premessa di una fase pre-insurrezionale, con la differenza che le parole hanno senso solo in un preciso contesto storico. Ci sono ragioni per dubitare di un «non vogliamo più» da parte della base, quando così spesso assomiglia invece a un «non possiamo più» (formare un collettivo, scioperare, ecc.). Per quanto riguarda il «non possiamo più» da parte di chi sta in alto, si tratta di un particolare governo con una propria costituzione e un proprio sistema di voto, che pertanto presuppone due blocchi e non tre. Questo è solo un caso particolare di stallo politico nel contesto più generale di una crisi dei regimi democratici, ma non siamo nella Russia del 1917, quando Lenin pronunciò la sua famosa citazione. Tuttavia, pur criticando i media mainstream, i promotori non esitano a fare affidamento sui loro metodi, così come su quelli dei politici: l'effetto pubblicitario non è reale, ma genera un effetto reale, come avrebbe detto Foucault. Ospedali e cliniche hanno cancellato le operazioni originariamente previste per il 10 settembre. Per quanto riguarda coloro che potrebbero, se volessero, mettere in atto blocchi significativi, essi hanno invece indetto uno sciopero per il 18 settembre, non volendo confondersi, e perdere così la potenziale leadership di ciò che esiste solo come progetto. A prima vista, le speranze che hanno i sindacati di firmare una sorta di nuovo accordo del 13 maggio (1968), quando il movimento (fino ad allora composto essenzialmente da studenti) decise di elemosinare sostegno in cambio di uno sciopero generale, appaiono qui assai scarse; essi sarebbero senza dubbio contenti di una riduzione dei giorni festivi. In effetti, nonostante l'appello incidentale di Mélenchon a uno sciopero generale, le loro tattiche non implicano alcuna inversione sindacale rivoluzionaria, suggerendo piuttosto che hanno imparato la lezione della fallita lotta per le pensioni del 2023. Dalla fine dell'estate del 2023 fino ai giorni nostri, ciò che domina è infatti una paura diffusa da parte dei poteri costituiti, ma anche un sentimento di sconfitta e di disperazione tra coloro che hanno combattuto. In questo senso, il fuoco non sta affatto covando sotto la superficie quotidiana dell'abbandono quotidiano. Contrariamente a quanto sostengono oggi i sostenitori dell'ipotesi autonoma, i movimenti recenti – almeno nei loro risultati – non attestano il divenire autonomo dei movimenti sociali, a cui non hanno mai mirato fin dall'inizio, ma un'autonomizzazione del sociale stesso, nella misura in cui la vecchia questione sociale è stata invisibilizzata (per usare parole d'ordine), il che ha portato all'isolamento dei movimenti che, I media ci dicono che quasi tutti sostengono... a distanza. Qui, i clacson, là, i colpi di pentole e di padelle, non hanno più influenza di quanto lo abbia il tifo dei tifosi negli stadi di tutto il mondo... A meno che non si creda davvero che tutto sia solo uno spettacolo.

- Ill Will - 10/9/2025 - Apparso su https://illwill.com/ -
- Immagine di copertina: Un autobus viene incendiato su un'autostrada vicino a Rennes, in Francia, il 10 settembre 2025 -

Note:
1. Mentre i Gilet Gialli si muovevano in tutti i sensi, l'iniziativa attuale si rivolge a un popolo precostituito: «Il 10 settembre usciremo insieme. Una voce, un popolo. Uniti contro un sistema che ci schiaccia», recita lo slogan finale su un manifesto il cui inizio tradisce l'ideologia intersezionale resa popolare e applicata alle questioni sociali: «Tutti uniti. Non importa la tua religione, il tuo colore, il tuo quartiere, il tuo background. Neri, bianchi, arabi, credenti o no, lavoratori, disoccupati, pensionati, senzatetto, giovani dei progetti... Agricoltori, camionisti... Tutti nella nostra popolazione, mano nella mano».

2. Si veda l'estratto, pubblicato il 1° settembre 2025 su Lundi matin, dal testo di Virno "Virtuosité et Révolution", a sua volta tratto da Miracle, virtuosité et "déjà vu". Trois essais sur l'idée de "monde", L'éclat, 1996 (online qui). https://lundi.am/En-attendant-le-10-septembre-une-miraculeuse-exception

3. I promotori usano Telegram, ma anche Instagram, Facebook, X, Bluesky, Discord... Tutte queste reti consentono la diffusione su larga scala di migliaia di immagini, molte delle quali generate dall'intelligenza artificiale.

4. Vedi Serge Quadruppani, "Vers le 10 septembre ou la puissance de l'indéterminé", Lundimatin, 1 settembre 2025 ( https://lundi.am/Vers-le-10-septembre-ou-la-puissance-de-l-indetermine ); e la nostra recensione (J. Guigou) in: "Hasardeuse prédiction: Remarques sur l'article de Serge Quadruppani..." (online qui : https://blog.tempscritiques.net/archives/5226 )

5. Per queste critiche, si veda Temps critiques, "Dans les rets du RIC", marzo 2019. Online qui: http://tempscritiques.free.fr/spip.php?article397 .

lunedì 8 settembre 2025

Lavorare e Non…

La realtà del lavoro, oltre la sua mercificazione
- Cosa ci dice il Marx-Engels-Ausgabe a proposito della "forza lavoro", in quanto forma unica del capitalismo, al di là di quello che è il suo confinamento teorico e pratico all'interno della sua forma mercificata (vale a dire, un salario o uno stipendio), rispetto a quello che è il "lavoro umano in quanto tale"  -
di Charles Reitz

   La prospettiva filosofica critica di Marx, sottolinea come il lavoro abbia una sua realtà e una sua capacità. Marx ha coniato l'espressione "forza lavoro", riferendola a una merce per la quale si scambia un salario, vedendola distinta dal lavoro umano in quanto tale, il quale invece fa parte dell'ontologia dell'umanità: ossia, la nostra "Gattungswesen": è la nostra identità stessa di esseri umani, a trovarsi radicata in un'eredità che discende dalle nostre prime forme di lavoro collettivo e di produzione, in delle società di partnership, con le loro ecologie di "caregiving" e di "commonwealth" (in conformità con l'etica africana umana dello "ubuntu"). DI tutto questo, troviamo delle nuove prove nel Vol. IV/27 dell'Ausgabe Marx-Engels (MEGA2), il quale include al suo interno i cosiddetti "Quaderni Etnologici" insieme ad altre note sulle società precapitalistiche e non occidentali. Una ricerca, sulle parole in tedesco che Marx usa nel suo periodo tardo (1879-82) - nelle note e negli estratti, contenuti in questo volume, che riguardano le società comunitarie indigene storiche, e le forme di lavoro romane, libere e non libere - non ha rivelato alcun riferimento alla forza lavoro (Arbeitskraft), ma molti termini riferiti al lavoro (Arbeit). Una futura società comunista (che sfugga alla logica feticistica che caratterizza la mercificazione dell'economia da parte dei proprietari privati, in particolare a quella del processo lavorativo) ha necessità che la sua riproduzione avvenga per mezzo di qualcosa che assomigli al "commonwealth labor", al lavoro comune, in quanto forma non mercificata (e come dice Marcuse, forse anche forma estetica) del lavoro umano. Si rammenti qual era l'ammonimento di Marx: «Non chiedete una giusta paga per una giusta giornata di lavoro. Abolite il sistema salariale!» Una volta che il lavoro sarà stato de-mercificato, allora la "forza lavoro" non avrà più alcun ruolo nel processo di riproduzione sociale.

  Come specie siamo sopravvissuti grazie al riconoscimento sensuale dei nostri poteri emergenti: il potere di sopravvivere in maniera cooperativa; creare, comunicare e prenderci cura l'uno dell'altro, in comunità, all'interno di quella forma di società che potremmo giustamente chiamare un "commonwealth". Il concetto di “lavoro comune” ambisce a essere inteso come il lavoro dell'umanità in forma estetica: maestria e abilità artistica, emancipate dalla repressione, che si svolgono «in accordo con le leggi della bellezza», come scrisse Marx nel 1844. L'umanesimo nei tempi antichi (Platone e Aristotele) non era una filosofia della bontà naturale e immediata dell'essere umano, come accadeva nel Romanticismo di Rousseau in epoca più recente. L'umanità aveva un suo metabolismo con la natura mediato dal lavoro e un metabolismo con gli altri esseri umani mediato dalla cultura. La filosofia greca antica insisteva sull'influenza umanizzante dei genitori e degli insegnanti, dei costumi, della cultura e delle leggi all'interno di un contesto sociale. Il lavoro umano costituisce la risorsa che sostiene la comunità umana. La logica radicalmente socialista della produzione, del possesso e della gestione collettiva è in grado di favorire un movimento di trasformazione sociale che, nell'ambito delle necessità, può costruire un'architettura di uguaglianza interculturale, disalienazione, equilibrio ecologico, abbondanza, bellezza e libertà.

Charles Reitz, da "The Revolutionary Ecological Legacy of Herbert Marcuse " (Daraja Press, 2023) -

domenica 7 settembre 2025

In che modo produciamo delle differenze?

Per la rivista Ballast, Pierre Madelin ha intervistato l'antropologo messicano José Luis Escalona Victoria, critico delle concezioni sostanzialiste del sociale che oggi tornano così tanto di moda; in particolare sotto la copertura del cosiddetto “decolonialismo”. L'antropologo José Luis Escalona Victoria, nato a Città del Messico, insegna in Chiapas e le sue ricerche, che vertono sulle diverse manifestazioni quotidiane del potere nel Messico rurale, implicano la revisione di alcuni presupposti del discorso antropologico contemporaneo che si è prodotto in America Latina e altrove. In questa intervista, egli affronta i rischi che, a suo avviso, comporta l'adozione di una visione essenzialista del sociale; cosa «che riduce le storie umane e le loro potenzialità a delle forme chiuse». In questo contesto, la domanda da porsi è come fare, nella produzione di conoscenza, a conciliare emancipazione e complessità?

Pierre Madelin: «La tua ricerca si distingue per uno sguardo critico al discorso antropologico prodotto in Messico, in particolare quel che riguarda le concezioni sostanziali del sociale. Soprattutto quelli che tu chiami "argomenti etnici". Di che cosa si tratta?»

José Luis Escalona: Penso soprattutto a quelle narrazioni presenti nello spazio pubblico, le quali spiegano tutta la storia e tutto il presente attraverso il prisma del confronto tra ciò che non è occidentale - o del Sud del mondo - e l'Occidente, o il Nord del mondo. Si tratta di un punto di partenza assai comune a molte discussioni, non solo in antropologia o nelle scienze sociali in generale, ma anche nei dibattiti politici, nell'arte e in altri campi della produzione del discorso pubblico (scritto, orale, plastico, simbolico, cinematografico). Ad esempio, in Messico, di fronte a una storia umana complessa e in continua evoluzione, fatta di diverse traiettorie e varie direzioni potenziali, le versioni narrative che vengono mantenute seguono il canone etno-nazionale, vale a dire, l'idea di un mondo, o di una cultura indigena confrontata con il Messico e portata avanti dalle élite occidentalizzate. Ecco che così, in questa prospettiva, tutto ciò che si muove, che genera molteplici prospettive, che è soggetto a una ricontestualizzazione e a una ridefinizione, a seconda delle circostanze, viene a essere contorto e mutilato in modo che così possa essere adattato a una storia unilineare, a una dicotomia che congela e solidifica ciò che è fluido, presumibilmente in una continuità di 500 anni. In questo modo, diamo qualità essenziali a delle realtà che sono di fatto contestuali. La mia domanda perciò riguarda questo sguardo essenzialista, che riduce le storie umane e le loro potenzialità a delle forme chiuse, incapaci di lasciar sfuggire qualsiasi cosa, e che arriva perfino a congelare il tempo e lo spazio. Un esempio di questo pensiero sostanzialista, consiste in ciò che ho chiamato etno-argomenti. Essi, sono argomenti che possono essere enunciati solo a condizione che noi assumiamo che esista qualcosa che possa essere chiamato... gruppi etnici, etnie o equivalenti. Questi argomenti, si basano sul principio che le storie e le persone che ci interessano sono in qualche modo predefinite, legate a una condizione specifica. Qualsiasi spostamento, o trasformazione, deriverebbe necessariamente da questa condizione di partenza, da questa posizione o situazione. Ciò equivale a considerare i soggetti vedendoli come più legati al passato, piuttosto che alle potenzialità del presente e del futuro. L'assunzione, fin dall'inizio, che certe posizioni o situazioni comuni producano automaticamente un'unità di senso, una risposta comune o un destino collettivo dovrebbe, se del caso, essere oggetto di indagine e di dimostrazione, e non essere una certezza data fin dall'inizio. Postulare che i gruppi etnici, intesi come volontà unitarie, sopravvivano alla colonizzazione, resistano alla modernità e si oppongano al pensiero occidentale (in quanto varianti dell'etno-argomento), è una spiegazione comune che troviamo in gran parte della letteratura antropologica. Il mio lavoro, invece, mi ha portato a mettere in discussione l'origine, la persistenza e la capacità riproduttiva di questa forma di ragionamento, nonché i suoi effetti nella formazione del dibattito pubblico in Messico.

P.M.: «Questo significa che l'antropologia è prigioniera della questione dell'identità?»

J.L.E.: Ho formulato questa domanda in un articolo, in modo da attirare l'attenzione sul problema dell'etno-argomento vendendolo da un'altra angolazione: quella dell'identità. Fin dai miei inizi in antropologia, ho visto molti colleghi cercare di capire la vita e le storie dei popoli che hanno studiato attraverso la nozione di identità. All'inizio del XX°secolo, in Messico sorse la preoccupazione per la costruzione della nazione e l'integrazione delle varie popolazioni "indigene". Queste popolazioni vennero classificate in gruppi etnici, e divennero così oggetto di particolare interesse per i nuovi studiosi – antropologhi – e per i funzionari dell'indigenismo; una politica questa, che mirava a integrare le popolazioni indigene attraverso la distribuzione di terre coltivabili (quando non ne avevano), la promozione di scuole, cliniche, e graie all'insegnamento della lingua nazionale (fornendo alfabetizzazione nelle lingue originali parlate in questi villaggi). Tuttavia, negli ultimi decenni del XX° secolo - in apparente contrasto con questa prospettiva modernizzante e sviluppista - è emersa anche una nuova narrazione dominante [*], secondo la quale i membri di questi popoli avevano adottato la loro etnia (originariamente imposta dallo Stato) e l'avevano difesa come propria. L'opinione maggioritaria ha stabilito una naturale continuità tra una cultura condivisa e un'identità etnica, percepita come una forma di resistenza all'integrazione. Da quel momento in poi, non c'è più stato spazio per apparenti incongruenze tra gli individui di questi popoli etnicizzati che cercavano qualcos'altro: elezioni con partiti politici, chiese evangeliche, radio, automobili e televisori, colture da reddito invece di mais per l'autoconsumo, andare a scuola e imparare lo spagnolo e l'inglese piuttosto che promuovere le loro conoscenze ancestrali; e, naturalmente, mobilitarsi per vari obiettivi, anziché dedicarsi esclusivamente alle lotte per l'autonomia. Naturalmente ci sono lotte per l'autonomia, o sforzi per rivitalizzare la conoscenza ancestrale, ma non è l'unica cosa che sta accadendo. Non esiste un unico scenario o un'unica traiettoria. È anche rivelatore il notare che queste storie sono spesso apparse in contesti di intensa interazione tra la popolazione indigena mobilitata e funzionari pubblici, sacerdoti, attivisti o antropologi (ruoli a volte combinati in una sola persona). L'identità è così diventata un eufemismo per l'atto discorsivo di confinare la diversità e la variabilità delle attività economiche, politiche o religiose entro i limiti dell'etnia, concepita come passato e destino naturale. Questo è ciò che è accaduto in antropologia, nonostante la ricchezza di esperienze etnografiche. L'uso dell'identità nel dibattito antropologico è quindi diventato per me un oggetto rilevante di riflessione antropologica, per la sua storia e la sua marcata presenza nel dibattito pubblico. Nell'articolo che ho citato, l'unica cosa che ho osato proporre è stata che l'identità sia più simile a una trappola, dalla quale l'antropologia dovrebbe cercare di uscire. E forse, per uscirne, è necessario ripensare l'antropologia stessa, non come studio dell'Altro, o dell'identità (pilastri del sostanzialismo di cui si parlava prima), ma come studio della non-identità, cioè della plasticità umana, e della produzione delle differenze. Perché si tratta soprattutto di chiedersi: come produciamo differenze? E perché la differenza si traduce quasi immediatamente in una differenza di culture o di etnie?

P.M.: «Di recente hai contribuito a un lavoro collettivo, intitolato "Beyond Indigenous Identity". Puoi dirci di più su questo progetto, che intende assumere l'alterità degli indigeni vedendola come "un oggetto da spiegare", e specificare così il tuo contributo?»

J.L.E.: Ho partecipato a questo libro con un testo che riprende un tema già affrontato nella letteratura antropologica: il contributo dell'antropologia, dato dall'Università di Harvard, agli studi dei Maya contemporanei del Chiapas. Mi interessa il modo in cui Evon Vogt, direttore dell'Harvard Chiapas Project, ha stabilito un legame tra un popolo contemporaneo e alcuni elementi materiali e documentari delle popolazioni coloniali e preispaniche. Si tratta di una variante dell'etno-narrazione (che Vogt chiama "etnostoria"), la quale consiste nel selezionare alcuni elementi (oscurandone altri) al fine di produrre un essere collettivo continuo: l'etnicità. La mia ipotesi è che: né questa forma narrativa né il suo referente siano totalmente coerenti; sostengo inoltre che l'etno-narrazione è, forse sorprendentemente, una forma retorica contemporanea. Molteplici, sono le forme materiali, di diversa densità e durata, in una vasta regione che va dall'Honduras allo Yucatán, e che testimoniano una storia complessa e antica. Ma è solo di recente, appena due secoli fa, che abbiamo cominciato a pensare a questa storia in termini di "civiltà", e che convenzionalmente chiamiamo Maya. Ciò che mi avvicina agli altri contributori di questo libro è, a mio avviso, uno sguardo diverso sulla questione dell'etnia: ci proponiamo di considerarla non come un dato di fatto, ma come una nozione in costruzione, una forma instabile per comprendere certe popolazioni nel Messico contemporaneo. Il libro mette in discussione una serie di idee preconcette sull'identità etnica, come l'idea che gli indiani nell'era coloniale e nazionale abbiano sempre vissuto su terre comunali, senza proprietà privata; oppure quella di una resistenza permanente a qualsiasi segno di civiltà o modernità, come la scuola o la scrittura. Al contrario, il lavoro di Emilio Kouri e di Gabriela Torres ci offre una visione ben documentata di quali sono le complesse forme di proprietà, e l'uso della terra nelle comunità coloniali indiane, e nelle popolazioni indigene odierne. Da parte loro, Ariadna Acevedo ed Elsie Rockwell mostrano quale sia la presenza viva della scuola e della scrittura nelle comunità indigene dell'epoca nazionale. Altri contributi rivelano l'isolamento non culturale e le diverse traiettorie di mobilitazione politica delle popolazioni indigene, come avviene nei casi analizzati da Peter Guardino e Michael Ducey. L'identità indigena sembra pertanto essere meno rigida e definitiva di quanto suggerisca gran parte della letteratura antropologica dominante. Il problema è che la nozione di identità indigena, in Messico, ha guadagnato un peso considerevole in aree come quelle della demografia ufficiale, la museografia, l'istruzione di base, il dibattito politico o la letteratura antropologica. Interviene perfino nelle discussioni sulla classificazione delle ossa in medicina o in museografia - come dimostra Laura Cházaro - o addirittura nei dibattiti sulla genetica, come analizza Vivette García. È come se una classificazione di ciò che è "messicano" e "indigeno" fosse stata congelata nel XX° secolo per poter servire come standard per definire chi siamo – anche per il lontano passato – e quale sarebbe stato il nostro destino. Questo, anche se - come mostra Paula López, e come lei e Ariadna Acevedo discutono nell'introduzione - l'etnicità non è sufficiente come spiegazione: si tratta di una nozione di costruzione che appare instabile, mutevole, e complessa anche per gli specialisti.

P.M.: «Qualche mese fa, l'archeologa francese Chloé Andrieu ha pubblicato un libro intitolato "I Maya non sono scomparsi", nel quale postula, in una certa misura, una continuità tra la civiltà Maya preispanica e i parlanti Maya di oggi. Tu, d'altra parte, invece, tendi a pensare che i Maya siano stati in qualche modo "inventati" dall'archeologia. Cosa vuoi dire con questo?»

J.L.E.: Questo è un argomento affascinante in sé. Innanzitutto, vorrei chiarire che non significa negare l'importanza della ricerca specializzata a proposito della "scoperta" dei "Maya", e della decifrazione della loro scrittura. Parlare della "costruzione" dei Maya, e mostrare che si tratta di una storia contemporanea, è solo un invito a sfumare il nostro punto di vista, e a porre così domande sul modo in cui la scienza contribuisce alla costruzione di narrazioni che poi vengono ampiamente diffuse nello spazio pubblico; narrazioni che hanno conseguenze molto reali sulla vita delle persone. L'affermazione che i Maya "non sono scomparsi", ad esempio, ha accompagnato, prima, l'immaginazione di esploratori, viaggiatori e poi di archeologi e antropologhi fin dal XIX° secolo. Si tratta di un gesto retorico che mira a valorizzare una storia, e a trasformare la nostra visione di alcune popolazioni, che in tempi diversi si sono confrontate con discriminazioni e rifiuti. Tuttavia, è anche importante chiedersi fino a che punto la narrazione intorno a ciò che è "Maya" non si basi su una visione che oscura e svaluta le traiettorie e le esperienze di esplorazione del mondo, che invece continuano ad esistere tra queste popolazioni. Le persone si trasferiscono, imparano cose nuove, vivono altrove, si appropriano di nuovi spazi, come i molti abitanti della vasta regione Maya che hanno vissuto negli Stati Uniti o in Canada, per esempio. Tuttavia, spesso vengono presi in considerazione solo se essi riaffermano la loro identità Maya.

P.M.: «In Francia, la produzione latinoamericana, e in particolare messicana, nelle scienze sociali è generalmente poco conosciuta. Tuttavia, almeno un libro sull'antropologia messicana, "Deep Mexico", di Guillermo Bonfil Batalla, è stato pubblicato in francese. Come ti relazioni con questo lavoro?»

J.L.E.: Questo libro è uno dei migliori esempi di etno-narrazione, scritto e pubblicato alla fine del XX° secolo. È antropologico, in quanto raccoglie brillantemente vari elementi della narrativa meso-americanista, e, per il grande pubblico, è anche un'opera letteraria che ha saputo ricreare con disinvoltura una duplice visione del Messico: da un lato, il "Messico immaginario", quello delle élite culturalmente disconnesse del paese, quello dei bastardi dell'Europa occidentale; dall'altro, un "Messico profondo", radicato, ancorato a una storia concepita come connessione quasi organica tra la popolazione indigena, il territorio, gli esseri viventi e le antiche cosmo-visioni. Leggere questo testo ti fa sentire - come messicano - un traditore, se hai abbandonato la tortilla, la lingua dei tuoi antenati e i villaggi con le loro feste, i legami familiari e le reti di compagni. Tutto il resto diverrebbe come falso, degradante in un certo senso, artificiale, senza essenza. Ciò che mi preoccupa di queste etno-narrazioni, tuttavia, è la loro profondità emotiva e vitalità nello spazio pubblico. Perché, mentre cercano in buona fede di rivalutare le persone, le pratiche, i saperi e gli oggetti, possono anche produrre forme di rifiuto, basate meno su un'analisi precisa di ciò che le persone fanno, o sul modo in cui essi costruiscono il loro futuro, e più su categorizzazioni generalizzanti. Inoltre, invece di fornirci strumenti per una comprensione più fine e più sfumata dell'esclusione e della disuguaglianza in tutta la loro complessità, queste narrazioni operano secondo schemi rigidi, che circolano facilmente in tutto lo spettro politico, da sinistra a destra. Non va dimenticato che queste forme di discorso, che sono sia essenzializzanti che emotivamente potenti, hanno alimentato anche forme di esclusione e regimi autoritari.

P.M.: «Negli ultimi quindici anni, c'è stato un boom di studi decoloniali nelle scienze sociali latinoamericane, e la maggior parte dei testi latinoamericani tradotti in francese oggi proviene da questo movimento. Come ti approcci,in quanto antropologo?»

J.L.E.: Le forme del discorso sostanzialista vengono riprodotte in diverse versioni. Ad esempio, c'è la versione etno-nazionale, in Messico e in altri paesi, spinta in particolare dall'interesse del XX° secolo per la costruzione di una cultura nazionale omogenea. La si ritrova anche nel multiculturalismo, il quale pretende di difendere la diversità, ma poi finisce per ridurla a una dualità tra Occidente e non Occidente, senza andare oltre le omogeneità essenzializzate chiamate culture o etnie. Questa logica appare anche nelle teorie decoloniali, per le quali il "colonialismo" – concepito come un trauma o come un punto di origine vecchio di cinque secoli – è la condizione fondamentale che determina la struttura, la forma e il destino di ogni storia sociale. Anche il prospettivismo antropologico – questa ricerca tra i popoli indigeni dell'America contemporanea di forme di ontologia radicalmente opposte all'Occidente – condivide con il pensiero etnico, culturalista, identitario e decoloniale il medesimo punto di partenza: l'idea di un'alterità amerindia essenziale, propria di quello che sarebbe un pensiero indigeno originale e puro. Naturalmente, si può esplorare questo pensiero non occidentale, e studiare gli effetti del colonialismo, ripetendo le formule già consolidate. Ma mi sembra che dobbiamo porci anche altre domande. Ad esempio: possiamo davvero postulare un "pensiero occidentale" così inequivocabile e lineare, come quello che viene spesso descritto in questa letteratura? Possiamo dire che c'è davvero un solo pensiero amerindio? E se invece, d'altra parte, le forme di produzione della conoscenza fossero assai più fluide, instabili e circolassero da secoli attraverso comunicazioni capillari e "sinapsi planetarie", che noi non siamo in grado di comprendere o percepire, proprio perché ci ostiniamo a bloccarle in dicotomie semplicistiche e narrazioni lineari? Allora, in questo senso, non sarebbe più fruttuoso uscire dalla contrapposizione tra pensiero decoloniale e pensiero occidentale? Oltre tutto, questi postulati hanno anche una loro storia, e noi dovremmo applicare ad essi la stessa curiosità critica che applichiamo ad altri oggetti. Dovremmo allora chiederci perché - per alcune società o gruppi umani - la storia assume molteplici forme, mentre invece per altre si mobilitano le etno-narrazioni, se si tratta di una presunta continuità culturale inalterata o di un riflesso di resistenza. Perché riserviamo questo tipo di argomenti a certe popolazioni del mondo, come se fossero fondamentalmente non occidentali? E da quando lo facciamo? Mi sembra che queste narrazioni etniche siano più un'eredità coloniale e un rigido occidentalismo, nonostante le loro intenzioni sinceramente decoloniali. È necessario riesaminare i presupposti sostanzialisti ed essenzialisti di questi discorsi, e riformulare i nostri problemi antropologici in un modo diverso così come, più in generale, quelli che sono i dibattiti pubblici sulla nostra storia e sulla nostra società condivisa. Negli spazi di produzione e ricezione delle narrazioni, l'antropologia potrebbe contribuire a dislocare le finzioni politiche ed estetiche, portandole oltre il canone essenzializzato di quelle figure retoriche come l'etnia, il Sud del mondo, o la resistenza. Potrebbe rilanciare, in termini nuovi, le questioni sulla variabilità e sulla plasticità umana, anche in termini di discriminazione o di colonialismo.

- Intervista pubblicata IL 3/9/2025 su https://boutique.revue-ballast.fr/produit/n12-revue-ballast/ -

NOTA: Ad esempio: Rodolfo Stavenhagen, L'emergere dei popoli indigeni, Springer-E Colegio de México, 2012; Miguel Alberto Bartolomé, Gente de costumbre, gente de razón. Identidades étnicas en México, México, Siglo XXI, 1997; Guillermo Bonfil Batalla, Messico Profondo. Une civilisation niée, Bruxelles, Zones sensible, 2017 (1987); June Nash, "La riaffermazione dell'identità indigena: risposte Maya all'intervento statale in Chiapas", Latin American Research Review, vol. 30, n. 3 (1995), pp. 7-41.

sabato 6 settembre 2025

Il Valore e gli... "Altri"

6 - Nazionalsocialismo e antisemitismo - di Roswitha Scholz -

   Nel contesto di queste considerazioni, vorrei ora passare al saggio di Postone, "Nazionalsocialismo e antisemitismo". Un'idea centrale di Moishe Postone, sullo sterminio pianificato e massiccio degli ebrei sotto il nazionalsocialismo, unica nella storia, è quella secondo cui gli ebrei sono stati identificati con il "valore" (vedi Postone 1988 per le seguenti osservazioni). Secondo ciò, il "duplice carattere" della merce - come valore (che appare nel denaro) e come valore d'uso (che appare nel prodotto) - fa sì che a sua volta il "lavoro" appaia, falsamente, come un momento ontologico, e la merce come un mero oggetto d'uso. In questa percezione, entrambi non vengono più visti come il risultato di relazioni sociali; cosa che invece sono. A causa del "duplice carattere" del capitale -  sia come processo di lavoro che di valorizzazione - la produzione industriale appare pertanto, a quello che è il livello logico del capitale, solo come se fosse un processo di creazione materiale, che si troverebbe  in contrasto con il capitale finanziario improduttivo.

   Ecco che così il concreto e l'astratto vengono perciò presentati come se fossero in opposizione tra loro. Il capitalismo appare solo in "astratto", mentre invece il "concreto" viene ipostatizzato, sebbene esso stesso abbia la medesima forma capitalistica, come se fosse solo la manifestazione dell'astrazione del valore stesso. In questo modo, nel nazionalsocialismo, il "sangue", il suolo, la natura, le persone, ecc. - così come la produzione industriale -  vengono tutti visti come dei contro-principi dell'astratto. In un simile contesto, anche l'ideologia biologica ha svolto un ruolo chiave. Infatti, nella modernità, dove vengano fissate certe forme di pensiero, le naturalizzazioni inerenti alla relazione feticistica vengono sempre più pensate in termini biologici. Ecco che così, il cemento appare ora come "naturale"; e inoltre viene messo in atto un attacco unilaterale, e quindi falso, alla ragione astratta, al diritto astratto, al denaro, al capitale finanziario, ecc. E ora tutto questo astratto appare nella forma dell'"ebreo", il quale non solo rappresenta l'astratto, ma lo personalizza in sé (Postone 1988, 246 ss.)

   Tutte le caratteristiche del valore - vale a dire l'incomprensibilità, l'astrazione, l'universalità, la mobilità, ecc. - si identificano con "l'ebreo". In tal modo, secondo l'interpretazione di Postone, gli ebrei del nazionalsocialismo sono stati equiparati, non solo al denaro e alla sfera della circolazione, ma anche al capitalismo in quanto tale; capitalismo dal quale vengono tolte tutte le componenti materiali concrete, come la tecnologia e l'industria, che vengono rappresentate solamente in astratto. È solo "l'astratto" a essere responsabile di tutta una serie di cambiamenti sociali (urbanizzazione esplosiva, declino dei valori tradizionali, scomparsa delle classi e degli strati tradizionali, sviluppo di una cultura tradizionale, materialista moderno, ecc.), come poteva invece essere osservato prima del 1933. Gli ebrei divennero così delle «personificazioni dell'inapprensibile, distruttivo, infinitamente potente, dominio internazionale del capitale»; vista in questa luce, Auschwitz diventa allora – paradossalmente – «una fabbrica per "distruggere valore" [...]» (ivi, 251, 254). È in questo modo che Postone arriva a vedere l'antisemitismo come una forma distorta di anticapitalismo irrazionale. Per lui, non era affatto un caso che questo tipo di "anticapitalismo" venisse specificamente diretto contro gli ebrei. Ad esempio, dal momento che l'associazione ebraico=denaro ha una lunga storia in Europa, vediamo come l'espansione del capitalismo industriale nel XIX secolo abbia coinciso con l'emancipazione degli ebrei nell'Europa centrale, i quali agivano spesso nelle professioni liberali, come il giornalismo, o nelle belle arti, che stavano emergendo; essi erano anche cittadini, ma non erano mai "veri" tedeschi o "veri" francesi, e raramente appartenevano alla "nazione" in termini concreti, ma il più delle volte solo in astratto, ecc. L'identificazione degli ebrei con una "super-umanità" (negativa) distingue perciò anche i l'antisemitismo che vediamo in altri razzismi, i quali invece assumono "gli altri" come se fossero dei "sub-umani" (ivi, 244).

  Negli ultimi decenni, il breve saggio di dodici pagine di Postone "Nazionalsocialismo e antisemitismo" è stato pubblicato su diverse antologie.Tuttavia, esso non ha mai avuto molta influenza nel campo accademico della ricerca sull'antisemitismo. Dal punto di vista della teoria della dissociazione del valore, il progetto di Postone può essere criticato per non aver preso in considerazione la relazione di genere nel capitalismo; vale a dire, la struttura della dissociazione. Tuttavia, questa relazione appare essere stata decisiva ai fini della costituzione della coppia dualista di opposti, "astratta e concreta". A differenza di Postone, la teoria della dissociazione del valore non presuppone un monismo universalista del valore/lavoro astratto, ma si riferisce anche ai momenti dissociati. Ma questo fatto non deve portare a considerare la "concretezza" nel campo della riproduzione come non socialmente mediata, come "originariamente ontologica", per così dire. Questa concretezza è mediata anche dalla società capitalista, non dalla società capitalista. ma nel senso meramente riduzionista del valore, ma nel senso della dissociazione del valore come principio sociale generale (cfr. soprattutto Scholz 2011). In questo contesto, si può assumere che, in situazioni di crisi sociale, quando i processi di modernizzazione sono visti come minacciosi, come nella prima metà del XX° secolo, il "concreto", il sensibile, ecc. - che viene connotato come femminile nella moderna società cristiana occidentale - si sia poi costruito come maschile e, di conseguenza, ideologizzato, come, ad esempio, nella divinizzazione del lavoro astratto che viene concepito come quasi concreto; soprattutto nel lavoro (fisico) maschile e nella tecnologia concreta (cfr. anche Scholz 1992, 41 ss.).

  Ora, Postone – con tutta la sua lungimiranza sul piano della forma – procede nella logica dell'identità, e non solo nella misura in cui egli permette che il problema del genere venga assorbito nell'universale del valore, ma anche nella misura in cui egli non affronta l'aspetto psicosociale dello sterminio degli ebrei; o meglio, per lui questo problema gioca solo un ruolo secondario. Ma però vale la pena chiedersi quali meccanismi psicosociali siano all'opera, quali proiezioni avvengano nel momento in cui il valore si trova a essere, culturalmente e simbolicamente, personificato "nell'ebreo". Ecco che, in questo contesto, nel suo caso, il livello culturale-simbolico si perde nella forma. E Postone scrive: «Non è mia intenzione negare spiegazioni psicosociali o psicoanalitiche, ma piuttosto spiegare un contesto storico-epistemologico, all'interno del quale può avvenire un'ulteriore specificazione psicologica» (Postone 1988, 245). Ma per lui questi livelli sono di secondaria importanza. Ciò che appare problematico, dal punto di vista della dissociazione del valore, è che Postone stabilisce una gerarchia tra il lato epistemologico-storico e il lato psicosociale, e fondamentalmente anche  con il lato culturale-simbolico;  una gerarchia secondo la quale quest'ultimo può essere collocato solo "dentro" il primo, vale a dire che questi livelli vengono considerati come se fossero, per così dire, meramente derivati dal livello della forma, anziché essere trattati in quanto livelli indipendenti e messi in relazione, come tali, con la forma sociale.

   È esattamente questo, ciò che sarebbe necessario affinché la forma-merce non venisse intesa in maniera meramente riduzionistica, come se essa fosse il livello "materiale". Tuttavia, riferendosi agli anni '80 e '90, va detto che il livello della forma non ha avuto alcun ruolo nelle discussioni dell'epoca, né quello della forma del valore, e tanto meno quello della forma della dissociazione del valore. A questo proposito, bisogna rendere giustizia a Postone, visto che è stato il primo a mettere in gioco questo livello di forma. Oggi, tuttavia, la differenziazione indicata può e deve essere fatta. A mio avviso, Postone appare come se non fosse in grado di reggere la tensione tra il generale e il particolare, e procede pertanto seguendo la logica dell'identità, in quanto non approfondisce la questione del perché l'Olocausto abbia avuto luogo in Germania, in condizioni molto specifiche, in una particolare situazione storica; e questo sebbene, come ho già detto, gli si debba riconoscere il merito di aver considerato il problema della forma sociale. Ma è proprio per questo che  bisogna dire che la sua analisi si trova solo sul piano generale e astratto del valore. In ogni caso, sarebbe necessario chiedersi, in un contesto specifico per un paese, perché l'Olocausto abbia avuto luogo in Germania in particolare (si veda Kurz 2000) e anche, ad un certo livello, cosa stava succedendo allora nella mente dei perpetratori.

- Roswitha Scholz - da «"Il valore e gli "altri". Correzioni della critica della dissociazione del valore alla teoria di Moishe Postone»
-  Pubblicato in exit! nº 20, maggio 2023 -

venerdì 5 settembre 2025

Buon Appetito !!!

Natura Denaturata
- L'alimentazione dell'umanità attraverso il capitalismo -
di  Robert Kurz

«Non riconoscerai più i frutti, né dal loro sapore né dalla loro forma.» (Jean Anthelme Brillat-Savarin, 1755-1826)

   Non solo gli individui, ma anche gli Stati, i sistemi, le epoche sociali tendono ad auto-illudersi. In questo senso, il record mondiale è stato stabilito dal sistema di produzione dei beni nella modernità, che viene considerata come se fosse il culmine insuperabile della storia dell'umanità. Per valutare la vera qualità di un'epoca, esiste un indicatore assai semplice. Si tratta della situazione alimentare. Cibo e bevande, sono le fonti più affidabili di informazione su come le persone effettivamente vivevano. È in quest'area che una cultura dimostra quali sono le sue più elementari capacità di soddisfare i propri bisogni. Naturalmente, la modernità si considera anche all'avanguardia del progresso anche nella Storia del cibo: solo la meravigliosa economia di mercato ha risolto in maniera soddisfacente il problema di un sufficiente approvvigionamento alimentare e del miglioramento della sua qualità. Ma questa immagine è un affronto alla realtà. Alla fine del decennio dei '70, lo storico dell'economia Immanuel Wallerstein, insieme al suo team allo State University (New York), ha presentato degli studi sulla storia della produzione, con il seguente risultato: «A lungo termine, la prosperità del sistema mondiale e la totalità della forza lavoro della Terra diminuisce; contrariamente a una supposizione assai diffusa, essa non aumenta».

    Questa affermazione, che contraddice l'ideologia dominante dell'economia di mercato, è ben fondata. Sembra assolutamente assurdo alla coscienza dominante solo perché la visione ufficiale è triplicemente limitata: in primo luogo, è limitata al breve periodo di relativa prosperità mondiale che c'è stato dopo la seconda guerra mondiale; in in secondo luogo, è limitata a quei pochi paesi occidentali completamente industrializzati; e, in terzo luogo, è limitata al ristretto strato sociale di coloro che risultano come i vincitori dell'economia di mercato. Ma se consideriamo l'intero periodo della storia della modernizzazione, a partire dal XVI° secolo, è facile dimostrare come la modernità, in generale, abbia prodotto la più grande ondata storica di scarsità sociale di tutti quegli alimenti che sono degni di un essere umano e che, sotto questo aspetto, essa supera di gran lunga persino i dispotismi orientali. È evidente il modo in cui, alla fine del XX° secolo, la sfrenata economia di mercato stia peggiorando drammaticamente quelle che sono le ristrettezze alimentari, lasciando la maggioranza globale di quasi 6 miliardi di persone in una situazione, costante o temporanea, di fame. E questa non è affatto un'esagerazione. Dopo che, negli anni '60 e '70, l'approvvigionamento mondiale di alimenti è stato temporaneamente un po' migliorato, a partire dalla fine degli anni '80 la fame e la malnutrizione è tornata nuovamente a crescere. A fornire immagini sempre più terribili, non è solo l'Africa. Il fantasma della fame riappare anche laddove sembrava che fosse stato esorcizzato per sempre. I minatori e le loro famiglie in Ucraina o in Siberia, i pensionati a Mosca, i bambini di strada in tutta l'Europa orientale oggi soffrono la fame, così come la soffre gran parte della popolazione dell'America Latina o del sud dell'Asia. Secondo un rapporto dell'UNICEF, ci sono più di 7 Milioni di bambini che ogni anno in tutto il mondo muoiono a causa della malnutrizione. Oggi, il più grande "modello di successo" neoliberista è la generalizzazione globale della zuppa dei poveri. Perfino nei centri industriali occidentali è tornata la fame. Sebbene almeno un membro della famiglia abbia un lavoro, oggi negli Stati Uniti sono più di 30 milioni le persone che si trovano in una «situazione di insicurezza alimentare», e a causa di quelli che sono dei salari letteralmente «da fame», ci sono 26 milioni di loro che dipendono mensilmente da dei pasti pubblici, o da donazioni private di cibo, più di 4 milioni di adulti soffrono la fame in maniera costante o temporanea, 11 milioni di bambini sono malnutriti, e in quasi un milione di famiglie spesso, per giorni, non c'è nulla da mangiare. Non si tratta di propaganda allarmista, ma dei dati del Ministero dell'Istruzione e di quelli dell'agricoltura statunitense e di alcuni enti di beneficenza come Second Harvest. La produttività in questo secolo è aumentata molto più velocemente di quanto sia cresciuta la popolazione. Se fosse solo una questione di capacità produttiva, allora sarebbe possibile nutrire abbondantemente, e bene, anche il doppio della popolazione attuale. La barriera sociale alla produzione e alla distribuzione degli alimenti non è determinato dalla mancanza di produzione agricola, vista in rapporto al numero di abitanti, ma dalla forma economica del moderno sistema di produzione di merci. La logica della redditività, impone una restrizione irrazionale delle risorse, la quale si manifesta in un modo che diventa particolarmente flagrante al livello elementare dell'alimentazione. Così, in linea di principio, le persone hanno accesso al cibo, ma solo a condizione che la loro forza lavoro possa essere utilizzata in maniera redditizia. Se questo criterio non può essere soddisfatta, a causa del fatto che la produttività "eccessiva" ha fatto sì che la tua forza lavoro sia stata resa superflua, ecco che si viene sottoposti a razioni da fame, nonostante il fatto che la capacità di produzione alimentare sia aumentata. Considerando il fatto che per tutte le società premoderne un raccolto record prometteva, almeno temporaneamente, abbondanza per tutti, oggi invece, per i calcoli dell'economia agroalimentare, deve sembrare fatale dal momento che "l'eccesso di offerta" metterebbe sotto pressione i prezzi. Pertanto fa parte del normale funzionamento dell'economia di mercato, distruggere in massa prodotti agricoli, o disfarsene per denaturazione, allorché la produzione di prodotti naturali appare eccezionalmente elevata. La fame diventa così un prodotto del abbondanza. Tuttavia, è proprio questa stessa razionalità dell'economia delle imprese che non solo genera fame di massa, ma riduce anche la qualità del cibo. Persino quelli che apparentemente hanno abbastanza da mangiare, soffrono di una mancanza di sostanze vitali.

    E questo perché la logica della riduzione dei costi porta l'industria alimentare a rimuovere alcune sostanze essenziali dai propri prodotti apparentemente attraenti, al fine di renderli facilmente consumabili. Sia le grandi aziende di produzione di alimentari, che i fornitori di medie dimensioni, non risparmiano i propri sforzi per poter massimizzare i loro profitti economici, e ingannare i consumatori. I gamberi rosa chiaro nel nostro congelatore, spesso non sono fatti di carne di gamberetti, ma con avanzi economici, mimetizzati con dei coloranti e pressati a forma di gamberetti. In Italia, nella pasta sono stati trovati agenti cancerogeni provenienti dai materiali di imballaggio. La metà dei polli che vengono venduti nell'Unione europea, sono contaminati dai batteri. In generale, il numero di malattie e di epidemie che viene causato da del cibo denaturato, è in aumento. Ma anche se i componenti degli alimenti non sono direttamente tossici, o dannosi per la salute, la loro qualità è in costante diminuzione. Tutto ciò comincia a partire dalla perdita della diversità degli aromi, e questo perché la distribuzione trans-continentale consente solo una gamma estremamente limitata di prodotti standardizzati, che vengono coltivati seguendo gli standard previsti per il confezionamento.. Migliaia di varietà di frutta e verdura, centinaia di razze di animali d'allevamento stanno scomparendo poiché "non necessari" dal punto di vista del calcolo astratto dei costi.  In seguito all'approvazione legale, ci sono sempre più materie prime agricole che vengono decomposte grazie a nuove tecnologie, per poi essere arricchite con additivi, colorate e conservate. La birra può contenere zoccoli di animali in polvere e cioccolato, oppure sangue essiccato. Grazie agli ”esaltatori di sapidità” sintetici, gli alimenti possono essere prodotti in maniera molto più economica, rispetto alla frutta vera: biomasse denaturate e insipide vengono ”inoculate” insieme agli aromatizzanti. All'uomo capitalistico dev'essere tolta anche la capacità di gustare. Così come appare assai poco confortante il fatto che anche le élite funzionali partecipino in larga misura all'impoverimento delle abitudini alimentari. È il manager postmoderno ad aver creato la moda del "Food on the run" e del "Food on the ride". Arrivando persino a ingerire sostanze che un contadino medievale non avrebbe dato nemmeno ai suoi maiali. Chi potrebbe ancora dubitare che l'economia di mercato ci ha davvero portato a essere arrivati fino alla gloriosa "fine della storia"?

- Robert Kurz - Pubblicato nel 1999 in medico.de  - fonte: Exit! -

giovedì 4 settembre 2025

La Calunnia del Genocidio !!

La diffamazione del genocidio: come il mondo ha accusato Israele di genocidio
di Norman JW Goda

   Questo saggio riguarda l'accusa di genocidio contro Israele dopo il 7 ottobre. Il genocidio è il crimine dei crimini. Gli Stati che commettono genocidio sono considerati permanentemente illegittimi. Di per sé un'accusa di genocidio non è antisemita. Durante la Guerra Fredda, l'accusa è stata mossa dozzine di volte da funzionari governativi, studiosi di diritto e attivisti, contro Francia, Portogallo, Nigeria, Cina, Cambogia, Stati Uniti e altri stati.[*1] Dalla fine della Guerra Fredda, sono stati condotti procedimenti giudiziari, per genocidio, contro funzionari dell'ex Jugoslavia, del Ruanda e di altri paesi, sia in tribunali ad hoc che presso la Corte penale internazionale.[*2] Le accuse di genocidio contro Israele, sono diverse. In primo luogo, Israele, a differenza di altri Stati, viene accusato di genocidio da quando esiste.[*3] L'accusa di genocidio è legata alle accuse di razzismo, colonialismo e ad altre accuse rivolte a Israele dagli anni '60.[*4] In secondo luogo, la velocità e la furia con cui le accuse sono esplose, dopo i massacri di Hamas del 7 ottobre 2023, appaiono insolite negli annali del lawfare. [*5] Eppure, per quanto riguarda la guerra di Israele del 2023, contro Hamas nella Striscia di Gaza, non c'è stata solo una corsa al giudizio, ma si è visto anche uno sforzo volto a ridefinire il genocidio stesso, in modo da abbassare gli elementi costitutivi del crimine stesso. La calunnia del genocidio, dispiega anche una serie di tropi antisemiti. Uno è il collegamento del genocidio con i passaggi violenti della Bibbia ebraica, un collegamento che gioca sul tema dell'elezione ebraica a spese dell'esistenza degli altri, e che afferma persino che Dio è genocida. Un altro è l'occultamento dell'intento genocida di Hamas, al posto dei luoghi comuni riguardanti la smisurata sete ebraica di vendetta, sotto forma di risposta sproporzionata.[*6] Un terzo tropo è quello dell'abbinamento dell'accusa di genocidio con l'uccisione deliberata di bambini, le cui immagini sono onnipresenti sulle ONG, sui social media e su altre piattaforme che accusano Israele di genocidio.[*7] Un quarto, è l'attribuzione di poteri speciali al governo israeliano, con il quale esso e i suoi sostenitori hanno ingannato i governi occidentali facendogli credere che le azioni di Israele siano legittime, e che la storia del conflitto arabo-israeliano sia troppo complessa per poter essere giudicata in modo affrettato.[*8] Un quinto – ed è questo a rendere particolarmente pericolosa la calunnia del genocidio - è l'associazione di tutti gli ebrei, con il crimine. Gli ebrei di tutto il mondo sono tutti coinvolti, sia come sostenitori sionisti, sia come lobbisti disonesti dietro le quinte, sia come leader della comunità, i quali - ci viene detto - "armano" l'accusa di antisemitismo per poter mettere a tacere chi dice la verità.[*9] Nel tempo, le altre accuse di genocidio non hanno però mai preso di mira, ad esempio, gli hutu che vivono in Belgio o i serbi che vivono in Germania. Ma la calunnia del genocidio, che viene alimentata da tutto, dalle campagne elettorali alle manifestazioni pubbliche ai social media, suscita rabbia contro tutti gli ebrei in tutto il mondo. In Nord America, Europa e Australia, gli incidenti antisemiti sono stati troppo numerosi per poter essere contati, e sono andati dalle minacce fisiche contro gli ebrei a New York City a un pogrom pre-pianificato ad Amsterdam, agli attacchi alle sinagoghe che si estendono da Montreal a Melbourne.[*10] E come ha osservato il Conseil reproséntatif des institutions juives de France [CRIF], in un rapporto del gennaio 2025 riguardante i quasi 1.600 atti antisemiti in Francia l'anno precedente, «il martellamento della falsa accusa di genocidio, e il suo corollario di accusare i sostenitori di Israele di essere “pro-genocidio”, hanno contribuito a demonizzare l'immagine degli ebrei in Francia e a giustificare l'ostilità del comportamento nei loro confronti».[*11] Il mio scopo, tuttavia, non è quello di discutere il motivo per cui l'accusa di genocidio è antisemita. Né si tratta di indicare i numerosi casi di violenza di massa in Siria, Sudan e altrove per i quali gli attivisti non riescono mai a evocare l'indignazione. Né si tratta, in questo caso, di smantellare le accuse di genocidio sudafricano contro Israele del dicembre 2023 o la successiva sentenza della Corte Internazionale di Giustizia secondo cui è "plausibile" che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza. Piuttosto, il mio scopo è quello di discutere un po' della storia di come l'accusa di genocidio è stata rivolta a Israele e agli ebrei. Guardando alla storia, che è iniziata anche prima che la convenzione sul genocidio fosse completata, possiamo iniziare a decostruire l'accusa stessa, come è stata usata contro Israele nel corso del tempo, e la sorprendente malafede dietro l'accusa di genocidio. Decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi, nella più recente guerra contro Hamas. C'è una discussione da avviare sulla questione delle risposte militari proporzionali, come stabilito (molto vagamente) nel Protocollo aggiuntivo I del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949.[*12] Hamas, nel frattempo, è un'entità aggressiva e la sua distruzione è un obiettivo di guerra legittimo. Soffocare le importazioni strategiche attraverso il blocco è del tutto in linea con il modo in cui i blocchi legittimi sono stati utilizzati nella guerra moderna.[*13] E i combattenti di Hamas, che nascondono sé stessi e le loro armi dentro e sotto ospedali, rifugi, scuole, moschee e simili, mettono a rischio i civili. Le risoluzioni delle Nazioni Unite degli anni '70 che definivano gruppi terroristici come l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina in quanto movimenti di liberazione nazionale che lottano contro la dominazione coloniale, e che affermano che tali movimenti non commettono il crimine di aggressione a causa della nobiltà della loro causa, fanno poco di più per legittimare il terrorismo.[*14] L'accusa di genocidio nel caso in esame funziona al contrario. È politico, progettato non tanto per descrivere un crimine, ma per collocare Israele, i suoi militari, i suoi cittadini e i suoi sostenitori al di fuori del regno della decenza e dei valori umani.

La Convenzione sul genocidio e la creazione di Israele
Lo studioso di diritto Raphael Lemkin ha sviluppato il termine genocidio nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe (1944). Il genocidio, per Lemkin, fu molto più ampio dello sterminio fisico. Il crimine, ha detto in quel libro, che significa «. . . un piano coordinato di diverse azioni volte alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita degli stessi gruppi nazionali. Gli obiettivi di un tale piano sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e dell'esistenza economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino della vita degli individui appartenenti a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale come entità, e le azioni coinvolte sono dirette contro gli individui, non a titolo individuale, ma come membri del gruppo nazionale».[*15] Il concetto di Lemkin, riguardante tutto - dalle istituzioni sociali ai sentimenti nazionali - era troppo poco specifico per i giuristi, in particolare perché la propensione nazista durante la seconda guerra mondiale era quella di uccidere i loro nemici piuttosto che distruggere la loro cultura. Il principale studioso di diritto ebreo dell'epoca, Hersch Lauterpacht, sviluppò il concetto di crimini contro l'umanità, che proteggeva i civili da una varietà di specifici crimini fisici e che entrò nel corpus del diritto internazionale con il processo di Norimberga.[*16] Sebbene Lemkin fosse coinvolto nei processi di Norimberga, ebbe poca influenza sul loro corso, poiché benché fosse menzionato il concetto di genocidio, il tribunale restringeva il concetto all'omicidio di massa pianificato.[*17] Così l'atto d'accusa nel Processo ai Principali Criminali di Guerra menziona il genocidio ma lo definisce come «lo sterminio di gruppi razziali e nazionali».[*18] Nel 1946 Lemkin fece pressioni sulle Nazioni Unite affinché dichiarassero il genocidio un crimine internazionale.[*19] Per Lemkin, che guidò le prime discussioni ad hoc delle Nazioni Unite, il genocidio rimase un concetto ampio, compresi i crimini contro la cultura e la lingua. I funzionari dell'ONU erano favorevoli a una maggiore precisione e a una chiara evidenza di mens rea, l'intento colpevole essenziale per qualsiasi crimine. Il segretario generale dell'ONU Trygve Lie ha sottolineato che il genocidio dovrebbe essere limitato alla «distruzione deliberata di un gruppo umano» . . . «Altrimenti c'è il pericolo che l'idea del genocidio venga estesa a tempo indeterminato. . . .».[*20] Lie aggiunse che la guerra in sé non era un genocidio. «L'inflizione di perdite», ha detto, «anche pesanti perdite, alla popolazione civile nel corso [della guerra], non costituisce di regola un genocidio».[*21] John Reid della Nuova Zelanda aggiunse nell'ottobre 1948 che il movente era particolarmente critico nel quadro di una guerra difensiva. Potrebbe esserci un'operazione di bombardamento, ha detto Reid, che potrebbe distruggere parte di un gruppo. «Se i motivi del genocidio non fossero elencati nella convenzione», ha osservato Reid, «tali bombardamenti potrebbero essere definiti un crimine di genocidio; Ma questo sarebbe ovviamente falso».[*22] Nel frattempo, tutti capivano che le accuse di genocidio potevano essere politicizzate se gli elementi costitutivi non erano chiari. Trygve Lie ha avvertito che, «se la nozione di genocidio fosse eccessivamente ampia, il successo della convenzione . . . sarebbe messo a repentaglio».[*23] In effetti, il cinismo non è mai stato assente dalle discussioni. Tornato a Mosca, il dittatore sovietico Joseph Stalin esaminò ogni bozza della convenzione in modo che i recenti episodi di violenza di massa sovietica, come la fame di massa in Ucraina negli anni '30, non potessero essere criminalizzati. I funzionari statunitensi, nel frattempo, erano preoccupati per la criminalizzazione dell'oppressione razziale negli Stati Uniti, mentre gli stati che detenevano colonie in Africa e in Asia erano preoccupati che la violenza coloniale potesse anche costituire la base delle accuse di genocidio.

   Indipendentemente da ciò, gli estensori delle Nazioni Unite hanno creato una definizione di genocidio, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 novembre 1948, incentrata sulla distruzione fisica dei popoli con potenziali gruppi di vittime definiti per etnia, razza e religione. La definizione è «atti commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale». Gli atti veri e propri iniziano con «l'uccisione di membri del gruppo», e il resto della definizione riguarda anche la distruzione fisica. La convenzione include quindi disposizioni come la prevenzione delle nascite all'interno del gruppo, ma omette consapevolmente concetti più ampi come il genocidio culturale.[*24] Nel frattempo l'elemento dell'intenzione, come per tutti i crimini, è l'elemento costitutivo critico nel modo in cui viene definito il genocidio, anche più critico del numero di persone all'interno di un gruppo che potrebbero essere uccise. La delegazione francese, ad esempio, ha insistito affinché il testo della convenzione usasse il termine meurtre – omicidio – per definire l'atto di uccidere, in quanto porta inequivocabilmente l'elemento dell'intenzione. Meurtre è il termine usato nel testo ufficiale francese della Convenzione sul genocidio. Il testo ufficiale in lingua inglese usa il termine più ampio "uccisione", preferito dalla delegazione statunitense, con il ragionamento americano che finché l'intenzione era nel testo che definiva il genocidio, l'uccisione avrebbe dovuto essere intenzionale.[*25] In entrambi i casi, la Convenzione sul genocidio è esplicita nel definire il genocidio come «atti commessi con l'intento di distruggere [un gruppo] in tutto o in parte.» È interessante notare che le deliberazioni delle Nazioni Unite sulla Convenzione sul genocidio hanno coinciso con la nascita di Israele. L'ONU lottò per mantenere la pace in Palestina negli ultimi mesi del mandato britannico, e cercò anche di forgiare una soluzione pacifica al problema di due popoli che rivendicavano la stessa terra. La risoluzione 181 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 raccomandava la divisione della Palestina in sistemi politici ebraici e arabi economicamente legati con Gerusalemme e i suoi dintorni internazionalizzati. Gli ebrei in Palestina hanno celebrato la risoluzione delle Nazioni Unite, ma gli Stati arabi l'hanno respinta, così come l'Alto Comitato Arabo, che, guidato dal mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, ha affermato di parlare a nome degli arabi della Palestina.[*26] Subito dopo il voto dell'ONU nel novembre 1947, bande arabe fedeli ad al-Husseini attaccarono gli insediamenti ebraici e i viaggiatori ebrei sulle strade tra di loro. Le unità ebraiche furono in grado di contrattaccare nell'aprile 1948. Il 14 maggio 1948, alla vigilia della scadenza del mandato, il nuovo Stato di Israele dichiarò l'indipendenza, promettendo nella sua dichiarazione di rispettare i diritti di tutti i popoli, ebrei, musulmani e cristiani, all'interno dei suoi confini.[*27] Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq, così come gruppi di volontari armati provenienti da tutto il mondo arabo e musulmano, attaccarono, con l'obiettivo di strangolare il nuovo Stato nella culla. Israele è sopravvissuto alla guerra e ha persino ampliato il suo territorio. Gli stati arabi alla fine accettarono gli accordi di cessate il fuoco mediati dalle Nazioni Unite nel 1949. Ma si rifiutarono di riconoscere o fare la pace con il nuovo Stato ebraico. C'era un paradosso in Medio Oriente riguardo all'idea di genocidio. Quando i leader arabi e musulmani parlavano di guerra contro l'aumento dell'immigrazione ebraica in Palestina, o contro l'emergere di uno stato ebraico in seguito, parlavano in termini apocalittici e persino proto-genocidi. Durante la seconda guerra mondiale, quando il mufti Amin al-Husseini fu ospite nella Berlino di Adolf Hitler, esortò i suoi seguaci in Medio Oriente via radio a onde corte a intraprendere un genocidio. Nel giugno del 1942, quando sembrava che le forze tedesche potessero sfondare le difese britanniche in Egitto, la radio in lingua araba esortò gli inserzionisti dicendo: «Questa è la migliore opportunità per sbarazzarsi di questa sporca razza. Uccidete gli ebrei, bruciate le loro proprietà, distruggete i loro magazzini. La tua unica speranza di salvezza sta nell'annientare gli ebrei».[*28] Alla vigilia della nascita di uno Stato israeliano, anche il più conservatore Abd al-Rahman Azzam Pasha, il capo egiziano della Lega degli Stati Arabi, predisse una "guerra di sterminio" contro gli ebrei in Palestina e un "massacro epocale".[*29] Eppure erano i sionisti che molti leader arabi consideravano quasi genocidi, anche prima della formazione di uno stato ebraico. Forse ciò era dovuto a millenarie inimicizie religiose con gli ebrei, come descritto nel Corano e interpretato dai fondamentalisti islamici. Per lo scrittore dei Fratelli Musulmani Sayyid Qutb (1906-1966), gli ebrei erano in una lotta cosmica con l'Islam, e la lotta poteva finire solo con la distruzione dell'uno o dell'altro.[*30] Forse era perché gli oppositori arabi dell'immigrazione ebraica in Palestina consideravano il sionismo come un tipo di razzismo basato sulla convinzione, imputata agli ebrei da molti, che «essi sono il popolo eletto di Dio». Alcuni leader arabi sostenevano di credere che l'obiettivo ultimo del sionismo fosse la distesa di territorio tra il Nilo e l'Eufrate, come si diceva Dio avesse promesso al patriarca Abramo nel Libro della Genesi (15:18).[*31] Durante la seconda guerra mondiale, il regno relativamente nuovo dell'Arabia Saudita prese il comando sotto il suo anziano re Abdul Aziz bin Rahman Al Saud. Il principale consigliere del re, lo sceicco Yussuf Yassin, un devoto musulmano e anticolonialista, vedeva Abdul Aziz come un potenziale leader del mondo arabo. Poiché il regno dipendeva fortemente dagli aiuti degli Stati Uniti per sviluppare i suoi giacimenti petroliferi, il presidente Franklin D. Roosevelt sperava di convincere Abdul Aziz a sostenere la migrazione dei rifugiati ebrei in Palestina dopo la guerra. Nell'aprile del 1943, tuttavia, il re respinse l'idea in termini apocalittici. «Chiediamo», scrisse al presidente, «che gli arabi non siano sterminati per il bene degli ebrei». Poiché i contorni dell'Olocausto erano conosciuti nel mondo arabo a quel tempo, questa scelta di parole è ancora sorprendente.[*32] Nello storico incontro di Roosevelt con Abdul Aziz sulla USS Quincy nel febbraio 1945, il presidente sembrò, almeno nel protocollo scritto, schierarsi con gli arabi contro i leader ebrei.[*33] Ma Roosevelt morì in aprile, e il presidente Harry Truman allarmò il mondo arabo favorendo l'aumento dell'immigrazione ebraica in Palestina dopo la seconda guerra mondiale. Il senso saudita di tradimento – il re disse in seguito che se Roosevelt fosse vissuto «non ci sarebbero stati tutti questi problemi con gli ebrei» – potrebbe spiegare il fatto sorprendente che la prima bozza di quella che divenne la Convenzione sul genocidio in realtà provenne dai sauditi nel novembre 1946.[*34] La bozza saudita definiva il genocidio come «l'uccisione di massa di un gruppo, di un popolo o di una nazione», ma anche come la «disintegrazione pianificata della struttura politica, sociale o economica di un gruppo, di un popolo o di una nazione». La seconda clausola sicuramente piaceva a Lemkin. Ma cosa significava per i sauditi?

   La bozza saudita presentava la «sistematica degradazione morale di un gruppo, popolo o nazione», così come «atti di terrorismo commessi allo scopo di creare uno stato di pericolo comune o di allarme in un gruppo, popolo o nazione con l'intento di produrre la loro distruzione politica, sociale, economica o morale».[*35] Il riferimento al terrorismo sembrava qui indicare le operazioni del gruppo sionista revisionista Irgun Zvai Leumi (Irgun), l'Organizzazione Militare Nazionale, una forza irregolare sotto il comando di Menachem Begin nel 1946, e del più piccolo e più estremo Lohamai Herut Israel (Lehi), Combattenti per la Libertà di Israele, che si staccò dall'Irgun nel 1940. Gli irregolari comprendevano entrambi i gruppi, operanti al di fuori dell'ambito dell'Haganah, la principale milizia di difesa ebraica che nel 1948 divenne la Forza di Difesa Israeliana (IDF). Un decennio prima, durante la rivolta araba guidata da Amin al-Husseini, i terroristi arabi avevano attaccato funzionari britannici e insediamenti ebraici, autobus e simili. L'Haganah difese quest'ultimo. A partire dal novembre 1937 l'Irgun si vendicò contro obiettivi civili arabi come mezzo di "difesa attiva", cioè per scoraggiare ulteriori attacchi arabi contro gli ebrei. Ci furono circa trentaquattro attacchi dell'Irgun tra il 1936 e la fine della rivolta araba nel 1939. È interessante notare che i metodi dell'Irgun erano profondamente impopolari tra il mainstream sionista, e che persino il leader revisionista Vladimir Jabotinsky era ambivalente. È anche da notare che gli attacchi dell'Irgun non hanno fornito alcuna deterrenza. Gli attacchi arabi contro i civili ebrei continuarono a prescindere.[*36] Ma questi attacchi dell'Irgun sono finiti quando è finita la rivolta araba. Quando i sauditi stavano scrivendo la bozza della loro convenzione sul genocidio nel novembre 1946, l'Irgun e il Lehi erano in piena rivolta contro le autorità britanniche nel tentativo di porre fine al dominio britannico. L'Irgun, con la crescente cooperazione dell'Haganah, iniziò nel 1944 con attacchi agli uffici britannici per l'immigrazione, agli uffici delle imposte e alle stazioni di polizia, comprese alcune nelle aree arabe. Il culmine fu l'attentato dell'Irgun al quartier generale britannico del King David Hotel di Gerusalemme nel luglio 1946, che uccise 91 persone.[*37] Ancora nel 1965, lo scrittore siriano Fayez Sayegh, che fondò il Centro di ricerca dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Beirut, sosteneva nel suo libro Colonialismo sionista in Palestina, che il terrorismo sionista era rivolto a chiunque lavorasse per la coesistenza pacifica tra ebrei e arabi.[*38] In realtà la rivolta fu sempre più popolare tra gli ebrei, non perché combattesse contro una soluzione pacifica, ma perché respinse le rigide restrizioni britanniche sull'immigrazione che erano iniziate nel 1939 e continuate durante la seconda guerra mondiale. Raggruppare gli attacchi terroristici dell'Irgun sotto la definizione di genocidio nel 1946, soprattutto perché l'Irgun aveva come obiettivo un'entità governativa piuttosto che un gruppo etnico o nazionale, era davvero una forzatura. La proposta saudita è stata respinta. Ironia della sorte, se gli atti di terrorismo delineati dai sauditi fossero stati incorporati nella Convenzione sul genocidio, quel documento avrebbe proibito come genocidio gli innumerevoli attacchi terroristici intrapresi dai successivi organi arabi palestinesi che si dedicarono alla distruzione di Israele. Gli statuti dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (1968) e di Hamas (1988) chiedono lo sradicamento di Israele come Stato ebraico attraverso la violenza sistematica.[*39] Qualunque sia l'incapacità dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di definire il "terrorismo" nel corso degli anni, questi documenti sono inequivocabili.[*40] C'è stato un altro tentativo di collegare Israele alla Convenzione sul genocidio durante la sua stesura. In una riunione del Comitato Legale delle Nazioni Unite dell'ottobre 1948, che completò la bozza di convenzione per l'esame dell'Assemblea Generale, il delegato siriano Salah Eddine Tarazi insistette sul fatto che l'articolo I, che definiva il genocidio come «commesso in tempo di pace o in tempo di guerra», dovesse essere ampliato con la frase «o in qualsiasi momento». La ragione, ha detto Tarazi, era quello che insisteva fosse lo status illegale di Israele. La risoluzione di partizione delle Nazioni Unite da sola, ha detto, non ha creato uno Stato; ne consigliava solo uno. Così, l'intervento degli stati arabi nel maggio 1948 non era "una guerra" con un altro stato, né era avvenuto "in tempo di pace". Piuttosto, era un tentativo di "ristabilire la legge e l'ordine" in Palestina. E qualunque cosa fosse Israele, ha detto Tarazi, «gli ebrei avevano commesso atrocità contro civili arabi durante la campagna, e quei crimini meritavano di essere puniti».[*41] Questa frase che implicava l'inesistenza di Israele fu respinta, poiché Israele fu riconosciuto da diversi stati delle Nazioni Unite nell'ottobre 1948. compresi gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Ma Tarazi non aveva finito. I siriani hanno anche avanzato una proposta per ampliare la definizione di genocidio ai sensi dell'articolo II per includere «l'imposizione di misure volte a costringere i membri del gruppo ad abbandonare le loro case per sfuggire alla minaccia di successivi maltrattamenti».[*42] Il 23 ottobre, Tarazi chiese che fosse incluso, perché, come disse, «... Qualsiasi misura diretta a costringere i membri di un gruppo a lasciare le loro case dovrebbe essere considerata un genocidio». Questo crimine, ha detto, è stato «molto più grave dei maltrattamenti».[*43] Tarazi si riferiva alla fuga e alle espulsioni di arabi palestinesi durante i combattimenti per uno stato ebraico. Il processo iniziò nell'aprile del 1948, quando le forze ebraiche stavano invertendo la tendenza contro le bande arabe che attaccavano gli insediamenti ebraici. Quando Tarazi parlò nell'ottobre del 1948, c'erano circa 400.000 arabi palestinesi sfollati dal territorio controllato da Israele, anche se il numero aumentò a circa 750.000 al momento del cessate il fuoco del 1949. I rifugiati si trovavano in Iraq, Siria, Libano, nella Striscia di Gaza (sotto occupazione egiziana) e in Cisgiordania (occupata e annessa dalla Giordania). I rifugiati palestinesi sono diventati il fulcro di un accordo di pace sfuggente. Il governo israeliano ha rifiutato il loro ritorno. Poiché gli stati arabi si sono rifiutati di fare la pace, i rifugiati erano un rischio per la sicurezza. Né gli stati arabi li avrebbero reinsediati, anche con la promessa di aiuti allo sviluppo da parte degli Stati Uniti, poiché ciò implicava il riconoscimento dell'esistenza di Israele. Il collasso della società civile palestinese nel 1948 è oggi definito dagli arabi palestinesi come la Nakba, che significa la catastrofe. Alcuni studiosi hanno insistito sul fatto che la Nakba è stata pianificata in anticipo dai leader sionisti, che quindi è stata un genocidio, o che dovrebbe formare una categoria legale distinta all'interno del più ampio concetto di genocidio. [44] Ma in termini di criminalità, lo storico Benny Morris ha dimostrato che non c'era alcun piano sionista prebellico per espellere gli arabi, né c'era una politica sistematica di espulsione durante i combattimenti. Le famiglie arabe benestanti iniziarono a lasciare le città nel dicembre 1947 in previsione della guerra; e dall'aprile 1948, altre centinaia di migliaia di arabi fuggirono dalle loro città e villaggi in preda al panico di fronte all'avanzata israeliana. Questo panico è stato accentuato da occasionali atrocità contro i civili arabi e da racconti di stupri nella propaganda radiofonica araba. Una volta che gli stati arabi invasero nel maggio 1948, la guerra di Israele divenne una guerra di sopravvivenza. Alcune popolazioni arabe, in particolare nei villaggi e nelle città situate su strade critiche, furono espulse con la forza, in particolare perché queste località ospitavano spesso milizie arabe. Circa 150.000 arabi rimasero sul posto nel nuovo stato.[*45] Eppure il comitato legale delle Nazioni Unite ha respinto l'emendamento siriano alla Convenzione sul genocidio. Si può sostenere che alcune delegazioni avevano le loro ragioni per farlo. I sovietici, gli americani e gli inglesi firmarono la Dichiarazione di Potsdam del 1945, che legittimò l'espulsione di circa dodici milioni di tedeschi dall'Europa orientale.[*46] Anche l'India respinse l'emendamento, forse perché essa e il Pakistan erano impegnati in movimenti di massa della popolazione che coinvolgevano circa quattordici milioni di persone dopo la partizione del subcontinente nel 1947.[*47] Ma il Comitato Legale nel suo insieme aveva mirato a definire il genocidio non con le espulsioni, ma con la riduzione fisica delle popolazioni, sia con l'uccisione che con la prevenzione delle nascite. Anche le espulsioni più brutali accettano che gli espulsi continuino ad esistere da qualche altra parte. Come ha detto la delegazione cubana, l'emendamento siriano era "interessante", ma non rientrava nella definizione di genocidio, «che era, essenzialmente, la distruzione di un gruppo umano». Anche gli egiziani, allora in guerra con Israele, sostenevano che l'emendamento siriano, che in ultima analisi riguardava gli sfollati, «andava oltre l'idea accettata di genocidio». La commissione ha respinto l'emendamento con un voto di ventinove a cinque e otto astensioni.[*48]

Libano
La Convenzione sul genocidio è stata politicizzata durante la Guerra Fredda, spesso dal mondo comunista, dalla Nuova Sinistra e dai suoi vari compagni di viaggio. Così, i sovietici, i cinesi e il cosiddetto Tribunale Russell, un "tribunale del popolo" sviluppato nel 1966 dal filosofo britannico Bertrand Russell e dal filosofo francese Jean-Paul Sartre, accusarono tutti gli Stati Uniti di genocidio in Vietnam.[*49] Anche i sovietici e le organizzazioni del potere nero negli Stati Uniti hanno caratterizzato la violenza razziale nelle città statunitensi come genocidio. D'altra parte, gli alleati di regimi veramente letali tendevano a strizzare l'occhio alle uccisioni di massa. Il sanguinario regime dei Khmer Rossi in Cambogia ha ucciso circa due milioni di persone tra il 1975 e il 1979. Ma né i cinesi, che erano alleati con i Khmer Rossi, né la sinistra americana, che lodavano lo zelo rivoluzionario dei Khmer Rossi, poterono suscitare critiche sulla carneficina.[*50]  Nessuno Stato è stato accusato di genocidio più spesso di Israele. Ogni guerra combattuta dagli israeliani ha portato accuse di genocidio, alcune molto tempo dopo il fatto. Ma prima delle guerre contemporanee di Israele con Hamas, nessun conflitto ha generato le accuse della prima guerra del Libano del 1982. C'erano campi profughi palestinesi nel sud del Libano dal 1948. Ma in seguito all'espulsione da parte del Regno di Giordania dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) da quel paese nel 1970, l'OLP, sotto il suo presidente del comitato esecutivo Yasser Arafat, si stabilì in Libano, con sede a Beirut. L'OLP era un'organizzazione ombrello per numerosi gruppi che si consideravano rivoluzionari e che sposavano il terrore, che andavano dal gruppo di Arafat Fatah (che oggi domina l'Autorità Palestinese in Cisgiordania) al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habash. Lo statuto dell'OLP del 1968 negava ogni legame ebraico con la Palestina e chiedeva non una soluzione a due stati, ma lo smantellamento di Israele attraverso la lotta armata e quella che chiamava "azione di commando".[*51] Alla fine degli anni '70 l'OLP costituì un mini-stato all'interno del Libano. Ha beneficiato della frammentazione del Libano, la cui stabilità dipendeva da un delicato equilibrio tra cristiani e musulmani. L'OLP era in lotta con le milizie cristiane maronite che erano state associate agli israeliani. La Siria, nel frattempo, stabilì una presenza militare nella valle della Bekaa in Libano che comprendeva migliaia di soldati e batterie di missili terra-aria sovietici. Hanno impedito la possibilità di elezioni libanesi, che potrebbero portare al potere un governo che chiederebbe l'indipendenza del Libano. Anche l'OLP è stata inserita nella Guerra Fredda. Negli anni '70 e '80 ricevette crescenti scorte di armi dall'Unione Sovietica e dai suoi satelliti dell'Europa orientale, tra cui lanciarazzi, artiglieria, granate a razzo, mitragliatrici e persino carri armati e armi antiaeree.[*52] Dalle basi nel sud del Libano, che includevano campi profughi palestinesi, l'OLP lanciò innumerevoli attacchi nel nord di Israele e altri attacchi contro funzionari israeliani in Europa. Gli obiettivi erano sempre civili. Gli attacchi includevano orribili incursioni terroristiche come il massacro della strada costiera del marzo 1978, in cui i terroristi palestinesi dirottarono un autobus sulla strada tra Haifa e Tel Aviv, uccidendo trentotto israeliani, tra cui tredici bambini. Ha incluso anche numerosi lanci di razzi Katyusha negli insediamenti israeliani settentrionali che hanno ucciso alcuni residenti e ne hanno spinti molti altri nei rifugi. L'invasione israeliana del Libano, iniziata il 4 giugno 1982, soffrì della strategia troppo ambiziosa del ministro della Difesa Ariel Sharon. Puntava in primo luogo a distruggere le infrastrutture militari dell'OLP nel Libano meridionale, un obiettivo limitato di 40 chilometri che poteva essere giustificato a livello internazionale. La pianificazione israeliana prevedeva anche l'eliminazione delle basi dell'OLP e della leadership politica a Beirut con l'aiuto delle milizie cristiane, l'espulsione delle forze siriane dalla valle della Bekaa e l'istituzione di un governo amico a guida cristiana in Libano. Queste tappe più ambiziose dovevano scaturire dall'obiettivo iniziale e tuttavia dovevano apparire non pianificate al mondo esterno. Sharon convinse il primo ministro Menachem Begin che la guerra sarebbe finita in fretta.[*53] Ma i combattimenti sono stati più duri di quanto la leadership israeliana si aspettasse. Anche l'avanzata iniziale nel sud del Libano, che gli israeliani pensavano sarebbero durati tre giorni, fu rallentata dalla resistenza dell'OLP, quando i combattenti palestinesi si ritirarono nei principali campi profughi alla periferia di Tiro e Sidone. L'avanzata su Beirut è stata rallentata anche dalle difese dell'OLP. Gli israeliani risposero con bombardamenti di artiglieria, raid aerei e un assedio di Beirut che durò sette settimane dal 26 giugno al cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti del 12 agosto. L'obiettivo era quello di uccidere i leader dell'OLP, tra cui Arafat, attraverso attacchi ai condomini in cui vivevano e si incontravano. Un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti, alla fine accettato da Arafat, fornì un passaggio sicuro per l'OLP fuori dal Libano e verso la Tunisia.[*54] Le accuse di genocidio contro Israele hanno inondato la sessione speciale di emergenza dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla "questione della Palestina". Questa sessione speciale, convocata inizialmente nel luglio 1980, ha una sua storia. Si è riunito a causa di varie scorciatoie attraverso le procedure stabilite dalle Nazioni Unite. Non essendo mai stato formalmente terminato, si riunì il 28 giugno 1982. Praticamente tutti gli Stati membri dell'ONU condannarono l'invasione e il bombardamento di Beirut, e praticamente tutti chiesero la fine dei combattimenti e il ritiro israeliano dai territori occupati. Le accuse specifiche di genocidio provenivano specificamente da delegazioni del mondo comunista, degli stati arabi e del Movimento dei Paesi Non Allineati, che avevano tutti adottato una visione negativa di Israele dal 1967 come stato razzista e coloniale. Questi stati avevano già votato nel 1975 per la risoluzione 3379 dell'Assemblea Generale che condannava il sionismo come "una forma di razzismo e discriminazione razziale".[*56] Ora sono saliti a bordo dell'accusa di genocidio. Va notato che l'accusa di genocidio era una forma di guerra intrapresa per l'imbarazzante incapacità di aiutare militarmente l'OLP. I sovietici erano stati coinvolti in Afghanistan dal 1979 e non potevano nemmeno aiutare il governo vacillante della porta accanto in Polonia. E gli estesi depositi di armi dell'OLP prodotte e importate dall'Europa orientale e scoperte ripetutamente dagli israeliani erano un grande imbarazzo.[*57] Nel frattempo le popolazioni arabe e musulmane in numerosi stati simpatizzavano fortemente con i palestinesi. Ma la Giordania aveva espulso con la forza l'OLP dodici anni prima, e l'Egitto aveva appena attuato l'accordo di pace del 1979 con Israele. Le forze siriane, nel frattempo, sono state cacciate dalla valle della Bekaa da aerei da combattimento israeliani cinque giorni dopo l'inizio della guerra in Libano e Damasco ha rapidamente firmato un cessate il fuoco con Israele.[*58] Le dichiarazioni anti-israeliane erano il meglio che questi governi potessero fare. Così, le accuse di genocidio del 1982 erano un'espressione di solidarietà in tempo di guerra con l'OLP, perché tali espressioni erano l'unica opzione. Come ha detto il rappresentante libanese Ghassan Tueni il 26 giugno, «Così tanti oratori hanno descritto l'olocausto e il genocidio [in Libano] che la testimonianza della mia delegazione qui sarebbe superflua. Posso, tuttavia, dire ancora una volta quanto siamo riconoscenti e grati per tali manifestazioni di sostegno e amicizia?»[*59] Ma le dichiarazioni erano anche intrise di tropi antisemiti. Oggi, il Ministero della Sanità di Gaza gonfia le cifre delle vittime, soprattutto per quanto riguarda donne e bambini, una tendenza che dovrebbe far riflettere chiunque accusi di genocidio.[*60] È istruttivo che nel 1982 ci sia stata un'inflazione simile delle cifre delle vittime. Al vertice arabo del settembre 1982, il presidente dell'OLP Yasser Arafat affermò che ci furono 49.600 morti civili. Uno studio libanese dopo la guerra ne ha contati 17.825, un numero che combina morti militari e civili.[*61] Il rappresentante dell'OLP Zuhdi Labib Terzi fu il primo a parlare. Ha affermato che gli israeliani stavano vittimizzando quasi un milione di bambini in Libano come obiettivo primario della guerra.[*62]

   Altri hanno preso spunto. I temi del sangue e dell'elezione apparvero ripetutamente. Mohammed Abulhassan del Kuwait ha criticato "Begin e i suoi agenti assetati di sangue".[*63] Jasim Yousif Jamal del Qatar ha affermato che i soldati israeliani erano motivati dalla «loro sete di sangue arabo, sia esso il sangue di un bambino, di una donna o di una persona anziana», poiché stavano «cercando la cosiddetta sicurezza del “popolo eletto”, come affermano con tanta arroganza». Jamal ha anche accusato gli israeliani di usare il napalm.[*64] Salah Omer al-Ali dell'Iraq accusò i soldati israeliani di avere "sete di sangue".[*65] Mohammed Sallam dello Yemen affermò che «i sionisti si sforzano di mandare tutte le persone all'inferno in modo da garantire che solo 'il popolo eletto di Dio' possa esistere sulla terra e che Israele possa regnare supremo su tutto».[*66] Anche il tema della manipolazione del governo ha ricevuto una piena messa in onda. Awad Burwin, della Libia, ha affermato che i funzionari statunitensi «sono stati sottoposti a pressioni da parte dell'entità sionista . . . il numero di ebrei tra gli elettori a New York, in California e in altri luoghi dove ci sono grandi comunità ebraiche è significativo. Ecco perché possono esercitare pressioni sugli Stati Uniti. per sostenere Israele».[*67] Rodrigo Malmierca di Cuba ha aggiunto che «Questi non sono i tempi in cui il mondo può essere ingannato da campagne di stampa ben orchestrate che dipingono l'aggressore come la vittima. La pura verità è che Israele intende commettere un genocidio contro il popolo palestinese».[*68] Anche Hazem Naseibeh della Giordania ha denunciato «[una] campagna israeliana già in atto per fare il lavaggio del cervello a un mondo indignato».[*69] Mohammed al-Mosfir degli Emirati Arabi Uniti ha fatto un ulteriore passo avanti. «C'è un gruppo sionista», ha detto, «che domina il capitale e i mass media ed esercita la sua influenza sulle elezioni delle autorità esecutive e legislative negli Stati Uniti d'America[*70] Ma forse la dichiarazione più significativa è arrivata da Adnan Omran della Lega Araba. È ironico che Omran fosse un diplomatico siriano che in seguito ha servito il dittatore Hafez al-Assad e suo figlio Bashir come ministro dell'informazione. Era sicuramente imbarazzato dalla sconfitta della Siria nella valle della Bekaa, dal successivo cessate il fuoco e dalla mancanza di aiuti siriani all'OLP. Ma c'era ancora di più da deviare. Pochi mesi prima che Israele invadesse il Libano, l'esercito siriano e le milizie assediavano la città siriana di Hama, una roccaforte dei Fratelli Musulmani, che si era opposta violentemente al regime di Hafez al-Assad. Dopo quasi un mese, le forze siriane hanno compiuto un massacro anti-sunnita che ha ucciso almeno 10.000 persone e forse fino a 40.000 in due settimane di distruzione.[*71] Il massacro non fu menzionato nell'Assemblea Generale nel 1982, tranne quando l'ambasciatore israeliano Yehuda Blum non ne sottolineò l'ironia.[*72] Omran, in ogni caso, ha chiarito il problema per tutti. Israele non era uno stato che commetteva un genocidio. Israele era uno stato genocida. «La struttura dell'entità israeliana», ha detto, «è costruito sui principi dell'ideologia razzista sionista dei coloni e sulla premessa di un popolo eletto, una premessa che fa credere ai decisori sionisti che solo loro e il loro popolo sono superiori a tutti gli altri popoli sulla terra, che hanno il diritto di commettere il crimine di genocidio, perpetrando così in una sapiente riproduzione tutti i crimini del nazismo La premessa della superiorità razziale sionista – identica all'ideologia nazista della superiorità razziale – conferisce su coloro che possiedono la potenza militare il diritto di disegnare mappe politiche secondo i loro piani espansionistici.......... Che differenza c'è tra i bagni di sangue israeliani inflitti a migliaia di bambini e civili innocenti in Libano oggi e l'olocausto nazista?"[*73] In particolare, ha detto Omran, l'ideologia sionista "giustifica lo sradicamento dei palestinesi, generazione dopo generazione", a partire dallo sfollamento dei palestinesi nel 1948. Omran prefigurò quindi di due decenni i modi in cui la teoria coloniale collegava gli spostamenti del 1948 con tutte le successive guerre israeliane.

   Solo a settembre, tuttavia, una risoluzione dell'Assemblea Generale ha accusato Israele di genocidio. L'innesco è stato l'episodio più buio della guerra, il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Mentre le forze israeliane avanzavano verso Beirut, le unità della Falange, la milizia cristiana libanese maronita alleata di Israele, ricevettero l'ordine di sgomberare i combattenti dell'OLP dai campi di Sabra e Shatila, dove le forze israeliane erano state bersagliate di colpi. In risposta al recente assassinio del presidente cristiano libanese Bashir Gemayel, i miliziani della Falange hanno ucciso un certo numero di combattenti e un numero ancora imprecisato di civili palestinesi. La Croce Rossa ha stimato 1.000 morti. Arafat ne ha dichiarati 3.200.[*74] I massacri di Sabra e Shatila hanno provocato indignazione sia in Israele che nel mondo. Il governo israeliano ha convocato una commissione ufficiale sotto il presidente della Corte Suprema Yitzhak Kahan. La commissione ha attribuito la responsabilità primaria del massacro alla milizia libanese. Ma gli ufficiali israeliani coinvolti, ha detto la commissione, erano "indirettamente responsabili" a causa di pericoli che avrebbero dovuto essere previsti. Ariel Sharon, nella sua qualità di ministro della Difesa, era determinato ad assumersi la responsabilità personale di aver ignorato la probabilità che i motivi di vendetta da parte dei miliziani cristiani potessero portare a spargimenti di sangue e di non aver preso misure per fermarlo.[*75] Il comitato raccomandò le sue dimissioni da ministro della difesa e, dopo un'iniziale resistenza, Sharon si dimise. Dopo i massacri, la settima sessione di emergenza dell'Assemblea Generale ha ingranato una marcia più alta. Nella riunione del 24 settembre, tutti gli Stati, compreso lo stesso Israele, hanno condannato il massacro. Ma gli stati arabi, non allineati e comunisti videro un genocidio piuttosto che un terribile incidente. Il rappresentante sovietico Oleg Troyanovsky ha ribadito che «ciò che Israele sta facendo si chiama genocidio. È un genocidio per quanto riguarda i palestinesi, come è stato perpetrato dagli hitleriani nei confronti di altri popoli, compreso il popolo ebraico». Harry Ott della Germania dell'Est ha convenuto che Sabra e Shatila «dimostrano che il terrorismo di Stato e i crimini di genocidio sono parte integrante della politica di Israele». Il rappresentante dell'OLP Zuhdi Labib Terzi ha paragonato Sabra e Shatila ad Auschwitz e Beirut al ghetto di Varsavia e si è chiesto: «Per quanto tempo il mondo starà seduto a guardare l'eliminazione sistematica del popolo palestinese?» La Libia, come altri stati anche prima dei massacri, ha chiesto un tribunale internazionale sul modello di Norimberga.[*76] A dicembre l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella risoluzione 37/123 D, ha dichiarato che i massacri di Sabra e Shatila sono stati «un atto di genocidio».[*77] Il voto è stato di 123 favorevoli, zero contrari e 22 astenuti. Il giurista Antonio Cassese osserva che la risoluzione non è stata intrapresa per ragioni umanitarie, ma piuttosto politiche. La delegazione cubana, che ha presentato la risoluzione, non ha discusso gli elementi costitutivi del genocidio secondo la convenzione del 1948. Diceva semplicemente che la risoluzione era "autoesplicativa". Non è seguito alcun dibattito sui fatti o sulle implicazioni legali della classificazione dei massacri come genocidio. La risoluzione, dice Cassese, «rivela l'intenzione di usare la risoluzione come strumento politico e strumento di propaganda».[*78] Nel suo studio definitivo Genocide in International Law, William A. Shabas concorda sul fatto che non c'era precisione legale nella risoluzione. Il termine genocidio, ha detto, era «ovviamente . . . scelto per mettere in imbarazzo Israele».[*79] Non è finita qui. Nell'agosto del 1982, una Commissione Internazionale d'Inchiesta finanziata privatamente si costituì sotto Seán MacBride, ex membro dell'Irish Republican Army e ora presidente dell'International Peace Bureau di Ginevra, e Richard Falk, allora professore attivista di diritto internazionale all'Università di Princeton, e successivamente (2008-2014) relatore speciale della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. Il mandato della commissione, composta da sei uomini, si concentrava interamente sulle indagini sulle violazioni israeliane del diritto internazionale, non dell'OLP. L'indagine durò ventidue giorni e interrogò numerosi testimoni, cinque dell'OLP e nessuno del governo israeliano.[*80] Il successivo rapporto della commissione MacBride ha condannato Israele per l'aggressione in Libano. Ha anche sostenuto che Israele aveva violato le Convenzioni dell'Aia e di Ginevra prendendo di mira i campi profughi, anche se la commissione stessa ha ammesso che «questi campi spesso contenevano combattenti e depositi di munizioni».[*81] Considerava i massacri di Sabra e Shatila non come incidenti isolati, ma come parte di un "modello" di violenza che si estendeva dall'uccisione di civili a Deir Yassin nell'aprile 1948 da parte dei distaccamenti dell'Irgun e del Lehi fino ad oggi.[*82] Ma la commissione MacBride ha anche discusso di genocidio, anche se il genocidio non era nei termini di riferimento. Ha raccomandato che «un'autorevole istituzione internazionale» indaghi se «le politiche e la condotta israeliana» equivalgano a quel crimine.[*83] La commissione era divisa sull'opportunità di accusare Israele di genocidio, ma la maggioranza della commissione ritenne che l'accusa fosse giustificata e un'appendice in tal senso è inclusa nel rapporto. La maggioranza ha compreso la gravità di questo passo, poiché il genocidio è «una delle accuse più gravi che si possano fare».[*84]

   Eppure, per accusare Israele di genocidio, la maggioranza ha dovuto piegare la definizione legale del termine. Da un lato, hanno contraddetto molte delle argomentazioni nei dibattiti dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, affermando che «la particolare forma di genocidio applicata ai palestinesi non sembra essere finalizzata all'uccisione sistematica dei palestinesi». D'altra parte, la maggioranza ha affermato che «la definizione di genocidio non si limita alla formula adottata dalle Nazioni Unite nel 1948». In particolare, Israele aveva adottato misure «per distruggere la cultura nazionale, l'autonomia politica e la volontà nazionale nel contesto della lotta palestinese per la liberazione nazionale e l'autodeterminazione». Nella misura in cui questa definizione includeva la cultura nazionale, richiamava le idee iniziali di Lemkin su come il genocidio potesse essere definito. Ma questa concezione di Lemkin non è stata adottata dall'ONU nel 1948 e non si trova da nessuna parte nella Convenzione sul genocidio. La Commissione MacBride ha ammesso il margine di manovra che aveva preso quando ha detto: «ciò che la maggioranza della Commissione ha in mente è una diversa forma di genocidio». Questa diversa forma di genocidio ha dato seguito alle risoluzioni delle Nazioni Unite riguardanti i movimenti di liberazione nazionale, che erano assenti dai dibattiti delle Nazioni Unite nel 1948. La commissione citò la risoluzione 2105 (1965) dell'Assemblea Generale, che riconosceva «la legittimità della lotta dei popoli sotto il dominio coloniale per esercitare il loro diritto all'autodeterminazione». Quella risoluzione fu emessa nel contesto della decolonizzazione in Angola, Rhodesia e Guinea-Bissau, ma nel 1974 l'Assemblea Generale emise la Risoluzione 3236 che riconosceva il diritto palestinese all'autodeterminazione e il diritto di tutti i palestinesi a tornare alle loro case perdute dal 1948. La risoluzione 3237 invitava l'OLP a partecipare a tutte le riunioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite come osservatore, e la risoluzione 3375 del 1975 riconosceva l'OLP come "il rappresentante del popolo palestinese", che avrebbe dovuto partecipare alle deliberazioni riguardanti il Medio Oriente.[*85] Per la commissione MacBride, questi passi, e sicuramente il discorso di Yasser Arafat del 1974 a un'Assemblea Generale estatica, che denunciava il sionismo come razzista, colonialista e illegittimo, hanno cementato lo status dell'OLP come movimento di liberazione nazionale che «gode di uno status speciale nel diritto internazionale». In verità, le risoluzioni dell'Assemblea Generale non hanno affatto forza di legge. La Carta delle Nazioni Unite stessa conferisce all'Assemblea Generale solo il potere di formulare raccomandazioni al Consiglio di Sicurezza. La commissione MacBride, inoltre, ignorò lo statuto dell'OLP, che chiedeva la distruzione di Israele, e non ebbe nulla da dire riguardo agli infiniti attacchi terroristici da parte dei vari gruppi dell'OLP.[*87] Le riviste di diritto internazionale serie non presero sul serio il rapporto della commissione MacBride.[*88] Ma il mondo degli studi mediorientali lo ha fatto. Il Journal of Palestine Studies e altre riviste come Race and Class hanno pubblicato lunghi estratti del rapporto di 282 pagine come "documento speciale", inclusi molti dei commenti sul genocidio.[*89] Dato il plauso di questi ambienti nel 1983, è curioso che nessuno che accusi Israele di genocidio dopo il 2023, in particolare all'interno delle Nazioni Unite, citi il precedente "genocidio" di Israele del 1982. È possibile che nessuno voglia che se ne parli. Perché se qualcuno leggesse i tendenziosi dibattiti dell'Assemblea Generale di quell'anno, sarebbe imbarazzante sia per l'ONU che per coloro che oggi fanno accuse simili.

Teoria coloniale e genocidio
La Guerra Fredda è finita. Le guerre culturali non si sono ritirate. Le accuse di genocidio di oggi sono diverse grazie alla teoria coloniale dei coloni, che si è sviluppata negli anni '90 e si è notevolmente ampliata negli anni 2000. L'ottimo lavoro di Adam Kirsch sulla teoria coloniale la descrive più come un'ideologia che come una teoria accademica alimentata da un'indagine scrupolosa.[*90] In un articolo fondamentale del 2006, l'antropologo Patrick Wolfe definisce il colonialismo di insediamento come un processo di invasione, insediamento di massa ed "eliminazione dei nativi".[*91] Wolfe sostiene anche che «la questione del genocidio non è mai lontana dalle discussioni sul colonialismo di insediamento».[*92] Così, il colonialismo di insediamento e il genocidio vanno di pari passo. Ma quella di Wolfe è una versione del genocidio ridefinita dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio. Per Wolfe e altri teorici delle colonie, il genocidio non è tanto un singolo evento o una serie di eventi, ma una struttura sociale. Fondamentale, inoltre, è che Wolfe, come molti altri, vede l'Olocausto non come un mezzo per comprendere il genocidio, ma in realtà come un impedimento, perché «come referente incondizionato del genocidio qualificato, può solo svantaggiare i popoli indigeni». Il termine di Wolfe "genocidio strutturale" evita consapevolmente anche i vincoli di tempo e di luogo, e persino di vita e di morte. In effetti, le uccisioni per Wolfe possono essere sospese, durante un genocidio in corso, perché le necessità della struttura genocida coloniale si ripresenteranno inevitabilmente quando i colonialisti avranno bisogno di più terra. C'è qualcosa di disonesto nelle argomentazioni di Wolfe. Nel suo articolo del 2006, cita Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, che disse: «Se desidero sostituire un nuovo edificio con uno vecchio, devo demolirlo prima di costruire». Questo, dice Wolfe, «rivela che il colonialismo di insediamento distrugge per sostituire».[*93] Wolfe attribuisce erroneamente l'affermazione al romanzo “Altneuland” di Herzl, che immagina un paradiso futuristico per tutti i popoli della Palestina.[*94] Ma l'affermazione di Herzl proviene in realtà dal suo trattato del 1896 “Der Judenstaat” [Lo Stato ebraico], a cui si attribuisce il merito di aver posto le basi del sionismo politico. Ancora più importante, la menzione di Herzl a proposito della "demolizione" non si riferisce affatto alla Palestina, ma piuttosto al modo in cui Herzl pensava che gli ebrei europei si considerassero alla fine del diciannovesimo secolo; come una minoranza assediata incapace di difendersi.[*95] L'errata attribuzione di Wolfe ad Altneuland è interessante di per sé. Wolfe non lo corresse mai nel suo lavoro successivo sul sionismo perché non tornò mai alla fonte originale. La citazione di Wolfe da Herzl è stata ripetuta in molti libri e articoli di giornale sulla Palestina che esaminano il conflitto da una prospettiva di insediamento e colonialismo. Tutti attribuiscono le parole di Herzl, come ha fatto Wolfe, ad Altneuland. Nonostante la loro convinzione che il sionismo sia la dottrina coloniale di insediamento più perniciosa di oggi, e nonostante la convinzione che le prove della volontà del sionismo di cancellare si trovino nei testi fondamentali del sionismo politico, nessuno studioso che condanna il sionismo si è preso mai la briga di leggere il testo da solo. Wolfe e altri praticanti della teoria coloniale dei coloni, a quanto pare, non sentono il bisogno di farlo. La mancanza di precisione fattuale all'interno della struttura intellettuale della teoria coloniale è diffusa. Lorenzo Veracini è oggi il decano della teoria coloniale dei coloni. È uno storico, in Australia, e redattore della rivista Settler Colonial Studies, che ha fondato nel 2011 e che ha pubblicato numeri speciali sulla Palestina nel 2012, 2015 e 2019. In quello che Veracini definisce «un saggio densamente argomentato» su Israele e il colonialismo di insediamento del 2019, Veracini chiede di «privilegiare il teorico rispetto all'empirico», una frase che dovrebbe far sussultare qualsiasi studioso.[*96] In questo senso possiamo anche considerare il sociologo Martin Shaw, un teorico contemporaneo del genocidio che sostiene che la domanda "Che cos'è il genocidio?" dovrebbe essere sostituita dalla domanda "Che cosa dovrebbe significare genocidio?" Gli elementi costitutivi del crimine, dice Shaw, l'omicidio di massa e l'intenzione, non sono sufficienti. Il genocidio, dice Shaw, dovrebbe essere definito da strutture sociali asimmetriche.[*97] Così, la denuncia di Shaw del gennaio 2024 in un articolo di giornale sulla guerra di Gaza intitolato "Inevitabilmente genocida" secondo cui la Convenzione sul genocidio consente «ai difensori della violenza di Israele di sostenere che i criteri non sono stati soddisfatti», perché possono «attenersi strettamente a un esercizio di spunta». Ciò che conta per Shaw non è l'intenzione, le vittime o la giurisprudenza derivante da casi di genocidio permeabili, ma la paralisi di Gaza, che, dice, fornisce «spazio per un concetto sociologico di genocidio che è più ampio della definizione legale prevalente».[*98]

   Così definito, il genocidio diventa l'unico crimine nel corpus del diritto internazionale in cui mens rea (la mente colpevole) e actus reus (l'atto colpevole) non sono rilevanti. La nozione di genocidio strutturale può essere applicata in modo più ampio di quanto si pensi, anche alla Bibbia ebraica. Lo studioso biblico Jeremy Cott condanna l'idea dell'elezione divina come «la nozione più perniciosa ereditata dalla tradizione biblica», perché chi crede di essere scelto «tende a voler eliminare tutti coloro che non lo sono».[*99] Più precisamente, l'uccisione dei Cananei e degli Amalechiti nei Libri di Giosuè e Samuele (e i precedenti riferimenti a questi popoli in Esodo e Deuteronomio) servono come base strutturale. Per decenni, gli studiosi marxisti hanno soppesato E.M. de Sainte Croix, uno storico dell'antichità che scrisse: «Conosco un solo popolo che si sentì in grado di affermare di avere effettivamente ricevuto unordine divino di sterminare intere popolazioni . . . vale a dire Israele».[*100] È una citazione spesso usata nel genere biblico antisionista riferito ai coloni.[*101] Nur Masalha, un sociologo palestinese che si è aggirato nel mondo dello studio biblico, sostiene che non c'è mai stato un antico Israele, e questo nonostante le considerevoli prove archeologiche. Eppure, egli dice, la "narrativa della conquista" dei cananei viene ancora usata «come guida per le politiche statali sioniste e israeliane nei confronti degli abitanti indigeni della Palestina».[*102] Lo studioso e attivista Bruce Fisk sostiene inoltre che il "genocidio cananeo"va visto come se fosse "in conversazione" con la Nakba.[*103] Tutto quanto appena detto, fa da sfondo all'attuale ossessione per la menzione di Amalek da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un discorso del 28 ottobre 2023. Netanyahu ha citato il Deuteronomio 25:17: «Ricordati di ciò che Amelek ti ha fatto». La frase è diventata immediatamente una  "prova", non solo dell'intento genocida di Israele di distruggere i palestinesi di Gaza, ma anche della natura genocida di Israele. L'Electronic Intifada ha denunciato «l'invocazione di Netanyahu della storia biblica genocida di Amalek». Scrivendo per Aljazeera, lo storico Raz Segal ha definito la cosa coem una «rozza e pericolosa militarizzazione della religione», poiché gli autori del genocidio «vedono sempre come una minaccia esistenziale il gruppo che stanno attaccando». Lo storico dell'Olocausto Omer Bartov ha avvertito sul New York Times che «questo linguaggio profondamente allarmante» potrebbe facilmente trasformarsi in "azione genocida"[*105] Nel gennaio 2024, Deuteronomio 25:17 è diventato stranamente un pilastro delle accuse di genocidio, da parte  del Sudafrica contro Israele, davanti alla Corte internazionale di giustizia.[*106] C'è molto da svelare qui, ma vale la pena notare quanto segue. Il discorso di Netanyahu del 28 ottobre cita diverse figure dell'antica storia ebraica, tra cui Giuda Maccabeo e Bar Kochba, entrambi ribellati al dominio imperiale. Netanyahu ha anche ricordato ai suoi ascoltatori che le forze di difesa israeliane a Gaza hanno lavorato «per evitare di danneggiare i non combattenti» e ha esortato i civili di Gaza ad andare in aree più sicure. Qualunque cosa si pensi di Netanyahu, coloro che citano il suo discorso come un incitamento al genocidio non menzionano questi passaggi.[*107] C'è di più. Nel gennaio 2010, in occasione del Giorno della Memoria dell'Olocausto, Netanyahu, dalle rovine del campo di Auschwitz-Birkenau, ha fatto riferimento ad Amalek quando ha discusso dell'Iran, un paese che stava lavorando allo sviluppo di un arsenale nucleare nel mentre che nega l'Olocausto e chiede la distruzione di Israele.[*108] Anche prima di questa particolare menzione, il sito web antisionista Mondoweiss aveva predetto che la menzione di Amalek «avrebbe sembrato essere la prescrizione di un genocidio per l'Iran».[*109] Il genocidio iraniano non è mai avvenuto. Nel frattempo, se si vuole sapere in che modo l'accusa di genocidio è antisemita, si può iniziare con l'insistenza degli accusatori sul fatto che l'ebraismo stesso è in sé causa di genocidio.

Gaza
Il Movimento di Resistenza Islamica, comunemente noto come Hamas, è stato fondato in quanto ala palestinese dei Fratelli Musulmani nel 1987. Hamas si basava sul fondamentalismo religioso e sull'opposizione assoluta alla soluzione dei due stati, e alla corruzione finanziaria associata in quegli anni all'OLP di Arafat. Il patto di Hamas del 1988 chiede l'aiuto di Allah per distruggere Israele, attribuisce agli ebrei la responsabilità di tutto, dalla blasfemia ai tentativi di governare il mondo, evidenzia la sua lotta con gli ebrei come «molto grande e molto seria» e chiede l'uccisione degli ebrei nel Giorno del Giudizio.[*110] Gli attentati suicidi e gli altri attacchi da parte di Hamas, e dei movimenti associati contro i coloni, e i soldati israeliani nella Striscia di Gaza, hanno portato nel 2005 alla fine dell'occupazione militare israeliana iniziata nel 1967. Nonostante l'insistenza degli antisionisti sul fatto che la Striscia di Gaza fosse ancora sotto occupazione effettiva, l'occupazione si è conclusa in senso legale. Hamas ha preso con la violenza il pieno controllo della Striscia di Gaza dall'Autorità Palestinese nel 2007. Con l'aiuto dell'Iran, ha contrabbandato armi a Gaza via mare, e attraverso una vasta rete di tunnel che attraversano la metropolitana di Gaza e che raggiungono la penisola egiziana del Sinai. Anche prima che Hamas prendesse il pieno controllo, aveva già  lanciato attacchi missilistici e piccole operazioni di terra contro Israele. Israele ha risposto nel 2007 con una combinazione di assedio di terra, chiudendo i valichi israeliani a Gaza, e poi nel 2009 con un blocco navale. Entrambi miravano a fermare il flusso di materiali strategici, come cemento, carburante e armi. La legge qui è complessa e inconcludente. La durata dell'assedio israeliano e del blocco di Gaza è senza precedenti e, sebbene nessuno dei due sia totale, entrambi sono restrittivi. Si può discutere sulla proporzionalità e sui danni collaterali ai civili.[*111] Nel 1977, i protocolli alla Convenzione di Ginevra del 1949 sono chiari nel loro divieto di affamare deliberatamente i civili, come scopo di guerra. Ma la fame non è mai stata un problema a Gaza, e la privazione di certi beni, anche se è una privazione, non è la fame.[*112] Un rapporto del 2010 della commissione d'inchiesta del Segretario generale delle Nazioni Unite dopo l'incidente della "flottiglia della libertà" del 2010, ha concluso che il blocco navale era un esercizio legale di autodifesa, e quell’anno ha applaudito l'allentamento delle restrizioni da parte di Israele per quanto riguarda i valichi di terra.[*113] Indipendentemente da ciò, l'attuale calunnia del genocidio è iniziata nel 2007 con l'assedio da terra. Gli attivisti hanno etichettato l'assedio come uno strumento di "genocidio lento". Articoli, sono apparsi su varie piattaforme, con titoli come "Il genocidio al rallentatore di Israele", "Un genocidio lento e costante", "Collusione europea nel genocidio lento di Israele" e così via.[*114] Il testo più influente è stato quello di Richard Falk, coautore del rapporto della commissione MacBride e presto diventato relatore speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite per la Palestina nel 2008. L'articolo di Falk del 2007, "Slouching towards a Palestinian Holocaust", sosteneva che il blocco era "un olocausto in divenire". Falk è rimasto in silenzio riguardo alle sue accuse secondo cui Israele avrebbe commesso un genocidio in Libano nel 1982.[*115] Grazie alla sua posizione, il lavoro di Falk ha attirato l'attenzione di Omar Barghouti, l'attivista palestinese che è emerso come capo del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).[*116] Nel suo libro BDS del 2011, Barghouti cita Falk insieme alla teoria coloniale dei coloni e a una particolare lettura della Convenzione sul genocidio, per discutere quello che chiama «l'assedio ermetico di Gaza da parte di Israele, progettato per uccidere, causare gravi danni fisici e mentali e infliggere condizioni di vita calcolate per provocare la graduale distruzione fisica, si qualifica come un atto di genocidio, se non ancora come un genocidio totale».[*117] L'Indice Globale della Fame, un rapporto annuale sottoposto a revisione paritaria preparato da diverse entità,[*118] non ha menzionato Gaza nel 2011 quando Barghouti stava scrivendo, né negli anni successivi. In realtà la popolazione di Gaza cresceva tra il 2 e il 3 per cento ogni anno.[*119] Il GHI utilizza una serie di parametri come la percentuale della popolazione denutrita e l'arresto della crescita infantile e la mortalità infantile che non vengono utilizzati da ONG come Oxfam, che oggi accusa Israele di causare una carestia.[*120] Più precisamente, mentre il "genocidio lento" può rientrare nella disposizione della Convenzione sul genocidio per la creazione di condizioni che possono portare alla distruzione del gruppo, gli estensori della Convenzione avevano in mente il ghetto di Varsavia, dove la morte di massa per fame si è effettivamente verificata entro un anno dalla creazione del ghetto. Nel frattempo, coloro che accusano il genocidio hanno iniziato a lavorare sull'accusa della prima delle guerre di Gaza, l'Operazione Piombo Fuso nel 2008-09.[*121] I manifestanti a Parigi hanno accusato Israele di genocidio durante l'operazione.[*122] Ma la maggior parte dell'attenzione dopo Piombo Fuso andò alla missione d'inchiesta delle Nazioni Unite sotto il rispettato giudice ebreo sudafricano Richard Goldstone e al successivo rapporto della missione, etichettato come Rapporto Goldstone,[*123] che accusava Israele di punizione collettiva dei civili di Gaza, e quindi di violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e dei protocolli aggiuntivi del 1977. Dopo aver esaminato gli obiettivi israeliani, Goldstone in seguito ritrattò le conclusioni del rapporto che portava il suo nome. Nel frattempo, il furore per il rapporto Goldstone oscurò altri rapporti che seguirono Piombo Fuso. Il principale tra questi era il Rapporto Dugard. John Dugard è un giurista sudafricano. Dal 2023 fa parte del team sudafricano che accusa Israele di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia. Era stato relatore speciale delle Nazioni Unite per la Palestina dal 2001 al 2008, prima di Richard Falk, e da allora ha mantenuto il rispetto dei funzionari delle Nazioni Unite. Nel 2009 ha guidato una squadra chiamata "Missione d'inchiesta indipendente incaricata dalla Lega degli Stati Arabi di indagare sui crimini israeliani e sulle violazioni dei diritti umani perpetrate durante l'offensiva di Israele contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza". Ripensando quest'anno al rapporto di quella missione, quindici anni fa, Dugard ricordava l'insistenza unanime tra coloro che erano in questa missione sul fatto che Israele aveva commesso un genocidio durante il Piombo Fuso. La risposta di Dugard nel 2009, ha ricordato nel 2024, è stata che un'accusa del genere era tabù. "Mio Dio", ricorda di aver detto, "non puoi accusare Israele di genocidio".[*124] .Il rapporto Dugard ha in realtà concluso che Israele ha commesso crimini di guerra, crimini contro l'umanità, "e forse genocidio". Il rapporto accusava le forze israeliane di "uccidere, sterminare e causare gravi danni fisici ai membri di un gruppo, i palestinesi di Gaza". Ma la squadra di Dugard non è riuscita a determinare le intenzioni del governo. Il rapporto esortava quindi la Lega Araba "a raccomandare ai suoi membri di prendere in considerazione l'avvio di procedimenti legali contro Israele in conformità con l'articolo 9 [della Convenzione sul genocidio]" perché c'era "la prospettiva che una tale richiesta potesse avere successo".[*125] Nella sua veste di Relatore Speciale per la Palestina, Richard Falk lodò il rapporto Dugard come altamente affidabile.[*126] Questa tendenza è aumentata dopo la successiva guerra di Gaza, l'operazione Protective Edge nell'estate del 2014. Questa volta l'organo investigativo era il cosiddetto Tribunale Russell, creato nel 1966 come tribunale popolare da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre. Nel settembre 2014 il Tribunale Russell ha tenuto una "sessione straordinaria su Gaza". La "giuria" comprendeva John Dugard (che ha anche servito come testimone) e Richard Falk (ancora relatore speciale delle Nazioni Unite per la Palestina), ma anche l'attivista sostenitrice di Hamas Christiane Hessel e l'attivista sudafricano e poi ministro della sicurezza Ronnie Kasrils. Quest'ultimo aveva paragonato gli israeliani ai nazisti. Dopo il 7 ottobre, ha insistito sul fatto che i massacri di Hamas erano "un enorme risultato militare", mentre negava che Hamas avesse ucciso civili. L'antisemita Roger Waters, che suona il basso, ha completato il tribunale. [*127] La presenza di due funzionari dell'ONU per i diritti umani in un panel con personaggi come Hessel, Kasrils e Waters avrebbe dovuto sollevare le sopracciglia all'ONU. Ciononostante, il Tribunale Russell annunciò che avrebbe esaminato seriamente "la politica israeliana alla luce del divieto di genocidio nel diritto internazionale". Dugard sosteneva che Gaza era legalmente "territorio occupato", legittimando così teoricamente la resistenza in qualsiasi forma. I razzi e i tunnel, sosteneva Dugard, "erano gli atti di resistenza di un popolo occupato". Dugard ha apertamente paragonato Hamas alla resistenza francese nella seconda guerra mondiale. I crimini di guerra e i crimini contro l'umanità dovevano essere considerati, ha detto Dugard, ma anche il genocidio doveva essere considerato.[*128] È fondamentale notare la permeazione della teoria coloniale dei coloni nelle conclusioni del Tribunale Russell. Il tribunale ha osservato che esiste una definizione legale di genocidio per i tribunali penali, ma c'erano anche "interpretazioni alternative e più ampie del genocidio al di là . . . responsabilità penale individuale". Il Tribunale ha quindi condannato le "politiche coloniali di insediamento basate sullo sfollamento e l'espropriazione dei palestinesi" dal 1948, sostenendo anche che "l'effetto cumulativo del regime di punizione collettiva di lunga data" è stato progettato per causare "la distruzione incrementale dei palestinesi come gruppo a Gaza". Eppure, sebbene il tribunale abbia dichiarato Israele colpevole di crimini di guerra e crimini contro l'umanità, si è fermato prima del genocidio, o almeno della menzione di questo termine nella sua sentenza. Dugard in seguito si lamentò della cautela del Tribunale. "C'era molto sostegno per accusare Israele di genocidio", ha detto in seguito. "Ma questo era ancora così tabù"[*129] Cosa intendeva Dugard per "tabù"? Si riferiva forse all'ampia pressione sociale che si può vedere riguardo all'immoralità? In una dichiarazione dell'aprile 2023, Richard Falk ha citato Dugard affermando che il problema più grande nella lotta contro l'"apartheid" israeliano era "l'uso dell'antisemitismo come arma". Il problema, concordava Falk, era la definizione operativa di antisemitismo da parte dell'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che etichettava come antisemite le falsità diffamatorie riguardanti Israele, ma non le critiche a Israele in quanto tale. I sionisti, ha detto Falk, avevano un "potente strumento punitivo con cui deviare l'attivismo pro-palestinese bollando i seguaci come antisemiti". [*130] L'argomento sulla definizione operativa di antisemitismo dell'IHRA del 2016 va oltre lo scopo di questo saggio.[*131] Il punto è che per Dugard erano gli ebrei l'impedimento alla verità. Dopo il 7 ottobre, John Dugard, nonostante la carneficina nel sud di Israele e a Gaza, era un uomo felice. «È un sollievo» - ha detto a un intervistatore nel giugno 2024, «dire di cosa si tratta: Israele sta commettendo un genocidio».[*132] Come ho scritto altrove, ci sono molti problemi di fatto e di prova con le accuse sudafricane.[*133] Ma il punto da sottolineare qui è che le accuse di genocidio del 2023 e del 2024 rappresentano il culmine di anni di sforzi da parte di tutti, dai relatori speciali delle Nazioni Unite agli studiosi post-coloniali, dagli attivisti BDS alle ONG come Amnesty International. E i tropi antisemiti rimangono. Nel giugno 2019, The Electronic Intifada si è lamentato del fatto che "l'ONU lascia di nuovo fuori dai guai gli assassini di bambini di Israele". Nel 2024 il sito web ha aggiunto racconti di soldati israeliani che giustiziano bambini di appena quattro anni.[*134] Nel 2024 il Palestine Global Mental Health Network ha sostenuto che nella guerra di Israele a Gaza, "i bambini sono presi di mira direttamente", molti deliberatamente colpiti alla testa.[*135] E non mancano storie che discutono della manipolazione sionista del discorso negli Stati Uniti e in altri paesi volta a nascondere la verità del "genocidio in corso".[*136] Critico, tuttavia, è che molti di coloro che hanno formulato l'accusa di genocidio hanno infuso l'interpretazione strutturale del genocidio nell'accusa, espandendo di fatto la Convenzione sul genocidio ben oltre il suo testo effettivo e il suo intento.

   Un esempio lampante è il rapporto del marzo 2024, "Anatomia di un genocidio" dell'attuale (e ottava) relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina, Francesca Albanese, che ricopre l'incarico dal 2022.[*137] Anche secondo gli standard itterici dei relatori speciali delle Nazioni Unite sulla Palestina, Albanese è diverso. A differenza dei suoi predecessori, cerca di essere non solo un funzionario delle Nazioni Unite, ma qualcosa di simile a un influencer dei social media. Ha un seguito su Twitter di oltre 350.000 follower e la sua pagina Twitter ha stranamente la parola "Genocidio" scarabocchiata in rosso sangue, come se l'accusa di genocidio facesse parte del suo marchio, anche se si definisce pubblicamente "una riluttante cronista del genocidio".[*138] Sebbene oggi cerchi di eludere le accuse di antisemitismo, nel 2022 ha affermato su Facebook che gli Stati Uniti sono stati soggiogati dalla lobby ebraica mentre il sostegno europeo a Israele era dovuto alla sua colpevolezza per l'Olocausto.[*139] Il rapporto di Albanese del 2024 afferma che «il colonialismo di insediamento è un processo dinamico e strutturale e una confluenza di atti volti a spostare ed eliminare i gruppi indigeni, di cui lo sterminio/annientamento genocida rappresenta il culmine» - In "Palestina", continua Albanese – «spostare e cancellare la presenza araba indigena è stata una parte inevitabile della formazione di Israele come 'Stato ebraico'". Utilizzando il modello strutturale, Albanese, come molti studiosi che ha sicuramente letto, può collegare la Nakba del 1948 all'attuale guerra di Gaza, legando così la storia israeliana in un insieme ordinato, stereotipato e genocida. "Il genocidio di Israele contro i palestinesi di Gaza", dice, "è una fase di escalation di un lungo processo di cancellazione coloniale di insediamento. Per oltre settant'anni questo processo ha soffocato il popolo palestinese come gruppo». Un altro esempio recente di questa tendenza è il rapporto di Amnesty International del dicembre 2024 sottotitolato "Il genocidio di Israele contro i palestinesi a Gaza". Ci sono più problemi probatori e di fatto con la relazione di quanti ne possa affrontare ora. Il mio interesse qui è l'argomentazione. E qui la tendenza è ancora una volta quella di fondere gli elementi costitutivi criminali del genocidio con la teoria coloniale di insediamento. Così, una soluzione umanitaria immaginata da Amnesty era che masse di sfollati di Gaza entrassero non in Egitto per un rifugio temporaneo, ma in Israele in modo permanente, «soprattutto perché oltre il 70% della popolazione di Gaza è costituita da rifugiati o discendenti di rifugiati sfollati nel 1948 e, in quanto tali, ha il diritto di tornare in base al diritto internazionale[*140]  Più interessante, però, è questa: la conclusione di Amnesty è che le risposte militari di Israele sono sproporzionate e che prendono di mira i civili come modalità di guerra, mentre infliggono condizioni progettate per distruggere il gruppo. Così, per Amnesty, la condotta della guerra stessa è un genocidio. Ma quegli stessi atti presumibilmente sproporzionati, che si diceva avessero preso di mira i civili distruggendo infrastrutture e siti culturali, erano, secondo il Rapporto Goldstone del 2009, violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra – crimini di guerra – nella misura in cui rappresentavano una forma di punizione collettiva. La conclusione di Amnesty International accusa Israele di genocidio e solo di genocidio. Questo è insolito nella misura in cui i rapporti ufficiali generalmente elencano diverse categorie di crimini e gli articoli presumibilmente violati. Perché le stesse presunte infrazioni sono state i crimini di guerra nel 2009 e il genocidio nel 2024. Parte di ciò che è cambiato è il linguaggio, nato dalla scrittura accademica che ha privilegiato la teoria rispetto ai fatti, ridefinendo il genocidio come parte di una struttura di potere piuttosto che come un crimine con parametri distinti, applicandolo a Israele, ignorando la giurisprudenza molto più attenta riguardante il genocidio nell'ex Jugoslavia, in Ruanda e altrove. Questo è il motivo per cui The Electronic Intifada si è infuriata nel maggio 2024 quando il procuratore della CPI Karim Khan ha chiesto mandati di arresto per Benjamin Netanyahu e l'ex ministro della Difesa Yoav Gallant, ma sotto le categorie dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità, non sotto la voce del genocidio.[*141] Ma anche qualcos'altro è cambiato. Le sfere dell'attivismo e dei social media oggi riflettono un'argomentazione del tutto o niente, grandi sugli slogan e poco precise. La guerra di Gaza del 2014 (Operazione Margine Protettivo, 8 luglio-26 agosto) è stata lo spartiacque. Ha coinciso con gli scontri anti-polizia che hanno seguito l'uccisione di Michael Brown a Ferguson, nel Missouri. C'era un nesso simile tra la guerra di Gaza del 2021 (Operazione Guardian of the Walls, 6-21 maggio) e le manifestazioni globali che hanno seguito l'uccisione di George Floyd l'anno precedente. [*142] L'idea degli anni '60 che coloro che resistono all'oppressione debbano essere solidali l'uno con l'altro si è realizzata, ma ora sulle onnipresenti piattaforme dei social media. La guerra di Gaza del 2014 ha visto oltre 49 milioni di post correlati su Twitter. Gli hashtag principali erano #gazaunderattack, #freepalestine e così via. Tiktok, la popolare piattaforma di video online, è stata lanciata nel 2017. Permette a qualsiasi utente, non importa quanto male informato, di essere un opinionista di notizie mentre raggiunge migliaia di persone che preferiscono le loro informazioni in pezzi premasticati. La guerra di Gaza del 2021, durata due settimane, è stata chiamata Intifada di Tiktok. L'hashtag ha #gazaunderattack avuto oltre 535 milioni di visualizzazioni. L'hashtag #pal- estine, 27 miliardi.[*143] Considera quanto segue. Nel luglio 2024 Francesca Albanese ha affermato su Twitter che gli israeliani non avevano ucciso 37.000 persone a Gaza, il numero già gonfiato dal Ministero della Salute di Gaza, ma piuttosto 186.000. La cifra proviene da un'aritmetica fantasma in una lettera pubblicata sulla rivista medica britannica The Lancet, che affermava di prevedere la scoperta di ulteriori morti con un rapporto di quattro a uno. Il post di Albanese è stato visto oltre 607.000 volte. Il numero di 186.000 è stato presto strombazzato da Aljazeera, The Guardian, The Nation, Middle East Eye, Democracy Now! e altri sbocchi simili.[*145] L'Inter Press Service (che copre l'ONU) l'ha definita una stima "sbalorditiva", che "ha resuscitato accuse di genocidio", poiché proveniva da "una delle più prestigiose riviste mediche britanniche sottoposte a revisione paritaria". [*146] Tutto ciò ci porta allo slogan nelle manifestazioni pubbliche, sui social media e su numerose piattaforme di notizie che sembra essere emerso all'inizio del 2024: «Non è complicato. È un genocidio». In effetti, la connessione tra la teoria coloniale e il genocidio non è complicata perché evita ogni complessità. "Non è complicato" scoraggia ogni discussione sulla Convenzione sul genocidio, sulla giurisprudenza nei processi per genocidio, sull'efficacia della teoria coloniale e sull'intera storia del conflitto, compresi gli attacchi terroristici, i dirottamenti, i negoziati di pace falliti, le intifada, gli attentati suicidi, i lanci di razzi, i rapimenti, l'Iran, Hezbollah, gli Houthi, la Carta di Hamas e lo stesso 7 ottobre. In realtà, chiunque sollevi queste questioni si sta deliberatamente confondendo, corone fumogene e menzogne e sarà rapidamente denunciato come complice e complice del genocidio, autore egli stesso, proprio perché, come dice lo slogan, il genocidio non è complicato. In conclusione, la diffusa accusa di genocidio ha ulteriormente delegittimato Israele e la maggior parte degli ebrei in modi che i loro oppositori avrebbero potuto solo sognare durante eventi come la conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo del 2001 a Durban, in Sud Africa. Per quanto riguarda ciò che ci aspetta, la guerra di Gaza finirà, la maggior parte dei leader di Hamas sarà morta, la ricostruzione di Gaza inizierà e, si spera, la moderazione potrà prevalere. Nel frattempo, gli argomenti che collegano Israele, il colonialismo e il genocidio devono essere rigorosamente contestati nella speranza che la ragione e un senso più sobrio della realtà possano avere la precedenza.

Norman JW Goda – Pubblicato nel febbraio 2025 – su Indiana University Bloomington -

NOTE

  1. Anton Weiss-Wendt, Un crimine retorico: il genocidio nel discorso politico della guerra fredda (Ithaca, NY: Cornell University Press, 2018).
  2. Riassunti della giurisprudenza in William A. Schabas, Genocidio nel diritto internazionale: il crimine dei crimini, 2a ed. (Cambridge: Cambridge University Press, 2009); Guénaël Mettraux, Crimini internazionali: diritto e prassi, v. I: Genocidio (Oxford: Oxford University Press, 2019).
  3. Weiss-Wendt, Un crimine retorico, 133-49.
  4. Basi teoriche, tra gli altri, in Natsu Taylor Saito, Colonialismo di insediamento, razza e legge: perché il razzismo strutturale persiste (New York: New York University Press, 2020).
  5. Samantha Power, "Un problema dall'inferno": l'America e l'età del genocidio (New York: Basic Books, 2002).
  6. Si veda ad esempio Paul Rogers, "L'uso della forza sproporzionata da parte di Israele è una tattica consolidata da tempo, con un obiettivo chiaro", The Guardian, 5 dicembre 2023.
  7. Ad esempio, si veda il Centro palestinese per i diritti umani, Generation Wiped Out: Gaza's Children in the Crosshairs of Genocide, 31 dicembre 2024, https://reliefweb. int/report/occupied-palestinian-territory/generation-wiped-out-gazas-children- crosshairs-genocide-enar (consultato nel gennaio 2025). Si vedano anche i vari articoli pubblicati dall'ONG Defense for Children International—Palestine, htt ps:// dci-palestine.org/ (consultato nel febbraio 2025), tra cui l'argomento secondo cui i bambini di Gaza non solo sono stati uccisi, ma sistematicamente cancellati dalla campagna di genocidio di Israele.
  8. Bari Weiss, "Ilan Omar e il mito dell'ipnosi ebraica", New York Times, 21 gennaio 2019; Richard Silverstein. "AIPAC: La lobby pro-Israele ha corrotto e comprato il Partito Democratico degli Stati Uniti?" Il Nuovo Arabo, 26 giugno 2024; Rob Urie, "The 'Israel Lobby' Works for the US Military Industrial Complex", CounterPunch, 27 giugno 2024, https:// counterpunch.org/2024/06/27/the-israel-lobby- works-for-the-us-military-industrial-complex/ (consultato nel febbraio 2025); Nora Barrows-Friedman, "Insegnanti, genitori, combattete le calunnie della lobby israeliana contro le scuole di Berkeley, The Electronic Intifada, 10 aprile 2024, https://electronicintifada.net/ blogs/nora-barrows-friedman/teachers-parents-fight-israel-lobby-smears-again- berkeley-schools (consultato nel febbraio 2025); Philip Weiss, Briefing settimanale: La lobby pro-genocidio è sulla difensiva", Mondoweiss, 12 maggio 2024, htt ps:// mondoweiss.net/2024/05/weekly-briefing-the-pro-genocide-lobby-is-on-the- difensive/, (consultato nel febbraio 2024).
  9. Dall'ottobre 2023 sono stati pubblicati numerosi attacchi alla definizione operativa di antisemitismo del 2016 da parte dell'Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto. Vedi Jonathan Hafetz e Sahar Aziz, "Come una definizione leader di antisemitismo è stata usata come arma contro i critici di Israele", The Nation, 22 dicembre 2023; Erich Cheyfitz, "La militarizzazione dell'antisemitismo e la soppressione dell'espressione alla Cornell University e oltre, Mondoweiss, 11 novembre 2024, https://mondoweiss.net/2024/11/the-weaponization-of-antisemitism-and-the- soppressione-dell'espressione-alla-cornell-university-e-oltre/ (consultato nel febbraio 2025). Per contrappunto, Cary Nelson, "Antisemitism and the IHRA at University College London," Fathom, maggio 2021, https://fathomjournal.org/fathom-long-read-antisemitism-and-the-ihra-at-university-college-london/?highlight=SP45223. exe.
  10. Luke Tress, "A New York, gli ebrei sono stati presi di mira nei crimini d'odio più di tutti gli altri gruppi messi insieme nel 2024", Times of Israel, 7 gennaio 2025; "Amsterdam Gaza de l'Europe: une attaque antisémite et préméditée . . . ," Tribune Juive, 8 novembre 2023. Ron Kampeas, "Sinagoga di Montreal incendiata per la 2a volta in poco più di un anno", Jewish Telegraphic Agency, 18 dicembre 2024; Rod McGuirk, "Il leader australiano incolpa l'antisemitismo per l'incendio doloso che ha danneggiato ampiamente una sinagoga di Melbourne", Associated Press, 7 dicembre 2024. Per una visione itterica di questi eventi, Abed Abou Shhadeh, "Israeli Football Hooligans Bring Cul-ture of Genocide to Amsterdam", Middle East Eye, 8 novembre 2024; "Pour mieux enterer un génocide, l'Occident transforme en victims des hooligans ultra-racistes israéliens", Chronique de Palestine, 16 novembre 2023; Oscar Grenfell, "Bombardamento incendiario della sinagoga di Melbourne usato per attaccare gli oppositori del genocidio di Gaza", sito web World Socialist, 9 dicembre 2024.
  11. Service de protection de la communauté juive, "Les chiffres de l'antisémitisme en France en 2024", gennaio 2025, https://www.spcj.org/antis%C3%A9mitisme/ chiffres-de-l-antis%C3%A9mitisme-2024, (consultato nel febbraio 2025).
  12. Si vedano le argomentazioni in Anaïs Maroonian, "Proportionality in International Human- itarian Law: A Principle and a Rule, Articles of War, Lieber Institute, West Point, 24 ottobre 2022, https://lieber.westpoint.edu/proportionality-international- humanitarian-law-principle-rule/ (consultato nel febbraio 2025), e in Annyssa Bellal e Stuart Casey-Maslen, The Additional Protocols to the Geneva Conventions in Context (Oxford: Oxford University Press, 2022), 151–69.
  13. Philip Drew, La legge del blocco marittimo: passato, presente e futuro (Oxford: Oxford University Press, 2017).
  14. Harris Schoenberg, Un mandato per il terrore: le Nazioni Unite e l'OLP (New York: Shapolsky Publishers, 1988).
  15. Raphael Lemkin, Il governo dell'Asse nell'Europa occupata: leggi dell'occupazione, analisi del governo, proposte di riparazione (Washington, DC: Carnegie Endowment for International Peace, 1944), 79.
  16. James Loeffler, Rooted Cosmopolitans: Jews and Human Rights in the Twentieth Cen- tury )New Haven, CT: Yale University Press, 2018), 132–34.
  17. Alexa Stiller, “The Mass Murder of the European Jews and the Concept of ‘Geno- cide’ in the Nuremberg Trials: Reassessing Raphaël Lemkin’s Impact,” Genocide Studies and Prevention: An International Journal, 13, n. 1 (2019), 144–72. See also John Cooper, Raphael Lemkin and the Struggle for the Genocide Convention (New York: Palgrave Macmillan, 2008), 56–60.
  18. International Military Tribunal, Trial of the Major War Criminals Before the Inter- national Military Tribunal, Nuremberg, 14 November 1945 - 1 October 1946, I (Nuremberg: International Military Tribunal, 1947), 43–44. See also Mettraux, Genocide, 6–11.
  19. The extensive UN discussions that created the convention are in Hirad Abtahi and Philippa Webb, eds., The Genocide Convention: The Travaux Préparatoires (Leiden: Martinus Nijhoff, 2008) [hereafter Travaux Préparatoires with volume and page]. 
  20. Secretariat Draft E/447, June 26, 1947, Comments on the Draft Convention, Travaux Préparatoires, v. 1, 223–24.
  21. Secretariat Draft E/447, June 26, 1947, Comments on Article I, Travaux Prépara- toires, v. 1, 231.
  22. Seventy-Fifth Meeting, October 15, 1948, Travaux Préparatoires, 2, 1418.
  23. Secretariat Draft E/447, June 26, 1947, Comments on the Draft Convention, Travaux Préparatoires, v. 1, 223–24.
  24. On the omission of cultural genocide, see 83rd Meeting, October 25, 1948, Travaux Préparatoires, 1518.
  25. See for example the 73rd Meeting, October 13, 1948, Travaux Préparatoires, v. 2, 1378ff; 81st Meeting, October 22, 1948, 1477–81. Also Cooper, Raphael Lemkin, 86, 90. For the case law on this problem, see Schabas, Genocide in International Law, 287–90; Mettraux, Genocide, 257–58.
  26. Benny Morris, 1948: A History of the First Arab-Israeli War (New Haven, CT: Yale University Press, 2009).
  27. Neil Rogachevsky and Dov Ziegler, Israel’s Declaration of Independence: The History and Political Theory of the Nation’s Founding Movement (Cambridge: Cambridge University Press, 2023).
  28. Jeffrey Herf, Nazi Propaganda for the Arab World (New Haven, CT: Yale University Press, 2009), 112, 126.
  29. Alan Dowty, Israel/Palestine (Cambridge: Polity Press, 2005), 94–95.
  30. Matthias Küntzel, Nazis, Islamic Antisemitism and the Middle East: The 1948 Arab War Against Israel and the Aftershocks of World War II (London: Routledge, 2024), 15–17
  31. Numerous references in Norman J.W. Goda, et al., eds., To the Gates of Jerusalem: The Diaries and Papers of James G. McDonald, 1945–1947 (Bloomington, IN: Indi- ana University Press, 2015), 68. More contemporary references in Aftab Ahmad Khan, “The Zionist Plan for the Greater Israel by Dividing the Middle East,” Defense Journal (Karachi), v. 18, n. 9 (April 2015), 35–48; “Top Fatah Official Talks of ‘Zionist Territorial Designs from Nile to Euphrates,” The Times of Israel, Septem- ber 20, 2020.
  32. King Abdul Aziz Ibn Saud to President Roosevelt, April 30, 1943, United States, Department of State, Foreign Relations of the United States 1943, IV (Washington, DC: US Government Printing Office, 1964), 773–75; For Arab knowledge of the Holocaust, see Meir Litvak and Esther Webman, From Empathy to Denial: Arab Responses to the Holocaust (New York: Columbia University Press, 2009).Norman J.W. Goda, “Franklin D. Roosevelt, Saudi Arabia, and the Palestine Ques- tion,” forthcoming in The U.S. Presidency, the Holocaust, and the State of Israel, ed. Patricia Kollander (Gainesville, FL: University Press of Florida, 2025).
  33. Norman J.W. Goda, “Franklin D. Roosevelt, Saudi Arabia, and the Palestine Ques- tion,” forthcoming in The U.S. Presidency, the Holocaust, and the State of Israel, ed. Patricia Kollander (Gainesville, FL: University Press of Florida, 2025).
  34. Indirect quote in Norman W. Goda, et al, eds., Envoy to the Promised Land: The Diaries and P apers of James G. McDonald, 1948–1951 (Bloomington, IN: Indiana University Press, 2018), 402.
  35. Document A/C.6/86, Travaux Préparatoires, v. 1, 6–8. For analysis, see Hirad Abtahi and Philippa Webb, “Secrets and Surprises in the Travaux Préparatoires of the Genocide Convention,” in Arcs of Global Justice: Essays in Honor of William A. Schabas, ed. Margaret M. DeGuzman and Diane Marie Amann (Oxford: Oxford University Press, 2018), 299–320
  36. Bruce Hoffman, Anonymous Soldiers: The Struggle for Israel, 1917–1947 (New York: Knopf, 2015), 60–85.
  37. Hoffman, Anonymous Soldiers. 290–308.
  38. Fayez Sayegh, “Zionist Colonialism in Palestine (1965),” Settler Colonial Studies, 2, n. 1 (2012), 206–25.
  39. The Palestinian National Charter: Resolutions of the Palestine National Council, July 1–17, 1969,” Yale University, The Avalon Project: Documents in Law, History, and Diplomacy, https://avalon.law.yale.edu/21st_century/plocov.asp; Hamas Covenant, 1988, The Avalon Project, https://avalon.law.yale.edu/21st_century/ asp
  40. For a summary, Alex P. Schmidt, Defining Terrorism (The Hague: International Centre for Counter-Terrorism, 2023), https://icct.nl/sites/default/files/2023-03/ Schmidt%20-%20Defining%20Terrorism_1.pdf; For more exhaustive account, Ben Saul, Defining Terrorism in International Law (Oxford: Oxford University Press, 2006).
  41. Sixty-eighth meeting, A/C.6/SR.68, October 6, 1948, Travaux Préparatoires, 2, 1351.
  42. Reference to the proposal in Eighty-first meeting, October 22, 1948, Travaux Préparatoires, v. 2, 1479
  43. Eighty-second meeting, A/C.6/SR.82, October 23, 1948, Travaux Préparatoires, v. 2, 1490–92.
  44. See for example, “The Question of Genocide in Palestine, 1948: An Exchange Between Martin Shaw and Omer Bartov,” Journal of Genocide Research, 12, n. 3–4 (2010), 243–59; Rabea Eghbariah, “Toward Nakba as a Legal Concept,” Columbia Law Review, v. 124, n. 4 (2024), 887–992. 
  45. Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited (Cambridge: Cambridge University Press, 2004).
  46. M. Douglas, Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans After the Second World War (New Haven: Yale University Press, 2012).
  47. Yasmin Khan, The Great Partition: The Making of India and Pakistan (New Haven: Yale University Press, 2008).
  48. Eighty-second meeting, A/C.6/SR.82, October 23, 1948, Travaux Préparatoires, 2, 1490–92.
  49. Historians Daniel Blatman and Amos Goldberg cite the Russel Tribunal’s insis- tence that the US war in Vietnam was genocidal as a support for the same argu- ments concerning Gaza, but they strangely omit the embarrassing makeup of the Russell Tribunal in 2014 when it made accusations against Israel. Daniel Blatman and Amos Goldberg, “There’s No Auschwitz in Gaza. But It’s Still Genocide,” Haaretz, January 30, 2025. The 2014 Russell Tribunal is discussed below.
  50. Weiss-Wendt, A Rhetorical Crime, 82–87, 102–113.
  51. Palestinian National Charter: Resolutions of the Palestine National Council, July 1–17, 1968, The Avalon Project: Documents in Law, History, and Diplomacy, htt ps:// law.yale.edu/21st_century/plocov.asp (accessed February 2025).
  52. Jeffrey Herf, Undeclared Wars with Israel: East Germany and the West German Far Left, 1967–1989 (Cambridge: Cambridge University Press, 2016), 342–415.
  53. Yigal Kipnis, 1982, Lebanon and the Road to War: Decision-Making on the Road to War and During It (London: Routledge, 2025), 95–166.
  54. Rashid Khalidi, Under Siege: L.O. Decisionmaking During the 1982 War (New York: Columbia University Press, 1986), 50–94.
  55. See the article by Yehuda Z. Blum, “The Seventh Emergency Special Session of the UN General Assembly: An Exercise in Procedural Abuse,” The American Journal of International Law, v. 80, n. 3 (July 1986), 587–600.
  56. Robert Wistrich, A Lethal Obsession: Anti-Semitism from Antiquity to the Global Jihad (New York: Random House, 2010), 474–93.
  57. Herf, Undeclared Wars with Israel, 415–31.
  58. Avner Yaniv, “Syria and Israel: The Politics of Escalation,” in Syria Under Assad: Domestic Constraints and Regional Risks, Moshe Maoz and Avner Yaniv (London: Routledge, 1986), 157–78.
  59. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Pro- visional Verbatim Record of the Twenty-Second Meeting, June 26, 1982, A/ES-7/ 24, June 29, 1982, 34–35, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.24.
  60. Andrew Fox, “Questionable Counting: Analyzing the Death Toll from the Hamas- Run Ministry of Health in Gaza,” December 2024 (London: Henry Jackson Soci-ety, 2024); Lewi Stone and Gregory Rose, “When Military Targeting of Hamas Combatants was Misrepresented as Genocide: An Open-Source Data Analysis with a Focus on Israeli Airstrikes in the Gaza Urban Warfare, 2023–2024, Journal of Contemporary Antisemitism, v. 7.2, Special Issue 2024, 1–23.
  61. “The 1982 Israeli Invasion of Lebanon: The Casualties,” Race & Class, v. 24, n. 4 (April 1983), 340–42; Richard Gabriel, Operation Peace for Galilee: The Israeli- PLO War in Lebanon (New York: Hill & Wang, 1984), 164.
  62. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Provisional Verbatim Record of the Twenty-Second Meeting, June 25, 1982, A/ES-7/PV. 22, June 28, 1982, 6–7, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.22.
  63. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Pro- visional Verbatim Record of the Twenty-Third Meeting, August 17, 1982, A/ES-7/ 26, August 19, 1982, 67, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.26.
  64. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Provisional Verbatim Record of the Twenty-Second Meeting, June 25, 1982, A/ES-7/PV. 22, June 28, 1982, 22–25, 27, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.22.
  65. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Provisional Verbatim Record of the Twenty-Third Meeting, June 26, 1982, A/ES-7/PV. 23, June 29, 1982, 67, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.23.
  66. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Provisional Verbatim Record of the Twenty-Third Meeting, June 26, 1982, A/ES-7/PV. 23, June 29, 1982, 37, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.23.
  67. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Provisional Verbatim Record of the Twenty-Third Meeting, June 26, 1982, A/ES-7/PV. 23, June 29, 1982, 58, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.23.
  68. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Pro- visional Verbatim Record of the Twenty-Third Meeting, August 16, 1982, A/ES-7/ 25, August 18, 1982, 46, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.25.
  69. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Provisional Verbatim Record of the Twenty-Third Meeting, August 17, 1982, A/ES-7/ 26, August 19, 1982, 21, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.26.
  70. UN General Assembly, Seventh Emergency Special Session, Provisional Verbatim Record of the Twenty-seventh Meeting, August 21, 1982, A/ES-7/PV.27, p. 13–15, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.27.
  71. Salwa Ismael, The Rule of Violence: Subjectivity, Memory, and Government in Syria (New York: Cambridge University Press, 2018), 131–158.
  72. UN General Assembly, Seventh Emergency Special Session, Provisional Verbatim Record of the Thirty-second Meeting, September 24, 1982, A/ES-7/PV.32, 136–37, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.32.
  73. UN General Assembly, Special Emergency Session of the General Assembly, Provisional Verbatim Record of the Twenty-Third Meeting, August 16, 1982, A/ES-7/ 25, August 18, 1982, 63–72, https://docs.un.org/en/A/ES-7/PV.25.
  74. Rosemary Sayig, “Seven Day Horror: How the Sabra/Shatila Massacre Was Buried with the Victims,” Al-Majdal, March 2001, 22– 28, note 3.
  75. The Beirut Massacre: The Complete Kahan Commission Report (Princeton, NJ: Karz- Cohl, 1983).
  76. UN General Assembly, Seventh Emergency Special Session, Provisional Verbatim Record of the Thirty-second Meeting, September 24, 1982, A/ES-7/PV.32, Sep- tember 25, 1982, 101–102 (Troyanovsky), 33–35 (Ott), 17–18 (Terzi), 92 (Libya).
  77. UN General Assembly Resolution 37/123, The Situation in the Middle East, December 16, 1982, A_RES_37_123[D]-EN.
  78. Antonio Cassese, Violence and Law in the Modern Age (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1988), 82–84.
  79. William Schabas, Genocide in International Law, 540–42.
  80. Israel in Lebanon: The Report of the International Commission to Enquire into Reported Violations of International Law by Israel During Its Invasion of Lebanon (London: Ithaca Press, 1983), iv-x.
  81. Israel in Lebanon,
  82. While civilians were killed at Deir Yassin, it is possible that they were casualties of house to house fighting rather than a massacre after the battle. Eliezer Tauber, The Massacre That Never Was : The Myth of Deir Yassin and the Creation of the Palestinian Refugee Problem (New Milford, CT: The Toby Press, 2021).
  83. Israel in Lebanon, x.
  84. Israel in Lebanon, 194–198.
  85. Israel in Lebanon, 23–26.
  86. Luis Acosta, “Legal Effects of United Nations Resolutions Under Inter- national and Domestic Law,” The Law Library of Congress, Global Legal Research Directorate, 2015, https://tile.loc.gov/storage-services/service/ll/ llglrd/2019669646/2019669646.pdf.
  87. See discussion in Israel in Lebanon, 23–26.
  88. Harry Almond, Review of Israel in Lebanon: The Report of the International Com- mission, American Journal of International Law, v. 78, n. 3 (1984), 726–27.
  89. “Special Document - Israel in Lebanon: Report of the International Commis- sion to Enquire into Reported Violations of International Law by Israel during its Invasion of Lebanon,” Journal of Palestine Studies, 12, n. 3 (Spring 1983), 117–33; “Israel in Lebanon: Excerpts from the MacBride Report,” Race and Class, v. 24, n. 4 (April 1983), 465–71.
  90. Adam Kirsch, On Settler Colonialism: Ideology, Violence, and Justice (New York: Norton, 2024).
  91. Patrick Wolfe, “Settler Colonialism and the Elimination of the Native,” Journal of Genocide Research, v. 8, n. 4 (2006), 387–409
  92. Wolfe, “Settler Colonialism and the Elimination of the Native,”
  93. Wolfe, “Settler Colonialism and the Elimination of the Native,”
  94. The works include, among many others, Somdeep Sen, Decolonizing Palestine: Hamas Between the Anticolonial and the Postcolonial (Ithaca, NY: Cornell Univer- sity Press, 2020); Ronit Lentin, Traces of Racial Exception: Racializing Israeli Settler Colonialism (London: Bloomsbury, 2018); Mark Levine, Overthrowing Geography: Jaffa, Tel Aviv, and the Struggle for Palestine, 1880–1948 (Berkeley: University of California Press, 2005).
  95. Theodor Herzl, The Jewish State: Proposal of a Modern Solution for the Jewish Ques- tion (New York: Dover, 1988), 84.
  96. Lorenzo Veracini, “The Other Shift: Settler Colonialism, Israel, and the Occupa- tion,” Journal of Palestine Studies, v. 42, n. 2 (Winter 2013), 26–42.
  97. Martin Shaw, What Is Genocide? 2nd (Cambridge: Polity Press, 2015), 2, 7–8, 121, and passim.
  98. Martin Shaw, “Inescapably Genocidal,” Journal of Genocide Research, published online January 3, 2024.
  99. Jeremy Cott, “The Biblical Problem of Election,” Journal of Ecumenical Studies, 21, n. 2 (Spring 1984), 217.
  100. E.M. de Sainte Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek World: From the Archaic Age to the Arab Conquests (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1981), 331.
  101. Michael Prior, The Bible and Colonialism: A Moral Critique (Sheffield: Sheffield University Press, 1999), 11. Edward Said, “Michael Walzer’s Exodus and Revolution: A Canaanite Reading, in Blaming the Victim: Spurious Scholarship and the Palestine Question, Edward Said and Christopher Hitchens (London: Verso, 1988), 171. A myriad of articles includes David Wetherell, “Israel and the God of War,” Financial Review, December 23, 2004.
  102. Nur Masalha, The Zionist Bible: Biblical Precedent, Colonialism and the Erasure of Memory (London: Routledge, 2014), 1, 74.
  103. Bruce N. Fisk, “Canaanite Genocide and Palestinian Nakba in Conversation: A Postcolonial Exercise in Bi-Directional Hermeneutics,” Journal of Holy Land and Palestine Studies, v. 18, n. 1 (2019), 21–49.
    1. Maureen Clare Murphy, “White House Denies Genocide Unfolding in Gaza,” The Electronic Intifada, November 22, 2023, https://electronicintifada.net/blogs/maureen-
  104. clare-murphy/white-house-denies-genocide-unfolding-gaza (accessed February 2025); Raz Segal and Penny Green, “Intent in the Genocide Case Against Israel is Not Hard to Prove,” Aljazeera, January 14, 2024, https://www.aljazeera.com/opinions/2024/1/14/ intent-in-the-genocide-case-against-israel-is-not-hard-to-prove (accessed February 2025).

  105. Omer Bartov, “What I Believe as a Historian of Genocide, The New York Times, November 20, 2023.

  106. International Court of Justice, The Hague, Public Sitting, 11 January 2024, Verbatim Record, 33–34, https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20240111-ora-01-00-bi.pdf (accessed February 2025).

  107. Statement by PM Netanyahu, October 28, 2023, Ministry of Foreign Affairs, https://www.gov.il/en/pages/statement-by-pm-netanyahu-28-oct-2023 (accessed February 2025).
  108. PM Netanyahu’s Speech at the Ceremony Commemorating 65 Years Since the Liberation of Auschwitz, January 27, 2010, Prime Minister’s Office, https://www.il/en/pages/speechauchwitz270110 (accessed February 2025).
  109. Philip Weiss, “Citing Amalek, Goldberg/Netanyahu Would Seem to Prescribe Genocide for Iran,” Mondoweiss, May 18, 2009, https:// net/2009/05/citing-amalek-goldbergnetanyahu-would-seem-to- prescribe-genocide-for-iran/ (accessed February 2025).
  110. Hamas Covenant 1988, The Avalon Project: Documents in Law, History, and Diplomacy, https://avalon.law.yale.edu/21st_century/hamas.asp (Consulted February 2025). For analysis, see Jeffrey Herf, “The Ideology of Mass Murder: Hamas and the Origins of the October 7th Attacks, Quillette, October 10, 2023.
  111. See for example, Eyal Benvenisti, “The International Law of Prolonged Sieges and Blockades: Gaza as a Case Study, International Law Studies, v. 97 (2021), 970– 94.
  112. “Emanuela-Chiara Gillard, “Sieges, the Law, and Protecting Civilians,” Chatham House Briefing, June 2019, Updated December 2020, https://www.org/2019/06/sieges-law-and-protecting-civilians-0/ii-what-siege- and-it-prohibited (accessed February 2025).
  113. Report of the Secretary-General’s Panel of Inquiry on the 31 May 2010 Flo- tilla Incident, September 2011, 38–44, 68–70, https://digitallibrary.un.org/ record/720841?v=pdf.
  114. Compiled in William Cook, ed., The Plight of the Palestinians: A Long History of Destruction (New York: Palgrave Macmillan, 2010), 22.
  115. Richard Falk, “Slouching toward a Palestinian Holocaust,” in Cook, ed., The Plight of the Palestinians, 56–61.
  116. Omar Barghouti, BDS: The Global Struggle for Palestinian Rights (Chicago: Haymarket Books, 2011), 36.
  117. Barghouti, BDS, 46.
  118. Annual Global Hunger Index Reports are here: https://www.ifpri.org/previous-global-hunger-index-ghi-reports/
  119. See World Population Review, Gaza, Palestine Population, https:// com/cities/palestine/gaza (accessed February 2025).
  120. For the Global Hunger Index Methodology, see https:// globalhungerindex.org/methodology.html. For Oxfam, see “Timeline: The Humanitarian Impact of the Gaza Blockade, Oxfam International, https:// www.oxfam.org/en/timeline-humanitarian-impact-gaza-blockade (both accessed February 2025).
  121. Gaza/ “genocide”: “scandaleux,” Le Figaro, January 14,
  122. United Nations, General Assembly, Human Rights Council, Human Rights in Palestine and Other Occupied Arab Territories, Report of the United Nations Fact-Finding Mission on the Gaza Conflict,” A/HRC/12/48, September 25, 2009, https://www.ohchr.org/sites/default/files/english/bodies/hrcouncil/ docs/12session/A-HRC-12-48.pdf.
  123. Richard Goldstone, “Reconsidering the Goldstone Report on Israel and War Crimes,” Washington Post, April 1, The entire saga in Daniel Terris, The Tri-als of Richard Goldstone, (New Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 2019), 210– 266.
  124. Tjitske Lingsma, “John Dugard: ‘The Taboo has died, Israel Commits Geno-cide,’” ZAM, June 24, 2024.
  125. Report of the Independent Fact-Finding Commission on Gaza: No Safe Place— Presented to the League of Arab States 30 April 2009, 6–7, 129, 130–39, https:// un.org/unispal/document/auto-insert-181873/, (accessed February 2025).
  126. United Nations, General Assembly, Situation of Human Rights in the Palestin-ian Territories Occupied Since 1967, Note by the Secretary-General, August 25, 2009, A/64/328.
  127. All records are at http://www.russelltribunalonpalestine.com/en/index.html. On Kasrils, see Ronnie Kasrils, “Saluting Hamas, Refuting the SAJBD,” Politics- Web, November 30, 2023; David Benatar, “Denying 7 October: The Case of For- mer ANC Minister Ronnie Kasrils,” Fathom Journal, February 2024.
  128. John Dugard, Legal Background, Russell Tribunal on Palestine, Emergency Session, Brussels, 24 September 2014, Findings, 11–16, http:// russelltribunalonpalestine.com/en/wp-content/uploads/2014/09/TRP-Concl.-Gaza-EN.pdf (accessed February 2025).
  129. Tjitske Lingsma, “John Dugard: ‘The Taboo has died, Israel Commits Geno-cide’” ZAM, June 24, 2024.
  130. Richard Falk, “Democracy at Risk for Jews in Israel, Bare Survival for Palestin- ians,” richardfalk.org, April 7, 2023, https://richardfalk.org/2023/04/07/democracy-at-risk-for-jews-in-israel-bare-survival-for-palestinians/ (accessed February, 2025).
    1. See Cary Nelson, “Accommodating the New Antisemitism: A Critique of
  131. ‘The Jerusalem Declaration,’” Fathom Journal, April 2021, https://fathomjournal.org/fathom- long-read-accommodating-the-new-antisemitism-a-critique-of-the-jerusalem-declaration/org/fathom-long-read-accommodating-the-new-antisemitism-a-critique-of-the-jerusalem-declaration/; Jeffrey Herf, “IHRA and JDA: Examining Definitions of Antisemtism in 2021,” Fathom Journal, April 2021, https://fathomjournal.org/ ihra-and-jda-examining-definitions-of-antisemitism-in-2021/

  132. Tjitske Lingsma, “John ”
  133. Norman JW Goda, “South African Lawfare at the Hague,” Quillette, January 17, 2024.
  134. Ali Abunimah, “UN Lets Israel’s Child Killers Off the Hook Again,” The Elec- tronic Intifada, June 19, 2019, https://electronicintifada.net/blogs/ali-abunimah/ un-lets-israels-child-killers-hook-again. Nora Barrows-Freedman, “Al Shifa Hospi- tal in Ruins,” The Electronic Intifada, April 1, 2024, https://electronicintifada.net/blogs/nora-barrows-friedman/al-shifa-hospital-ruins (accessed February 2025).
  135. Palestine Global Mental Health Network, “No Child Should Be a Target: Inter- national Campaign Launched to Protect the Children of Lebanon and Palestine,” Mondoweiss, November 20, 2024, https://mondoweiss.net/2024/11/no-child- should-be-a-target-international-campaign-launched-to-protect-the-children-of- lebanon-and-palestine/ (accessed February 2025).
  136. “‘PR Commando Unit’ Unleashed by Israel to Manipulate US Discourse,” Mid- dle East Monitor, June 26, 2024; M. Reza Behnam, “Manipulation Politics: Israeli Gaslighting in the United States,” Palestine Chronicle, April 25, 2024, https://www. middleeastmonitor.com/20240626-pr-commando-unit-unleashed-by-israel-to- manipulate-us-discourse/ (accessed February 2025); Warren Montag, “Le géno-cide et l’instrumentalisation de l’antisemtisme,” Révolution Permanente, June 4, 2024, https://www.revolutionpermanente.org/Le-genocide-et-l-instrumentalisation-de-l-antisemitisme (accessed February 2025).
  137. UN Human Rights Council, Fifty-fifth session, A/HRC/55/73, March 25, 2024, https://docs.un.org/en/A/HRC/55/73
  138. Albanese’sTwitter feed is https://x.com/FranceskAlbs (accessed February 2025). For her “reluctance” comment, see United Nations, Media Coverage and Press Releases, “‘It is Important to Call a Genocide a Genocide,’ Consider Suspending Israel’s Credential as a UN Member State, Experts Tell Palestinian Rights Committee,” October 31, 2024, GA/PAL/1473, https://press.un.org/en/2024/gapal1473.doc.htm.
  139. Luke Tress, “UN Palestinian Rights Official’s Social Media History Reveals Antisemitic Comments,” The Times of Israel, December 14, 2022; Luke Tress, “UN Palestinian Rights Investigator Denies ‘Jewish lobby’ Comments are Antisemitic,” The Times of Israel, December 16, 2022.
  140. Amnesty International, You Feel Like You Are Subhuman: Israel’s Genocide Against Palestinians in Gaza (London: Amnesty International, 2024), 25–26, https://www.amnesty.org/en/documents/mde15/8668/2024/en/ (accessed February 2025). The reference to international law was UN General Assembly Resolution 194 of December 194, which was conditional and referred to a far smaller number of refugees than their descendants number today. The argument over UNGA Resolution 194 is extensive.
  141. Ali Abunimah, “ICC Warrants Both Historic and Cynical,” The Electronic Intifada, May 20, 2024, https://electronicintifada.net/blogs/ali-abunimah/icc-warrants-both-historic-and-cynical (accessed February 2025).
  142. For a most tendentious assessment, see Angela Y. Davis, Freedom is a Constant Struggle: Ferguson, Palestine, and the Foundations of a Movement (Chicago: Haymar- ket Books, 2016). Numerous articles include Sharmeen Ziauddin, “What Do Black Lives Matter and Palestine Solidarity Have in Common?” OpenDemocracy, May 25, 2021, https://www.opendemocracy.net/en/north-africa-west-asia/what-do-black-lives-matter-and-palestine-solidarity-have-common/ (accessed February 2025).
  143. Eugenia Siapera, et al., “#Gaza Under Attack: Twitter, Palestine, and Diffused War,” Cervi and Tom Divon, “Playful Activism: Memetic performances of Palestinian Resistance in TikTok #Challenges,” Social Media & Society (January-March 2023), 1–13. Information, Communication & Society, v. 18, n. 11 (2015), 1297–1319; Laura Cervi and Tom Divon, “Playful Activism: Memetic performances of Palestinian Resistance in TikTok #Challenges,” Social Media & Society (January-March 2023), 1–13.
  144. Assessment in “‘Plus de 186 000 morts’ à Gaza: quelle fiabilité pous l’estimation publiée sur le site The Lancet? France 24, July 11, 2024, https://www.france24.com/fr/moyen-orient/20240711-gaza-estimation-lancet-bilan-186-000-morts-palestiniens-israel-medecins-monde-calcul-hamas (accessed February 2025).
  145. "Gaza Toll Could Exceed 186,000 Lancet Study Says", Aljazeera, 8 luglio 2024, https://www.aljazeera.com/news/2024/7/8/gaza-toll-could-exceed-186000-lancet-study-says (consultato nel febbraio 2025). Si veda anche il titolo incendiario, "I ricercatori stimano il vero bilancio delle vittime di Gaza a 186.000 o più", truthout, 8 luglio 2024.
  146. Thalif Dean, "Una nuova sbalorditiva stima di oltre 186.000 uccisioni a Gaza rilancia le accuse di crimini di guerra", Global Issues, 10 luglio 2024,

    https://www.globalissues.org/news/2024/07/10/37158#%3A~%3Atext%3DUNITED%20NATIONS%2C%20Jul%2010%20%28IPS%29%20-%20An%20overwhelmingly%2Cand%20Hamas%2C%20with%20no%20signs%20of%20a%20cease-fire. (consultato nel febbraio 2025).

  147. Sulla conferenza di Durban si veda Tom Lantos, "The Durban Debacle: An Insider's View of the UN World Conference Against Racism", The Fletcher Forum of World Affairs 26, n. 1, (Winter/Spring 2002), 31–52; Dina Porat, "Durban: un attacco diverso a Israele e al popolo ebraico e le sue conseguenze, sfidando il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS): 20 anni di risposta alle campagne anti-israeliane, a cura di Ronnie Fraser e Lola Fraser (Londra: Routledge, 2023), 18–31; Anne Bayefsky, "La Conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo: una conferenza razzista contro il razzismo", American Society for International Law: Proceedings of the Annual Meeting (2002), 65-74; Gerald M. Steinberg, "La centralità delle ONG nella strategia di Durban", Yale Israel Journal (estate 2006); Gerald M. Steinberg, "Da Durban al Rapporto Goldstone: la centralità delle ONG per i diritti umani nella dimensione politica del conflitto arabo-israeliano", Israel Affairs, v. 18, n. 3 (2012), 372-88.