giovedì 31 gennaio 2019

Periodi

Keynes: rivoluzionario o reazionario?
- di Michael Roberts - Traduzione a cura di Francesco Delledonne -

Prima parte - Rivoluzionario o reazionario?: L'economia
Keynes era un rivoluzionario nel pensiero e nella politica economica? Era almeno radicale nelle sue idee? O era un reazionario contrario agli interessi dei lavoratori e un conservatore nella teoria economica? Ann Pettifor è una dei principali consiglieri economici dei dirigenti laburisti di sinistra britannici, Jeremy Corbyn e John McDonnell. È direttrice di Prime Economics, una società di consulenza economica di sinistra e autrice di numerosi libri, in particolare il recente The Production of Money. E ha appena vinto il premio tedesco Hannah Arendt per il pensiero politico, concentrandosi su "l'impatto politico e sociale dell'attuale sistema di produzione del denaro, gestito principalmente dalle banche attraverso il credito digitale" e operando un’efficace critica del "settore finanziario globale, che opera al di fuori della portata dell'influenza politica e del controllo democratico". Quindi Ann Pettifor è un’indiscussa combattente contro le politiche economiche di austerità della scuola neoclassica e una promotrice di misure governative per ripristinare i servizi pubblici e rilanciare l'economia. Ma per riuscirci, si basa interamente sulle teorie e sulle politiche di JM Keynes e del "keynesismo". Recentemente ha pubblicato un breve articolo per il prestigioso Times Literary Supplement, intitolato Gli sforzi instancabili di J. M. Keynes. (…) In questo articolo, Pettifor paragona le teorie di Keynes nel campo economico a quelle di Charles Darwin nella biologia, per il cambio di paradigma prodotto da entrambe. Secondo lei, Keynes avrebbe "inventato" la macroeconomia, lo studio delle tendenze nelle economie a livello aggregato, sfuggendo alla soffocante ossessione neoclassica con la microeconomia (lo studio del valore e dei mercati a livello della singola unità). Concorda con la teoria del denaro di Keynes e la sua spiegazione delle crisi sotto il capitalismo come causate dalla eccessiva "accumulazione" di denaro; elogia l’"internazionalismo" di Keynes quando sosteneva che le istituzioni finanziarie internazionali dovessero controllare la speculazione finanziaria ed evitare l'instabilità nel mercato capitalistico. Termina con la preoccupazione che le idee e le politiche di Keynes siano state rinnegate e rifiutate e che ci sia stato un ritorno al capitalismo "decadente", molto lontano dall'età d'oro del periodo post-1945, quando le politiche keynesiane venivano applicate per far funzionare il capitalismo efficacemente per tutti. Conclude con lo slogan: "È tempo di restaurare il rivoluzionario Keynes".
Bene, mi permetto di dissentire da questa visione delle teorie e delle politiche di Keynes e keynesiane. Per cominciare, è davvero eccessivo suggerire che le idee di Keynes siano allo stesso livello di quelle di Darwin. Sì, ci possono essere alcuni creazionisti che ritengono che Dio abbia progettato il mondo e i gli esseri viventi a propria immagine e somiglianza e che l'abbia preservato di conseguenza. Ma nessuna persona sana di mente pensa che questo abbia alcuna validità. L'evidenza è schiacciante sul fatto che Darwin aveva sostanzialmente ragione sull'evoluzione della vita. Ma possiamo dire che Keynes abbia sostanzialmente ragione riguardo le leggi del movimento e delle tendenze nell'economia capitalista? Io non la penso così - e cercherò brevemente di mostrare perché.
Per cominciare, Pettifor ha torto quando afferma che in origine "l'economia classica" fosse microeconomica come la conosciamo ora. Il termine "classico" usato da Keynes riuniva in unico calderone tutti i grandi economisti dell'inizio del XIX secolo come Adam Smith, James Mill e David Ricardo e i loro grandi studi di economia con le teorie marginaliste reazionarie, soggettiviste e di equilibrio della metà del tardo XIX secolo di Jevons, Senior, Bohm-Bawerk, Walrus e Mises. Keynes rifiutava il primo gruppo mentre continuava ad accettare la microeconomia del secondo. Per gli economisti classici del capitalismo d'inizio XIX secolo, non c'era distinzione tra micro e macro. Il compito era di analizzare il movimento e le tendenze nelle "economie" e per questo una teoria del valore era uno strumento necessario ma non un fine in sé.
La microeconomia divenne un fine in se stessa come un modo per combattere il pericoloso sviluppo dell'economia classica verso una teoria del valore che implicava lo sfruttamento del lavoro e delle relazioni sociali in conflitto. Quindi la teoria del valore del lavoro è stata sostituita dall'utilità marginale dell'acquisto da parte del consumatore. "L’Economia politica" è iniziata come un'analisi della natura del capitalismo su una base "oggettiva" da parte dei grandi economisti classici. Ma una volta che il capitalismo divenne il modo di produzione dominante nelle principali economie e divenne chiaro che il capitalismo era un'altra forma di sfruttamento del lavoro (questa volta da parte del capitale), l'economia si mosse rapidamente per negare quella realtà. L’economia convenzionale divenne quindi un'apologia del capitalismo, con l'equilibrio generale che sostituiva la competizione reale; l’utilità marginale che sostituiva la teoria del valore del lavoro; e la legge di Say che sostituiva le crisi.
La macroeconomia appare nel XX secolo come una risposta al fallimento della produzione capitalistica - in particolare, la grande depressione degli anni '30. Qualcosa doveva essere fatto. Keynes mantenne la teoria marginalista dal suo mentore, Alfred Marshall, ma la spostò dinamicamente al di là dell'offerta e della domanda tra singoli consumatori e produttori, verso l’aggregato. L'economia convenzionale "borghese" non poteva più basarsi sulla confortante teoria secondo cui l'utilità marginale andrebbe in pari con la produttività marginale per giungere ad un equilibrio generale di offerta e domanda e quindi un percorso di crescita armonioso e stabile per produzione, investimenti, redditi e occupazione. L'uguaglianza automatica della domanda e dell'offerta, la legge di Say, veniva ora messa in discussione. Doveva essere riconosciuto che il capitalismo era soggetto a boom e crolli, a disequilibri (permanenti?) e quindi a crisi regolari. E queste crisi dovevano essere affrontate - per essere "gestite". Ciò richiedeva un'analisi macroeconomica. In un certo senso, l'economia borghese ha dovuto riportare indietro l'orologio verso l'economia classica - lo studio delle tendenze aggregate - ma senza tornare all'economia politica, che aveva riconosciuto che l'economia riguardava in realtà la struttura sociale e le relazioni sociali (cioè lo sfruttamento di classe) e non una semplice teoria della "scarsità" e dei "prezzi di mercato".
(…) Nell'era d'oro del capitalismo post-1948, la crescita economica era forte, l'occupazione era piena e il reddito elevato. Sembrava quindi che la (macro)economia potesse fornire politiche per "gestire" con successo il capitalismo. Ma questa era solo un'illusione momentanea. L'età dell'oro ha presto perso il suo splendore. La teoria e la politica keynesiana furono sfatate con la prima recessione internazionale simultanea del 1974-5 poi seguita dal profondo crollo del 1980-2. Va tenuto presente che questi importanti crolli nella produzione e negli investimenti avvenivano a livello internazionale durante la messa in atto di politiche keynesiane di gestione macroeconomica, nel resoconto di Pettifor.
Pettifor afferma che le crisi della fine del XX secolo furono il risultato della "decisione delle autorità pubbliche di tutto il mondo di abbandonare la regolamentazione della creazione di credito e della mobilità dei capitali dopo gli anni '60 e i primi anni '70"; in altre parole, la mancanza di regolamentazione sugli sconsiderati banchieri. Ma la domanda a cui non è stata data risposta è: perché gli strateghi del capitale hanno abbandonato la gestione e il controllo in stile keynesiano e hanno optato per la de-regolamentazione, ecc., se tutto funzionava così bene negli anni '50 e '60? La ragione per cui i governi filo-capitalisti si sono rivolti al monetarismo e alle politiche neoliberiste era che il keynesismo aveva fallito. E aveva fallito nel settore più importante per il capitalismo - nel sostenere la redditività del capitale.
Il grande cambiamento dalla metà degli anni '60 in poi fino ai primi anni '80 fu un crollo della redditività del capitale nelle principali economie che portò ad una serie di crolli nel 1970, 1974 e poi nel 1980-2. Questo è ciò che spinse i teorici capitalisti e i responsabili politici a rompere con Keynes. Non ci si poteva più “permettere” i servizi pubblici, lo stato sociale, i buoni stipendi e la piena occupazione e, come dice Pettifor, il keynesismo era considerato come uno "stato interventista, debole verso la spesa pubblica in deficit". Ma tutti questi retrofront di politiche avvennero dopo il crollo degli anni '70, prima del quale il capitale finanziario era "regolato", le valute "gestite", i sindacati avevano diritti, il governo poteva intervenire fiscalmente e c’era poca privatizzazione. Fu il fallimento della produzione capitalista e l'incapacità delle idee keynesiane a funzionare efficacemente che causò il cambiamento di teoria e politica, non viceversa.
Ciononostante, sostiene Pettifor, l'abbandono del keynesismo fu un errore per i "potenti", perché Keynes aveva tutte le risposte per evitare le crisi e far andare avanti le economie capitaliste. Keynes aveva sviluppato una "teoria rivoluzionaria" del denaro: la sua teoria della preferenza per la liquidità. Questa spiegava che le crisi si verificano quando gli investitori o i detentori di denaro non lo spendono, ma lo accumulano. Lo fanno per alcune ragioni soggettive: la mancanza di "spiriti animali", la perdita della convinzione che qualsiasi spesa o investimento fornirà un rendimento sufficiente. Quindi si accumula un surplus di denaro che non viene speso. La risposta, sostiene Pettifor, è che le autorità monetarie intervengano e riducano il costo del prestito "stampando" denaro, in modo che i tassi di interesse sui prestiti si riducano al di sotto del rendimento percepito sugli investimenti. Ciò incoraggerà gli accumulatori di denaro a investire. Tali politiche sono "ancora considerate troppo radicali per essere accettabili oggi". Nel suo libro, The Production of Money, Pettifor ci dice che "il denaro non è altro che una promessa di pagamento" e che dal momento che "stiamo creando denaro tutto il tempo facendo queste promesse", il denaro è infinito e non limitato nella sua produzione, quindi la società può stampare tutto ciò che vuole per investire nelle sue scelte sociali senza conseguenze economiche dannose. E attraverso l'effetto moltiplicatore keynesiano, i redditi e i posti di lavoro possono espandersi. E "non fa differenza dove il governo investe i suoi soldi, se così facendo crea lavoro". L'unico problema è di mantenere il costo del denaro, i tassi di interesse, il più basso possibile, per assicurare l'espansione del denaro (o è credito?) per far progredire l'economia capitalista. Quindi non c'è bisogno di alcun cambiamento nel modo di produzione per il profitto; prendi il controllo della “money machine” per assicurarti un flusso infinito di denaro e tutto andrà bene. Be’, il capitalismo è un'economia monetaria ma non è un'economia di moneta (da sola). Il denaro non può creare altro denaro se non viene creato e realizzato alcun nuovo valore. E ciò richiede l'impiego e lo sfruttamento della forza lavoro. Marx ha detto che è un feticcio pensare che il denaro possa creare altro denaro dall'aria. Eppure questa versione del keynesismo sembra pensarlo. Quando le banche centrali espandono l'offerta di moneta stampando moneta o creando riserve bancarie (depositi), più recentemente il cosiddetto "quantitative easing", questo non aumenta il valore. Lo farebbe solo se questo denaro venisse poi utilizzato in modo produttivo per aumentare i mezzi di produzione o la forza lavoro per aumentare la produzione e quindi aumentare il valore.
Ma, come sosteneva Marx negli anni Quaranta dell'Ottocento contro la "teoria quantitativa del denaro", l'espansione in sé dell'offerta di moneta non aumenterebbe il valore e la produzione, ma è più probabile che aumenti i prezzi e quindi svaluti la valuta nazionale, e / o gonfi i prezzi delle attività finanziarie. È quest'ultimo che si è verificato soprattutto nel recente periodo di stampa del denaro. L'allentamento quantitativo non ha posto fine all'attuale depressione globale, ma ha solo provocato nuove speculazioni finanziarie. Questa versione dell'economia keynesiana non è affatto "rivoluzionaria" o "radicale", poiché è stata adottata da tutte le banche centrali dopo la Grande recessione del 2008 e non è riuscita a ripristinare la crescita economica, gli investimenti produttivi e i redditi medi. In realtà, durante la Grande Depressione degli anni '30, mentre la situazione economica peggiorava, lo stesso Keynes fece a meno delle soluzioni monetarie alle crisi e optò per uno stimolo fiscale, proponendo persino la "socializzazione degli investimenti", una politica molto più radicale rispetto alla produzione di più i soldi. Nel suo Trattato sulla moneta, scritto nel 1930 all'inizio della Grande Depressione, Keynes sosteneva che le banche centrali avrebbero dovuto intervenire con quelle che ora chiamiamo "politiche monetarie non convenzionali" volte a ridurre il costo del prestito e a raccogliere liquidità sufficiente per gli investimenti. Il solo tentativo di abbassare il tasso ufficiale non sarebbe stato sufficiente. Ma ora del 1936, dopo altri cinque anni di depressione (simile al periodo attuale successivo alla Grande Recessione), Keynes divenne meno convinto che "le politiche monetarie non convenzionali" avrebbero funzionato. Nella sua famosa Teoria generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta, Keynes andò oltre. Perché la produzione di più denaro di per sé è fallimentare, secondo Keynes? (…) "Ora sono piuttosto scettico sul successo di una politica meramente monetaria diretta ad influenzare il tasso di interesse (…) poiché sembra probabile che le fluttuazioni nella stima del mercato dell'efficienza marginale dei diversi tipi di capitale, calcolate sulla base dei principi che ho descritto sopra, saranno troppo ampie per essere compensate da eventuali variazioni praticabili del tasso di interesse ". E così Keynes passò a sostenere la spesa fiscale e l'intervento statale per integrare o dare linfa agli investimenti privati fallimentari. Pettifor si è aggrappato a quella parte della teoria e della politica macro keynesiana, l'allentamento monetario, trascurando gli stimoli fiscali, per non parlare della politica più radicale della "socializzazione degli investimenti" (nemmeno menzionata da Pettifor). Quindi il resoconto di Pettifor sull'economia di Keynes è il meno 'rivoluzionario' possibile.

Seconda parte - Keynes: internazionalista o nazionalista?
Keynes era davvero il grande internazionalista che mirava a rendere il capitalismo un sistema stabile attraverso la gestione macroeconomica su scala mondiale? Questa è l'affermazione di Ann Pettifor nella sua recente lode a Keynes. Keynes è diventato famoso dimostrando che le politiche di austerità inflitte alla Germania dopo la prima guerra mondiale sarebbero state controproducenti per gli interessi di Francia e Gran Bretagna. E pare sia stato il promotore della "costruzione dell'architettura finanziaria internazionale a Bretton Woods nel 1944. I politici e gli economisti (se non i banchieri) avevano infine appoggiato la sua teoria e le sue politiche" (Pettifor). Certo, voleva creare istituzioni “civilizzate” per assicurare pace e prosperità a livello globale attraverso la gestione internazionale delle economie, delle valute e del denaro. Ma queste idee di un ordine mondiale per controllare gli eccessi del capitalismo sfrenato si sono alla fine concretizzate in istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Consiglio delle Nazioni Unite, principalmente utilizzate per promuovere le politiche dell'imperialismo, con gli Stati Uniti alla guida. Invece di un mondo di leader “civilizzati” che risolvono i problemi del mondo, abbiamo avuto un'aquila terribile che impone la sua volontà sul pianeta. Gli interessi materiali decidono le politiche, non gli economisti intelligenti. Keynes, l'internazionalista, ci ha dato l’austerità del FMI sulle economie emergenti in difficoltà.
Inoltre, Keynes fu sempre più un rappresentante degli interessi dell'impero britannico che un internazionalista. Dopotutto, era stato nel servizio civile britannico in India. Il biografo di Keynes, Lord Skidelsky, intitolò il terzo volume della sua biografia Keynes: Fighting for Britain. Durante gli incontri di Bretton Woods nel dopoguerra, Keynes rappresentò non le masse mondiali o un ordine mondiale democratico, ma i ristretti interessi nazionali dell'imperialismo britannico contro il dominio plateale americano. Dopo l'accordo, Keynes disse al parlamento britannico che l'accordo di Bretton Woods non era “un'asserzione del potere americano ma un ragionevole compromesso tra due grandi nazioni con gli stessi obiettivi; ripristinare un'economia mondiale liberale”. Solo due nazioni erano importanti, gli interessi degli altri erano ignorati.
Keynes era un internazionalista quando si trattava di economia? Ha iniziato come un fautore del libero scambio seguendo la tradizionale visione neoclassica secondo cui il mercato libero nel commercio avrebbe giovato tutti. Da studente prestò servizio come segretario dell'Associazione di libero scambio della Cambridge University e ne sostenne le posizioni in diversi dibattiti. “Dobbiamo mantenere il libero scambio, nella sua interpretazione più ampia, come un dogma inflessibile, a cui non è ammessa alcuna eccezione, ovunque sia una nostra scelta. Dobbiamo attenerci a ciò anche quando non riceviamo reciprocità di trattamento e anche in quei rari casi in cui violandolo potremmo in effetti ottenere un vantaggio economico diretto. Dovremmo attenerci al libero scambio come un principio della morale internazionale, e non semplicemente come una dottrina del vantaggio economico”. Nel 1928, tuttavia, Keynes aveva cambiato la sua posizione suggerendo che”"la difesa del libero commercio deve essere basata sul futuro, non su principi astratti del laissez-faire, che pochi ora accettano, ma sull'opportunità e sui vantaggi effettivi di una tale politica".
La terribile esperienza della Grande Depressione cambiò ulteriormente le sue opinioni. In dichiarazioni private fornite nel 1930 davanti al Comitato Macmillan per le finanze e l'industria, istituito per offrire consulenza economica al governo britannico all'inizio della Grande Depressione, Keynes propose dazi sull’importazione di beni esteri e sussidi per gli investimenti interni. Alla domanda se l'abbandono del libero scambio valesse i potenziali effetti migliorativi della protezione, Keynes rispose: "Non ho raggiunto un'opinione chiara su dove sia l'equilibrio del vantaggio", ma vedeva il merito dei dazi come un sollievo dal crollo economico. “Ho una paura spaventosa del protezionismo come una politica a lungo termine", dichiarò, "ma non possiamo permetterci di avere sempre lunghe vedute… la domanda, a mio parere, è fino a che punto siamo disposti a rischiare svantaggi a lungo termine per ottenere un aiuto nella situazione immediata”.
In poco tempo, si spostò sempre più verso misure protezionistiche. In risposta alle domande del primo ministro, Keynes dichiarò di essere “stato riluttante a convincersi che alcune misure protezionistiche andavano introdotte”. In un memorandum preparato nel settembre 1930 per il Comitato degli economisti dell’Economic Advisory Council, Keynes studiò i benefici dei dazi, che ora descriveva come “semplicemente enormi”. Questi benefici comprendevano la soluzione del problema fondamentale del disallineamento dei costi del denaro e del tasso di cambio: una tariffa doganale aumenterebbe i prezzi interni e ridurrebbe i salari reali verso il loro “valore di equilibrio”, al contempo evitando una caduta dirompente dei salari nominali (quindi i salari reali cadono senza che la classe lavoratrice se ne accorga). Una tariffa “ripristinerebbe la fiducia delle imprese e creerebbe un clima favorevole per nuovi investimenti”, affermava, “ma non dovrebbe (se non progettata in modo inadeguato) suscitare richieste da parte dei sindacati per retribuzioni più elevate o avere effetti negativi sull'occupazione”.
Le tariffe doganali avrebbero quindi aiutato il capitale britannico contro i suoi concorrenti comprimendo i redditi reali delle famiglie britanniche. Keynes preferiva la svalutazione della moneta, ma considerava come necessari anche i dazi. Iniziò quindi a sostenere le politiche economiche cd. del “rubamazzo” (ovvero che producono benefici unicamente al Paese che lo adotta e danni agli altri, ndT) per aiutare il capitale britannico contro i suoi rivali. Nel 1933 scrisse della sua simpatia “verso coloro che volevano ridurre al minimo, piuttosto che con quelli che avrebbero massimizzato, i legami economici tra le nazioni. Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che dovrebbero essere di carattere internazionale. Ma lascia che le merci siano fatte in casa quando è ragionevole e convenientemente possibile; e, soprattutto, lascia che la finanza sia principalmente nazionale”.
Tuttavia, una volta che la depressione e la guerra finirono, Lord Keynes nel suo ultimo discorso tornò a sostenere la teoria del “libero scambio” (…). Penso che tutto questo ci dica che Keynes era un internazionalista e un fautore del libero commercio quando pensava che questo sarebbe stato nell'interesse del capitale britannico, ma a favore della protezione e di politiche del “rubamazzo” quando pensava che sarebbe stato nell'interesse dello stesso capitale britannico. Per lui c'erano solo due nazioni “civilizzate”, Stati Uniti e Regno Unito (come partner minore), che potevano guidare il mondo. Keynes non ha mai criticato il ruolo dell'Impero britannico, al contrario, l'ha visto come una cosa buona e da preservare.
L'Europa come una rivale dell'imperialismo americano arrivò dopo la morte di Keynes. Con l'ascesa dell'Europa, il capitale britannico iniziò a muoversi verso il continente, entrando a far parte del mercato unico e dell'UE. Ma il capitale britannico rimaneva diviso su dove allinearsi. All'interno della psiche dell'élite dirigente britannica (principalmente quella del capitale più piccolo e locale), rimaneva una nostalgia per l'Impero e uno sguardo fisso oltre lo “stagno” atlantico. Con la caduta delle economie europee dopo la Grande recessione, i lealisti dell'impero reazionario hanno spinto per una rottura con l'Europa e un ritorno al “vecchio ordine” come partner minore dell'imperialismo americano che esisteva ai tempi di Keynes.
Come avrebbe reagito Keynes a questo? Dal mio punto di vista, com'era ai tempi di Bretton Woods, Keynes sarebbe stato generalmente favorevole al commercio più libero e ai flussi di capitali internazionali, poiché pensava che sarebbe stato vantaggioso per il capitale anglo-americano. Quindi potrebbe aver sostenuto l'ingresso del Regno Unito nell'UE, ma non nell'euro, perché ciò avrebbe portato via il controllo sulla valuta e l'opzione della svalutazione. Quale sarebbe stata la visione di Keynes sulla Brexit? Keynes sarebbe stato un "leaver" o un "remainer"? Probabilmente il primo, dove risiedono le sue inclinazioni nazionaliste. Ma forse anche il secondo, dal momento che come diceva il suo rivale economico degli anni '30, Friedrich Hayek, Keynes cambiava le sue idee come cambiava le sue camicie. Keynes era un internazionalista solo finché non era in conflitto con gli interessi del capitale britannico (o dell'imperialismo americano) - praticamente la stessa posizione di Churchill.
Keynes si opponeva con veemenza all'internazionalismo socialista. Keynes vedeva tutti suoi interventi come progettati per salvare il capitalismo da se stesso e per evitare la temuta alternativa del socialismo. Come ha chiarito: “Per la maggior parte, penso che il Capitalismo, saggiamente gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente così da raggiungere i fini economici di qualsiasi altro sistema alternativo, ma che di per sé è in molti modi estremamente discutibile. Il nostro problema è di elaborare un'organizzazione sociale che sia il più efficiente possibile senza offendere le nostre nozioni di uno stile di vita soddisfacente”. Così “la guerra di classe mi troverà dalla parte della borghesia istruita”.
Ha mai combattuto per una maggiore uguaglianza? Questo è quello che ha detto. “Per parte mia, credo che ci sia una giustificazione sociale e psicologica per significative disuguaglianze di reddito e ricchezza, ma non per le grandi disparità che esistono oggi. Ci sono attività umane preziose che richiedono il motivo del profitto e l'ambiente della proprietà privata della ricchezza per la loro piena fruizione”. Questo è il rivoluzionario di Pettifor. Keynes calcolava che con l'espansione del capitalismo, attraverso una maggiore tecnologia, avrebbe creato un mondo di abbondanza e svago. A causa di questa abbondanza, il rendimento dei prestiti destinati agli investimenti sarebbe caduto e quindi banchieri e finanzieri non sarebbero più stati necessari; sarebbero potuti essere eliminati (“l'eutanasia del rentier”). Bene, non sembra che stia succedendo. I seguaci di Keynes ora sostengono che il capitalismo viene distorto dalla “finanziarizzazione” e dal capitale finanziario - e questo è il vero nemico. Cosa è successo alla graduale eliminazione delle finanze nel tardo capitalismo a la Keynes?
Al contrario, la teoria del capitale finanziario di Marx non prevedeva una graduale rimozione della finanza; Marx ha descritto l'accresciuto ruolo del credito e della finanza nella concentrazione e centralizzazione del capitale nel tardo capitalismo. Sì, le funzioni di gestione e investimento diventano più separate dagli azionisti delle grandi aziende, ma ciò non modifica la natura essenziale del modo di produzione capitalistico - e certamente non implica che i tagliatori di cedole o gli speculatori nel mondo degli investimenti finanziari scompaiano gradualmente.
Keynes, il presunto oppositore radicale dell'economia neoclassica, secondo Pettifor, tornò sui suoi passi. In uno dei suoi ultimi articoli sull'economia capitalista alla fine della Grande Depressione e all'inizio della seconda guerra mondiale, Keynes osservò che “la nostra critica alla teoria classica dell'economia accettata non consisteva tanto nella ricerca di errori logici nella sua analisi quanto nel fare emergere che i suoi taciti presupposti sono raramente o mai soddisfatti, con il risultato che non può risolvere i problemi economici del mondo reale. Ma se i nostri controlli centrali riescono a stabilire un volume aggregato di produzione il più vicino possibile alla piena occupazione, la teoria classica torna a essere di nuovo vera da questo punto in poi”. Quindi una volta ottenuta la piena occupazione, possiamo fare a meno della pianificazione e dell’“investimento socializzato” per far ritorno ai mercati liberi e alla tradizionale politica e politica neoclassica: “il risultato di colmare le lacune nella teoria classica non è quello di disporre del “Sistema di Manchester” (mercati "liberi”- nota dell’autore), ma di indicare la natura dell'ambiente che richiede il libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produzione”.
Effettivamente, dal punto di vista della teoria economica, nei suoi ultimi anni Keynes ha elogiato il capitalismo 'liberale' molto laissez-faire che i suoi seguaci condannano ora. Nel 1944, scrisse a Friedrich Hayek, il principale 'neo-liberista' del suo tempo e mentore ideologico del thatcherismo, per lodare il suo libro The Road to Serfdom, che sostiene che la pianificazione economica conduce inevitabilmente al totalitarismo: 2moralmente e filosoficamente mi trovo d'accordo praticamente con tutto questo; e non solo in accordo con esso, ma in un accordo profondamente commosso”! E Keynes ha scritto nel suo ultimo articolo pubblicato, “mi trovo commosso, non per la prima volta, a ricordare agli economisti contemporanei che l'insegnamento classico incarnava alcune verità permanenti di grande significato .... Ci sono in queste cose correnti sotterranee profonde, forze naturali, come si possono chiamare, o anche la mano invisibile, che operano verso l'equilibrio. Se non fosse così, non saremmo potuti andare avanti così bene come abbiamo fatto per molti decenni”. Così l'economia (neo)classica della “mano invisibile” e dell’“equilibrio” è tornata dopo tutto - l'opposto per cui i seguaci keynesiani ora si battono. Una volta passata la tempesta (di crollo e depressione) e quando “l'oceano” è tornato di nuovo piatto, la società borghese poteva tirare un sospiro di sollievo. Quindi Keynes il radicale si trasformò in Keynes il conservatore.
Eppure il mito di Keynes, radicale e rivoluzionario, è preservato e promosso dalla sinistra keynesiana e continua ad influenzare il movimento operaio (in particolare i suoi leader) come l'alternativa al neoliberalismo, all’austerità, all’economia di mercato.
Perché succede? Bene, ci sono ragioni teoriche. La macroeconomia keynesiana presuppone che il capitalismo lavori per sviluppare le forze produttive e per soddisfare i bisogni delle persone. Il problema è che occasionalmente c'è un “malfunzionamento tecnico” (Paul Krugman). Per qualche ragione (perdita di fiducia o spiriti animali?), l'investimento capitalista rimane bloccato in una modalità di “accumulo di denaro” da cui non può uscire (trappola della liquidità). Quindi è necessario che le autorità governative diano una “spinta” con stimoli monetari e/o fiscali, e poi tutto tornerà di nuovo come prima - fino alla prossima volta! Keynes amava considerare gli economisti come dentisti che risolvono un problema tecnico di mal di denti nell'economia (“Se gli economisti riuscissero a farsi considerare come persone umili e competenti ai livelli dei dentisti, sarebbe magnifico”). E i keynesiani moderni hanno paragonato il loro ruolo a idraulici che riparano le falle nella conduttura dell'accumulazione e della crescita.
Quello che l'analisi marxista del modo di produzione capitalista rivela è che in definitiva il capitalismo non può porre fine alla disuguaglianza, alla povertà, alla guerra e non può consegnarci un mondo di abbondanza per il benessere comune a livello mondiale, o neanche può evitare la catastrofe del disastro ambientale (qualcosa che viene ignorato da Keynes). Questo perché il capitalismo è un modo di produzione guidato dal profitto superfluo; dallo sfruttamento e non dalla cooperazione; e ciò genera contraddizioni inconciliabili che non possono essere risolte dalla “macro-gestione tecnica” dell'economia. Possono essere risolte solo sostituendo il capitalismo. In questo senso, Marx, piuttosto che Keynes, è vicino a Darwin come rivoluzionario in economia.
Ma c'è un'altra ragione. Geoff Mann, nel suo eccellente libro ‘Sul lungo periodo siamo tutti morti’, ha offerto una spiegazione. Keynes governa a sinistra perché offre una presunta terza via tra la rivoluzione socialista e la barbarie, cioè la fine della civiltà come 'noi' (in realtà la borghesia come Keynes) la conosce. Negli anni '20 e '30 Keynes temeva che il “mondo civilizzato” affrontasse la rivoluzione comunista o la dittatura fascista. Il socialismo come alternativa al capitalismo della Grande Depressione avrebbe potuto benissimo abbattere la 'civiltà' e liberare la 'barbarie' - la fine di un mondo migliore, il crollo della tecnologia e dello stato di diritto, più guerre ecc. Quindi Keynes mirava a qualche modesto intervento di riparazione del “capitalismo liberale”, per farlo funzionare senza la necessità di una rivoluzione socialista. Non ci sarebbe bisogno di andare sul terreno dove gli angeli della “civiltà” temono di camminare. Questa era la narrativa keynesiana. Questo è un appello (che ancora fa presa) ai leader del movimento operaio e ai "liberali" che vogliono il cambiamento. La rivoluzione è rischiosa e potremmo tutti andare giù con lei: “la sinistra vuole la democrazia senza il populismo, vuole una politica di trasformazione senza i rischi della trasformazione; vuole la rivoluzione senza rivoluzionari” (Mann p.21).
Ma saremo davvero tutti morti se non poniamo fine al modo di produzione capitalistico. E ciò richiederà una trasformazione rivoluzionaria. Armeggiare con i presunti malfunzionamenti del capitalismo “liberale” non “salverà” la civiltà sul lungo termine.

- Michael Roberts - Pubblicato nel mese di ottobre 2018 su Michael Roberts Blog blogging from a marxist economist -
- Traduzione a cura di Francesco Delledonne, pubblicato su La Città futura -

mercoledì 30 gennaio 2019

Com'è bella l'avventura!

Blaise Cendrars è stato definito «il grande avventuriero della letteratura moderna». Da quando scappò di casa, a sedici anni, «la sua vita non ha fatto che cambiare rapinosamente scenari». E molteplici, e rapinosi, sono anche gli scenari che attraversiamo in questo romanzo, una boîte à surprises dalla quale vengono fuori, a ogni pagina, orrori e magnificenze. A farci da guida è un doppio dell'autore, che non per caso porta il nome di un anarchico ghigliottinato nel 1913, Raymond la Science. E un doppio diabolico e allucinato dell’autore è lo stesso Moravagine, ultimo discendente di una famiglia reale, che Raymond aiuta a fuggire da una clinica per alienati e in compagnia del quale vivrà le peripezie più mirabolanti: saranno terroristi nella Russia zarista del 1905, prigionieri degli indios blu sulle sponde dell'Orinoco, volontari nel corso della prima guerra mondiale... Moravagine è la «grande belva umana», «amorale», «fuorilegge», un essere che incarna la follia e il male, che uccide «spesso per puro divertimento», di preferenza giovani donne, e teorizza che «tutto quanto è solo disordine» e che chi ha paura del disordine ha paura della vita stessa: la quale non è altro che «delitto, furto, gelosia, fame, menzogna, sborra, stupidità, malattie, eruzioni vulcaniche, terremoti, mucchi di cadaveri», e che non esiste verità, ma solo l'azione, «l'azione effimera», «l'azione antagonista». Tra digressioni fascinose, anse maestose, deviazioni fulminee, veniamo irresistibilmente trascinati da una scrittura che, come rilevò la critica del tempo, possiede una «prodigiosa potenza pittorica, un misto di crudeltà, sensualità e lirismo» – uno stile la cui sfrenata libertà continua a vibrare.

(dal risvolto di copertina di: Blaise Cendrars: Moravagine, Adelphi)

Moravagine, l'ultimo libertino che annichilisce il Novecento
- di Massimiliano Parente -

Ah, quanto erano liberi gli scrittori fino alla seconda metà del Novecento, confrontati con quelli osannati oggi, a maggior ragione se prendono un premio Nobel, così politicamente corretti come sono.
A tal punto che non si ripubblicano certi pamphlet di Céline, perché si ha paura delle parole. Ma se uno scrittore non viola il limite del dicibile, cosa scrive a fare? Solo per intrattenere? E De Sade, allora? E che dire, per esempio, di Blaise Cendrars? Un grandissimo, avventuriero senza freni e folle ispiratore delle avanguardie novecentesche, di cui Adelphi pubblica il suo secondo strepitoso romanzo, Moravagine, uscito nel 1926. Un'opera molto dostoevskijana, a cominciare dall'essere centrata su un doppio: un narratore, il medico Raymond La Science, e un personaggio strampalato e straordinario, Moravagine, ultimo discendente della famiglia reale austriaca, segregato in una clinica psichiatrica, «traviato, squilibrato, amorale, fuorilegge, nervoso, impulsivo», che nel corso della narrazione farà strage di donne (nel senso letterale) con sadiana nonchalance. Il medico farà fuggire il pazzo, e insieme andranno in giro per il mondo a seminare il panico, fino arruolarsi volontari nella Prima Guerra Mondiale e finendo imprigionati dagli indios. La prima guerra mondiale Cendrars la conosceva molto bene: è lì che perse una mano (come Cervantes sul fronte perse un braccio, due grandi monchi della letteratura), diventando mancino (ci scrisse pure un romanzo, La mano mozza). Ma la parte più bella di Moravagine è quella rocambolesca sul tentativo rivoluzionario nella Russia zarista, una versione pulp de I demoni di Dostoevskij, e in generale le lunghe parti digressive, che farebbero inorridire qualsiasi benpensante di oggi. In ogni caso niente a che vedere con il nichilisti del 1880, loro erano «sognatori, abitudinari della felicità universale», mentre i rivoluzionari di Raymond e Moravagine vogliono solo portare il caos, inappagati di qualsiasi obiettivo. Annientare l'ordine per annientarlo, senza altri fini. «Agivamo come una macchina che gira a vuoto fino a spegnersi, inutilmente, inutilmente, come la vita, come la morte, come un sogno. Nemmeno l'infelicità ci interessava più». Neppure l'amore ha un senso, e il monologo di Raymond sulla natura umana è più estremo di quello del Grande Inquisitore. L'amore è «un'intossicazione grave, un vizio, un vizio che si vuole condividere», e si fonda sul masochismo. Non si salvano le donne, che non sono fonte di vita ma di morte, e non sono vittime ma carnefici (benché carnefici masochisti). «L'amore, in loro, inizia con lo strappo di una membrana per arrivare alla totale lacerazione al momento del parto. Tutta la loro vita non è altro che sofferenza; e infatti tutti i mesi ne sono insanguinate. La donna è posta sotto il segno della luna, questo riflesso, questo astro spento, e di conseguenza tanto più procrea tanto più genera morte». Si arriva, addirittura, alla giustificazione teorica di quello che oggi chiamiamo del femminicidio, per la salvezza dell'uomo («l'omicidio è l'unico mezzo efficace che cento miliardi di maschi e migliaia di secoli di civiltà hanno trovato per non subire l'egemonia della donna»), un romanzo criminalmente misogino (e però, visto come molte donne oggi considerano gli uomini..).
Non si salva neppure Israele, identificato come altra fonte di vittimismo e masochismo, in quanto «solo gli ebrei hanno raggiunto quell'estremo declino sociale a cui tendono oggi tutte le società civili, il quale non è altro che il logico sviluppo dei principi masochistici della loro vita morale». E siamo appena un decennio prima dell'apertura dei primi lager nazisti.
Viene portato all'estremo perfino Darwin: «Distruzione, nulla, ecco cos'è questo scorrere inesauribile delle creature; sofferenze, inutili crudeltà, ecco cosa sono questa diversità delle forme, questo lento, faticoso, illogico, assurdo adattarsi delle creature nell'evoluzione». Tornando di nuovo a puntare il dito sulla donna, perché «l'uomo ne è schiavo, si arrende, rotola ai suoi piedi, abdica passivamente, subisce». Di nuovo, a reggere tutto, c'è il masochismo, l'incontro insensato tra i sessi predisposti a fraintendersi: «ecco perché l'esistenza è stupida, insulsa, futile, e non ha ragione di essere». Un romanzo che qualcuno, di questi tempi, potrebbe voler metter all'indice, quindi un capolavoro.

- Massimiliano Parente - Pubblicato sul Giornale del 22/5/2018 -

martedì 29 gennaio 2019

Rileggere

Pisa, 7 maggio 1972, ore 9.45. Franco Serantini, vent’anni, muore in carcere dopo essere stato trattenuto e interrogato per due notti e un giorno, senza ricevere le cure di cui ha un evidente bisogno.
Due giorni prima, nel centro della città, una manifestazione degenera in guerriglia urbana, tra barricate, molotov, fumi di lacrimogeni. All’angolo tra Lungarno Gambacorti e via Mazzini, Franco – che è solo come sempre – viene accerchiato e aggredito da una decina di poliziotti suoi coetanei, tempestato di calci, pugni e manganellate con una ferocia che non risparmia neppure un lembo del suo corpo.
Fino ad allora quella di Franco Serantini è stata un’esistenza priva di luce, trascorsa nella più assoluta povertà e assenza di affetti. La sua storia è quella di un orfano che ha perso anche la madre adottiva, costretto a passare da un brefotrofio a un istituto, fino a ritrovarsi in riformatorio a Pisa anche se non ha commesso alcun reato. Proprio qui, in una città che gli appare come un bellissimo teatro, perso fra tanti altri ragazzi, Franco vive i suoi anni più felici. Gli ultimi.
Sembra la trama di un romanzo ottocentesco, ma nel Sovversivo l’indagine sulla morte dell’anarchico Serantini è condotta attraverso un coro di documenti e testimonianze reali, componendo una narrazione civile di limpido rigore e grande partecipazione emotiva. Come sempre accade nelle opere di Corrado Stajano, la vicenda di un solo individuo svela il male di un paese intero, e nel corpo di un ragazzo si rintracciano i segni di un tempo spietato, lacerato dai conflitti politici e sociali.
Rileggere le pagine dedicate a Serantini, qui proposte con gli straordinari disegni di Costantino Nivola, significa riportare alla memoria anche i volti di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi. Storie di oggi: soprusi delle forze di polizia, depistaggi giudiziari, giovani vite finite che mettono sotto accusa uno Stato incapace di processare se stesso, e raccontano la notte di una democrazia che abdica violentemente alle proprie regole.

(dal risvolto di copertina di: Corrado Stajano, "Il sovversivo Vita e morte dell’anarchico Serantini" pagine: 208 € 21,00. Il Saggiatore)

Ieri e oggi
di Corrado Stajano

Sembra l’immagine di un giovane uomo in attesa della morte, quella di Franco Serantini, il 5 maggio 1972, immobile sull’angolo di via delle Belle donne che dà sul Lungarno Gambacorti di Pisa. Non fa un gesto, potrebbe facilmente scappare nei vicoli della Nunziatina, il quartiere proletario, pochi passi alle sue spalle, salvarsi dalla violenza dei poliziotti, una decina, che coi calci dei moschetti, i manganelli, gli scarponi, i pugni lo massacrano. Con ferocia, con crudeltà riversano su quel povero ragazzo tutta la loro furia, le loro frustrazioni.
Quando uscì questo libro, nel 1975, lo presentò con altri Dario Fo: in un silenzio di ghiaccio, davanti a un migliaio di persone dentro e fuori dalla Palazzina Liberty di Milano, l’attore lesse con voce grave, senza una parola di commento, le due pagine che riportano i dati dell’esame necroscopico. Una stazione del Calvario, il vento della morte su un ragazzo colpevole soltanto di avere gridato qualche insulto contro i fascisti raggruppati per un comizio in una piazza non lontana, e forse contro quei maramaldi imbestiati del 1° Raggruppamento Celere di Roma, coetanei ventenni della vittima.
La breve esistenza di Franco Serantini sembra una storia ottocentesca ai limiti dell’invenzione settaria, colma com’è di miseria, di violenza, d’ingiustizia. Il destino di sofferenza e di dolore che tocca in sorte ai poveri.
Serantini nasce a Cagliari il 16 luglio 1951, figlio di nessuno. N.N. — nomen nescio, non noto — un marchio rovente che fino al 1975 pesò anche sui documenti dei bambini e poi degli adulti senza madre e senza padre.
All’orfanotrofio per due anni, viene dato in affidamento a due coniugi siciliani. La coppia vive quietamente con il bambino, poi la donna si ammala e nel 1955 muore. L’Amministrazione provinciale di Cagliari ordina allora che Franco venga affidato all’Istituto del Buon Pastore della città, in un quartiere chiamato «Il Giorgino», simile al ghetto di un paese nordafricano.
È un bambino e poi un ragazzino chiuso, taciturno, infelice. Non è un bravo scolaro e neppure un bravo studente, in perenne conflitto con le suore che un certo giorno si appellano al Tribunale dei minori. «Per rimediare alla lunga istituzionalizzazione», scrivono i giudici nella loro ordinanza, Serantini viene destinato al riformatorio di Pisa, il San Silvestro, il rimedio più ragionevole davvero per un giovane fragile, incensurato, tra l’altro.
Accade che la città lo affascini, per lui è la scoperta della vita. Com’è diversa Pisa dai posti dove è vissuto, con quel verde tenero del Campo, il bianco della Cattedrale e del Battistero, la Torre, le piccole strade dei vecchi quartieri, l’Arno. Sono gli anni — il ’68 — della ribellione studentesca e operaia. In mezzo a quelle migliaia di ragazzi di ogni regione che riempiono vie e piazze, Franco, introverso com’è, ferito, si sente uguale agli altri, non più il figlio di nessuno.
Ha voglia di fare. Studia, prende la licenza media, si iscrive a un Istituto professionale. Legge tutto quel che trova, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, di Gaetano Salvemini, chissà come, chissà perché. Parla, discute, conosce ogni giorno persone nuove.
Sono i pochi anni sereni della sua esistenza. La passione della politica prende anche lui. Non ama la violenza, si avvicina con naturalezza agli anarchici, diventa l’anima del gruppo Giuseppe Pinelli, l’anarchico fermato a Milano il 12 dicembre 1969, dopo la strage di piazza Fontana, entrato vivo e uscito morto dalla Questura. Si dà da fare come se volesse recuperare un tempo perduto, donatore di sangue, cameriere a Viareggio. Capisce l’importanza del leggere, del sapere, costruisce la sua cultura. Su un quadernetto dalla copertina nera scrive tutto quello che gli salta in testa, appiccica articoli di giornale, fotografie, non si stanca mai di parlare di Pinelli, di Valpreda. Lavora in un ufficio di perforazione schede e con i suoi guadagni compra un motorino, un Ciao usato di color blu. La felicità.
Il 7 e l’8 maggio 1972 si svolgono le elezioni politiche nazionali. La campagna elettorale è aspra. Pisa è una roccaforte della sinistra extraparlamentare. Alla vigilia del voto, il 5 di maggio, il venerdì, è in programma un comizio fascista. Lotta continua si oppone con durezza. Carabinieri e polizia sono giunti in città in gran numero. Il conflitto esplode, tre ore di guerriglia.
Rinchiuso nel carcere «Don Bosco» Serantini sta visibilmente male. Nessuno interviene. Il giorno dopo, il sabato a mezzogiorno, viene interrogato dal magistrato che non si accorge di nulla, anche se il ragazzo non riesce neppure a tenere la testa levata.
Non si parla di una radiografia — nel carcere funziona un attrezzato centro medico specialistico —, non gli viene misurata neppure la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca. Il medico gli prescrive Sympatol-Cortigen e una borsa di ghiaccio da mettere sul capo, «in permanenza».
Anche un profano capirebbe che il ragazzo è alla fine, in coma. Muore a mezzanotte e 45 minuti del 7 maggio, la domenica delle elezioni. Si tenta di seppellirlo in fretta, di nascosto.
Franco Serantini è vittima di una doppia morte, quella selvaggia a opera della polizia e quella dello Stato che rifiuta di processare se stesso. Il tempo della giustizia mancata è segnato poi da infiniti conflitti giudiziari, da reticenze, bugie, avocazioni decretate dal procuratore generale di Firenze, Mario Calamari, da processi fasulli che finiscono nel nulla.
Il coraggio di un giudice istruttore, Paolo Funaioli, e il gesto di un commissario di polizia, Giuseppe Pironomonte, che si dimette per la vergogna, rappresentano il Paese civile, rispettoso dell’animo umano.
Quasi mezzo secolo dopo l’altra Italia non è ancora riuscita a far ascoltare la lezione di dignità dettata dalla legge e dalla Costituzione della Repubblica (art. 2; art. 3; art. 13).
Il calendario delle violenze dura da decenni. Qualche esempio di fatti fuorilegge del XXI secolo.
Genova, luglio 2001, il G8, una mattanza. È impressionante l’attacco poliziesco contro inermi, giovani e vecchi, già colpiti, a terra. Amnesty International aprì un’inchiesta e in una lettera pubblica 700 professori delle università italiane si appellarono al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, con domande e proteste circonstanziate sui fatti accaduti. E poi il vergognoso assalto alla scuola Diaz, presenti alte autorità di polizia venute da Roma, e l’indecente pestaggio alla caserma-lager di Bolzaneto, sangue, violenza, tortura, con il sottofondo musicale di inni fascisti.
Ferrara, settembre 2005. In corso Ercole I d’Este, la strada dove Giorgio Bassani fa vivere nel suo Giardino dei Finzi-Contini i protagonisti del romanzo, Micòl e Alberto, quattro poliziotti aggrediscono con ferocia Federico Aldrovandi, un ragazzo di 18 anni — tornava da una festa —, lo calpestano schiacciandolo con gli scarponi, lo colpiscono, dalla testa ai piedi; con i manganelli che si spaccano. 54 lesioni grandi e piccole. La morte.
Roma, ottobre 2009. Stefano Cucchi, un giovane di 31 anni «trovato morto» all’ospedale Sandro Pertini. Arrestato, deteneva una piccola quantità di droga, massacrato. Le fotografie rese pubbliche sono impressionanti. Il viso di Stefano è un mascherone sanguinante. Sono necessari nove anni perché un carabiniere pentito racconti quel che accadde nella prima caserma dove fu rinchiuso. (Qual è l’educazione civile, politica, militare che viene impartita nelle caserme? La Costituzione non è andata al di là delle garitte delle sentinelle e dei corpi di guardia?).
Nel ricordare queste storie di vita e di morte — in Italia esistono anche tante energie positive troppo spesso non viste e non integrate nella comunità — viene in mente Nuto Revelli quando ricordava le donne della montagna piemontese che, durante la Resistenza, a rischio della vita, aiutavano i partigiani, nel nome e nel ricordo dei figli e dei fratelli scomparsi o morti in Russia. Nelle tragiche vicende di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi rifulge proprio l’appassionato ruolo delle donne, Patrizia Moretti, la madre coraggio di Federico, e Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, con il suo luminoso non mollare.
Questa nuova edizione del Sovversivo, 44 anni dopo l’uscita del libro, è arricchita dagli straordinari disegni di un grande artista, Costantino Nivola.
Sardo come Serantini, con la sua stessa passione umana e politica, vide il libro a Roma in casa dello scrittore Antonio Cederna. Si incuriosì, se lo fece prestare. Viveva negli Stati Uniti, a Roma era ospite dell’Accademia americana. Amico di Antonio e della sua famiglia, frequentava spesso, durante i viaggi in Italia, la sua casa. Si appassionò al libro. Si identificò, forse, nel ragazzo Serantini. Lui, figlio di un muratore, era nato nel 1911 a Orani (Nuoro). Aveva lasciato l’Italia nel 1938 in seguito alle leggi razziali del fascismo, la moglie era di origine ebraica. Visse dapprima a Parigi e poi, per decenni, negli Stati Uniti. Si fece subito conoscere come disegnatore e come scultore. Usava la sabbia, la terracotta, il marmo, fu attratto dal fervore dell’ambiente nuovo, vicino alla cultura dell’arte informale, autore di graffiti murali, di monumenti di granito esposti in molte città in America e in Italia.
Lavorò nello studio di Le Corbusier, fu stilisticamente vicino a Saul Steinberg, insegnò alla Columbia University, alle università di Harward e di Berkeley. A Orani il Museo Nivola ospita una grande collezione delle sue opere. È morto nel 1988 a Long Island. Vicino a Boston vive l’amata figlia Chiaretta.
Si appassionò dunque alla storia di Franco Serantini e negli spazi bianchi del libro, prima dell’inizio dei capitoli e ai margini delle pagine, ne raccontò coi suoi disegni la vita e la morte. Un unicum editoriale.
I disegni di Costantino Nivola sono l’ultimo dei doni che Franco Serantini ha avuto, dopo quell’indimenticabile funerale, partecipe e commossa tutta la città di Pisa.
Ha ricevuto altri doni, il ragazzo sardo. Il monumento dei cavatori di marmo di Carrara, a lui dedicato in piazza San Silvestro dove una volta aveva sede il riformatorio; la Biblioteca che porta il suo nome, 50.000 libri, 6.000 periodici, 500 metri di documenti; il concerto, N.N. di Francesco Filidei, musicista che vive a Parigi, conosciuto e stimato in tutta Europa. La memoria del ragazzo sardo non si è smarrita.

- Corrado Stajano - Pubblicato sul Corriere del  28.1.19 -

lunedì 28 gennaio 2019

Gilles e Geneviève

The Game
Un'intervista a Michéle Bernstein, scrittrice e membro fondatrice dell'Internazionale Situazionista
di Gavin Everall - 6 settembre 2013 -

Michéle Bernstein, nata nel 1932, è stata, insieme al suo primo marito Guy Debord, un membro fondatore dell'Internazionale Situazionista. Lasciò i Situazionisti nel 1967, dopo aver scritto due romanzi ed aver dato diversi contributi alla rivista Internazionale Situazionista, e dopo aver suscitato alcune dicerie. Da allora, per lo più, è rimasta silenziosa. L'opera di Debord - sepolta dalla Stato e dall'agiografia, e in mostra quest'anno  come «Guy Debord: Un art de la guerre» a Parigi, alla Bibliotèque nationale de France - ristagna, mentre gli anti-romanzi di Bernstein, "Tous les chevaux du roi" (1960/2008) e "La Nuit" (1961/2013), sono stati recentemente ristampati in Francia, ed ora sono stati entrambi tradorri in inglese. Il secondo, tradotto da Clodagh Kinsella, è stato pubblicato a Londra da "Book Works" all'inizio di quest'anni, insieme a "After the Night" - un detournement dell'originale ambientato a Londra - opera dell'artista collettivo "Everyone Agrees", che opera fra Londra e New York. In quest'intervista, Bernstein parla dei Situazionisti, dei suoi romanzi e della sua vita dopo il 1967.

Gavin Everall: "Tous les chevaux du roi" e "La Nuit" sono stati scritti ai primissimi anni dell'Internazionale Situazionista. Scriverli, è stata una tua idea, o c'è stata una decisione collettiva?

Michèle Bernstein: Ovviamente, è stata una mia idea. A quel tempo, ero del tutto Situazionista. Il primo libro l'ho scritto fra la fine del 1957 ed il 1958, mentre "La Nuit" 18 mesi dopo. Erano gli anni di quello che io chiamavo il mio Lumpen-Segretariato. Eravamo piuttosto al verde.

Everall: Quindi, i libri sono stati scritti per soldi?

Bernstein: E per divertimento. Per soldi e per divertimento. C'è scritto tutto quanto nella nuova prefazione a "The Night". Vuoi che te la legga?

Everall: No, forse solo una parte. Sono sinceramente interessato alla relazione che avevano i Situazionisti con la forma romanzo. Puoi dirmi qualcosa in proposito?

Bernstein: I Situazionisti consideravano totalmente obsoleta la forma classica del romanzo. Dal momento che avevamo bisogno di soldi, avevo deciso di scrivere un romanzo inventato - uno scherzo, com'erano i romanzi popolari di quell'epoca, come quelli di Françoise Sagan e di molti altri. E poi ho continuato a farlo anche con "La Nuit" - una sorta di parodia del "noveau roman", come quelli che venivano pubblicati da Alain Robbe-Grillet, con frasi dilatate, con sequenze di tempo strapazzate e con sentenze instancabili. A quel tempo, il "noveau roman" veniva considerato come l'apice della modernità. Chissà? Noi probabilmente eravamo ancora più moderni, ma non ci conosceva nessuno. Per quanto riguarda il "noveau roman", erano davvero un gruppo? Funzionava bene per i media - scrivevano tutti per gli stessi editori, venivano ritratti tutti insieme nelle stesse fotografie, ma erano tutti piuttosto diversi fra loro. Alcuni mi piacevano molto.

Everall: Come è stato preso "La Nuit" dagli altri membri dell'Internazionale Situazionista?

Bernstein: Non lo so. Non ne abbiamo parlato. Guy pensava che fosse divertente.

Everall: Ora che è stata pubblicata la nuova edizione, come è stata l'esperienza di rileggerlo?

Bernstein: E' stato strano. Pensavo che fosse molto più noioso di quanto realmente era, ma i miei editori, Gérard Berréby and Danielle Orhan, hanno detto che si sono divertiti a leggerlo, e così mi sono detta "perchè no?" E in realtà mi è piaciuto. Ci vedo molto più di me, che di "noveau roman" e di Robbe-Grillet, e ci vedo più di me e di Guy nei personaggi di Gilles e Geneviève, e mi piacciono abbastanza.

Everall: Mi interessava molto questo aspetto biografico...

Bernstein: Sì, ma vorrei essere chiara su questo: ci sono solo dei piccoli indizi. La versione londinese, "After the Night", mi ha fatto sghignazzare, ma in essa ci sono due menzogne, delle quali riesco a tollerarne solo due. Si scherza sul fatto che avrei 90 anni - piuttosto, di solito dico che ne ho 200. Della seconda bugia me ne sono già dimenticata.  La terza, è che dicono che sia realmente successo quel che accade nel romanzo. No, no, no: non ho mai interferito con gli affari di mio marito, come una moglie borghese e arpia! Ma ciò nonostante mi hanno detto che quel che è veramente successo si trova nel loro romanzo, non nel mio. In questo modo, va bene tutto e tutti sono d'accordo.

Everall: Il libro attinge parecchio non solo alla trama de "Les Liaisons dangereuses" di Pierre Choderlos de Laclos, che nel 1959 ebbe anche una sua prima trasposizione cinematografica, in un film diretto da Roger Vadim.

Bernstein: All'epoca c'eravamo infatuati anche del film del 1942, "Les Visiteurs du soir", diretto da Marcel Carné. Le sinossi di quei due film sono praticamente identiche: la coppia arriva, ha inizio un gioco, e poi uno di loro comincia ad essere veramente innamorato di qualcun altro, ma tutto quanto fa parte di un gioco trasgressivo - che non è quello che avviene con me; alla fine, ne "La Nuit" non c'è sofferenza, niente.

Everall: "After the Night", scritto da "Everyone Agrees", suggerisce che Gilles e Geneviève siano coinvolti in questo gioco di trasgressione, tanto che alla fine lo abbandonano, per poi riunirsi come coppia liberale tradizionale. Mi intriga l'idea che tu rifiuti l'idea della trasgressione.

Bernstein: Lo fanno? Non ci ho letto questo. Ad ogni modo, non era comunque una storia di trasgressione. Nel mio libro, Gilles evita di innamorarsi davvero di Carol. Se lo avesse fatto, quello sarebbe stato l'argomento di un romanzo tradizionale. Invece, è solo un gioco libertino, e non una vera e propria trasgressione. Alla fine, c'è solo un po' di amarezza, che scomparirà come se fosse stata una sbornia. E' la vita.

Everall: Allora, a quel tempo, avevi intenzione di scrivere una terza versione della medesima storia?

Bernstein: Sì, avrei voluto che apparisse sotto forma di una storia a fumetti, ma questo non è mai accaduto.

Everall: Debord è sempre stato considerato come se fosse la figura rappresentativa del gruppo; come il teorico, lo stratega, il dirigente esecutivo, e più recentemente come il segretario. A parte i due romanzi, un articolo per il Times Literary Supplement  [1964], la battitura e i contributi a Potlatch [1954-57], hai pubblicato ben pochi articoli a tuo nome, eppure per più di un decennio sei stata la persona più vicina a Debord. Hai avuto un ruolo differente: non così silenzioso, né tanto segreto - posso suggerire che la tua sia stata un presenza potente, ma sconosciuta? Quanto hai influenzato la direzione del gruppo?

Bernstein: Non potente. Utile, spero. Parlavo un bel po' con Guy, in privato e in pubblico, condividendo idee. Ma non ho scritto molto, questo è vero. Per due ragioni: una, sono pigra, e non mi piace scrivere - trovo molto più facile parlare! Due, lo stile dell'Internazionale Situazionista divenne sempre più politico e filosofico, ed è uno stile che non padroneggio molto bene. Alla fine, penso che stessi diventando allergica alla continua inversione del genitivo - miseria della filosofia, filosofia della miseria, non so se mi spiego. Avevo come la sensazione che i nuovi Situazionisti ne stessero abusando per provare la loro credibilità, la credibilità del loro Hegelo-Marxismo, e tutto questo era diventata, per me, la noia della ripetizione, la ripetizione della noia. Non ricordo tutto quello che avevo scritto realmente sulla rivista, ma se sembra che sia stato scritto da una giovane ragazza, un po' snob ed un po' frivola, allora potrei essere stata io.
Naturalmente, eravamo tutti marxisti - lo sono ancora. Del tutto sotto il fascino del vecchio - il genio. Può darsi che oggi diventi sempre più importante. Durante i trent'anni della società benestante, quella gente non-marxista-liberare-capitalista-spettacolare-promozionale avrebbe detto: non è forse Ok questo mondo? Ma ora che stiamo arrivando, almeno in Occidente, ad avere una massiccia pauperizzazione delle persone, Marx non è forse molto presente? Ad ogni modo, non direi che Marx sia l'alfa e l'omega...

Everall: Contemporaneamente allo stesso cambiamento di stile che descrivi, e all'afflusso dei Situazionisti più giovani, Debord cominciò a diventare sempre meno interessato all'arte.

Bernstein: Il problema non era quello di essere o meno interessati all'arte. Il problema era la totale assenza di artisti nel gruppo, dopo che c'era stata la loro esclusione. Chiunque fosse nuovo era un sociologo, o un rivoluzionario puro, oppure uno studente... Gli incontri erano diventati sempre più pesanti, e vedevano anche meno ingegno e meno immaginazione... ma io rimasi solo fino al 1967.

Everall: Tu sei stata l'unico membro a non essere stato espulso. Mi interessa il motivo per cui te ne sei andata, e ovviamente a cosa è successo dopo.

Bernstein: No, non sono stata espulsa. Ho smesso. Non vi posso dire quale sia stato esattamente il motivo, ma posso fare tre passi verso questa direzione. Il primo passo: verso il 1965, io e Guy non viviamo più insieme. Eravamo stati sposati per undici anni, e lo sai cosa succede dopo undici anni - ti innamori di qualcun altro. Non una piccola storia, ma innamorato davvero. Così lui si era innamorato di Alice [Becker-Ho], ed io mi innamorai di qualcuno che non era molto importante, ma che a quel tempo mi era assai caro. Ma nonostante tutto questo, Guy ed io abbiamo continuato a vederci per tutto il tempo. Secondo passo: lo conoscevo da quando avevamo 22 anni, e non l'ho incontrato come se fosse il grande capo, come se fosse quello con cui nessuno era in disaccordo. Potevo dire di no, e fra di noi era così, e per lui questo andava bene. Ma pensavo anche che lui fosse molto importante, e anche quando non eravamo d'accordo in privato, quando ci trovavamo con i Situazionisti egli avrebbe avuto il mio voto.

Everall: L'assenza degli artisti è stata fondamentale per te?

Bernstein: No. Mi sono mancati dopo la loro partenza, o espulsione - in particolare Gil Wolman, Asger Jorn, Maurice Wyckaert, Gruppe SPUR e Jacqueline de Jong – ma non ho smesso per questo motivo. Il perché l'avevo detto prima, sebbene sia stato scritto che era dovuto al fatto che ero una Sionista. Essere o non essere una Sionista, non aveva niente a che fare con tutto questo; non era questo il punto.

Everall: Il tuo allontanamento coincide con la guerra dei sei giorni?

Bernstein: Le argomentazioni circa questa guerra erano complessi ed erano tutti d'accordo, tranne me. E la mia posizione era semplicemente questa: ad essere all'origine del conflitto militare non era Israele, ma l'Egitto. E in quel momento non era questa l'opinione di tutti gli altri. E la legge era semplice: se qualcuno aveva un'opinione diversa da tutti gli altri Situazionisti, o abbozzava, o se ne andava. Si doveva essere tutti d'accordo. E dal momento che volevo cambiare il mio punto di vista, e non lo faccio tuttora, me ne sono andata. Ma, in seguito, Guy mi ha detto, che dovevo rimanere clandestina, come Jorn. Sì. Questo non significava molto, dal momento che rimanevo comunque ancora amica di Guy,  dandogli qualche consiglio in privato - alcuni buoni, altri disastrosi, ma sempre nello spirito di voler trattare un conflitto con umorismo, piuttosto che con violenza. Nel '68, questo significava prendere la bicicletta e andare a "cercare le sigarette" nei sobborghi vicini, dal momento che a "Parigi non c'erano più sigarette", e fare uno striscione e appenderlo fuori della Sorbona ... e aiutare un po' col denaro.  Quindi, fino al 1973 sono rimasta all'esterno, ma comunque vicina. Poi, ho deciso di fare uso della mia libertà, e sono andata ad una festa per incontrare vecchi amici - Wolman, François Dufrêne e altri. Improvvisamente, è arrivato qualcuno, alto, vestito di nero, e che non mi aspettavo affatto perché pensavo fosse in Inghilterra...

Everall: Ralph Rumney, che non vedevi da anni...

Bernstein: Non lo avevo più visto da quando era stato espulso, il che vuol dire che era dallo stesso anno in cui avevamo fondato l'Internazionale Situazionista. E non so come sia successo, ma un amico mi ha detto che non aveva mai visto due persone così felici di rivedersi. Eravamo noi. Lui era vedovo, dal momento che era stato sposato con Pegeen, la figlia di Peggy Guggenheim, e io allora ero divorziata. Stavo comprando il mio appartamento, e non volevo più essere responsabile, in quanto moglie di Guy, di alcun costo finanziario, o ammenda, per la rivista dell'Internazionale Situazionista - in realtà non ce n'erano, ma a partire dal '68 era possibile tutto; e Lebovici Livre [l'editore] stava dando un bel po' di soldi, ragion per cui io non servivo più a questo. Alla fine del 1973, Ralph ed io ci siamo sposati. Debord è andato su tutte le furie, e stavolta mi ha escluso definitivamente.

Everall: Nel suo libro, "The consul" [1999], Ralph parla di questo. Guy non ti avrebbe più parlato?

Bernstein: No. Da allora in poi sono entrata nel buio. Nel luogo oscuro. Insieme al Principe delle Tenebre. E nei 20 anni successivi, ho ricevuto due cartoline da Guy. Una diceva «grazie», perché gli avevo spedito molti archivi che avevo - libri, volantini, e così via. Non avevo manoscritti di suo pugno, ma solo tutto materiale stampato perché ero sempre stata io quella che aveva pagato le fatture.

Everall: E la seconda cartolina?

Bernstein: Prima di passare a Gallimard, aveva chiesto il mio parere su un editore. Pensavo fosse uno scherzo.

Everall: Hai fatto riferimento all'invio di denaro a Debord. In che modo facevi soldi? Di certo non erano le così tanto osannate scommesse sulle corse dei cavalli che stavano finanziando Debord o l'Internazionale Situazionista.

Bernstein: No. Quello dei cavalli era uno scherzo che aveva fatto Guy ad Henri Lefebvre, che non si era accorto che era uno scherzo, e lo aveva messo nei suoi libri. Ma è vero, allora facevo oroscopi, ed altre cose, per i giornali sulle corse dei cavalli. Dopo essere stata una donna d'affari, piuttosto brava, che era a capo di un piccolo gruppo creativo ad Havas - ora loro avevano cinque o sei piccoli gruppi come il mio. Era un lavoro piacevole: dovevo solo trovare delle idee e metterle nero su bianco.

Everall: Mi sorprende. Ti sei messa a fare quel lavoro, venendo via da un gruppo che aveva articolato una critica del capitale, e che aveva sviluppato un'idea dello spettacolo a partire dalle idee della mercificazione e della reificazione, e che considerava la pubblicità come una delle tante manifestazioni dello spettacolo?

Bernstein: No. Perché avrei dovuto? Il problema con il capitalismo non risiede tanto nella pubblicità quanto nella produzione e nella distribuzione. La pubblicità rende solo più ovvie le cose. A quel tempo, i creativi erano, soprattutto, un bel po' di persone di sinistra senza alcuna specializzazione. Ed io ero molto cattiva con la gerarchia che pagava per i miei peccati pubblicitari...

Everall: Così sei rimasta una guastafeste, forse anche nel détournare il flusso del capitale?

Bernstein: Un po'. Potrei raccontarti di come ho rovinato la mia carriera ad Havas, ma quest'intervista non è su queste cose. Ho lavorato con società sempre più piccole, e poi ho cominciato a lavorare part-time, come freelance. Ad ogni modo, avevo perso interesse. Dopo un po' di tempo, uno sa che per il problema n°22, si può applicare solo quella che è la soluzione n°22. Che noia!

Everall: Dove vivevi?

Bernstein: A Salisbury, in Inghilterra. Perché ridi? O sì, Salisbury è molto triste...

Everall: Sì, triste, molto conservatrice...

Bernstein: ... e poi mi sono trasferita, dopo aver lasciato Ralph. Ho trovato una casa che amavo, The Old Parsonage, e ci sono rimasta.

Everall: Quando ci siamo incontrato la prima volta, mi hai parlato del fatto che facevi un lavoro ridicolo, come critico letterario di Libération. Puoi raccontarmi cos'è successo?

Bernstein: Sì, ho sempre pensato che essere un critico letterario fosse un po' ridicolo - probabilmente lo pensano molti scrittori. Ma ero stata contattata attraverso un amico, il quale aveva organizzato per me una festa per il mio 50° compleanno, dove c'era anche un altro giornalista che mi piaceva. Lui mi chiese: «Michéle, pensi veramente che sia spregevole essere un giornalista?» Io risposi «Sì», e improvvisamente realizzai che erano entrambi dei giornalisti di Libération. Perciò ho aggiunto, «Ovviamente, no se lo fai per Libération». E così ho segnato il mio destino - persuasa da quell'amico a scrivere una recensione, la quale è stata accettata, e così sono entrata nello staff. Allora Libération era in uno stato particolare. Era stata maoista, ma ora aveva assunto una posizione generica di sinistra, era come sottosopra, e la cosa mi andava bene, dal momento che non avevo intenzione di sfidare da sola la linea maoista di un giornale. Né avrei voluto sfidare il grande pachiderma della letteratura francese. Pe le più volte parlavo dei nuovi arrivati. E non si dice mai qualcosa di antipatico ad un principiante totale. Sarebbe ingiusto. Per cui, o mi piaceva, o stavo zitta.

Everall: Ma ci sono anche state occasioni in cui attaccavi i grossi elefanti. Ricordi chi?

Bernstein: Alcuni. Françoise Giroud, Michèle Manceaux, Régine Deforges, tutti facenti parti dell'establishment di quel tempo. Ne ricordo uno, che era un'importante fiamma di un importante uomo politico, e i cui libri mettevano in piazza solo la biancheria sporca. Scusa, ma ho dimenticato il suo nome. Ma non c'era solo lui. C'era tutta una tradizione di Libération di libertà assoluta e di irriverenza. Ho lavorato lì per 14 anni, fino al 1996, quando avevo 64 anni, il posto di lavoro più lungo che abbia mai avuto, e mi piaceva.

Everall: Lavoravi dal Regno Unito. Ma hai partecipato inoltre anche al mondo della letteratura francese, interviste, lanci, a quel genere di cose?

Bernstein: No! Non sono mai stata ad un cocktail party, né ho mai intascato un regalo da un editore.

Everall: Nella maggior parte delle storie scritte che parlano dei Situazionisti, tu te ne vai e poi sparisci, lasciando vaghe dicerie e frammenti della tua vita con Ralph Rumney. Questa tua esistenza clandestina, è stata deliberata? Libération sapeva chi eri?

Bernstein: No. Serge July, l'editore del giornale - un ex maoista, che era più giovane di me - non sapeva che per due anni ero stata l'ex moglie di Guy Debord. Ciò nonostante, ho potuto scrivere quello che mi piaceva. C'è stata un'occasione in cui uno dei miei articoli è stato cambiato, ma penso lo abbia fatto lo specialista musicale: avevo scritto «‘elémentaire, mon cher», e lui aveva aggiunto «Watson». E quando l'ho visto stampato, ero furiosa. Loro risposero che era così e così, e che lui pensava che il pubblico francese non avrebbe capito «elementary, my dear». Ho scritto la più bella lettera di insulti che avevo mai scritto in vita mia, e July  disse che, da allora in poi, nessuno avrebbe più toccato niente di quello che avrei scritto: «Michèle prende qualunque libro voglia, e non viene toccato, finché non viene pubblicato».

Everall: Quindi c'è un momento in cui diventi nota sia a Libération sia ad un più vasto pubblico francese?

Bernstein: Beh, con Libération c'è stato quel momento, con il pubblico francese, no. Non lo hanno mai saputo, ed io non ho mai parlato del mio passato situazionista. Ma la cosa trasudava. Per esempio, un anno dopo, quando ho letto le lettere di Guy, mi sono accorta che alcune persone di cui ho scritto cose positive erano diventate suoi amici. Trovavo automaticamente questi scrittori.

Everall: Quand'è che Libération ha scoperto il tuo passato?

Bernstein : Nel 1984, Lebovici viene assassinato. E July dice che qualcuno che ne sa qualcosa di questo deve scrivere su Debord e Lebovici. Il mio amico, dalla bocca larga, dice: «Questo qualcuno potrebbe essere Michélle». E July fa: «perché?». Dopo mi disse che il suo mento toccava il pavimento. Suppongo che stesse esagerando.

Everall: Prima hai detto che non ti piace scrivere, eppure i tuoi due romanzi sono stati scritti velocemente. E poi, in quanto critico, scrivevi facilmente, per le scadenze.

Bernstein: Sì, ma è molto più facile scrivere quando non hai alcun interesse personale per quello che stai scrivendo.

Everall: Hai un rapporto stretto con il tuo editore francese, Éditions Allia, che ha pubblicato una serie di nuove edizioni, e nuove collezioni di materiale situazionista. Parli molto con Berréby?

Bernstein: Parliamo un bel po'. Di certo non lo condiziono.

Everall: Hai vissuto e lavorato con Guy per tutta la stesura de "La società dello spettacolo" (1967). Puoi dirmi com'è stato pubblicato?

Bernstein: Sì certo, Raoul Vaneigem [amico situazionista] aveva mandato il suo libro a diversi editori ed esso era stato accetto da Gallimard, ma Guy era troppo grande, troppo orgoglioso, per mandare un manoscritto e farsi giudicare da qualcun altro. Ad ogni modo, il mio editore Edmund Bucket era sempre molto gentile con me, ed era un vecchio gentiluomo. Così gli portai il manoscritto, e lui lo legge e lo fa leggere alla moglie, e mi dice: «Michèle, questo è un libro davvero interessante, ma tu sai che siamo degli indipendenti, senza capitali. Non possiamo stampare un libro che sia una simile perdita». Questo è successo dopo i miei "Tous les chevaux du roi" e "La Nuit", così mi chiese dove fosse il miop nuovo romanzo, ed io risposti che ci sarebbe stato presto, molto presto. Ne era contento, così gli dissi che se avesse stampato il libro di mio marito Guy, gli promettevo che tutti i soldi che avrebbe perso, avrebbe potuto riprenderli dalle vendite del mio prossimo romanzo. E lui fu d'accordo.

Everall: Hai rammentato Vaneigem, il cui libro, "Trattato del saper vivere", era stato pubblicato poco prima di quello di Debord. Eravate molto amici?

Bernstein: Eravamo amici. Lo siamo ancora. Ma questo è successo dopo, e non è come per gli amici della mia giovinezza,  Wolman and Dufrêne – e Debord - con cui passavo le notti per strada, lungo la Senna, o a Moineau - nella nostra tana, un piccolo bistrot - bevendo, parlando, cantando vecchie canzoni. Vaneigem, ho letto tutti i suoi libri. Ne conservo alcuni splendidi ricordi, anche se temo che ora non la pensiamo proprio allo stesso modo. Penso ancora al suo mondo. Per lui: se il mondo si sbarazza del capitalismo - della società spettacolare della merce - sarà un mondo felice. Per me: se - SE - ce ne sbarazzassimo, il mondo sarebbe semplicemente solo un po' meno cattivo. Ma sicuramente sto semplificando troppo.

Everall: Tornando a Debord. Cosa ne pensavi al tempo del manoscritto della Società dello Spettacolo?

Bernstein: Pensavo che fosse splendido. Magnifico. E anche molto importante.

Everall: pensi ancora che sia così?

Bernstein: Era talmente avanti per il suo tempo, e per il mondo del quale scriveva. È stato importante per un tempo molto lungo, in un certo modo, per sempre. Ma non esiste niente di così definitivo da non esserci nient'altro che possa venire dopo. Non so cosa potrebbe fare adesso Guy, soprattutto se avesse 30 anni. Il mondo è cambiato. Non avrebbe scritto una confutazione, ma piuttosto un seguito. Lo dice nelle sua corrispondenza, nel '94 credo, che «le sue opinioni sarebbero state preziose fra 10 anni così come lo sono ora». Era modesto. Sì.

Everall: C'è qualcuno che sta occupando quel ruolo, adesso?

Bernstein: Non conosco nessuno che analizzi il mondo com'è oggi, così come fece Debord nel '67.

Everall: Non vedi nessuno che possa emergere in questo momento?

Bernstein: Quando eravamo Lettristi, eravamo sconosciuti. E all'inizio, come Situazionisti, eravamo sconosciuti. Sapevamo di essere importanti, pensavamo di essere i migliori. Se ci sono persone brave quanto lo eravamo noi, penso che anche adesso dovrebbero essere sconosciute e, speriamo, esplodere dopo. Ma tutto quello che posso dire in questo momento è che sono piuttosto contenta di avere 81 anni.

Everall: Per averlo fatto?

Bernstein: No, voglio dire che sono estremamente contenta di non dover vedere cosa sarà il mondo.

Everall: È un punto di vista molto pessimista.

Bernstein: Non è un problema per me essere pessimista.

Everall: Pensi che i Situazionisti fossero pessimisti? Poiché questo suggerisce, contro ogni evidenza che tu abbia perso il tuo senso dell'umorismo.

Bernstein: No. Non c'è niente che possa essere più divertente di essere pessimisti. Chi sono le grandi figure comiche inglesi? Direi Jonathan Swift. E Laurence Sterne, ovviamente. Pensi che fossero divertenti?

Everall: Sì, certo, ma non del tutto pessimisti.

Bernstein: No, erano pessimisti. Sapevano che le cose non erano perfette.

Everall: Sì, ma anche che avrebbero trovato lettori che erano d'accordo. Swift non era solamente un pessimista; egli sapeva che avrebbe trovato dei lettori con cui condividere le proprie idee, e avrebbero riso.

Bernstein: Pensi che trovare lettori basti a rendere buono il mondo?

Everall: Prima, hai detto che volevi scrivere solo dei libri degli autori sconosciuti. Ne hai mai intervistato qualcuno?

Bernstein: Quando sono stata assunta da Libération, mi sono detta: non farò mai un'intervista. Non voglio andare a chiedere alla gente cosa mangiano a colazione. Farei un'eccezione solo per Christiane Rochefort, perché mi piacciono i suoi libri. Ahimè, non è mai successo. Ma a parte questo, niente interviste, mai.

Everall: E cosa ne pensavi, o cosa ne pensavano i Situazionisti della forma dell'intervista? È obsoleta come il romanzo?

Bernstein: Obsoleto? No.

- Gavin Everall - Pubblicato il 6 settembre del 2013  - su Frieze -

sabato 26 gennaio 2019

Dâ-Dâ-Vogt e gli altri

Marx ai tempi de "Il signor Vogt". Appunti di biografia intellettuale (1860-1861)
- di Marcello Musto -
 

I. Vicissitudini editoriali delle opere di Marx ed Engels
A dispetto dell’enorme diffusione degli scritti e dell’ampia affermazione delle loro teorie, Marx ed Engels rimangono ancora privi di un’edizione integrale e scientifica delle proprie opere.
La prima ragione di questo paradosso va ricondotta all’incompiutezza e alla frammentarietà dell’opera di Marx, della quale, escludendo gli articoli giornalistici editi nel quindicennio 1848-1862, i lavori pubblicati furono relativamente pochi se comparati ai tanti realizzati solo parzialmente o all’imponente mole di ricerche svolte. A testimoniarlo fu lo stesso Marx che, quando nel 1881, in uno dei suoi ultimi anni di vita, fu interrogato da Karl Kautsky circa l’opportunità di un’edizione completa delle sue opere, rispose: «queste dovrebbero prima di tutto essere scritte». In secondo luogo, sulla pubblicazione dei lavori dei due autori hanno influito le vicende del movimento operaio, che troppo spesso hanno ostacolato, anziché favorito, l’edizione dei loro testi.
Il primo tentativo di pubblicare tutti gli scritti di Marx ed Engels risale agli anni Venti, quando David Borisovic Rjazanov, noto studioso e conoscitore di Marx nonché direttore dell’Istituto Marx-Engels nella neonata repubblica dei Soviet, ne avviò la pubblicazione in lingua originale attraverso la Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA). Tuttavia, a causa delle epurazioni dello stalinismo che s’abbatterono anche sugli studiosi dell’istituto – lo stesso Rjazanov fu destituito e condannato alla deportazione nel 1931 –, il progetto venne interrotto nel 1935 e dei 42 volumi inizialmente previsti ne furono dati alle stampe soltanto 12 (in 13 tomi). Ancora in Unione Sovietica, dal 1928 al 1947, fu pubblicata la prima edizione in russo: la Socinenija (opere complete). Ad onta del nome, essa riproduceva solo un numero parziale di scritti; ma, con i suoi 28 volumi (in 33 tomi), costituì per l’epoca la raccolta quantitativamente più consistente dei due autori. La seconda Socinenija, invece, apparve tra il 1955 e il 1966 in 39 volumi (42 tomi).
Dal 1956 al 1968 nella Repubblica Democratica Tedesca, per iniziativa del Comitato Centrale della SED, furono stampati i 41 volumi (in 43 tomi) dei Marx Engels Werke (MEW). Tale edizione, però, tutt’altro che completa, era appesantita dalle introduzioni e dalle note che, concepite sul modello dell’edizione sovietica, ne orientavano la lettura secondo la concezione del «marxismo-leninismo». Ciò nonostante, essa costituì la base di numerose edizioni analoghe in altre lingue tra cui anche le Opere italiane, le quali non furono mai completate e apparvero solo in 32 dei 50 volumi previsti.
Il progetto di una «seconda» MEGA, che si prefiggeva di riprodurre in maniera fedele e con un ampio apparato critico tutti gli scritti dei due pensatori, rinacque durante gli anni Sessanta. Tuttavia, le pubblicazioni, avviate nel 1975, furono anch’esse interrotte, stavolta in seguito al crollo del blocco dei ‘paesi socialisti’.
Nel 1990, con lo scopo di completare l’edizione storico-critica, diversi istituti in Olanda, Germania e Russia hanno costituito la «Internationale Marx-Engels-Stiftung» (IMES). Dopo un’impegnativa fase di riorganizzazione, nella quale sono stati approntati nuovi principi editoriali, e dopo il passaggio di casa editrice, dalla Dietz Verlag all’Akademie Verlag, dal 1998 è ripresa la pubblicazione della Marx-Engels-Gesamtausgabe, la cosiddetta MEGA². Questa impresa riveste grande importanza se si considera che una parte ragguardevole dei manoscritti, dell’imponente corrispondenza e dell’immensa mole di estratti e annotazioni che Marx era solito compilare dai testi che leggeva è ancora inedita [1]. Il progetto complessivo, al quale partecipano studiosi che operano in Germania, Russia, Giappone, Stati Uniti, Olanda, Francia e Danimarca, si divide in quattro sezioni: la prima comprende tutte le opere, gli articoli e le bozze escluso Il capitale; la seconda Il capitale e tutti i suoi lavori preparatori a partire dal 1857; la terza l’epistolario; la quarta gli estratti, le annotazioni e i marginalia. Fino ad oggi, dei 114 volumi previsti ne sono stati pubblicati 52 (ben 12 dopo la ripresa del 1998), ognuno dei quali consta di due tomi: il testo più l’apparato, che contiene gli indici e molte notizie aggiuntive (dettagliate informazioni su www.bbaw.de/vs/mega ).
Il volume che qui si presenta [2] è l’ultimo edito. Esso include una parte del carteggio intrattenuto tra Marx ed Engels nel corso delle loro vite, nonché quello intercorso tra loro e i tantissimi corrispondenti con i quali furono in contatto. Il numero complessivo delle lettere di questo epistolario è enorme. Ne sono state ritrovate, infatti, oltre 4.000 scritte da Marx ed Engels, di cui 2.500 sono quelle che essi si sono scambiati direttamente, e 10.000 indirizzate loro da terzi. Altre 6.000, inoltre, pur non essendo state tramandate, hanno lasciato testimonianza certa della loro esistenza. In seguito alle nuove linee editoriali adottate nella MEGA², tutte le lettere seguono rigorosamente il criterio della successione cronologica e i volumi non sono più divisi, come per il passato, in due parti distinte, l’una contenente le lettere scritte da Marx ed Engels e l’altra quelle da loro ricevute. Il testo in esame presenta la corrispondenza intercorsa tra il giugno del 1860 e il dicembre del 1861, periodo che racchiude, essenzialmente, le tortuose vicende relative alla pubblicazione de Il signor Vogt e al violento scontro che vi fu tra questi e Marx. Delle 386 lettere conservate, 133 sono di Marx ed Engels e 253 quelle da essi ricevute – tra queste ben 204 pubblicate per la prima volta. Delle prime 133, 95 sono quelle scambiate reciprocamente tra i due (73 furono scritte da Marx a Engels e 22 da Engels a Marx – dalla ricostruzione del carteggio è però emerso che almeno 17 lettere di Engels a Marx non sono state tramandate). Undici, infine, sono le lettere scritte da Ferdinand Lassalle a Marx.

II. Il Signor Vogt
Rappresentante della sinistra nell’Assemblea nazionale di Francoforte, durante il 1848-1849, Carl Vogt, esule in Svizzera dopo gli anni rivoluzionari, era, al tempo, professore di scienze naturali a Ginevra. Nella primavera del 1859, egli pubblicò il pamphlet Studien zur gegenwärtige Lage Europas, nel quale sostenne il punto di vista bonapartista in politica estera. Nel giugno dello stesso anno, apparve a Londra un volantino anonimo che denunciava gli intrighi di Vogt in favore di Napoleone III, specialmente i tentativi svolti dal primo per corrompere alcuni giornalisti affinché fornissero versioni filo-bonapartistiche degli avvenimenti politici in corso. L’accusa – che come poi si dimostrò fu opera di Karl Blind, giornalista appartenente al mondo della democrazia e scrittore tedesco emigrato a Londra – venne ripresa dal settimanale «Das Volk», al quale collaboravano anche Marx ed Engels, e dalla «Allgemeine Zeitung» di Augusta. Ciò indusse Vogt a promuovere un’azione legale contro il quotidiano tedesco, che non poté confutare la denuncia a causa dell’anonimato nel quale Blind volle restare. Nonostante la querela fosse stata respinta, Vogt fu il vincitore morale dell’intera faccenda. Così, nel pubblicare il resoconto degli avvenimenti (Mein Prozess gegen die Allgemeine Zeitung), egli accusò Marx di essere l’ispiratore di un complotto nei suoi confronti, nonché il capo di una banda che viveva ricattando coloro che avevano partecipato ai moti rivoluzionari del 1848, in particolare minacciando di rivelare i nomi di quanti non avessero provveduto a pagare il prezzo del silenzio [3].
Oltre ad avere una eco in Francia e Inghilterra, lo scritto di Vogt ebbe un significativo successo in Germania e fece un gran chiasso sui giornali liberali: «naturalmente il giubilo della stampa borghese non ha limiti» [4]. La «National-Zeitung» di Berlino ne pubblicò un riassunto in due lunghi articoli di fondo nel gennaio del 1860 e Marx, di conseguenza, querelò il quotidiano per diffamazione. Il «Supremo Tribunale Reale Prussiano», però, ne respinse l’istanza decretando che gli articoli non oltrepassavano i limiti di una critica consentita e che da essi non risultava l’intenzione di offendere. Il sarcastico commento di Marx alla sentenza fu: «Come quel turco che tagliò la testa a un greco, senza aver intenzione di fare del male» [5]. Il testo di Vogt mescolava, con abile maestria, accadimenti veri ad altri completamente inventati, così da poter fare sorgere dubbi sulla reale storia dell’emigrazione tra quanti non erano al corrente di tutti gli avvenimenti. Dunque, per salvaguardare la propria reputazione, Marx si sentì obbligato a organizzare la sua difesa e fu così che, alla fine di febbraio del 1860, cominciò a raccogliere il materiale per un libro contro Vogt. Ciò avvenne utilizzando due strade. Anzitutto, egli scrisse decine di lettere ai militanti con i quali aveva avuto rapporti politici durante e dopo il 1848, al fine di ottenere da loro tutti i documenti possibili riguardanti Vogt [6]. Inoltre, per illustrare al meglio la politica dei principali Stati europei e rivelare il ruolo reazionario di Bonaparte, egli condusse vasti studi sulla storia politica e diplomatica del XVII, XVIII e XIX secolo [7]. Questa ultima parte è senza dubbio la più interessante dello scritto, nonché – insieme con quella che contiene la ricostruzione della storia della «Lega dei Comunisti» – l’unica a conservare valore per il lettore contemporaneo. Ad ogni modo, come accadeva sempre a Marx, i suoi studi aumentarono di molto le dimensioni del libro, che gli «cresceva sotto le mani» [8]. Inoltre, i tempi del suo completamento si prolungarono sempre di più. Infatti, nonostante Engels lo esortasse – «Sii dunque almeno una volta un po’ superficiale per poter uscire a tempo giusto» [9] – e scrivesse a Jenny Marx: «Noi facciamo sempre le cose più stupende, ma facciamo sempre in modo che non escano al tempo giusto, e così cadano tutte a vuoto (…) mi raccomando, di fare il possibile perché si faccia qualcosa, ma subito, per trovare l’editore e perché l’opuscolo sia finalmente pronto» [10], Marx si decise a terminarlo solo in novembre. Egli avrebbe voluto intitolare il libro «Dâ-Dâ-Vogt» [11], per richiamare la somiglianza di vedute tra Vogt e il giornalista bonapartista arabo, a lui contemporaneo, Dâ-Dâ-Roschaid. Questi, traducendo i pamphlet bonapartisti in arabo per ordine delle autorità di Algeri, aveva definito l’imperatore Napoleone III «il sole di beneficenza, la gloria del firmamento» [12] e a Marx nulla pareva più appropriato per Vogt che l’epiteto di « Dâ-Dâ tedesco» [13]. Tuttavia, Engels lo convinse a optare per un più comprensibile Herr Vogt (Il signor Vogt). Ulteriori problemi si manifestarono rispetto al luogo di pubblicazione del libro. Engels, in proposito, raccomandò vivamente di far uscire il libro in Germania: «Bisogna a tutti i costi evitare di stampare il tuo opuscolo a Londra (…) Abbiamo già fatto esperienza centinaia di volte con la letteratura dell’emigrazione, sempre senza nessuna riuscita, sempre denaro e lavoro buttati per niente e per di più la rabbia» [14]. Tuttavia, poiché nessun editore tedesco si rese disponibile, Marx pubblicò il libro a Londra presso l’editore Petsch e ciò fu possibile, per giunta, solo grazie a una raccolta di denaro per pagarne le spese. Engels commentò che sarebbe stato «preferibile stampare in Germania e bisognava assolutamente riuscirci (…) un editore tedesco (…) ha ben altra forza per spezzare la cospiration du silence» [15].
La confutazione delle accuse di Vogt tenne impegnato Marx per un anno intero, costringendolo a tralasciare del tutto i suoi studi economici che, secondo il contratto stilato con l’editore Duncker di Berlino, avrebbero dovuto proseguire con il seguito di Per la critica dell’economia politica, pubblicata nel 1859. A quanto pare, la frenesia che lo aveva pervaso durante questa vicenda contagiò anche coloro che gli erano più vicino. La moglie Jenny trovava Il signor Vogt una fonte di «piacere e diletto senza fine»; Engels affermò che l’opera era «certamente il migliore lavoro polemico che [egli avesse] scritto finora» [16]; Lassalle salutò il testo come «una cosa magistrale in tutti i sensi» [17]; Wilhelm Wolff, infine, disse: «è un capolavoro dall’inizio alla fine» [18].
In realtà, per poter essere compreso oggi in tutte i suoi riferimenti e allusioni, Il signor Vogt richiede un ampio commento. Inoltre, tutti i principali biografi di Marx sono stati unanimi nel considerare questa opera come un notevole spreco di tempo ed energie. Nel ricordare come diversi conoscenti di Marx avessero tentato di dissuaderlo dall’intraprendere questa impresa, Franz Mehring affermò come «si sarebbe tentati di desiderare che egli avesse dato ascolto a queste voci [poiché] essa ostacolò (…) la grande opera della sua vita (…) a causa del costoso dispendio di forza e tempo che inghiottì senza reale guadagno» [19]. Di analogo parere, nel 1929, Karl Vorländer scrisse: «Oggi, dopo due generazioni, si può a ragione dubitare se valesse la pena sprecare, in questa miserabile faccenda, durata quasi un anno, tanto lavoro spirituale e tante spese finanziarie per scrivere un opuscolo di 191 pagine redatto con brillante arguzia, con motti e citazioni da tutta la letteratura mondiale (Fischart, Calderon, Shakespeare, Dante, Pope, Cicerone, Boiardo, Sterne, e dalla letteratura medio-alto tedesca), nel quale egli si scagliava contro l’odiato avversario» [20]. Anche Nikolaevskij e Maenchen-Helfen biasimarono il fatto che: «Marx aveva impiegato oltre un anno a difendersi contro il tentativo di metter fine alla sua vita politica con le denunce [e che] solo verso la metà del 1861 poté riprendere la sua opera di economia» [21]. Ancora, secondo David McLellan, la polemica contro Carl Vogt «fu un chiaro esempio della singolare capacità [di Marx] di produrre una gran quantità di energie su argomenti assolutamente trascurabili e del suo talento per l’invettiva» [22]. Francis Wheen, infine, si è così interrogato: «Per rispondere alle calunnie pubblicate sulla stampa svizzera da un oscuro politico, tale Carl Vogt, era proprio necessario scrivere un libro di duecento pagine?» [23] E, continuando, notò che: «i quaderni di economia giacquero chiusi sulla sua scrivania mentre il loro proprietario si distraeva con una contesa, tanto spettacolare quanto superflua (…) una violenta replica che, sia per lunghezza sia per il tono furibondo, superava di gran lunga il libello originario a cui intendeva rispondere»[24].
Ciò che colpisce più di ogni altra cosa di questo scritto è l’uso spropositato, nelle argomentazioni di Marx, dei riferimenti letterari. Accanto agli autori già menzionati da Vorländer, sul palcoscenico di questa opera compaiono, tra gli altri, Virgilio, diversi personaggi della Bibbia nella traduzione di Lutero, Schiller, Byron, Hugo e, naturalmente, gli amatissimi Cervantes, Voltaire, Goethe, Heine e Balzac [25]. Tuttavia, queste citazioni – e, dunque, il prezioso tempo impegnato per inserirle nel testo – non rispondevano soltanto al desiderio di Marx di mostrare la superiorità della sua cultura su quella di Vogt o a quello di rendere, attraverso spunti satirici, il pamphlet più gradevole ai lettori. Esse riflettono due caratteristiche essenziali della personalità di Marx. La prima è la grandissima importanza che egli attribuì, per tutto il corso della propria esistenza, allo stile e alla struttura delle sue opere, anche quelle minori o solo polemiche come Il signor Vogt. La mediocrità della gran parte degli scritti che, nelle sue tante battaglie, egli contrastò, la loro forma scadente, la costruzione incerta e sgrammaticata, la mancanza di logica nelle formulazioni e la presenza in essi di tanti errori suscitarono sempre grande sdegno in Marx [26]. Così, accanto al conflitto di natura teorica, egli si scagliò anche contro la intrinseca volgarità, la mancanza di qualità delle opere dei suoi contendenti e volle mostrare loro non solo la giustezza di ciò che egli scriveva, ma anche quale era il modo migliore per farlo. La seconda impronta tipicamente marxiana, che si intravede attraverso l’imponente lavoro di preparazione de Il signor Vogt, è l’aggressività e l’irrefrenabile virulenza con la quale egli si lanciava contro i suoi avversari diretti. Fossero essi filosofi, economisti o militanti politici e si chiamassero Bauer, Stirner, Proudhon, Vogt, Lassalle o Bakunin, Marx voleva come annientarli, dimostrarne in ogni modo possibile l’infondatezza delle concezioni, costringerli alla resa mettendoli nell’impossibilità di produrre obiezioni alle sue asserzioni. Così, guidato da questo impeto, era tentato dal seppellire i suoi antagonisti sotto montagne di argomentazioni critiche e, quando questa furia s’impossessava di lui, al punto da fargli perdere di vista anche il suo progetto di critica dell’economia politica, ecco che egli non si accontentava più dei ‘soli’ Hegel, Ricardo o dell’utilizzazione degli avvenimenti storici, ma si serviva di Eschilo, Dante, Shakespeare e Lessing. Il signor Vogt fu come un incontro nefasto tra queste due componenti del suo carattere. Un corto circuito causato da uno degli esempi più eclatanti di cialtroneria letteraria, così tanto odiata da Marx, e dalla volontà di distruggere il nemico che, con la menzogna, ne aveva minacciato la credibilità e tentato di macchiare la storia politica. Con questo libro, Marx si aspettava di suscitare scalpore e tentò il più possibile di farne parlare la stampa tedesca. Tuttavia, i giornali e lo stesso Vogt non gli concessero nessuna attenzione: «I cani (…) vogliono ammazzar la cosa col silenzio» [27]. Anche «l’uscita di una rielaborazione francese, molto abbreviata, che si trovava in corso di stampa» [28], venne impedita poiché il volume fu colpito dalla censura e incluso nella lista dei volumi proibiti. Marx ed Engels viventi, non apparve nessun’altra edizione de Il signor Vogt e non ne furono ristampati che brevi passi scelti. In traduzione italiana il libro uscì solo cinquant’anni dopo, nel 1910, presso Luigi Mongini Editore.

III. Marx negli anni 1860-1861: miseria, critica dell’economia politica e giornalismo
A prolungare i ritardi del lavoro di Marx e a complicare terribilmente la sua situazione personale contribuirono le sue due nemiche giurate di sempre: la miseria e la malattia. In questo periodo, infatti, la condizione economica di Marx fu davvero disperata. Accerchiato dalle richieste dei tanti creditori e con alle porte lo spettro costante delle ingiunzioni del broker, l’ufficiale giudiziario, egli si lamentava con Engels affermando: «Come potrò cavarmela non so, perché tasse, scuole, casa, droghiere, macellaio, dio e il diavolo non vogliono più darmi tregua» [29]. Alla fine del 1861, la situazione divenne ancor più disperata e per resistere, accanto al costante aiuto dell’amico – verso il quale egli provava immensa gratitudine «per le straordinarie prove d’amicizia» [30] –, Marx fu costretto a dare in pegno «tutto fuori che i muri della casa» [31]. Sempre all’amico, egli scrisse: «Di qual giubilo non m’avrebbe riempito l’animo il fiasco del sistema finanziario decembrista, da me così a lungo e così spesso pronosticato sulla ‘Tribune’, se fossi libero da queste pidocchierie e vedessi la mia famiglia non schiacciata da queste miserabili angustie!» [32] Inoltre, nell’indirizzargli, alla fine di dicembre, gli auguri per il nuovo anno alle porte, si espresse così: «Se questo dovesse essere uguale al trascorso, per quel che mi riguarda, desidererei piuttosto l’inferno» [33].
Accanto agli sconfortanti problemi di natura finanziaria si accompagnarono, puntualmente, quelli di salute, che i primi concorsero a determinare. Lo stato di profonda depressione che colse per molte settimane la moglie di Marx, Jenny, la rese maggiormente recettiva a contrarre il vaiolo, del quale si ammalò alla fine del 1860, rischiando seriamente la vita. Per l’intero corso della malattia e la degenza della sua compagna, Marx fu costantemente al suo capezzale e riprese la sua attività solo quando Jenny fu fuori pericolo. Durante il tempo trascorso, come egli scrisse a Engels, lavorare era stato del tutto fuori questione: «La sola occupazione con la quale posso conservare la necessaria tranquillità d’animo, è la matematica» [34], una delle più grandi passioni intellettuali della sua esistenza. Pochi giorni dopo, inoltre, aggiungeva che una circostanza che l’aveva «molto aiutato [era] stato un terribile mal denti». Recatosi dal dentista per farsi estrarre un dente, questi gliene aveva lasciato per errore una scheggia, così da fargli venire una faccia «gonfia e dolente e la gola mezza chiusa». Pertanto, Marx affermava stoicamente: «Questo malessere fisico stimola molto le facoltà di pensare e perciò la capacità di astrazione, poiché, come dice Hegel, il pensiero puro o l’essere puro o il nulla sono la medesima cosa» [35]. Nonostante i problemi, nel corso di queste settimane egli ebbe l’occasione di leggere molti libri e tra questi Sull’origine della specie attraverso la selezione naturale di Charles Darwin, dato alle stampe l’anno prima. Il commento che Marx comunicò per lettera a Engels era destinato a far discutere schiere di studiosi e militanti socialisti: «Per quanto svolto grossolanamente all’inglese, ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere» [36].
Al principio del 1861, le condizioni di Marx si aggravarono a causa di una infiammazione al fegato che lo aveva già colpito l’estate precedente: «Sono tribolato come Giobbe, quantunque non altrettanto timorato di Dio» [37]. In particolare, lo stare curvo gli procurava enorme sofferenza e scrivere gli fu interdetto. Così, per superare la «condizione schifosissima che [lo] rende[va] incapace di lavorare»[38], egli si rifugiò ancora nelle letture: «Alla sera per sollievo [leggo] le guerre civili romane di Appiano nel testo greco originale. Libro di gran valore (…) Spartaco vi figura come il tipo più in gamba che ci sia posto sotto gli occhi da tutta la storia antica. Grande generale (non un Garibaldi), carattere nobile, real representative dell’antico proletariato» [39].
Ristabilitosi dalla malattia alla fine del febbraio 1861, Marx si recò a Zalt-Bommel in Olanda per cercare una soluzione alle proprie difficoltà finanziarie. Lì trovò l’aiuto dello zio Lion Philips, uomo di affari e fratello del padre del futuro fondatore della fabbrica di lampade da cui discende una delle più importanti aziende di apparecchiature elettroniche al mondo, che accettò di anticipargli 160 sterline della futura eredità materna. Da qui, Marx si recò clandestinamente in Germania, ove fu ospite di Lassalle a Berlino per quattro settimane. Quest’ultimo lo aveva ripetutamente sollecitato a promuovere insieme la fondazione di un organo di ‘partito’ e ora, con l’amnistia promulgata nel gennaio del 1861, si presentavano anche le condizioni affinché Marx riottenesse la cittadinanza prussiana, che gli era stata tolta dopo l’espulsione del 1849, e potesse trasferirsi a Berlino. Tuttavia, lo scetticismo che Marx nutriva nei confronti di Lassalle impedì che il progetto venisse mai preso seriamente in esame [40]. Di ritorno dal suo viaggio, egli descrisse così a Engels l’intellettuale e militante tedesco: «Lassalle, abbagliato dalla considerazione di cui gode in certi circoli dotti per il suo Eraclito e in un altro cerchio di scrocconi per il vino buono e la cucina, naturalmente non sa che presso il grande pubblico è screditato. Inoltre ci sono la sua prepotenza, il suo impigliarsi nel ‘concetto speculativo’ (il giovanotto sogna perfino di voler scrivere una nuova filosofia hegeliana alla seconda potenza), l’essere infetto di vecchio liberalismo francese, la sua penna prolissa, la sua importunità, la mancanza di tatto, ecc. Lassalle, tenuto sotto una stretta disciplina, potrebbe render servigi come uno dei redattori. Altrimenti solo compromettere le cose» [41]. Il giudizio di Engels non era da meno, poiché lapidariamente ne scriveva: «Quest’uomo non lo si può correggere» [42]. In ogni caso, la domanda di cittadinanza di Marx fu respinta rapidamente e, poiché egli non si fece mai naturalizzare in Inghilterra, rimase apolide per tutto il resto della vita.
Di questo soggiorno tedesco, la corrispondenza di Marx offre divertenti resoconti che agevolano la comprensione del suo carattere. I suoi ospiti, Lassalle e la sua compagna, la contessa Sophie von Hatzfeldt, si prodigarono ad organizzare per lui una serie di attività che solo le sue lettere mostrano quanto egli detestasse profondamente. Da un breve resoconto dei primi giorni trascorsi in città, lo vediamo alle prese con la mondanità. Il martedì sera era tra gli spettatori di «una commedia berlinese piena di autocompiacimento prussiano: tutto sommato una faccenda disgustosa». Al mercoledì fu costretto ad assistere a tre ore di balletto all’Opera – «una roba davvero mortalmente noiosa» – e, per giunta, «horribile dictu» [43], «in un palco proprio vicinissimo a quello del ‘bel Guglielmo’» [44], il re in persona. Il giovedì Lassalle diede un pranzo in suo onore al quale presero parte alcune ‘celebrità’. Per nulla allietato dalla circostanza, a mo’ di esempio del riguardo che nutriva per i suoi commensali, Marx diede questa descrizione della sua vicina di tavola, la redattrice letteraria Ludmilla Assing: «È la creatura più brutta che io abbia mai visto in vita mia, con una laida fisionomia ebraica, un naso sottile assai sporgente, eternamente sorridente e ridacchiante, sempre a parlare una prosa poetica, continuamente nello sforzo di dire qualcosa di straordinario, fingendo entusiasmo e spruzzando saliva sui suoi ascoltatori durante gli spasimi delle sue estasi» [45]. A Carl Siebel, poeta renano e lontano parente di Engels, scrisse: «Qui mi annoio a morte. Vengo trattato come una specie di leone da salotto e sono costretto a vedere molti signori e signore ‘di ingegno’. È terribile» [46]. In seguito, scrisse ad Engels: «Anche Berlino non è che un paesone», mentre a Lassalle non poté negare che la cosmopolitica Londra esercitava su di lui «una straordinaria attrazione», sebbene egli ammettesse di vivere «come un eremita in questo buco gigantesco» [47]. E così, dopo essere passato per Elberfeld, Bermen, Colonia, la sua Treviri e poi ancora in Olanda, vi fece ritorno il 29 aprile. Ad attenderlo c’era la sua «Economia».
Come ricordato, nel giugno del 1859, Marx aveva pubblicato il primo fascicolo di Per la critica dell’economia politica e aveva in programma di far seguire ad esso una seconda dispensa il più presto possibile. Nonostante gli annunci ottimistici che egli era solito fare in proposito – nel novembre del 1860 scrisse a Lassalle: «Penso che entro pasqua potrà uscire la seconda parte» [48] –, per le vicissitudini sin qui narrate, trascorsero invano oltre due anni affinché egli potesse ritornare ai suoi studi. D’altronde, egli era profondamente frustrato delle circostanze e se ne lamentò con Engels in luglio: «Non vado avanti così rapidamente come vorrei, perché ho molti problemi domestici» [49]; e ancora in dicembre: «Il mio scritto prosegue, ma adagio. Infatti non era possibile risolvere rapidamente tali questioni teoriche in mezzo a simili circostanze. E pertanto verrà molto più popolare e il metodo molto più dissimulato che nella prima parte» [50]. Ad ogni modo, nell’agosto del 1861 riprese con assiduità a lavorare alla sua opera.
Fino al giugno del 1863, redasse i 23 quaderni – di 1472 pagine in quarto – che comprendono le Teorie sul plusvalore. La prima delle tre fasi di questa nuova redazione dell’«Economia», quella relativa ai primi cinque quaderni di questo gruppo, corre dall’agosto del 1861 al marzo 1862. Essi trattano la trasformazione del denaro in capitale – tema affrontato nel libro primo de Il capitale – e costituiscono la prima redazione esistente di tale argomento. Differentemente dalle Teorie sul plusvalore, date alle stampe da Kautsky tra il 1905 e il 1910, seppure in un’edizione rimaneggiata e spesso poco conforme agli originali, questi quaderni sono stati ignorati per oltre cent’anni. Essi furono pubblicati per la prima volta solo nel 1973, in traduzione russa, quale volume aggiunto (numero 47) delle Socinenija. La versione in lingua originale, invece, uscì solo nel 1976 nella ‘seconda’ MEGA[51].
L’ultima fase del 1861 è anche quella durante la quale Marx riprese la sua collaborazione con la «New-York Tribune» e scrisse per il quotidiano liberale di Vienna «Die Presse». La maggior parte delle sue corrispondenze di questo periodo furono dedicate alla guerra civile negli Stati Uniti. In essa, secondo Marx, «la lotta si gioca[va] tra la più alta forma di autogoverno popolare mai realizzata finora e la più abbietta forma di schiavitù umana che la storia conosca»[52]. Questa valutazione rende palese, più di ogni altra possibile, l’abisso che lo separava da Garibaldi, che aveva rifiutato l’offerta del governo nordista di assumere un posto di comando nell’esercito, perché riteneva che tale guerra fosse solo un conflitto di potere e non riguardasse l’emancipazione degli schiavi. Rispetto a tale posizione e a una tentata iniziativa di pacificazione tra le parti operata dall’italiano, Marx commentò con Engels: «Quell’asino di Garibaldi si è reso ridicolo con la lettera sulla concordia agli yankees» [53]. Nei suoi articoli, inoltre, Marx analizzò le ricadute economiche del conflitto americano per l’Inghilterra, della quale prese in esame lo sviluppo del commercio, la situazione finanziaria, nonché le opinioni che ne attraversavano la società. Su questo punto, un interessante riferimento è contenuto anche in una lettera a Lassalle: «Naturalmente tutta la stampa ufficiale inglese è per gli slave-holders (schiavisti). Sono proprio gli stessi personaggi che hanno stancato il mondo con il loro filantropismo contro il commercio degli schiavi. Ma: cotone, cotone!» [54]
Sempre nelle lettere a quest’ultimo, infine, Marx sviluppò diverse riflessioni relative a uno dei temi politici per il quale, in quegli anni, profuse l’impegno maggiore: la violenta opposizione alla Russia e ai suoi alleati Henry Palmerston e Luigi Bonaparte. In particolare, Marx si diede da fare nel chiarire a Lassalle la legittimità della convergenza, in questa battaglia, tra il loro ‘partito’ e quello di David Urquhart, un politico tory di vedute romantiche. Di questi, che nei primi anni Cinquanta aveva avuto l’audacia di ripubblicare, in funzione anti-russa e anti-whig, gli articoli di Marx contro Palmerston, apparsi sull’organo ufficiale dei cartisti inglesi, egli scrisse: «è certamente un reazionario dal punto di vista soggettivo (…) ciò non impedisce affatto al movimento che egli guida in politica estera di essere oggettivamente rivoluzionario (…) la cosa mi è indifferente come lo sarebbe a te se, per esempio in una guerra contro la Russia, il tuo vicino sparasse sui russi per motivi nazionali o rivoluzionari» [55]. E ancora: «Del resto va da sé che nella politica estera frasi come ‘reazionario’ e ‘rivoluzionario’ non servono a nulla» [56].
Risale al 1861, infine, anche la prima fotografia conosciuta di Marx [57]. L’immagine lo ritrae mentre posa in piedi con le mani poggiate su di una sedia davanti a lui. I capelli folti appaiono già bianchi, mentre la barba fitta è di un nero corvino. Lo sguardo deciso non lascia trasparire l’amarezza per le sconfitte subite e per le tante difficoltà che lo attanagliavano, ma, piuttosto, la fermezza d’animo che lo contraddistinse per tutta l’esistenza. Eppure, inquietudine e malinconia percorrevano anche lui, che nello stesso periodo in cui fu scattata quella foto scriveva: «Onde mitigare il profondo malumore causato dalla mia situazione incerta in ogni senso, leggo Tucidide. Almeno questi antichi rimangono sempre nuovi» [58]. Anche limitandosi a leggere soltanto le sue lettere, come non affermare, oggi, lo stesso anche di quel grande classico della modernità che è Karl Marx?

- Marcello Musto - Pubblicato il 1° settembre 2006 su MarcelloMusto -

[1] Per maggiori notizie in proposito si veda Marcello Musto (a cura di), Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2006 (2005).

[2] Marx-Engels Gesamtausgabe (MEGA2), Dritte Abteilung, Band 11: Briefwechsel Juni 1860 bis Dezember 1861, a cura di Rolf Dlubek e Vera Morozova e con la partecipazione di Galina Golovina e Elena Vašcenko, Akademie Verlag, Berlin 2005, 2 voll., 1467 pp., € 178.

[3] Nel 1870, nelle carte degli archivi francesi pubblicate dal governo repubblicano dopo la fine del Secondo Impero, furono trovati i documenti che comprovavano che Vogt era stato sul libro paga di Napoleone III. Questi, infatti, nell’agosto del 1859 gli aveva versato 40.000 franchi dai suoi fondi segreti. Cfr. Papiers et correspondance de la famille impériale. Édition collationnées sur le texte de l’imprimerie nationale, Vol. II, Paris 1871, p. 161.

[4] Karl Marx a Friedrich Engels, 31 gennaio 1860, in Marx Engels Opere, vol. XLI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 17.

[5] Karl Marx, Herr Vogt, in Marx Engels Opere, vol. XVII, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 271.

[6] Sull’importanza di queste lettere quale strumento di comunicazione politica tra i militanti delle rivoluzioni del 1848-1849 e per analizzare il conflitto tra Marx e Vogt da una prospettiva generale – e dunque non solo dal punto di vista di Marx – si rimanda a Christian Jansen, Politischer Streit mit harten Bandagen. Zur brieflichen Kommunikation unter den emigrierten Achtundvierzigern – unter besonderer Berücksichtigung der Controverse zwischen Marx und Vogt , in Jürgen Herres - Manfred Neuhaus (a cura di), Politische Netzwerke durch Briefkommunikation, Akademie Verlag, Berlin 2002, pp. 49-100, che prende in esame le motivazioni politiche che avrebbero spinto Vogt a parteggiare per Bonaparte. Il saggio contiene anche un’appendice di lettere scritte da Vogt e altre a lui indirizzate. Di altrettanto interesse, perché privi della scontata e spesso dottrinale interpretazione di parte marxista, i testi di Jacques Grandjonc - Hans Pelger, Gegen die “Agentur Fazy/Vogt. Karl Marx’ “Herr Vogt” (1860) e Georg Lommels, “Die Wahrheit über Genf” (1865). Quellen- und textgeschichtliche Anmerkungen, entrambi in «Marx-Engels-Forschungs-berichte», 1990 (Nr. 6), pp. 37-86 e quello dello stesso Lommels, Les implicationes de l’affaire Marx-Vogt, in Jean-Claude Pont - Daniele Bui - Françoise Dubosson - Jan Lacki (a cura di), Carl Vogt (1817-1895). Science, philosophie et politique, Georg, Chêne-Bourg 1998, pp. 67-92.

[7] Frutto di queste ricerche furono i sei quaderni di estratti da libri, riviste e quotidiani dei più differenti orientamenti. Questo materiale – denominato Vogtiana –, che mostra il modo in cui Marx utilizzava i risultati dei suoi studi per le opere che scriveva, è ancora inedito e sarà pubblicato nel volume IV/16 della MEGA².

[8] Karl Marx a Friedrich Engels, 6 dicembre 1860, in MEGA² III/11, Akademie Verlag, Berlin 2005, p. 250; tr. it. Marx Engels Opere, vol. XLI, op. cit., p. 135.

[9] Friedrich Engels a Karl Marx, al più tardi 29 giugno 1860, Ivi, p. 72; tr. it. Ivi, p. 83.

[10] Friedrich Engels a Jenny Marx, 15 agosto 1860, Ivi, p. 113; tr. it. Ivi, p. 604.

[11] Karl Marx a Friedrich Engels, 25 settembre 1860, Ivi, p. 180; tr. it. Ivi, p 108.

[12] Cfr. Karl Marx, Herr Vogt, op. cit., p. 180.

[13] Ibidem .

[14] Friedrich Engels a Karl Marx, 15 settembre 1860, in MEGA² III/11, op. cit., p. 158; tr. it. Marx Engels Opere, vol. XLI, op. cit., p. 103.

[15] Friedrich Engels a Karl Marx, 5 ottobre 1860, Ivi, p. 196; tr. it. Ivi, p. 114.

[16] Friedrich Engels a Karl Marx, 19 dicembre 1860, Ivi, p. 268; tr. it. Ivi, p. 143.

[17] Ferdinand Lassalle a Karl Marx, 19 gennaio 1861, Ivi, p. 321.

[18] Wilhelm Wolff a Karl Marx, 27 dicembre 1860, Ivi, p. 283.

[19] Franz Mehring, Vita di Marx, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 295.

[20] Karl Vorlaender, Karl Marx, Sansoni, Firenze 1948, pp. 209-210.

[21] Boris Nikolaevskij – Otto Maenchen-Helfen, Karl Marx. La vita e l’opera, Einaudi, Torino 1969, p. 284.

[22] David McLellan, Karl Marx, Rizzoli, Milano 1976, p. 317.

[23] Francis Wheen, Marx. Vita pubblica e privata,Mondadori, Milano 2000, p. 145. Bisogna tuttavia sottolineare che – diversamente da quanto affermato da Wheen – Vogt non fu affatto un «oscuro politico». Tra i maggiori esponenti dell’Assemblea Nazionale di Francoforte del 1848-1849 e protagonista della guerra per la ‘difesa della Costituzione del Reich’, egli svolse sicuramente un importante ruolo nella storia tedesca di quel periodo.

[24] Ivi , pp. 204 e 207.

[25] In proposito si rimanda alle riflessioni di S. S. Prawer, La biblioteca di Marx, Garzanti, Milano 1978: «in Herr Vogt sembra che Marx sia incapace di considerare qualsiasi fenomeno politico o sociale senza associarlo a qualche riferimento alla letteratura mondiale», p. 263, e che fa notare che questo testo può essere studiato «come antologia dei vari metodi che Marx aveva appreso per incorporare allusioni e citazioni letterarie nelle sue polemiche», p. 260. La ragguardevole importanza delle influenze letterarie nelle opere di Marx e dell’eruditissimo retroterra culturale della sua teoria critica suscita, d’altronde, sempre maggiore attenzione. In proposito si veda il recente Francis Wheen, Marx’s Das Kapital. A biography, Atlantic Books, London 2006.

[26] Su questo punto si vedano ancora le brillanti considerazioni di S. S. Prawer, op. cit., p. 264.

[27] Karl Marx a Friedrich Engels, 22 gennaio 1861, in MEGA² III/11, op. cit., p. 325; tr. it. Marx Engels Opere, vol. XLI, op. cit., p. 162.

[28] Karl Marx a Friedrich Engels, 16 maggio 1861, Ivi, p. 476; tr. it. Ivi, p. 188.

[29] Karl Marx a Friedrich Engels, 29 gennaio 1861, Ivi, p. 333; tr. it. Ivi, p. 164.

[30] Karl Marx a Friedrich Engels, 27 febbraio 1861, Ivi, p. 380; tr. it. Ivi, p. 177.

[31] Karl Marx a Friedrich Engels, 30 ottobre 1861, Ivi, p. 583; tr. it. Ivi, p. 217.

[32] Karl Marx a Friedrich Engels, 18 novembre 1861, Ivi, p. 599; tr. it. Ivi, p. 222.

[33] Karl Marx a Friedrich Engels, 27 dicembre 1861, Ivi, p. 636; tr. it. Ivi, p. 237.

[34] Karl Marx a Friedrich Engels, 23 novembre 1860, Ivi, p. 229; tr. it. Ivi, p. 124.

[35] Karl Marx a Friedrich Engels, 28 novembre 1860, Ivi, p. 236; tr. it. Ivi, p. 128.

[36] Karl Marx a Friedrich Engels, 19 dicembre 1860, Ivi, p. 271; tr. it. Ivi, p. 145.

[37] Karl Marx a Friedrich Engels, 18 gennaio 1861, Ivi, p. 319; tr. it. Ivi, p. 160.

[38] Karl Marx a Friedrich Engels, 22 gennaio 1861, Ivi, p. 325; tr. it. Ivi, p. 162.

[39] Karl Marx a Friedrich Engels, 27 febbraio 1861, Ivi, p. 380; tr. it. Ivi, p. 176.

[40] Per maggiori notizie su questo periodo trascorso da Marx a Berlino, si veda il recente articolo di Rolf Dlubek, Auf der Suche nach neuen politischen Wirkungsmöglichkeiten. Marx 1861 in Berlin, in «Marx-Engels Jahrbuch», 2004, Akademie Verlag, Berlin 2005, pp. 142-175.

[41] Karl Marx a Friedrich Engels, 7 maggio 1861, in MEGA/2 III/11, op. cit., p. 460; tr. it. Marx Engels Opere, vol. XLI, op. cit., pp. 180-181.

[42] Friedrich Engels a Karl Marx, 6 febbraio 1861, Ivi, p. 347; tr. it. Ivi, p. 171.

[43] Karl Marx a Antoinette Philips, 24 marzo 1861, Ivi, p. 404; tr. it. Ivi, p. 642.

[44] Karl Marx a Friedrich Engels, 10 maggio 1861, Ivi, p. 470; tr. it. Ivi, p. 186.

[45] Karl Marx a Antoinette Philips, 24 marzo 1861, Ivi, p. 404; tr. it. Ivi, p. 642.

[46] Karl Marx a Carl Siebel, 2 aprile 1861, Ivi, p. 419; tr. it. Ivi, p. 646.

[47] Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 8 maggio 1861, Ivi, p. 464; tr. it. Ivi, p. 656.

[48] Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 15 settembre 1860, Ivi, p. 161; tr. it. Ivi, p. 615.

[49] Karl Marx a Friedrich Engels, 20 luglio 1861, Ivi, p. 542; tr. it. Ivi, p. 212.

[50] Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 9 dicembre 1861, Ivi, p. 616; tr. it. Ivi, p. 230.

[51] MEGA² II/3.1, Dietz Verlag, Berlin 1976. La traduzione italiana apparve velocemente a cura di Lorenzo Calabi: Karl Marx, Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980, ma non riuscì a essere inclusa nei volumi delle Opere.

[52] Karl Marx, Die Londoner «Times» über die Prinzen von Orleans in Amerika, 7-XI-1861, in MEW 15, Dietz Verlag, Berlin 1961, p. 327.

[53] Karl Marx a Friedrich Engels, 10 giugno 1861, in MEGA² III/11, op. cit., p. 493; tr. it. Marx Engels Opere, vol. XLI, op. cit., p. 190.

[54] Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 29 maggio 1861, Ivi, p. 480; tr. it. Ivi, p. 658.

[55] Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 1 o 2 giugno 1860, Ivi, p. 19; tr. it. Ivi, p. 596.

[56] Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 1 o 2 giugno 1860, Ivi, p. 20; tr. it. Ivi, p. 597.

[57] Essa è databile al mese di aprile: vedi MEGA² III/11, op. cit., p. 465.

[58] Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 29 maggio 1861, Ivi, p. 481; tr. it. Marx Engels Opere, vol. XLI, op. cit., p. 659.

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fonte: MarcelloMusto