martedì 30 settembre 2025

Le maschere di carattere…

IDEOLOGIE DELLA CRISI
- L'ABC della critica della dissociazione del valore -

Questo alfabeto, di cui pubblicheremo regolarmente diverse voci, fa parte di un duplice approccio, sia pedagogico che riflessivo. Accompagna la lettura dei libri di Ernst Schmitter,"L'economia come catastrofe. Un'introduzione alla critica della dissociazione del valore" (Crise & Critique, 2025) e "Le avventure della merce", di Anselm Jappe (Mimesis-Eterotopie, 2017), e vuole essere un'introduzione alla corrente della Critica della Dissociazione del Valore, contribuendo al contempo al rinnovamento della teoria critica della società moderna. Un manuale, che non cerca di congelare le interpretazioni di una corrente le cui pubblicazioni sono in corso, e le cui letture sono talvolta divergenti. Il suo compito essenziale è quello di proporre delle porte di ingresso, di tracciare lo status della riflessione e del dibattito, e di aprire dei percorsi sia relativi alla trasformazione della critica marxiana dell'economia politica – con e oltre Marx e Adorno – sia sulla sua estensione su altri oggetti, campi e territori di riflessione, così come sulla sua ricezione e i suoi dialoghi con le diverse correnti intellettuali, autrici ed autori. Le proposte, si concentrano su nozioni, concetti e sulle loro declinazioni, così come su oggetti e temi, metodi e approcci, processi storico-sociali, eventi, momenti e periodi, ma anche su riviste, correnti di pensiero, opere e paradigmi con i quali si è confrontata la critica della dissociazione del valore. Le note coniugano un approccio concettuale con finalità didattica – destinato a coloro che desiderano familiarizzarsi con questa corrente; con approfondimenti sulla sua evoluzione, le sue fonti, le sue appropriazioni e gli usi empirici, nonché sulle discussioni critiche che le sue diverse interpretazioni hanno suscitato. Di seguito, una prima voce.

Ideologie della crisi
Le ideologie della crisi presentano diverse caratteristiche essenziali: il razzismo, la xenofobia, i fondamentalismi religiosi (o "religionismo"), l'antisemitismo, nei suoi diversi assemblaggi, l'antiziganismo, l'imbarbarimento del patriarcato produttore di merci (sia il maschilismo che l'ideologia "trad-fem", ossia il femminismo tradizionale), così come il "nazionalismo etnico terziario". In esse sono compresi anche i fascismi storici e le loro forme autoritarie contemporanee: da un lato, l'affermazione del primato dello Stato – in quanto amministratore del disastro e della gestione della crisi – da parte del moderno soggetto schizoide, sia homo politicus (cittadino, amministrato, soldato) che homo economicus; dall'altro, la difesa esclusiva dei valori "libertari" da parte del soggetto individuale del denaro. Qui, ritroviamo anche le grandi ideologie culturaliste, civilizzazioniste e religiose dell'affermazione del sé (occidentalismo, giapponesismo, neo-ottomanesimo, il panafricanismo, gli indigenismi "decoloniali" come quello di "Abya Yala", il civilizzazionismo cinese, ecc.), ma anche l'ideologia anti-occidentale sviluppata da certi soggetti capitalisti occidentali – a partire dal romanticismo e dal pensiero reazionario per arrivare a certi pensieri di sinistra – e infine l'ideologia del "capitale umano" delle classi medie e lavoratrici, declassato o minacciato di declassamento, arrivando fino a un populismo produttivista trasversale.
Le forme del pensiero e dell'azione, dal momento che i contenuti del pensiero (ideologie) e i modelli di azione (ruoli sociali) vengono qui compresi nei termini della loro costituzione interna capitalista-patriarcale, attraversata dal livello macro-sociale (Roswitha Scholz) della strutturazione sociale attraverso la relazione capitalistica di dissociazione-valore. Le produzioni ideologiche, sotto il capitalismo e sotto la sua forma-soggetto, che vengono sostenute dagli individui nelle diverse determinazioni particolari, esistono solo all'interno di queste forme sociali di base capitaliste-patriarcali (lavoro astratto, dissociazione, denaro, merce, valore, Stato, politica, ecc.), le quali sono sempre, come indicato da Marx, tanto "forme di esistenza" (Daseinsformen) reali – egli le chiama anche "determinazioni esistenziali" (Existenzbestimmungen) – quanto "forme oggettive di pensiero" (objectktive Denkformen). Pur tuttavia - situate come sono al meso-livello della strutturazione sociale (Scholz), e a quello delle determinazioni socio-istituzionali, simbolico-culturali e ideologiche delle società del sistema-mondo capitalistico -  queste produzioni ideologiche, e le formazioni ideologiche polari che esse costituiscono, sebbene attraversate dalle determinazioni del macro-livello, non possono essere derivate da esso in modo "economicistico", facendo uso della logica delle lotte di interessi, come se fossero viste come un a priori nel contesto-forma capitalistico-patriarcale, come viene supposto a partire dall'obsoleto schema della "sottostruttura" del marxismo tradizionale del vecchio movimento operaio (essi posseggono invece una loro propria autonomia). La "prassi pratica" dei soggetti sotto il capitalismo, in quanto pratica-feticcio dell'esecuzione dell'astrazione e della dissociazione capitalistica reale - la quale sfugge alla coscienza - viene tuttavia esercitata proprio attraverso la coscienza e grazie a un "trattamento ideologico" (Robert Kurz) delle contraddizioni, delle esperienze e delle sofferenze, tanto al meso-livello quanto al livello micrologico della riproduzione microfisica e socio-psichica da parte degli individui. In questo senso, ogni "prassi pratica" è sempre, correlativamente, una "pratica ideologica" [*1]. All'interno di questa coscienza interna, soggetta al suo contesto storico-sociale e ai "ruoli sociali" e alle "maschere del carattere" (Marx) – che gli individui indossano, ciascuno in modo diverso, nel processo di valorizzazione del valore, di dissociazione e di riproduzione microfisica della totalità sociale – queste pratiche ideologiche si sviluppano secondo i diversi stadi di sviluppo del capitalismo patriarcale. Esse vengono generate a partire dalla crisi del soggetto moderno, nella forma-contesto della socializzazione attraverso il valore, e costituiscono così dei gruppi di ideologie di crisi, le quali minacciano, a loro volta, di diventare una forza motrice nel processo di decomposizione (dell'imbarbarimento del patriarcato produttore di merci).

   Nella fase ascendente di questo processo, il primato spetta alle ideologie affermative-apologetiche (l'illuminismo borghese, l'occidentalismo, il giapponesismo, ecc.), che affrontano la contraddizione del Nuovo Mondo Sociale con la sua attrezzatura pre-moderna, in particolare per mezzo di potenti ideologie di legittimazione, le quali hanno accompagnato la storia della formazione del capitalismo. Durante le fasi di crisi e di decomposizione, le ideologie diventano soprattutto irrazionali e isteriche. Allora, esse servono come sollievo per la coscienza, che così viene dispensata dal dover esaminare criticamente le proprie condizioni di esistenza, e può affrontare la propria impotenza trattandola in modo ideologico (spesso facendo ricorso al risentimento). Queste ideologie di crisi, così come i loro "oggetti fobici" (le "élite", i "migranti", gli "ebrei", gli "assistiti", gli "estranei alla razza pura", gli "zingari", gli "uomini che diventano delle donne", ecc.), derivano dall'angoscia degli individui di fronte alle forme soggettive e oggettive delle proprie condizioni di esistenza interiorizzate.

   Il principale meccanismo irrazionale, è quello del capro espiatorio, una categoria che non bisogna usare in maniera trans-storica, ma andrebbe specificata all'interno di quelle che sono le forme sociali storicamente determinate. Anziché mettere in discussione le strutture sociali, impersonali e interclassiste, bloccate nel regno dell'astrazione reale capitalista, che gli individui eseguono su sé stessi e che interiorizzano come una "seconda natura" per mezzo dei diversi ruoli sociali e grazie alle maschere caratteriali che indossano, vediamo invece come la responsabilità di qualsiasi esperienza negativa (e di ogni sofferenza) viene proiettata sugli individui, gruppi o istituzioni, ritenuti responsabili di tutte le disfunzioni del sistema. Questa «tecnica di personificazione superficiale dei problemi e dei disastri» (Robert Kurz) costituisce sia quello che è un sollievo soggettivo per gli individui, i quali così si esimono da ogni autoanalisi critica (di chi sono veramente le "maschere di carattere" che si attaccano alla loro pelle?), sia una realtà oggettivamente radicata nel modo, nel quale l'essenza del capitalismo viene fenomenizzata. attraverso quella dicotomia che contrappone il concreto all'astratto. Essa colpisce tutti gli individui, dalle élite ufficiali alle diverse classi e strati sociali, le quali - come "soggetto automatico", "mostro animato" o "Jaggernaut capitalista" (Marx) - sono tanto gli esecutori quanto il fondamento quotidiano della relazione di capitale. Attraverso queste proiezioni superficiali, gli individui assimilano e gestiscono, di riflesso, affermativamente e repressivamente, le profonde contraddizioni della "seconda natura" capitalistica, che emergono nel processo di crisi. Come osserva Kurz: «O la base accusa i leader di essere sciocchi incompetenti, oppure ribalta la situazione e allora accusa la base di essere inefficiente, di non voler fare uno sforzo, ecc. Nella politica moderna, questo meccanismo di designazione del colpevole è in un certo senso il principio stesso del suo funzionamento. La folla insulta i politici, e i politici insultano la folla. Nessun partito di opposizione attribuisce i problemi sociali al sistema politico in quanto tale e al modo di produzione e di vita su cui si basa, ma lo fa sempre grazie al fatto che i suoi avversari attualmente detengono il potere, e che le loro politiche sono "cattive".»

   Nel capitalismo in crisi, le ideologie della crisi e le logiche dell'esclusione sociale - che sono sempre logiche possibilmente omicide, che dilagano - non derivano principalmente dalla posizione oggettiva delle classi sociali, ipostatizzate in istanze produttrici di ideologie specifiche, bensì dal modo in cui ogni singolo individuo vive e tratta ideologicamente l'esperienza negativa della crisi del soggetto – del lavoro, del diritto, della politica, della nazione, dei diritti sociali, ecc. - che ha interiorizzato, o da cui è escluso, perché dichiarato declassato o superfluo. Questa interiorizzazione soggettiva risulta da un insieme di determinanti sociali: il contesto di crisi, il modo in cui l'essenza del capitalismo si manifesta nelle sue forme fenomeniche, e la costituzione del sistema di disposizioni incorporate dall'habitus sociale (soggetto-forma moderno), con le sue determinazioni derivate, percepite come "superstrati geologici". Questi strati si manifestano attraverso le varie "maschere di carattere" che gli individui indossano, in quanto "portatori" ed "esecutori" della logica feticistica della valorizzazione-dissociazione. La soggettivizzazione dell'esperienza negativa della sofferenza sociale, vissuta dall'individuo sotto la crisi del capitalismo, dipende anche dalla sua interiorità. Quest'ultima non è annullata dall'incorporazione di strutture o dalla sussunzione dell'individuo nella forma-soggetto. Al livello di quello che Roswitha Scholz chiama livello micro-logico della strutturazione del mondo capitalistico-patriarcale, la singolarità individuale gioca un ruolo cruciale, a seconda del modo in cui l'individuo è stato plasmato fin dalla più tenera età e della sua capacità di non identificarsi totalmente con ciò che egli realizza come "esecutore" della teleologia del fine in sé della moltiplicazione del denaro, anche se questa sua interiorità rimane «fragile, solitaria e vacillante, costantemente rimandata a causa della sua impotenza» (Jean-Marie Vincent).

Bibliografia : Kurz, "Gris est l’arbre de la vie, verte est la théorie. Le problème de la pratique comme éternelle critique tronquée du capitalisme et l’histoire des gauches", Albi, Crise & Critique, 2022 ; Kurz, «Populisme hystérique. Confusion des sentiments bourgeois et chasse aux boucs émissaires », in "Avis aux naufragés. Chroniques du capitalisme mondialisé en crise", Paris, Lignes, 2005, p. 48-49 ; Kurz, «L’anti-impérialisme et l’idéologie de crise antisémite », nel libro collettivo, "Le Péril antisémite. Antisémitisme structurel dans la modernité capitaliste", Albi, Crise & Critique, 2025 ; Clément Homs, «Les chiens du peuple du capital », dans Jaggernaut, n°1, 2019 ; Mark Loeffler, «Populistes et parasites. Sur les logiques des producérismes », in Jaggernaut, n°1, 2019 ; William Loveluck, « Populismes économiques », Jaggernaut, n°1, 2019 ; Robert Kurz et Roswitha Scholz, "Quand la démocratie dévore ses enfants. Remarques sur les fascismes historiques et le nouvel extrémisme de droite", Albi, Crise & Critique, 2024 ; Ernst Lohoff, « L’exhumation de dieu. De la Nation sacrée au Royaume céleste global », in Krisis, "L’Exhumation des dieux", Albi, Crise & Critique, 2021 ; JustIn Monday, "La Double nature du racisme", Albi, Crise & Critique, 2023 ; Moishe Postone, « Histoire et impuissance », Critique du fétiche-capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche, Paris, PUF, 2013 ; Roswitha Scholz, Homo sacer et le « tsiganes ». L’antitziganisme – Réflexions sur une variante essentielle – et donc oubliée – du racisme moderne, Albi, Crise & Critique, 2025 ; Marc Angenot, Les idéologies du ressentiment, Montréal, XYZ, 1997.

[*1] - Robert Kurz, "Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde.  Il problema della prassi, come evergreen di una critica tronca del capitalismo, e la storia delle sinistre" - in https://francosenia.blogspot.com/2014/10/la-passione-per-la-prassi-e-lo.html e segg.

lunedì 29 settembre 2025

Strade per la Rivoluzione…

Da tempo, Karl Marx aspettava una rivolta contro l'impero europeo
- di Kieran Durkin -

Alcuni critici hanno accusato Karl Marx di aver forzato la storia mondiale in un quadro ristretto che presentava il capitalismo europeo come un modello di sviluppo universale. Uno sguardo più attento agli ultimi scritti di Marx mostra quanto questo stereotipo sia lontano dalla verità. Nel suo nuovo libro "Karl Marx in America", Andrew Hartman suggerisce che stiamo vivendo quello che è un "quarto boom" del marxismo nel mondo anglofono. Sebbene un'idea del genere possa sembrare fantasiosa, se vista in termini di movimenti sociali e politici, quando la prendiamo come un riferimento all'impegno intellettuale rispetto al pensiero e agli scritti di Karl Marx, essa allora cattura quella che è una verità definita. L'anno scorso, la Princeton University Press ha pubblicato, dopo decenni, la prima nuova traduzione inglese del I° volume del Capitale, e questo mentre "Slow Down: The Degrowth Manifesto", di Kohei Saito, è stato pubblicato con enorme clamore. Oggi, nel 2025, il libro di Hartman fa scalpore. e questo nel mentre che "The Late Marx's Revolutionary Roads" di Kevin Anderson sembra ora dimostrare quale sia la continua rilevanza e il fascino di Marx e del marxismo.

Un Marx multilineare
"Revolutionary Roads" riprende da dove il precedente libro di Anderson, "Marx at the Margins", si era interrotto quindici anni fa. La pubblicazione di "Marx ai margini" ha costituito uno sviluppo fondamentale riguardo la ricerca su Marx. Attingendo ai suoi scritti giornalistici, alle sue lettere e ai suoi ultimi quaderni sulle società non europee e pre-capitaliste, ha sfidato la visione diffusa di Marx che lo vuole come un pensatore deterministico, con un modello unilineare di storia che veniva esemplificato, nelle parole di Edward Said, come una "visione omogeneizzante del Terzo Mondo". Kevin Anderson ha dimostrato che gli scritti di Marx, se presi a tutto tondo, dimostrano che la sua non è una comprensione unilineare e deterministica della storia e della cultura umana. E infatti, in essa si può trovare un resoconto molto più aperto, multilineare, e con un acuto apprezzamento della diversità umana. "Revolutionary Roads" amplia e perfeziona un tale quadro. Il libro si basa sull'accesso a dei documenti che precedentemente non erano disponibili, e che sono stati ottenuti grazie alla collaborazione di Anderson al progetto Marx-Engels Gesamtausgabe (MEGA). Questi documenti includono tutti gli appunti scritti da Marx negli ultimi anni della sua vita e che riguardano le opere antropologiche di Lewis Henry Morgan, Maksim Kovalevsky e altri. Il tema della multi-linearità è centrale in "Revolutionary Roads". In particolare, Anderson interroga la nozione di «"epochen" progressiva»; vale a dire, l'idea di fasi successive della società umana, la quale si basa su ciò che Marx avrebbe descritto come dei distinti «modi di produzione». Marx e Frederick Engels, articolarono per la prima volta questo schema ne "L'ideologia tedesca" (un'opera composta nel 1845-46 e che rimase inedita durante la loro vita). In essa si postula tutta una serie di stadi di sviluppo storico, segnati dai movimenti che portano da un modo di produzione dominante all'altro; dove vediamo come il modo di produzione tribale, o di clan, cedere il passo all'antico modo di produzione schiavista della Grecia e di Roma, per poi essere soppiantato a sua volta dal modo di produzione feudale, quindi dal modo di produzione borghese e poi, Infine, dal modo di produzione comunista o socialista. La questione del feudalesimo – in particolare, cioè, nella misura in cui possiamo generalmente descrivere le società di classe precapitaliste in tutto il mondo vedendole come "feudali" – è fondamentale ai fini dell'argomentazione di Anderson.

Capire il Feudalesimo
L'idea stessa di un simile schema, ha sempre costituito un terreno di contesa negli studi marxisti e oltre, data la sua apparente affinità con le forme illuministe della cosiddetta "teoria stadiale". Come sottolinea Anderson, tuttavia, l'intera nozione di modi di produzione, in quanto epochen progressive,  in Marx è sotto-determinata: ovvero, possiamo parlare di essi come progressivi in senso tecnologico, che rappresentano una sequenza di sviluppi tecnologici o sociali l'uno sull'altro, o come progressivi nel senso di seguirli uno dopo l'altro su scala temporale. Tuttavia, ci sono problemi con entrambe le interpretazioni. Per quanto riguarda il primo, Anderson nota come la discussione di Marx sul feudalesimo sia punteggiata da tutta una serie di frecciate contro il progressismo illuminista, frecciate che rendono non plausibile una tale lettura. Mentre per quanto riguarda il secondo, il fatto che Marx abbia parlato di un «modo di produzione asiatico», il quale si trovava al di fuori di quello che sarebbe il modello di sviluppo europeo, getta interamente nello scompiglio tutto lo schema. In ogni caso - al tempo del Capitale - il linguaggio relativo all'epochen progressista scompare completamente. Infatti, se consideriamo tutti gli scritti, le lettere, gli appunti di ricerca, e così via, di Marx, nei quali la discussione sul feudalesimo occupa in realtà uno spazio piuttosto ristretto, diventa allora, come nota Anderson, «doppiamente sbagliato considerare i primi modi comunali di produzione comunali, quell'antico greco-romano e quello asiatico come se fossero in qualche modo periferici rispetto all'opera di Marx, mentre allo stesso tempo viene fatto, del feudalesimo, il centro di essa». Nei quaderni etnologici di Marx, e in alcuni dei suoi scritti successivi - tra cui l'edizione in lingua francese del Capitale -  lo vediamo quasi sforzarsi di criticare l'universalizzazione del feudalesimo europeo, inteso a coprire la storia delle società non europee. Anderson dimostra quale sia la traiettoria di studio di Marx, la quale ci indica che egli si trovava nelle prime fasi di quello che sarebbe stato poi un impegno significativo riguardo le strutture e l'ambito delle società non europee, il quale avrebbe potuto diventare più centrale nei successivi volumi incompiuti del Capitale, in particolare il discusso volume sul mercato mondiale. Nella sua risposta, del 1877, a un articolo apparso su una rivista russa che commentava criticamente lo schizzo storico relativo alla «cosiddetta accumulazione primitiva» - offerto nel I° Volume del Capitale - Marx se la prende direttamente con l'autore, un certo Žukovskij, il quale - si lamenta Marx -  «si sente obbligato a trasformare il mio schizzo storico, della genesi del capitalismo nell'Europa occidentale, in sorta di quella che sarebbe una teoria storico-filosofica del percorso generale fatalmente imposto a tutti i popoli, qualunque siano le circostanze storiche in cui essi si trovano». Prove del rifiuto di Marx nei confronti di questa lettura unilineare, si possono trovare anche in un passaggio che Anderson cita, traendolo dalla successiva edizione francese del Capitale: «Ma la base di tutto questo sviluppo, è l'espropriazione dei coltivatori. Finora esso è stato portato avanti, in maniera radicale, solo in Inghilterra: e di conseguenza, nel nostro schizzo questo paese svolgerà necessariamente un ruolo di primo piano. Ma sono tutti i paesi dell'Europa occidentale ad attraversare il medesimo sviluppo, anche se, a seconda dell'ambiente particolare, cambia il loro carattere locale, o viene limitato a una sfera più ristretta, o mostra un carattere meno pronunciato, o segue un diverso ordine di successione.»

Lavoro sociale
Una questione correlata riguarda l'importanza dello studio di Marx sulle relazioni di proprietà comunitarie – o, piuttosto, come dice Anderson, sulle «relazioni sociali comunitarie», o forme sociali. Una distinzione del genere, da parte di Anderson, non è un esercizio di spaccatura del capello. Come osserva egli stesso, sarebbe sbagliato dire che Marx,  nei suoi studi sulle società non europee, si sia concentrato sulla proprietà comune di per sé, dal momento che molte di queste società «avevano poco, se viste nei in termini di proprietà di qualsiasi tipo, tranne che per delle piccole quantità di proprietà personale». Più significativamente, è la forma di lavoro sociale utilizzata per sostenere la società - piuttosto che le forme di proprietà stesse - a essere, per Marx, la preoccupazione più essenziale. Le forme di proprietà, funzionano più come caratteristiche secondarie, derivate da questa forma precedente. La distinzione è utile, e non da ultimo per dissipare l'argomento - che troviamo nell'opera di Proudhon e di altri - che dipinge la proprietà come una forma di furto. Per Marx, l'idea che «la proprietà è furto» si basa su una confusione elementare: non possiamo parlare di "furto" in relazione a qualcosa che non era già proprietà. Affinché qualcosa possa essere rubato, deve prima appartenere a qualcun altro. Pertanto, Marx sostiene che le relazioni di proprietà sono il risultato di un processo di trasformazione di relazioni sociali più ampie, e del ruolo del lavoro: in particolare, il processo violento di separazione dei produttori dall'accesso diretto ai mezzi di produzione, e il loro coinvolgimento in nuove relazioni sociali (per esempio, come schiavi o come lavoratori salariati). Solo allora si potrà avere la proprietà privata, vista come forma duratura di relazione sociale. Marx lo espone nell'ultimo capitolo del I° Volume del Capitale, ne "La teoria moderna della colonizzazione", che appare nella sezione dedicata alla «cosiddetta accumulazione primitiva». In questo capitolo, Marx racconta la triste storia del signor Peel, un industriale inglese che fraintese il desiderio umano di un lavoro non alienato. Il signor Peel, aveva trasportato i mezzi di produzione, insieme a un gruppo di potenziali lavoratori salariati, a Swan River, nell'Australia occidentale, fornendo loro tutto ciò che sarebbe stati necessario per l'insediamento di un'impresa incipiente. Tuttavia, con grande orrore e indignazione del signor Peel, i futuri lavoratori salariati lo abbandonarono prontamente non appena arrivati a destinazione. Essi si misero in proprio, esercitando così l'elementare diritto all'autodeterminazione della propria riproduzione quotidiana e delle loro condizioni di esistenza. Sul fatto che dovremmo vedere la «cosiddetta accumulazione primitiva» come se essa fosse un processo storico o continuo, c'è un dibattito di lunga data . Veniva limitato al periodo in cui il capitale emergeva dal non-capitale attraverso quello che era uno strano processo di alchimia: nel corso della "preistoria" del capitale, come la chiama Marx?!?? Oppure si tratta di un fenomeno esteso, fino ancora a oggi esemplificato dal continuo sviluppo del capitale in zone di non-capitale? Come mostra Anderson, le note di Marx descrivono l'accumulazione avanzata e matura del capitale, vedendola come funzionante a fianco - e necessariamente richiedente - di quella violenza di Stato palese, che serve a poter trasformare le relazioni sociali comunitarie. L'India ne è un chiaro esempio, e in misura minore lo è l'Algeria, ma è tuttavia degno di nota il fatto che Marx ne discuta, vedendola anche come un fenomeno storico imminente nel caso della Russia. Come afferma Marx, nella sua lettera alla leader populista russa Vera Zasulich: «ciò che minaccia la vita della Comune russa, non è né un'inevitabilità storica, né una teoria; bensì è l'oppressione e lo sfruttamento dello Stato da parte di capitalisti intrusi».

Forme comunitarie
Uno dei temi di "Revolutionary Roads", è l'acuta attenzione posta da Marx alla resistenza al dominio coloniale. Di particolare importanza qui è il ruolo assunto dalle "comuni rurali"; Marx commenta, non solo le comuni rurali dell'India, ma anche quelle dell'Algeria e delle Americhe. Il suo elogio per tale resistenza, sembra essere in contrasto coi precedenti commenti che Marx faceva in un articolo del 1853, dove descriveva la "primitiva" comune di villaggio come se essa fosse «il solido fondamento del dispotismo orientale», laddove il colonialismo avrebbe giocato un ruolo progressivo nel portare alla sua dissoluzione. Precedentemente, Anderson aveva discusso questo punto in "Marx at the Margins", dove aveva contestualizzato quei commenti, dimostrando il progressivo spostamento di Marx, negli anni successivi, verso una posizione più direttamente anticolonialista. Nel suo nuovo libro, ci fornisce un senso più profondo del come Marx abbia sviluppato questa posizione anticoloniale. La cosa appare particolarmente evidente nel fascino che Marx subiva, proveniente dalla persistenza di forme sociali comunitarie; dalla Russia all'Irlanda e persino alla Germania. Leggendo Anderson, abbiamo la sensazione palpabile che Marx vedesse le forme sociali comunitarie, anche laddove rimangono solo degli elementi vestigiali, in quanto fondamentali per poter comprendere «la negazione della negazione» del capitale, suggerendo così la forma della futura società comunista. Non è un caso che lo studio di Marx sulla Comune tradizionale si intensifichi negli anni successivi alla Comune di Parigi del 1871. Sarebbe sbagliato vedere l'interesse di Marx per l'antica comune come se questo fosse un'identificazione romantica con quelle forme arcaiche. Anderson mostra Marx che sottopone gli elementi patriarcali di quelle forme, in particolare, a una critica rigorosa, mentre allo stesso tempo ne loda gli elementi più progressisti. In realtà, la principale preoccupazione di Marx non sono le antiche forme comunitarie nelle loro versioni precoloniali. Prendendo l'India come esempio, Anderson osserva che il «punto dialettico chiave» ai fini della teorizzazione di Marx arriva solo «dopo la sostanziale penetrazione del colonialismo britannico, dopo che queste forme comunitarie sono state sconvolte dagli aspetti delle relazioni sociali capitalistiche imposte dagli inglesi». Marx è preoccupato, crede Anderson, di come questo processo abbia avviato dei «nuovi tipi di pensiero e di organizzazione che possono costituire la base di un nuovo tipo di soggettività», che poi si rivelerà pericolosa per le forze colonizzatrici. Se era davvero questa l'osservazione di Marx, allora ciò dimostra, alla luce della storia del XX secolo, con la sua miriade di rivoluzioni anticoloniali, un'innegabile preveggenza.

Strade per la rivoluzione
Il capitolo conclusivo di Anderson - dove affronta la questione della comprensione di Marx della trasformazione rivoluzionaria e di come essa sia cambiata nel tempo -  è per molti versi il fulcro finale del libro. Almeno fino alla metà degli anni '50 dell'Ottocento, era evidente che Marx considerasse le nazioni industrialmente sviluppate, quali la Gran Bretagna, come se esse fossero il probabile luogo della rivoluzione, che si sarebbe poi diffusa nelle periferie del capitalismo in paesi come l'Irlanda e la Polonia. Alla fine degli anni '60 dell'Ottocento, tuttavia, era arrivato a capovolgere tale visione, sostenendo che sarebbe avvenuto a causa degli eventi in Irlanda, che la rivoluzione sarebbe stata innescata in Gran Bretagna, da dove poi si sarebbe diffusa in tutto il mondo. In "Revolutionary Roads", Anderson dimostra come la Russia sia arrivata, in seguito, ad assumere per Marx il posto dell'Irlanda e della Polonia, come pietra d'angolo della rivoluzione mondiale. In una lettera del 1879 al leader socialista francese Jules Guesde lo dice chiaramente: «Sono convinto che questa volta l'esplosione della rivoluzione, non comincerà in Occidente, ma piuttosto in Oriente, in Russia». Secondo Marx, la rivoluzione si sarebbe diffusa, per prima, dalla Russia, e poi alla Germania e all'Austria: «E' della massima importanza che nel momento di questa crisi generale in Europa,ci veniamo a trovare con il proletariato francese già organizzato in un partito operaio, e pronto a svolgere il suo ruolo. Per quanto riguarda l'Inghilterra, gli elementi materiali per la sua trasformazione sociale sono sovrabbondanti, ma manca uno spirito propulsivo. Questo non si formerà, se non sotto l'impatto dell'esplosione degli eventi sul continente.» Allo stesso tempo, vediamo come la comune antica divenga centrale nel pensiero di Marx riguardo la rivoluzione stessa. Il Marx che Anderson ci mostra, facendocelo vedere nei suoi ultimi anni, si sforza di respingere l'idea che gli sviluppi in Gran Bretagna e nell'Europa occidentale debbano essere replicati ovunque, per far sì che la transizione al comunismo sia possibile. Egli suggerisce chiaramente che un futuro socialista può emergere a partire dalle comuni di villaggio, a condizione che le influenze che gravano su di loro, a partire dall'invasione capitalistica, possano essere superate: «Può l'obshchina russa - una forma, anche se fortemente erosa, di quella che era la proprietà comune primordiale della terra - passare direttamente alla forma superiore, comunista, della proprietà comune? O deve prima passare attraverso lo stesso processo di dissoluzione che segna lo sviluppo storico dell'Occidente? L'unica risposta oggi possibile è: se la rivoluzione russa diventasse il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente - in modo che le due si realizzino a vicenda - ecco che allora l'attuale proprietà fondiaria comune russa potrebbe servire come il punto di partenza per uno sviluppo comunista.» Un ultimo contributo offerto dallo studio di Anderson, è quello che mette in primo piano i temi centrali della "Critica del programma Gotha" di Marx, che Anderson ha co-tradotto, insieme a Karel Ludenhoff, nel 2023. Quella edizione, con un'eccellente introduzione di Peter Hudis, si concentra sulla problematica traduzione del termine tedesco "Staatswesen" ("corpo politico"), il quale viene reso in maniera errata, nella maggior parte delle traduzioni inglesi, come "stato". Come notano Ludenhoff e Anderson, il resoconto di Marx della futura società comunista si basa sulla sostituzione dello Stato con il controllo democratico diretto sulle necessarie "funzioni statali" [Staatsfunktionen]. È per questo motivo che Marx, ne "la Guerra civile in Francia", ha parlato della Comune vedendola  come «una rivoluzione contro lo Stato» e del «riassorbimento del potere statale da parte della società, come della sua stessa forza vitale». In questi ultimi scritti, Marx lascia un po' troppo poco chiaro il processo preciso, attraverso il quale la Comune russa e l'Occidente industriale avrebbero interagito per riuscire a modernizzare la forma della Comune. Eppure essi, presi insieme, dovrebbero sfatare l'idea secondo cui lui vedesse come l'alternativa al capitalismo, una forma statalista di socialismo. Lo studio di Anderson, rivela così un Marx marcatamente diverso dalla figura dogmatica che tanti critici e ammiratori hanno dipinto, uno la cui flessibilità di pensiero, ispirata dall'attenzione alle pratiche sul campo, così come dall'immersione in una vasta gamma di letture accademiche, dovrebbe essere presa molto più sul serio. "Revolutionary Roads" ci invita implicitamente a trasporre la pratica di Marx nel nostro momento, prestando molta attenzione alle diverse pratiche e possibilità sociali, cercando non solo l'evidenza della regressione, così evidente intorno a noi, ma anche le molte forme di resistenza ad essa.

- Kieran Durkin - Pubblicato su Jacobin il 14/9/2025 -

domenica 28 settembre 2025

Una “Rivoluzione Operaia” militare !??!!!

Louise Michel, la Comune di Parigi e Robert Kurz: uscire dai Miti e dalle Leggende
- Un estratto da "Il Libro nero del Capitalismo", di Robert Kurz -

   L'interpretazione della Comune, la cui esistenza, da marzo a maggio 1871, durò solo poche settimane e si concluse con un bagno di sangue, è stata determinata (e continua ad esserlo) -  da entrambe le parti - da alcune leggende e mitizzazioni apologetiche, le quali, lungi dal toccare il fondo del problema sociale, sono imprigionate in una costellazione storicamente oggettivata. Il fatto che la Comune abbia avuto il carattere di una "rivoluzione operaia" militare, e che abbia dato luogo a dei violenti scontri è stato interpretato, dai regimi capitalisti liberal-conservatori (e da tutti i loro continuatori ideologici), come la fine della "sicurezza" della proprietà, e delle forme delle relazioni capitalistiche, diventate, fin dall'epoca di Bentham, un bisogno dell'anima capitalistica; e persino come la minaccia della “fine del mondo”, di fronte alla quale ogni mezzo di repressione sanguinosa era giustificato nell'interesse del “salvataggio della società”. In definitiva, l'evento della Comune fu l'occasione per affrontare la socialdemocrazia emergente con lo stesso atteggiamento marziale riservato alle precedenti rivolte sociali, e ciò nonostante la sua origine e il suo carattere che erano molto diversi.

   Viceversa, l'apologetica socialista ha fatto della Comune la principale testimone della propria “pericolosità”, mentre la sinistra radicale, più tardi, l'ha idealizzata per farne l'icona di idee rivoluzionarie, tanto vaghe quanto irrealizzabili. Sia da una parte che dall'altra, gli eventi venivano guardati con occhiali sociologicamente riduttivi, e limitati alle categorie borghesi della volontà: il factum brutum sociologico, il fatto che i lavoratori salariati, o i loro rappresentanti politici, entrassero direttamente sulla scena del potere per imporre una volontà politica, bastava da sé solo a seminare il panico tra le élite borghesi liberali-conservatrici, e a farle infuriare. Ciò che riemergeva qui, era il vecchio pregiudizio ereditato dagli stati feudali che, come nei tempi antichi ormai passati, identificava erroneamente la forma sociale della “bella macchina” con il potere soggettivo di uno strato sociale, e di ambienti, élite e “famiglie” ben determinate; un potere che il mostro del fine in sé capitalista aveva già superato da un pezzo. Per contro, in un governo o in un co-governo di lavoratori salariati - e delle loro organizzazioni in quanto lavoratori salariati - i vari socialisti vedevano già di per sé una sorta di garanzia di emancipazione sociale. Una volta che il “partito dei lavoratori” (o addirittura il “partito del Lavoro”) avesse ottenuto le redini del potere, il capitalismo sarebbe finito solo per questo: questo era ciò che si pensava in entrambi gli schieramenti. Per contro, le forme sociali e i rapporti strutturali “impersonali” del modo di produzione capitalistico - (per non parlare di chi ne era rispettivamente il portatore soggettivo o il portatore sociologicamente identificabile), così come erano emersi attraverso un processo sistemico cieco plurisecolare, ed erano stati formulati in modo positivo dalle ideologie affermative di Hobbes e di Mandeville fino a Malthus, List, ecc. -  rimanevano quasi al di fuori da ogni riflessione, o erano stati, invece, interiorizzati da molto tempo. Se la riflessione teorica sugli inizi del capitalismo, dal Rinascimento, si era inizialmente concentrata su delle questioni di ordine etico-morale o antropologico, arrivando fino all'adorazione della macchina-mondo capitalista sulla falsariga della teologia del sistema, nel caso di Adam Smith, Kant e Hegel, nella seconda metà del XIX° secolo, invece, l'interesse teorico si spostò nuovamente: con il venir meno del carattere nuovo e inaudito della divinità  sistemica secolarizzata, e delle sue categorie reali (lavoro astratto, mercati del lavoro, socializzazione attraverso il mercato, apparato statale moderno, Nazione, ecc.), si sedimentano come evidenze quasi ontologiche le categorie sociali o “classi” del sistema, nel frattempo formatesi e stabilizzatesi, così come la loro azione soggettiva sul terreno politico ed economico, assumendo un ruolo di primo piano. [...]

  Nel 1870, e nella successiva “storia del movimento operaioche ne seguì, si continuava a guardare all’evoluzione e agli eventi storici attraverso gli occhiali di un positivismo sociologizzante, attribuendo la pericolosità anticapitalista della Comune di Parigi soprattutto alla comparsa della “classe operaia armata”, senza però riflettere sulla sua relazione, consapevole o meno, con le strutture capitalistiche. Si considerava infatti irrilevante la questione del motivo per cui la classe operaia parigina avesse preso le armi; l'importante era che fosse stata proprio quella categoria sociale di individui, quasi metafisicamente responsabili, a farlo. Si sarebbe tuttavia dovuto trovare quantomeno strano che, per tutto il Secondo Impero, l'antagonismo sociale in Francia non avesse mai generato disordini sociali di grande entità simili a quelli della prima metà del secolo, o persino al periodo rivoluzionario della fine del XVIII secolo. Di fatto, non fu un movimento sociale di massa quello che, di per sé, portò direttamente alla Comune, quanto piuttosto la sconfitta francese nella guerra contro la Germania sotto l'egida della Prussia. Una volta che Napoleone III era stato fatto prigioniero di guerra, e le truppe tedesche marciarono su Parigi, si vide chiaramente quanto il Secondo Impero – vetusto, marcio dall'interno e corrotto fino al ridicolo – fosse allo stremo. Il grido che, “come un tuono”, scuoteva la Francia era di natura profondamente nazionalista e patriottica, e metteva solo incidentalmente all’ordine del giorno la questione sociale, e anche così lo faceva comunque sempre nel quadro del sistema mercantile e del suo “lavoro astratto”. Si veniva così a creare una situazione paradossale, preludio a un'intera epoca di catastrofi. Il governo di una borghesia ufficiale demoralizzata, incluso il Parlamento e la sua frazione di sinistra, cominciò a temere proprio i sentimenti patriottici delle masse popolari, si rifugiò a Versailles e finì per offrire la capitolazione al nemico “esterno”. I lavoratori delle fabbriche, i piccoli artigiani, i piccoli commercianti, ecc., così come le varie organizzazioni ideologiche (proto-socialdemocratiche) del “Lavoro” , scossi fin nel profondo, difesero il principio formale capitalista della Nazione, e si mostrarono pronti al sacrificio supremo sull’altare della Patria. Inconsciamente, Prosper Lissagaray, membro e storico della Comune, riassume questa situazione nella sua polemica con la sinistra parlamentare borghese: «Bastava una spinta per abbattere questo rudere dell'Impero. [...] Il Popolo era venuto d'istinto (!) [...] a restituire la Nazione a se stessa (!). La sinistra lo respingeva, rifiutava di salvare il Paese con una rivolta, limitando i propri sforzi a una proposta ridicola, abbandonando ai mamelucchi il compito di salvare la Francia. […] Per tre settimane si tornò a vivere ai tempi del Basso Impero. La Nazione scivolava, immobilizzata, nell'abisso al cospetto delle sue classi governanti silenziose, immobili […]».

   Tutte le dichiarazioni della Comune, quelle della Guardia Nazionale (una milizia composta in gran parte da operai) e quelle delle varie organizzazioni socialiste, trasudavano di quel patriottismo e di quel nazionalismo, i quali culminano sempre nel pio desiderio: "Morire per la Patria!". È vero, a volte traspare, nel linguaggio ampolloso dell'epoca, la speranza che “le Patrie” possano un giorno unirsi in una “sublime personalità collettiva: l'Umanità”, ma queste dichiarazioni non erano altro che un ornamento decorativo apposto su un patriottismo sciovinista che aveva radici profonde. Se il governo borghese ufficiale, dopo la fine politica e militare di Napoleone III, si fosse applicato con sufficiente energia a ”difendere la Patria”, la Comune di Parigi non sarebbe mai esistita. Si trattava semplicemente, come suggerisce il nome, dell'amministrazione municipale della città di Parigi - circondata dalle truppe prussiano-tedesche - la quale in seguito a nuove elezioni era controllata da alcuni gruppi socialisti e continuava a condurre la guerra contro la volontà del governo rifugiatosi a Versailles. Fu solo in questa costellazione che il confronto riguardante la vera “difesa della Patria” assunse anche la forma di un conflitto sociale e ideologico. Ovviamente, la Comune non ebbe il tempo di riformare radicalmente l'ordine costituito. Ma al di là di vaghe formulazioni, per farlo non esisteva, né in Francia né altrove, alcun programma che andasse oltre le idee socialdemocratiche, peraltro già limitate, e segnate all'epoca, dal capitalismo industriale. Il fatto che, per esempio, la Comune facesse rimuovere i crocifissi, o che venisse offerto l'arcivescovo di Parigi come riscatto in cambio dei comunardi condannati a morte da Versailles (cosa che fu rifiutata!), dimostra solo fino a che punto le idee rivoluzionarie rimasero prigioniere del livello e dell'orizzonte concettuale dello sconvolgimento borghese-liberale. A parte simili azioni marginali, uscite direttamente da un libro illustrato, le misure anticipatrici della Comune rimasero più che modeste, e non andarono al di là del quadro fissato dal modo di produzione capitalistico. Ciò che a rigor di termini fa drizzare le orecchie sono state le misure di democrazia radicale del sistema politico: la Comune decise la revocabilità in qualsiasi momento degli eletti e dei funzionari ("mandato imperativo") e il famoso "salario operaio" per i funzionari pubblici; la prima misura era puramente formale, la seconda puramente quantitativa.

   Certo, Karl Marx, spinto dalla "eroica rivoluzione dei lavoratori", descrisse con entusiasmo tutte queste riforme politiche come se si trattasse di un progresso storico decisivo: per la prima volta, non si sarebbe trattato «mai più […] di trasferire la macchina burocratica e militare in altre mani, come era sempre stato finora, bensì [di] distruggerla» e Lenin, rappresentante e futuro ideologo della "Rivoluzione francese dell'Est" e della "modernizzazione di recupero", definisce, in una formula rimasta famosa, il modello della Comune come «uno Stato che non è più del tutto tale».  Ma il semplice democraticismo radicale, che si riferisce sempre e comunque alle categorie non superate del sistema produttivo di merci, non può intaccare il Leviatano più di quanto possa intaccare la macchina economica mondiale. "Revocabilità" e "salario operaio", non riguardano qualitativamente lo Stato in quanto macchina di regolazione del "lavoro astratto", ma evolvono in quanto misure all'interno dell'orizzonte incompreso del sistema. Le divergenze tra ”riformisti” (nel senso occidentale socialdemocratico successivo del termine) e ”rivoluzionari” (nel senso successivo, quasi giacobino, della Rivoluzione d’Ottobre) sono, a questo proposito, solamente relative. Ciò che lo stesso Marx celebrò come la grande scoperta spontanea della Comune, come il fatto di “distruggere” la vecchia macchina statale (anziché limitarsi a riprenderne il controllo); il marxismo tutto questo l'ha sempre inteso solo in senso puramente sociologico, e quindi in modo tronco, come “radicalità” vista solo in relazione alla “estirpazione” di determinati gruppi sociali di persone, vale a dire, la cosiddetta borghesia e i suoi funzionari.

   Si trattava in fondo del modello della rivoluzione borghese, la cui versione “radicale” aveva cacciato, o decapitato, il gruppo sociale costituito dalla nobiltà. La radicalità non si riferiva a una "distruzione" dello Stato, vista in senso superiore, qualitativo, e a un'abolizione del sistema di produzione delle merci, del suo "lavoro astratto" e, logicamente quindi, alla soppressione dell'attività regolatrice di un apparato statale a esso collegato. È anche possibile che Marx- che nella sua teoria aveva creato i concetti critici di “lavoro astratto” e di feticismo moderno - abbia potuto pensare, lui, a una cosa del genere, in un angolo della sua mente; ma nella situazione concreta della Comune, schiacciata da una repressione sanguinosa, e travolta dal pensiero sociologicamente limitato del movimento operaio socialdemocratico, non era più in grado di formulare il problema in maniera esplicita. Il radicalismo formale della “distruzione” della macchina statale, in senso sociologicamente tronco, finiva per essere più o meno la stessa cosa della variante riformista che mirava solo a riprendere in mano l’apparato statale esistente, o a parteciparvi: in entrambi i casi, il risultato non poteva che essere lo stesso, ovvero, che nel contesto del sistema mercantile non abolito, sarebbero stati i funzionari, essi stessi provenienti dal movimento operaio, a rappresentare il Leviatano. Sostanzialmente, la differenza tra i “giacobini” formalmente radicali del movimento operaio e i riformisti derivava solo dal carattere storicamente asincrono dello sviluppo globale: la variante rivoluzionaria giacobina era più adatta ai problemi relativi alla “modernizzazione di recupero” nella periferia capitalista, dato che gli elementi del sistema mercantile potevano essere creati dal nulla solo da parte di regimi dittatoriali, con procedure accelerate. La variante riformista, invece, si adattava meglio ai problemi di un'economia industriale di mercato, nei centri dell'Europa occidentale, già in parte formata nelle sue linee generali, laddove si trattava piuttosto di migliorare, all'interno del sistema, la condizione delle masse già abituate al lavoro salariato. La Comune di Parigi si ritrovò in qualche modo ancora tra queste due possibilità; ma nei suoi decreti non si parlò mai di una critica emancipatrice dal “lavoro astratto”. Questo è particolarmente evidente in alcuni dei suoi decreti sociali ed economici.[...]

- Robert Kurz - dal  IV° Capitolo - "Assolutismo Socialista" del "Schwarzbuch Kapitalismus"; Eichborn, 1999 -

fonte: @Palim Psao

sabato 27 settembre 2025

Il Mago !!???

   Guy Debord non è stato sepolto. Secondo quelle che sono state le sue volontà, i suoi resti sono stati cremati, e poi dispersi nel vento in uno dei suoi amati lungosenna. Il messaggio è chiaro: nessun posto, dove andare ad adorare la sua memoria, nessun luogo dove celebrare importanti anniversari, o lasciare un qualche segno di apprezzamento, fosse solo una rosa! Insomma, un rifiuto dell'eternità e di una posterità: e il suo abbraccio a tutto ciò che è effimero; e alla sparizione. Nessuno potrà mai dire che probabilmente Debord ora si starà rigirando da qualche parte nella tomba! Oppure, anche solo accennare al fatto che starà ridendo dentro la sua fossa. Insomma, cose del genere. Eppure, tuttavia, a quasi trentun'anni dal suo suicidio - commesso all'età di 62 anni - si può essere comunque certi che che non starà riposando pacificamente!

   Dimenticare no, non è stato certo dimenticato, e a quanto pare, ancor meno, sembra che egli abbia raggiunto l'oblio. Le sue opere continuano a motivare, e ad ispirare. La Psico-Geografia e la Deriva Urbana, continuano a essere popolari tra urbanisti e artisti vari. Mentre che si sono programmatori e giocatori digitali, in Europa e negli Stati Uniti, che apprezzano non poco il suo Kriegsspiel (una sorta di incrocio fra un wargame e gli scacchi). E infine, ma non certo ultimo, la sua critica della Società dello Spettacolo viene sempre considerata come un buon punto di partenza per i giovani rivoluzionari, in Francia, e altrove. D'altra parte, però, le opere di Debord sono state da tempo riconfezionate e vendute dalla sua seconda moglie, Alice Becker-Ho. E durante gli ultimi 31 anni, "la signora Debord" ha deciso di distribuire i film del defunto marito, come DVD prodotti dalla Gaumont. Poi, ha fatto pubblicare la Corrispondenza "completa" - però in forma abbreviata!! - dall'editore Fayard. E quindi, alla fine ha deciso di vendere gli archivi completi del marito, a scelta tra la Biblioteca Nazionale di Francia e la Beinecke Library dell'Università di Yale: al primo dei due che le avesse versato la somma richiesta di 2,34 milioni di dollari, entro il 2011. Inoltre, sempre "la signora Debord”, ha usato la sua influenza legale e commerciale per far cambiare la presentazione di tutte quelle opere, e far così sopprimere quella dicitura che promuoveva "l'uso non autorizzato" di esse. Certo, la sua condotta avrebbe anche potuto essere peggiore. E infatti, per fortuna si è astenuta dallo scrivere libri e dall'apparire in qualche documentario o trasmissione televisiva, per elencarci tutte le virtù del defunto marito.

   Ed  è qui, che è rispuntata la domanda precedentemente posta a proposito di contorsioni che sarebbero avvenute dentro l'inesistente - o meno - bara. Ma forse, a conti fatti, possiamo perfino dire che Debord non avrebbe storto troppo la bocca, per questo suo "utilizzo". Guy Debord era persona complicata assai! Finché è stato vivo - lui, ma anche lui insieme alla moglie - si è dedicato, come sostenitore, organizzatore e beneficiario, a vari tipi di truffe. A detta del suo "Panegirico", durante la giovinezza è stato anche ladro. Negli anni '50 e '60, insieme alla prima moglie, Michelle Bernstein, più volte ha fatto parecchi "soldi facili", pubblicando cose come "oroscopi per cavalli da corsa", e altra roba del genere. E nel 1993, alla fine, ha giustificato la pubblicazione delle sue "Memorie" a pagamento (che originariamente erano state concepite e prodotte come regalo che doveva essere spedito ai destinatari), scrivendo: «E' stato un regalo, ma ora deve smettere di esserlo (...) In sintesi, preferisco venderlo il mio prestigio, e recuperare così tutte le mie perdite grazie ad adeguati compensi in contanti».

   L'emblema di questo altro lato di Guy Debord, viene illustrato dalla copertina del suo libro del 1985, "Des contrats, Le temps qu'il fait", progettato secondo quelli che erano i desideri dello stesso Debord. L'illustrazione mostra "Le Bateleur", vale a dire Il Mago, una carta nel mazzo dei Tarocchi di Marsiglia. In proposito, va detto che in una delle ultime lettere, Debord spiega come questa immagine sarebbe «la più misteriosa e la più bella, secondo il senso che io do a queste parole (...) Mi sembra che questa carta aggiunga - e lo faccia senza volerlo enfatizzare - qualcosa che può essere visto come una certa padronanza della capacità di manipolazione, e così facendo essa richiama opportunamente l'entità di un tale mistero.» (Lettera a Georges Monti). Bene, il "mistero" di questa manipolazione veramente magistrale consisterebbe pertanto nel saper raggiungere quelli che sono gli effetti desiderati senza fare però alcuno sforzo apparente; senza che la manipolazione sia mai percettibile. Ma allora, se la manipolazione è davvero impercettibile, come si può sapere che c'è realmente manipolazione? Le risposte, quiete, continuano a marcire....

- già pubblicato sul Blog, il 1° Agosto 2012; facendo incazzare qualcuno (non dico dove, non dico come) -  @replay

venerdì 26 settembre 2025

Campisti…

«Ed ecco che, a questo anticapitalismo tronco, si aggiunge un anti-imperialismo altrettanto tronco: il Campismo. Visione binaria delle relazioni internazionali, ereditata dalla guerra fredda, il campismo considera le relazioni geopolitiche unicamente a partire dall'allineamento, o dall'opposizione, con gli Stati Uniti e/o con il blocco atlantista. E si rifiuta di considerare quelle che sono le contrapposizioni tra imperialismi in competizione tra loro. Le relazioni internazionali, vengono pertanto viste come se si trattasse solo di una contrapposizione tra un campo imperialista, da una parte, e un campo anti-imperialista, dall’altra, il quale – quest’ultimo - viene descritto come se si trattasse di un Asse della Resistenza. La natura degli Stati associati a quest'Asse della Resistenza anti-imperialista viene elusa, o passa a essere messa in secondo piano, sia che si tratti di teocrazie ultra-reazionarie, di dittature fasciste o di monarchie repressive, la loro attività nella politica internazionale viene comunque negata, poiché le loro azioni vengono giudicate unicamente a partire dalla loro opposizione agli Stati Uniti. Tutto ciò che viene deciso dall'«Occidente», e dal «Nord globale», va combattuto a priori, quali che siano i metodi adottati e gli obiettivi politici assunti. Si stratta di una postura morale che non fa più alcuna differenza tra le manifestazioni non violente, gli attacchi contro le infrastrutture militari e le uccisioni di civili, o gli attacchi dei kamikaze. Le invasioni, o le annessioni territoriali effettuate da parte dei paesi ritenuti essere parte del campo anti-imperialista, vengono giustificate dai campisti come se esse fossero delle legittime reazioni difensive. È questo, ad esempio, il caso della guerra Iran-Irak, del Kwait, dell'invasione dell'Afghanistan da parte della Russia e, più recentemente, dell'Ucraina. Il Campismo, in sé, non è affatto tipico della sinistra, lo si può ugualmente vedere anche all'estrema destra. Esso cancella ogni contraddizione, così come allo stesso tempo soprassiede sulle sfide specifiche relative alla concorrenza tra gli imperialismi, e rafforza pertanto quei poteri reazionari che se ne avvalgono: Cina, Russia, Iran, Siria, ecc.»

- dall'«Extrait du Petit manuel de lutte contre l'antisémitisme», de Jonas Pardo et Samuel Delor, Éditions du commun, 2024 -

mercoledì 24 settembre 2025

Nell Studio di Marx…

 
Marx impensato: la questione ebraica
di Jean-Louis Bertocchi

Il libro di Jean-Louis Bertocchi ritorna all'assillante "Sulla questione ebraica", il libretto del giovane Marx, che nel 1843 rispondeva a Bruno Bauer. L'opuscolo ha fatto scorrere un bel po' di inchiostro, e di lacrime, sul presunto antisemitismo di Marx e, per estensione, su quello di tutta la sinistra. La psicoanalisi ha parlato dell’«odio di sé», e gli storici hanno invocato lo «Spirito di quei Tempi» per poter spiegare una posizione che avrebbe dovuto essere invece ricollocata a partire da un insieme di testi di quello stesso periodo, il cui bersaglio era principalmente la società borghese capitalista. L'analisi di Jean-Louis Bertocchi ci porta e ci fa entrare nello studio di Marx, e sottolinea il modo in cui egli si è appropriato di alcuni concetti ereditati dalla filosofia tedesca, ridefinendoli in modo tale da articolarli con i discorsi antiebraici della Germania del XIX secolo, a partire dai quali aveva ritenuto di poter riuscire ad assumere e mantenere una posizione politica unica e singolare. Ma l'edificio appare del tutto fragile, e se "Sulla Questione ebraica" ci disturba, e sembra voler regolare alcuni conti rispetto ai quali l'autore difetta di argomentazioni, nelle opere a venire l'«Ebreo» di Marx finirà pertanto per scomparire completamente, in quanto figura - e come principio - dell'egoismo borghese. Basandosi su questa osservazione, e a partire da un'analisi delle nozioni che compongono il tessuto speculativo di "Sulla Questione ebraica", Jean-Louis Bertocchi ritorna anche sulla persistenza del "significante" ebreo, così come esso appare in questo primo testo della sua gioventù, e su come esso abbia potuto poi aver preso forma all'interno di una Sinistra, la quale vi è rimasta attaccata come l'aragosta rimane attaccata al proprio scoglio. La semplificazione, fino al semplicismo, del ragionamento fatto dal giovane Marx, appare quasi come se fosse una manna dal cielo per tutta una parte della Sinistra, la quale non sembra essere in grado di sconfiggere tutti i suoi propri demoni. È curioso come la prima ripubblicazione in Francia del testo di Marx, nel dicembre del 1968, sia stata giustificata, nella prefazione che l’accompagnava, da un'impennata dell'antisemitismo, dovuta alla recente ... Guerra dei Sei Giorni; annunciando così il passaggio dalla Questione ebraica a quella israeliana.

- dalle note di copertina di: Jean-Louis Bertocchi, "Un impensé de Marx : la question juive", Éditions del'éclat, 2022 -

fonte: Palim Psao

lunedì 22 settembre 2025

Tutti al mare ?!!???

Gli Stati Uniti pianificano di espellere centinaia di migliaia di palestinesi da Gaza
- Il progetto di trasformare la Striscia di Gaza nella "Riviera del Medio Oriente" sta prendendo forma e sostanza all'interno dell'amministrazione Trump -
- di Jean-Pierre Filiu -

Mercoledì 27 agosto, Trump ha tenuto un importante incontro alla Casa Bianca sulla situazione e il futuro della Striscia di Gaza. Erano presenti il suo inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff, nonché il suo predecessore in questo incarico, Jared Kushner (anch'egli genero del presidente degli Stati Uniti) e Tony Blair, ex primo ministro britannico, ma soprattutto inviato speciale per il Medio Oriente, dal 2007 al 2015, di un quartetto guidato dagli Stati Uniti. Si sarebbe potuto immaginare che la carestia che minaccia l'enclave palestinese e l'orrore in cui sono immersi i suoi abitanti sarebbero stati all'ordine del giorno di una simile riunione. Tuttavia, il Washington Post ha rivelato che le discussioni si erano invece concentrate sul piano del presidente di trasformare la Striscia di Gaza nella "Riviera del Medio Oriente". Si tratta dell'impropriamente chiamata "Fondazione umanitaria per Gaza" (GHF), guidata da un evangelico molto vicino alla Casa Bianca, che si dice abbia redatto un documento di 38 pagine che dettaglia le diverse fasi dell'attuazione di questo piano.

Un approccio immobiliare
Un tale piano, in questa fase, potrebbe anche non essere ufficiale, ma merita tuttavia tanta più attenzione proprio perché offre un punto di vista privilegiato sul modo di operare dell'amministrazione Trump, di gran lunga la più anti-palestinese in tutta la storia degli Stati Uniti. In quel testo non si legge il minimo riferimento al diritto internazionale, così come non si considerano mai i palestinesi come se fossero un popolo, limitandosi a riferirsi agli "abitanti di Gaza". Quella che viene declinata, è una logica puramente transazionale nella forma del "deal" immobiliare, tanto caro a Trump, Witkoff e Kushner, visto che si tratterebbe di "valutare", in dieci anni, la Striscia di Gaza in 300 miliardi di dollari (255 miliardi di euro, al cambio attuale), contro un valore che oggi viene considerato pari a zero. Si riesce pertanto a capire meglio l'associazione con Eric Blair a tutte queste discussioni, dal momento che, per otto anni, egli aveva sostenuto come lo sviluppo economico dei territori palestinesi sarebbe stata la chiave per la pacificazione del conflitto israelo-palestinese. Il progetto,si chiama "GREAT" (acronimo di "Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation”) e il suo obiettivo dichiarato è quello di "trasformare" un "alleato dell'Iran in un prospero sostenitore  degli accordi di Abramo". L'identità palestinese di Gaza e della sua popolazione viene così cancellata a favore di una ricomposizione geopolitica del Medio Oriente, avviata da Trump nel 2020, alla fine del suo primo mandato, con la firma di accordi di pace tra Israele e quattro Stati arabi, primo fra tutti gli Emirati Arabi Uniti. Così facendo, la Casa Bianca spera di coinvolgere finalmente l'Arabia Saudita in questa dinamica, dove il progetto ha già previsto che le due arterie stradali che attraversano la “trasformata” Striscia di Gaza portino il nome dei leader sauditi ed emirici. Per quanto riguarda invece la “zona industriale intelligente”, che costeggerebbe il confine con Israele, essa porterebbe il nome di Elon Musk, mentre lungo la costa verrebbe creata una “Riviera Trump” (sic!) sul modello delle Palm Islands di Dubai. Sulle rovine di quelle attuali, sorgerebbero delle nuove città, completamente digitalizzate e potenziate dall'intelligenza artificiale.

Sotto tutela
La chiave per lanciare un progetto del genere, è l'attuale GHF (Gaza Humanitarian Foundation), le cui distribuzioni di aiuti, a partire dalla primavera, sono state tuttavia costellate da ripetute stragi, al punto da essere state definite “Hunger Games”. La GHF intende escludere le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie, coordinando le proprie operazioni con l'esercito israeliano, la cui attuale offensiva contro la città di Gaza mira a respingere centinaia di migliaia di civili verso il sud dell'enclave, e verso i siti di distribuzione della GHF. L'obiettivo è quello di creare all'interno delle “zone di transizione” un ambito “libero da Hamas”, nel quale sarebbe previsto un “trasferimento volontario” per centinaia di migliaia di civili. La presentazione del GREAT prevede il trasferimento di un quarto della popolazione di Gaza e, per attenuare la brutalità di un simile diktat, sostiene che una piccola parte potrebbe essere autorizzata a tornare, qualora lo desiderasse. Tuttavia, ciò che viene effettivamente prospettato è l'espulsione definitiva di circa 400.000 palestinesi sui 2,1 milioni di abitanti che conta l'enclave. La GHF avrebbe anche il compito di “validare” e addestrare dei gazawi che si occuperanno della futura sicurezza dell’enclave. Attualmente, l’embrione di tale forza è costituito da una banda di saccheggiatori palestinesi, sostenuti e armati da Israele, ma ripudiati dalle loro stesse famiglie proprio a causa di questa collaborazione. Dopo sei mesi o un anno, a seconda dell'avanzamento dell'offensiva israeliana, verrebbe creato un “Trust”, vale a dire una tutela, associata a una società fiduciaria. Con questo trust, si fonderebbe la GHF, mentre l'esercito israeliano conserverebbe invece il diritto di intervenire in qualsiasi momento. Solo in un secondo momento questo trust si evolverebbe poi in un governo formale dell'enclave, e questo avverrebbe nel corso di un “periodo di transizione” necessario all'emergere di un'“entità palestinese riformata e de-radicalizzata”. In nessuna circostanza viene mai menzionata l'Autorità palestinese di Ramallah (Cisgiordania). Il piano specifica che l'attività di questo trust verrebbe facilitata attraverso la partecipazione di partner arabi, e resa più proficua grazie all'intensificazione delle partenze “volontarie”. Già il solo fatto che un documento del genere possa esistere, ed essere oggetto di discussione, la dice assai lunga sul grado di collusione e sul senso di impunità, raggiunti da Israele e dagli Stati Uniti nella loro guerra contro Gaza. Più in generale, rivela anche come, dopo due anni in cui abbiamo lasciato che donne, uomini e bambini di Gaza fossero abbandonati a un simile orrore, tutto questo stia diventando il nostro mondo .

- Jean-Pierre Filiu - Pubblicato su Le Monde il 21/9/2025 -

sabato 20 settembre 2025

BANALITÀ GENOCIDARIE…

La questione dell'intenzionalità genocida in relazione a Gaza
- di Emmanuel Faye -

   La contrapposizione, tra la situazione disperata della popolazione civile a Gaza e la persistente negazione da parte di coloro che si rifiutano di riconoscere l'intenzionale distruzione della popolazione palestinese, appare essere abissale. Di fatto, le testimonianze e le analisi degli storici, degli osservatori e dei critici israeliani non vengono prese sul serio. La stessa cosa vale anche rispetto alle decisioni e alle azioni della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite e della Corte penale internazionale dell'Aia, che vengono screditate, o ostacolate. Ma probabilmente ciò smette di essere sorprendente se consideriamo il fatto che ogni impresa genocida viene sempre accompagnata da dei discorsi di negazione, i cui meccanismi sono noti. Qui, non si tratta di dimenticare il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, e il sequestro di ostaggi israeliani. Lo Stato di Israele ha il diritto di difendersi in modo proporzionato contro ogni aggressione. Tuttavia, qualunque possa essere la posta in gioco per la leadership israeliana, da un lato, e di quelle palestinesi dall'altro, la popolazione palestinese bombardata a Gaza, costantemente sfollata e ridotta alla fame dal blocco israeliano, non rappresenta una minaccia esistenziale. Non c'è niente che possa giustificare la gravità della distruzione deliberatamente inflitta a questa popolazione, le cui infrastrutture sanitarie ed educative sono ora distrutte. E non c'è niente che autorizzi i discorsi disumanizzanti che hanno fatto i leader politici e militari israeliani. A fronte del coraggioso lavoro di ONG, giornalisti, storici e giuristi delle varie corti internazionali, cosa mai può fare un filosofo di fronte a una situazione genocida come quella che viene subita dalla popolazione palestinese di Gaza? Se è, in primo luogo, responsabilità dei giuristi stabilire se si sia verificato un genocidio, il filosofo può e deve, a nome dell'umanità, intraprendere un'analisi critica dei motivi teologici, ideologici, storici e politici che orientano e governano coloro che perpetrano dei crimini di guerra, dei crimini contro l'umanità e dei genocidi. Spetta a lui respingere i discorsi di odio, da qualunque parte essi provengano.

  In un articolo su Le Monde pubblicato l'11 giugno 2025, lo storico Vincent Duclert riteneva che, nel caso della popolazione civile di Gaza, fosse controproducente focalizzarsi sulla qualificazione di genocidio. Parlare di crimini contro l'umanità, così come lo fa la Corte penale internazionale, avrebbe prodotto più effetto, andando a pesare direttamente sui leader chiamati in causa. Ci si può certamente chiedersi perché questa qualifica di genocidio, più difficile da stabilire dal momento che bisogna provare la realtà dell'intento sterminatore, sarebbe più decisiva di quella dei crimini contro l'umanità, altrettanto atroci sul piano fattuale. Tuttavia, oltre al fatto che un genocidio colpisce l'insieme di un intero gruppo umano, è proprio la sua dimensione intenzionale a fare la differenza. L'esistenza di un intento genocida solleva delle questioni che il concetto giuridico di crimini contro l'umanità non solleva allo stesso modo. Che cos'è che spinge delle menti a mettere deliberatamente in atto l'annientamento di un gruppo umano? Che cosa avviene in un pensiero per far sì che esso arrivi a una simile radicalità? Come avviene che si venga a costituire una mentalità genocida individuale, o collettiva? Se quella che è la questione dell'intenzionalità sterminatrice nei genocidi, viene affrontata troppo raramente, ciò avviene senza dubbio perché - imponendo la formula della "banalità del male", definita a partire dall'assenza di pensiero, e quindi di movente, nei responsabili della Soluzione Finale, Hannah Arendt ha neutralizzato questa questione, la quale è tuttavia ben documentata nelle dichiarazioni di Eichmann. È riuscita così a scagionare esplicitamente degli autori come Carl Schmitt e Martin Heidegger, la cui responsabilità, nel legittimare la politica nazista di annientamento (il primo attraverso la sua dottrina del "nemico esistenziale", il secondo attraverso le sue ingiunzioni a porsi come fine - a lungo termine - lo "sterminio totale" del nemico interno), si era rivelata particolarmente pesante

  Tuttavia, per tornare alla questione del Medio Oriente, ci sono diverse dichiarazioni, da parte di funzionari israeliani, che testimoniano oggi l'esistenza di un'intenzione sterminatrice. I riferimenti fatti da Netanyahu agli Amalechiti - questo popolo da sterminare nel Deuteronomio, tra cui donne e bambini - sono di una grande radicalità, anche se, incriminato per crimini contro l'umanità e per crimini di guerra dalla CPI, Netanyahu ha successivamente cercato di minimizzare la portata delle sue dichiarazioni. Resta il fatto che la sua comunicazione formale alle truppe dell'IDF: «Ricordate che cosa vi ha fatto Amalek», pubblicata il 3 novembre 2023 da "The Times of Israel", non poteva certo rimanere senza conseguenze. Lo stesso vale per le proposte del ministro della Difesa, che equiparano gli abitanti di Gaza a degli «animali umani». Molte altre dichiarazioni, potenzialmente genocide, da parte di ufficiali israeliani, sono state raccolte e pubblicate dallo storico israeliano Lee Mordechai. Ricordiamo anche l'episodio in cui, durante un discorso all'ONU, il 27 settembre 2024, il Primo Ministro di Israele ha mostrato, esponendola, una mappa del suo Paese, che non comprendeva la Striscia di Gaza o la Cisgiordania, come se volesse ratificarne la loro cancellazione, con tutte le conseguenze prevedibili per la popolazione palestinese che vi abita. Questa volontà della "Grande Israele" degli Ebrei, che sarebbe biblica, nega ai palestinesi il diritto di continuare a vivere in quel luogo. L'intenzione politica del governo israeliano non si limita pertanto a voler combattere Hamas. L'obiettivo appare essere più ampio e radicale. È questo il motivo per cui è importante analizzare l'intenzionalità sterminatrice all'opera, e le sue motivazioni.

   La formazione di un pensiero genocida è ora documentata. Si forma quando i leader politici e militari si convincono che un'intera popolazione, e non solo un esercito, rappresenta una minaccia esistenziale per la loro nazione. La sofferenza subita, per loro giustifica la necessità di lottare per sradicarla. Hanno pertanto deciso di distruggere uomini, donne e bambini in nome della legittima difesa. Il senso di una comune appartenenza all'umanità e il rispetto per la vita altrui sono scomparsi dalle coscienze. Fino a oggi, questo radicalismo sterminatore si è sempre basato su una prospettiva messianica, o teologica, fuorviante. Per le versioni più estreme, possiamo citare la volontà hitleriana di costruire un Reich millenario "purificato" da ogni elemento "non ariano", oppure la demonizzazione dei Tutsi, operata da parte di alcuni leader religiosi Hutu. Una delle questioni che oggi si pone, è pertanto quella di determinare, con uno studio approfondito, svolto al fine di effettuare una critica, quali sono state le rispettive visioni messianiche che hanno ispirato nelle loro azioni, tanto i suprematisti israeliani quanto i fondamentalisti evangelici americani che li sostengono, a partire dalla radicalizzazione politica che ciò implica. Lo studio critico delle intenzionalità genocide, rimane essenziale per poterle disinnescare a lungo termine. Tuttavia, nell'immediato futuro, queste domande che implicano la comprensione del presente, e quindi del nostro futuro, non sono tuttavia né le uniche né le più urgenti. La realtà di ciò che sta accadendo attualmente a Gaza, offende l'umanità di tutti. Dobbiamo perciò fare tutto il possibile per porre fine a questa situazione.

-  di Emmanuel Faye, pubblicato sulla Tribuna de L'Humanité il 19 settembre 2025 -

«Tutto sotto controllo sulla nave che affonda» !!

È impressionante vedere leggere Robert Kurz discutere di "Intelligenza Artificiale" e processi produttivi già negli anni '80!!

«Ed è proprio la ricerca sulle attuali nuove tecnologie, in particolare la microelettronica, l'informatizzazione e "l'intelligenza artificiale"(AI), nella loro relazione concreta con il futuro del processo di valorizzazione capitalistica, a far sì che queste vaghe speranze scoppino come delle bolle di sapone. Infatti, a differenza di tutti quelli che sono stati i precedenti impulsi di innovazione tecnologica, di portata simile, vediamo come questi nuovi supporti tecnologici abbiano, per la prima volta, un vero e proprio potenziale di automazione puro, il quale è ben lungi dal favorire - com'è avvenuto con l'industria automobilistica fordista - una prospettiva più ampia ai fini di una rinnovata capacità del capitale di assorbire forza lavoro viva su larga scala.  Ed è questo che distingue, fondamentalmente, le nuove tecnologie da tutte le precedenti epoche di industrializzazione che ci sono state nella storia capitalista.

   Queste nuove tecnologie, non potranno assorbire nuovamente delle grandi quantità di salariati, né per quanto riguarda la loro vera e propria produzione, né per quanto riguarda quelle che saranno le loro implicazioni che interesseranno le “vecchie” industrie, oppure (ancora più difficilmente) per tutte le produzioni non industriali; ma piuttosto, al contrario, esse sostituiranno ed elimineranno il lavoro produttivo umano, in progressione geometrica, da tutti i settori della riproduzione sociale.  Chi crede ciecamente in un nuovo boom dell'accumulazione industriale, realizzato attraverso e grazie alle “nuove tecnologie”, dovrebbe imparare qualcosa di più sull'informatica contemporanea:

   "Macchine grandi e costose, verranno acquistate solo se saranno dotate di una certa quota di intelligenza artificiale incorporata. Gli eventuali errori, e incidenti, verranno diagnosticati dalle stesse unità attive e intelligenti [...]. Attualmente, nella gestione e nella produzione di merci, si rende quotidianamente necessaria dal 50 al 60% della popolazione attiva. Grazie a un'automazione fino ad ora inimmaginabile, sotto l'impatto dell'informatica e della tecnologia dell'intelligenza artificiale, tale percentuale scenderà (!) al 5-6%  [...]. Per la più parte degli scienziati di questo settore, si tratta chiaramente di una rivoluzione tecnologica imminente, tanto che io non capisco perché non sia stato fatto quanto meno uno studio sociologico che esaminasse queste potenziali trasformazioni. Chi si aspettava che il numero dei disoccupati sarebbe salito a 6 milioni?"; come ad esempio ha detto il professore di informatica Jörg Siekmann (Kaiserlautern), portavoce della commissione per l'intelligenza artificiale della società per l'informatica.  

   Ora, questa previsione attuale, che coincide anche con degli altri studi competenti fatti negli ultimi anni (cfr. ad esempio COY, 1985), e che solo ora sta raggiungendo un alto livello di concretezza, smentisce tutti quei teorici astratti della sovraccumulazione, per quel che riguarda una presunta “nuova accumulazione accelerata di capitale” imminente, considerata come se fosse una “legge eterna”; così come smentisce l'errata logica causale empirica delle teorie delle cosiddette “onde lunghe”, la quale stabilisce un collegamento apparentemente inevitabile tra nuove tecnologie e nuovi cicli di accumulazione di lunga durata».

- Robert Kurz, da “Tutto sotto controllo sulla nave che affonda” (1989), ne: "La crisi del valore di scambio", pp. 99-100. -

grazie a @Marcos Barreira

venerdì 19 settembre 2025

La fine del sanguinamento della Testa della Medusa…

Superflui di tutto il mondo, unitevi !
- di Robert Kurz -

   Il capitalismo non è una possibilità, quanto piuttosto una minaccia per l'umanità. E minacciati, cominciano ora a sentirsi anche molti di quelli che guadagnano bene. La logica che sta dietro questo sistema è tanto semplice quanto brutale: alla fine, il diritto all'esistenza ce l'ha solo chi è redditizio. E non basta più il profitto in sé, ma bisogna che esso soddisfi anche alla regola della redditività, che oggi viene posta sempre più in alto, in termini capitalistici finanziari. Ciò significa due cose: in primo luogo, che il capitale è insaziabilmente avido di lavoro umano, il quale deve essere trasformato, secondo quello che è il fine proprio della valorizzazione irrazionale, in sempre più capitale. È a partire da un simile punto di vista che le persone sono perciò solo un materiale, forza lavoro, "manodopera" e nient'altro. Va anche detto che, in secondo luogo, il lavoro è "valido" soltanto a livello di redditività. L'ambizione capitalista di sfruttare la forza vitale umana, è costretta a rispettare questo modello. E questa brutalità essenziale, rimane sempre annidata, in agguato, nell'inconscio dell'ordine del sistema. È così talmente terribile che non c'è nessuno che lo ammetta, nessun manager, nessun ideologo. Ma esiste, e in ultima analisi, per principio, afferma che: «Tutti coloro che non sono in grado di lavorare, sono delle "vite senza valore"». Ne fano parte tutti i bambini e tutti gli adolescenti che non hanno ancora la capacità di lavorare; a meno che non siano già serviti come materiale per il lavoro, non appena sono stati in grado di camminare. Lo è anche tutto ciò che malato, invalido, ecc., e che rappresenta solo un fattore di costo. E ovviamente tutti gli anziani, i quali non sono più in grado di lavorare, e  per i quali vale la stessa cosa, a meno che non siano utilizzabili anche sul letto di morte. Infine, ci sarebbero anche i disoccupati, che pertanto diventano così dei disoccupati inutili. La logica capitalistica emette questa sentenza non solo sui singoli, ma lo fa anche su tutti quelli che costituiscono i loro  rispettivi ambiti e istituzioni: la formazione, l'istruzione, l'assistenza, i servizi sanitari, l'arte e la cultura, ecc., sembrano essere tutti dei costi morti che andrebbero eliminati.

   Ovviamente, qualsiasi società che dovesse mai mettere in pratica una tale logica, collasserebbe immediatamente. Ma si tratta tuttavia della logica del capitale, che in quanto processo fisico è completamente cieco e insensibile. Per far sì che il capitalismo lasci vivere l'umanità, in modo che essa possa essere il materiale per soddisfi le sue richieste insaziabili, bisogna che esso venga, in qualche modo, illuso. Originariamente, la sopravvivenza in un simile contesto, vale a dire quelle che erano le "esigenze non redditizie", erano di competenza delle donne. Ma tuttavia il processo di valorizzazione, di suo, non avrebbe mai disprezzato in alcun modo la carne femminile, ossia "il nervo, il muscolo, il cervello" (Marx). Pertanto, in tal modo, sulle donne avrebbe poi finito per gravare un doppio fardello: non importava se si parlasse di società capitalistiche di Stato dell'ex blocco orientale, dei centri occidentali o delle baraccopoli del Terzo Mondo: dopo la fine del lavoro quotidiano, per loro cominciava il lavoro che riguardava l'opera di riproduzione per quella parte della vita che dal punto di vista capitalista, era "indegna di essere vissuta". Le donne, da sé sole, avrebbero finito col soccombere da tempo sotto questo doppio peso, oppure la società si sarebbe dissolta. È stato questo il motivo per cui lo Stato ha dovuto creare anche nella redditività quelle aree derivate dalla "vita indegna di essere vissuta", per mezzo di imposte, di contributi e di sistemi assicurativi, e perciò, è stato in un certo qual modo, grazie al "sanguinamento" del proficuo processo di valorizzazione. A seconda della sua entità, ciò è stato visto come se fosse più o meno ..."sociale". E la critica storica del capitalismo si è pertanto in gran parte limitata alla quantità di questo sanguinamento, mentre quella che era invece la sua terribile logica fondamentale è rimasta nell'ombra, e del tutto intatta. E questo è stato reso possibile (con delle interruzioni di crisi, mentre il processo di valorizzazione era storicamente in corso, ed è stato pertanto in grado di assorbire quello che funzionava come un Lavoro sempre più redditizio. Ma tuttavia, con la Terza rivoluzione industriale, una tale espansione ha finito per arrestarsi. Il metro di misurazione della redditività è ormai troppo elevato, e sempre più persone valide non riescono a trovare lavoro. Di conseguenza, il sanguinamento che fuoriusciva dalla valorizzazione, per irrorare le aree secondarie, si è esaurito.

   Ridiventa così visibile la testa di medusa della logica capitalista intrinseca, finora rimasta nascosta. In tutto il mondo, i “non redditizi” devono pertanto sperimentare la loro relativa o assoluta “svalutazione della vita”. Con una conseguenza ferrea, vengono colpiti per primi i disoccupati di lungo periodo, i bambini e gli adolescenti, i malati, i disabili e gli anziani. A seconda del paese e della sua situazione rispetto al mercato mondiale, ciò può avvenire con maggiore o con minore velocità, ma ci stiamo tutti muovendo, irresistibilmente, in quella direzione. Anche nella Repubblica Federale Tedesca, che è solo relativamente "ricca", in senso capitalista, come altrove, i pagamenti delle assicurazioni vengono ridotti, l'assistenza sanitaria, e quella ai malati e agli anziani viene ridotta, le pensioni sociali vengono cancellate, gli asili nido vengono chiusi. Nelle scuole l'intonaco cade dalle pareti, il materiale didattico diventa obsoleto e marcisce. E a quanto pare sembra non finire mai, a fronte di sempre nuovi progetti di tagli. In silenzio, viene messa una croce su tutta la riproduzione sociale. (...) Le classi politiche ed economiche si riferiscono solo alla silenziosa fisica sociale capitalista. Di conseguenza, la vecchia e impotente critica al capitalismo, limitata al mero sanguinamento della valorizzazione, è destinata a scomparire. I vecchi esperti del miglioramento sociale hanno cambiato mestiere a causa della limitazione cosmetica che riguarda i danni dovuti al deterioramento. Così, i presunti becchini del capitalismo si sono riciclati come aiutanti del becchino della società umana. Sotto delle circostanze storicamente nuove, il vecchio ruolo sindacale socialdemocratico è diventato, in termini di contenuto sociale, il suo contrario. (...) Laddove la capacità di governare avrebbe dovuto essere sacrificata nel nome della resistenza sociale, vediamo che invece, al contrario è la resistenza sociale a essere sacrificata in nome della capacità di governare. Ma le cose non si fermeranno qui. Ciò che viene proclamato come se fosse un sacrificio per ottenere una presunta manutenzione sostanziale delle aree vitali "non lucrative", non è altro che una parte di un percorso che ci porta verso lo storico vicolo cieco dell'auto-cannibalismo capitalista. Questo sistema non si lascia più ingannare dalla sua stessa biofobia. Ed è proprio l'assurdo principio di redditività ciò che deve essere abolito: "superflui" non redditizi di tutto il mondo, unitevi!

- Robert Kurz - pubblicato come: "Unrentable, vereinigt euch!", pubblicato su Neues Deutschland, il 02.05.2003 -