venerdì 30 settembre 2022

Futurologia !!??

L'antologia Il mondo dei posteri - Utopia e distopia nella Russia del primo Novecento propone al lettore italiano un viaggio mai prima intrapreso nella fantascienza russa e sovietica degli albori, i cui testi restano ancora in larga parte inediti. Essa, affiancandosi agli esempi ben più popolari di Jules Verne, Camille Flammarion, ed Herbert George Wells, sviluppa un tipo di narrazione che pone al centro le conseguenze del progresso illimitato della scienza (quella che poi verrà definita futurologia), e apre le porte a tutta una tradizione successiva, come quella dei fratelli Boris e Arkadij Strugackij o Stanislaw Lem, che sarà destinata a un riconoscimento internazionale. Presentiamo qui quattro testi: Atavismo (1899) e Una sera... del 2217 (1906) di Nikolaj Fèdorov; La repubblica della croce del sud (1907) di Valerij Brjusov; e un capitolo dal romanzo Il mondo dei posteri (1923) di Jakov Okunev, intitolato Il risveglio. Valerij Brjusov (1873-1924) fu tra i massimi poeti tra il xix e il xx secolo in Russia, caposcuola della scuola simbolista e famoso in vita anche all'estero. Ja-kov Okunev (1882-1932) è invece sostanzialmente ignoto al lettore non russofono, fu scrittore e giornalista, autore di varie opere a tema utopistico e distopico. L'autore dei primi due testi infine, Nikolaj Fédorov, è dato come ignoto, ma in base alle nostre ricerche potrebbe trattarsi di uno pseudonimo dell'autore polacco Ferdynand Antoni Ossendowski (1878 - 1945).

(dal risvolto di copertina di: Nikolaj Fëdorov, Valerij Brjusov, Jakov Okunev, "Il mondo dei posteri". Giometti & Antonello pagg. 128 €18)

Non realismo socialista
- “Il mondo dei posteri” raccoglie una serie di racconti distopici di autori russi e moldavi che nel 1917 diedero vita alla corrente letteraria chiamata “futurologia” -
di Piero Melati

Il punto più alto dell’incontro tra Russia e fantascienza si ebbe nel 1934 quando, durante tre ore di colloquio per un’intervista d’autore, lo scrittore, inglese e socialista, della Guerra dei mondi H.G. Wells e il dittatore comunista Stalin si strapazzarono a vicenda. Dopo di allora, persino dentro la Cortina di Ferro, la science-fiction dell’Est ha regalato agli appassionati occidentali di Dick e Ballard autori di primo livello, alcuni (come il polacco Stanislaw Lem) di culto anche nel nostro emisfero culturale, altri (come i sovietici Arkadij e Boris Strugackij) considerati addirittura anticipatori del fenomeno “cyberpunk” degli anni Ottanta.
Meno, o quasi nulla, sapevamo invece di utopie e distopie nella Russia del primo Novecento. Dalla preziosa antologia della casa editrice Giometti & Antonello di Macerata (Il mondo dei posteri, pp.119, euro 18) apprendiamo che i “padri fondatori” moscoviti o moldavi dettero vita a una corrente letteraria che verrà poi definita “futurologia”. Nei loro racconti si travalicano i luoghi comuni più abusati del genere: niente alieni e guerre stellari, ma universi totalitari orwelliani che, calati nel contesto della vigilia della Rivoluzione del 1917 e del posteriore stalinismo, suonano come profezie. La loro carica anticipatrice sembra uno dei segreti meglio custoditi nella parabola mondiale della fantascienza. Ma per una volta gli storici non hanno colpe. A volte furono gli stessi protagonisti di quella stagione ad essere elusivi e sfuggenti quanto una spia ben infiltrata nelle fila del nemico. Prendiamo ad esempio Nikolaj Fedorov, uno degli autori presenti nell’antologia. È nota la firma dei suoi racconti (Atavismo e Una sera…dell’anno 2217) ma quanto a chi fosse davvero si brancola nel buio. Si fanno due ipotesi: o si tratta di un nome collettivo riconducibile a una confraternita iniziatica o a una setta segreta, oppure si tratterebbe dello pseudonimo di Ferdynand Antoni Ossendowski (1878-1945). E qui, fosse vero, siamo nella leggenda. Ossendowski, scrittore, scienziato, esploratore, fu consigliere militare dell’aristocratico baltico von Ungern-Sternberg, detto “il barone sanguinario”, signore della guerra incline al misticismo orientale, folle e torturatore, che dopo la rivoluzione comunista guidò le milizie controrivoluzionarie dal cuore della Mongolia, proclamandosi erede di Gengis Khan. Hugo Pratt lo disegnerà mentre da solo a cavallo carica il nemico, in una delle storie più esotiche del suo Corto Maltese, Corte sconta detta arcana. Ma non basta. L’esploratore Ossendowski fu autore di un libro del 1925, Bestie, uomini, dei, che narra la guerra in Mongolia tra mongoli, russi e cinesi, ma che – secondo i circoli iniziatici europei – avrebbe anche incautamente rivelato i segreti di un mitico mondo, quello dell’Agartha, dove vivrebbe un mistico “re del mondo”. Libro riscoperto ai nostri giorni da Tiziano Terzani, eppure accusato all’epoca di spacciare fandonie. Eppure il famoso esoterista francese René Guénon scese in campo a difenderlo, con il suo pamphlet Il re del mondo (che ispirò la famosa e omonima canzone di Franco Battiato), tuttora in vendita nelle nostre librerie. Perseguitato, l’autore, sia dallo zarismo che dai bolscevichi, i libri di Ossendowski furono messi al bando e ristampati solo dopo il 1989.

Spiritismo, eugenetica, darwinismo sociale. In quel breve tratto di storia, tra i primi fuochi della futura rivoluzione e la successiva pianificazione economica sovietica che cambierà il volto del paese, accadde di tutto. La medium italiana Eusapia Palladino era in tour a San Pietroburgo, lo scienziato Dmitrij Mendeleev studiava i fenomeni spiritici, il premio Nobel Il’ja Mecnikov analizzava le società degli insetti e polemizzava con le teorie umanitarie di Lev Tolstoj. I racconti di fantascienza del tempo rispecchiarono questo clima, anticipandone le degenerazioni. Il nemico delle nuove società prefigurate, per esempio, è l’atavismo, che affligge coloro che provano ancora sentimenti di «compassione, amore, indignazione». Il controllo sociale irrompe nella sfera più intima. «La libertà, una parola logora…questa gente mina la società intera…ora non ci sono più gli infelici, i diseredati…ognuno ha accesso alla luce, al riscaldamento, tutti sono sazi e possono studiare». «E sono tutti schiavi». Jakov Okunev, giornalista più volte arrestato, viaggiatore in Mongolia e Manciuria, rivelerà ai suoi lettori, al termine de Il risveglio: «L’autore è costretto ad ammettere di non avere inventato quasi nulla, avendo derubato il più accuratamente possibile la scienza moderna, la tecnica e soprattutto la vita… L’autore è convinto che fra duecento anni la realtà relegherà a un remoto passato tutto ciò che nel romanzo potrebbe sembrare al lettore una trovata fantasiosa».

Piero Melati - Pubblicato su Robinson del 20/8/2022 -

Un altro punto di vista !!

«Si potrebbe definire questo feticismo delle cifre come il lato occulto del Secolo dei Lumi. In epoca moderna, i dati hanno mostrato un'incredibile espansione del loro campo d'azione… Questo ci porta dritti al pensiero magico. Perché,  ovviamente, la società non può essere compresa nella sua interezza utilizzando solo metodi matematici.»

(Claus Peter Orlieb – matematico – da un'intervista apparsa sulla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung – 8/05/2010)

giovedì 29 settembre 2022

Moishe Postone: con George Lukàcs, e oltre !!

« Nel pensiero di Lukács, c'è una tensione evidente. Da un lato, il suo focalizzarsi sulla forma-merce gli consente una critica del capitalismo che scardina i limiti del quadro marxista tradizionale. Ma, da un altro lato, allorché affronta la questione del possibile superamento del capitalismo, egli riprende e assume la nozione di proletariato visto come Soggetto rivoluzionario della storia. Tale idea, tuttavia, rimane comunque legata alla concezione tradizionale, secondo la quale il lavoro costituisce il punto di vista della critica. Risulta pertanto difficile vedere in che modo, questa nozione di proletariato visto come Soggetto rivoluzionario, indicherebbe la possibilità di un rovesciamento storico di quello che è il carattere quantitativo, razionale e razionalizzante delle moderne istituzioni, che Lukács analizza in maniera critica, in quanto capitaliste.

Nella terza parte del suo saggio, la teoria del proletariato di Lukács sembra perciò essere in contrasto con la concezione, più profonda e più ampia, del capitalismo che è stata presentata nella prima parte del saggio. Questo suggerisce che la teoria del proletariato di Lukács sta contraddicendo la sua analisi categoriale, oppure che quest'ultima è inadeguata. In altre parole, ci si chiede se la comprensione propriamente lukacsiana delle categorie della critica di Marx fornisca un terreno adeguato alla ricca comprensione critica che ci viene offerta in questo saggio sulla "reificazione". Sarei portato a sostenere che la comprensione delle categorie, da parte di Lukács sia davvero effettivamente problematica, e che sia coerente con la sua teoria del proletariato; una teoria che altri hanno denunciato come dogmatica e mitizzante.

Nondimeno, quelle che sono le sue concezioni allargate del capitalismo e dell'analisi categoriale, sono separabili dalla sua concezione specifica delle categorie, e dalla sua teoria del proletariato. Per comprendere queste concezioni allargate - che costituiscono i contributi teorici più significativi di Lukács - è tuttavia necessario un esame critico della sua concezione della merce; la categoria apparentemente fondamentale della società capitalistica moderna. Sosterrei anche che Lukács, essenzialmente, intende la merce in termini marxisti tradizionali e che, di conseguenza, la sua analisi categoriale riprende alcune delle antinomie del pensiero borghese che egli stesso critica. Nonostante la sua critica storico-sociale del dualismo, la sua concezione della merce rimane dualistica. Essa riproduce l'opposizione tra forma e contenuto che egli stesso contesta e che, implicitamente, oppone la prassi alle strutture sociali formali, in un modo che confligge con la comprensione dialettica della prassi vista come costitutiva delle strutture le quali, a loro volta, sono costitutive della prassi.

Una diversa comprensione, alternativa, della merce consentirebbe una critica categorica del capitalismo la quale potrebbe raggiungere il rigore concettuale e la forza analitica, suggeriti e allo stesso tempo compromessi dal notevole saggio di Lukács. E suggerirò anche che, nonostante la brillantezza dell'appropriarsi, da parte di Lukács, della critica marxiana dell'economia politica, l'analisi di Marx della merce, nel Capitale, differisce profondamente da quella di Lukács, e ci fornisce la base per una comprensione alternativa. Tuttavia, l'interpretazione dell'analisi di Marx, che delineerò, è essa stessa debitrice del ricco approccio generale svolto da Lukács; e questo sebbene essa sia simultaneamente in contrasto con la sua particolare concezione delle categorie. Per poter affrontare le differenze, tra la comprensione della merce da parte di Marx e da parte di Lukács, analizzerò brevemente i loro modi, significativamente diversi, di interpretare criticamente il concetto hegeliano di Geist, il soggetto-oggetto identico della Storia. Il mio scopo non è semplicemente quello di stabilire che l'interpretazione di Marx differisce da quella di Lukács, quanto piuttosto di cominciare a elaborarne le implicazioni, al fine di comprendere qual è la categoria fondamentale per entrambe le teorie critiche: la merce. Elaborando queste differenze, vorrei sottolineare come è possibile recuperare tutto il potenziale dell'approccio lukácsiano, facendolo in un modo che esso rompa in maniera più decisa con il marxismo tradizionale, e apra in tal modo la possibilità di una critica più adeguata del capitalismo contemporaneo.»

-  estratto da: "György Lukács e la critica dialettica del capitalismo", di prossima pubblicazione in Moishe Postone, "Marx, oltre il Marxismo" (Crisis & Critique, novembre 2022) -

mercoledì 28 settembre 2022

Dalla bruttura e dal dolore…

«Chi non ha sentito leggere Gogol’ non conosce fino in fondo le sue opere.»
Uno dei più grandi scrittori russi dell’Ottocento, Nikolaj Gogol’, raccontato nella vita privata, sempre curiosa, inaspettata e a tal punto originale che è rimasta sempre difficile da spiegare con i comuni parametri. La raccontano a brani le persone più diverse, medici, contesse, attori, letterati o semplici ammiratori entrati in contatto con lui. Molto spesso in viaggio all’estero, non di rado spiantato, Gogol’ ha vissuto per lunghi periodi anche a Roma, dove ha scritto Le anime morte, capolavoro tra i capolavori, e che non ha saputo più continuare, con momenti di disperazione e vero delirio, anche religioso, tormentato alla fine pure dal diavolo. Una biografia di prima mano, come fossero foto a sorpresa, quando uno non sa di essere visto; molte testimonianze sono inedite in italiano; il tutto curato da Giovanni Maccari che ha scelto, tradotto e spiegato chi sono gli autori che narrano, in un’introduzione generale al libro e ai singoli brani.

(dal risvolto di copertina di: "Nikolaj Gogol’ nei ricordi di chi l’ha conosciuto", Quodlibet. A cura di Giovanni Maccari pagg. 464 €19)

Ti presento Gogol’
- di Michele Mari -

«In tutta la sua figura c’era qualcosa di legato, di compresso, di chiuso come un pugno. Nessuno slancio, nessun segno d’apertura. Gettava invece qua e là delle occhiate quasi oblique, sfuggenti senza mai guardare dritto negli occhi chi gli stava di fronte» (Berg); «la mattina si lavava a fatica il viso e le mani, portava sempre la biancheria sporca e un abito tutto impiastricciato. Nelle tasche dei calzoni aveva immancabilmente una provvista di dolci di ogni tipo» (Ljubic-Romanovic); mangiava «con straordinaria voracità, curvandosi a tal punto che i suoi lunghi capelli cadevano nel piatto» (Annenkov); scriveva «girando fra le dita delle pallottole di pane bianco che a suo dire lo aiutavano a concentrarsi. Un amico aveva raccolto un mucchio intero di queste pallottole e le conservava con venerazione» (ancora Berg); eccetera. Le bizzarrie del personaggio, le sue flagranti contraddizioni, enfatizzate e moltiplicate da una pletora di testimonianze spesso discordanti, hanno fatto sì che le raccolte di aneddoti relativi a Nikolaj Gogol’ costituiscano, nella bibliografia del grande scrittore, un genere particolarmente frequentato già a partire da metà Ottocento. Ultimo titolo in ordine di tempo, Nikolaj Gogol’ nei ricordi di chi l’ha conosciuto, allestito da Giovanni Maccari con una competenza e una passione degne delle curatele russe di Tommaso Landolfi.

Pur tenendosi lontano dagli opposti estremi dell’agiografia e della denigrazione, questa antologia sceglie di rispettare le regole di un genere che privilegia la vita rispetto alle opere: in questo modo corre consapevolmente e gioiosamente il rischio del pettegolezzo biografico, quello in cui, malgrado tutto, risiede l’interesse di un libro peraltro turpe come Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi di Antonio Ranieri. Al pari di Leopardi, Gogol’ era gracile e malaticcio, goffo e trascurato, sordido nel vestire e a detta di molti «ripugnante», sfuggente, furtivo, ipocondriaco. Ma tutto questo, scrive Maccari, non gli impediva «di coltivare un amor proprio tirannico che lo portava a elaborare progetti colossali e a concepirsi come un essere separato». Mi viene da pensare che questa scissione non sia estranea al surrealismo fantastico di chi ha incentrato un racconto sul distacco di un naso dalla faccia del proprietario (per la cronaca, stando a Panaev, il suo naso era «lungo, incavato e adunco come il becco di un rapace»): in ogni caso deriva da qui il leggendario istrionismo di Gogol’, il suo amore per i travestimenti, la ricerca quasi programmatica di un provocatorio cinismo, la fiducia nella sostanzialità comica dell’universo. E se fosse vero ciò che l’antologia suggerisce, e cioè che Gogol’ non sia esistito tanto in sé e per sé quanto nelle apparenze e nelle messinscene, significherebbe che il suo progetto di sottrazione è perfettamente riuscito.

Uno che lo conosceva bene come Aksakov (sua la testimonianza più lunga), pur non facendogli sconti intuisce che sotto quella maschera indisponente e quella subdola inaffidabilità si nascondeva una vocazione comica rabdomantica, come una forma di conoscenza e, di fatto, uno straordinario regalo ai suoi interlocutori: «Ho avuto modo innumerevoli volte di constatare come le stesse cose che raccontate da Gogol’ facevano scompisciare gli ascoltatori, ripetute da me o da chiunque altro non producevano alcun effetto». Analogamente, Panaev trova Gogol’ maleducato e artefatto, ma appena gli sente leggere qualche pagina delle Anime morte si sente pervaso da «brividi di piacere» (e così un po’ tutti, ad esempio Pogodin: «Ma come leggeva? È impossibile anche solo immaginarlo. Nessuno si muoveva, tutti restavano come incatenati ai loro posti. L’incanto della lettura era talmente forte che capitava che il pubblico restasse immobile, quasi avesse paura di respirare liberamente»). Le stesse Anime morte, pensa Aksakov, sarebbero state scritte per esorcizzare (o digerire) l’orrore della società russa, «spaventosa accozzaglia di mostri umani»: parole che sembrano scritte per il Pasticciaccio di Gadda, un altro grande nevrotico capace di suscitare ilarità dalla bruttura e dal dolore. Ma possiamo anche retrocedere nel tempo, e imbatterci in più di una figura (nel senso auerbachiano del termine) gogoliana: per esempio in artisti saturnini ed «astratti» come Piero di Cosimo o Pontormo, o come Leonardo, la cui favolosa capacità di astrarsi dal mondo torna in questa bellissima testimonianza italiana, per una volta di Gogol’ in persona: «Quando abitavo in Italia mi è capitato questo fatto: un giorno di luglio ero in viaggio fra i paesi di Genzano e Albano. Lungo la strada, su un’altura, c’è una trattoria polverosa con un biliardo nella sala principale, dove le palle rotolano costantemente . In quel periodo stavo scrivendo il primo volume delle Anime morte e non mi separavo mai dal quaderno. Non so perché, nel momento in cui entrai in trattoria mi venne voglia di scrivere. Presi un tavolo, mi sedetti in un angolo, tirai fuori la borsa e nonostante il rotolio delle palle sul biliardo, il baccano incredibile, il via vai del cameriere, il fumo, il caldo soffocante, sprofondai in una specie di sogno e scrissi un capitolo intero senza alzare la testa. Quelle pagine mi sembrano ancora fra le più ispirate che ho mai scritto».

- Michele Mari - Pubblicato su Robinson del 20/8/2022 -

L’ultima parola !!

«Sulla Comune...»
Attila Kotànyi, Guy Debord, Raoul Vaneigem… - 18 marzo 1962 -

1. Occorre riprendere lo studio del movimento operaio classico in maniera disingannata, e disingannata soprattutto per quanto riguarda i suoi eredi politici o pseudo-teorici, poiché essi non possiedono che l’eredità della sua disfatta. Il successo apparente di questo movimento è l’insieme delle sue disfatte fondamentali (il riformismo o l’installazione al potere di una burocrazia statale) e le sue sconfitte (la Comune e la rivolta delle Asturie) sono, a tutt’oggi, i suoi successi aperti, per noi e per l’avvenire.

2. La Comune è stata la più grande festa del 19° secolo. Alla base di essa si trova la convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia, non tanto al livello della decisione politica “governativa”, quanto invece a livello della vita quotidiana, in quella primavera del 1871 (per esempio il gioco di tutti con le armi; il che significa giocare con il potere). E’ anche in tal senso che bisogna capire Marx: «la più grande misura sociale della Comune è stata la sua esistenza in atto».

3. La frase di Engels: «Considerate la Comune di Parigi. Era la dittatura del proletariato» deve essere presa sul serio, come base per mostrare ciò che non é la dittatura del proletariato in quanto regime politico (le differenti forme di dittatura sul proletariato, in suo nome).

4. Tutti hanno potuto muovere delle giuste critiche alle incoerenze della Comune, alla mancanza palese di un apparato. Ma poiché noi siamo oggi convinti che il problema degli apparati politici sia molto più complesso di quanto non pretendano gli eredi dell’apparato di tipo bolscevico, é tempo di considerare la Comune non solo come primitivismo rivoluzionario passato di cui si superano tutti gli errori, ma come un’esperienza positiva di cui non si é ancora ritrovata e compiuta tutta la verità.

5. La Comune non ha avuto capi. E questo in un periodo storico nel quale l’idea che fosse necessario averne dominava completamente il movimento operaio. Così si spiegano, prima di tutto, le sue sconfitte e i suoi successi paradossali. Le guide ufficiali della Comune erano degli incompetenti (se si prende, come riferimento, il livello di Marx, o anche di Lenin e persino di Blanqui). Ma in compenso, gli atti “irresponsabili” di quel momento sono precisamente da rivendicare per il seguito del movimento rivoluzionario del nostro tempo (anche se le circostanze li hanno limitati quasi tutti allo stadio distruttivo - l’esempio più conosciuto é l’insorto che dice al borghese sospetto, che afferma di non essersi mai occupato di politica: «E’ proprio per questo che ti uccido»).

6. L’importanza vitale dell’armamento generale del popolo è manifestata, praticamente e teoricamente, dall’inizio alla fine del movimento. Nell’insieme, non si è rinunciato, in favore di distaccamenti specializzati, al diritto di imporre con la forza una volontà comune. Il valore esemplare di questa autonomia dei gruppi armati ha il suo rovescio nella mancanza di coordinazione: il fatto di non avere, in nessun momento, offensivo o difensivo, della lotta contro Versailles, portato la forza popolare a livello dell’efficacia militare; ma non si deve dimenticare che in Spagna la rivoluzione, e infine la guerra, sono state perdute in nome della trasformazione in “esercito repubblicano”. Si può pensare che la contraddizione tra autonomia e coordinazione dipendesse, in larga misura, dallo sviluppo tecnologico dell’epoca.

7. La Comune rappresenta, fino ad ora, la sola realizzazione di un urbanismo rivoluzionario, poiché essa ha attaccato, nella pratica, i segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita, riconoscendo lo spazio sociale in termini politici, rifiutandosi di credere che un monumento possa essere innocente. Coloro che riconducono questo aspetto ad un nichilismo da sottoproletari, all’irresponsabilità delle incendiarie, devono, in contropartita, confessare tutto ciò che essi considerano positivo, da conservare, nella società dominante (si vedrà che é praticamente tutto).

8. Più che dalla forza delle armi, la Comune di Parigi é stata vinta dalla forza dell’abitudine. L’esempio pratico più scandaloso é il rifiuto di ricorrere al cannone per impadronirsi della Banca di Francia, mentre c’era un così grande bisogno di denaro. Durante tutto il periodo in cui la Comune ha tenuto il potere, la banca é rimasta un’enclave versagliese dentro Parigi, difesa da qualche e fucile e dal mito della proprietà e del furto. Le altre abitudini ideologiche sono state estremamente nocive a tutti gli effetti (la risurrezione del giacobinismo, la strategia disfattista delle barricate in ricordo del ’48, ecc.).

9. La Comune mostra come i difensori del vecchio mondo beneficino sempre, per un aspetto o per l’altro, della capacità dei rivoluzionari; e soprattutto di coloro che pensano la rivoluzione. E precisamente là dove i rivoluzionari pensano come loro. Il vecchio mondo mantiene così delle basi (l’ideologia, il linguaggio, i costumi, i gusti) nello sviluppo dei suoi nemici, e vi si inserisce per riguadagnare il terreno perduto. (Solamente il pensiero in atto, naturale per il proletariato rivoluzionario, gli sfugge una volta per tutte: la Corte dei Conti é bruciata). La vera “quinta colonna” è nello spirito stesso dei rivoluzionari.

10. L’aneddoto degli incendiari che negli ultimi giorni erano andati per distruggere Nôtre Dame, e che si erano scontrati con il battaglione degli artisti della Comune, é ricco di senso: è un buon esempio di democrazia diretta. Esso mostra anche, più oltre, i problemi ancora irrisolti nella prospettiva del potere dei Consigli dei lavoratori. Quegli artisti, unanimi, avevano ragione di difendere una cattedrale in nome di valori estetici permanenti, e in definitiva, in nome dello spirito dei musei, quando altri uomini volevano quel giorno accedere all’espressione di se stessi, traducendo, con la demolizione della chiesa, la propria sfida totale ad una società che, con la sconfitta della Comune, si accingeva a respingere tutta la loro vita nel nulla e nel silenzio? Gli artisti della Comune, comportandosi da specialisti, si trovavano già in conflitto con una manifestazione coerentemente estremista della lotta contro l’alienazione. Bisogna rimproverare agli uomini della Comune di non aver osato rispondere al terrore totalitario del potere con l’impiego della totalità delle loro armi. Tutto induce a credere che i poeti che hanno tradotto in quel momento la poesia sospesa nella Comune siano stati fatti sparire. La massa degli atti incompiuti della Comune fa sì che divengano “atrocità” le azioni abbozzate, e che i ricordi siano censurati. La frase «coloro che fanno delle rivoluzioni a metà non fanno che scavarsi una fossa» spiega anche il silenzio di Saint-Just.

11. I teorici che restituiscono la storia di questo movimento adottando il punto di vista onnisciente di Dio, hanno gioco facile nel mostrare che la Comune era oggettivamente condannata, che essa non aveva possibilità di sbocco. Non bisogna dimenticare che, per coloro che hanno vissuto l’avvenimento, lo sbocco era là.

12. L’audacia e l’immaginazione della Comune non si misurano, evidentemente, in rapporto alla nostra epoca, ma in rapporto alla banalità di allora nella vita politica, intellettuale, morale. In rapporto alla solidarietà di tutte le banalità alle quali la Comune ha appiccato il fuoco. Così, considerando la solidarietà delle banalità attuali, si può concepire l’ampiezza della creatività che possiamo attenderci da un’esplosione uguale.

13. La guerra sociale di cui la Comune é un momento dura tuttora (benché le sue condizioni superficiali siano molto cambiate). Per l’opera di «rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (Engels), non é stata detta l’ultima parola.

 - Attila Kotànyi, Guy Debord, Raoul Vaneigem -

Pubblicato su Internationale situationniste - N. 12, Settembre 1969 -

martedì 27 settembre 2022

Bugiardi !!

Pensiero, modernità e atti poetici
La teoria del Bloom e del Potenziale Destituente è sempre stata un veicolo per la Nuova Destra Religiosa
- di Mickey Moosenhauer -

Qual è la connessione tra "pensiero", "modernità" e "atti poetici"? Come ha fatto la nozione di "das Man" ("loro"), di Martin Heidegger, a ricomporsi; prima a partire dall'insistenza di Hannah Arendt, circa il fatto che Adolf Eichmann non riusciva a "pensare", e poi nella "teoria del Bloom" di Giorgio Agamben e Tiqqun? Quella di essere "Loro" è (per Heidegger, Tiqqun, Agamben e Arendt) la condizione umana moderna, una condizione banale, nella quale perdiamo noi stessi (vedi sotto Appendice 1). Heidegger scrive (1927): «Il proprio Dasein si dissolve completamente nell'Essere degli "Altri", tanto che gli Altri, in quanto distinguibili ed esplicabili, svaniscono sempre più».  Per Heidegger, come per tutti gli "antimodernisti" (a proposito, non c'è nulla di male nel criticare la società, purché non si cada o si invochi un vero e proprio "tradizionalismo"), il crimine centrale della modernità è la mancanza di pensiero: «La cosa più pensante nel nostro tempo pensante è che non stiamo ancora pensando» (Heidegger 1954). Hannah Arendt impiega il concetto di "Loro" - di Heidegger - nel suo ritratto di Adolf Eichmann: «Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. [cioè, sono "Loro"]... Il male deriva dall'incapacità di pensare»(Arendt 1963). Seguendo Arendt (che a sua volta ha seguito Heidegger), Agamben e Tiqqun elaborano questa nuova, moderna, figura dell'umano: «Bloom, non essendo un'individualità, non si lascia caratterizzare da nulla di ciò che dice, fa o manifesta» (Tiqqun 1999). Questa costituiva una parte della difesa (bugiarda) di Eichmann, il quale definiva sé stesso come uno che «stava solo eseguendo gli ordini», ma la sua difesa è un trucco, e Arendt ci è cascata a causa del suo impegno nella filosofia "antimoderna" di Heidegger. Il fatto che i Tiqqun riaffermino la presunta verità della difesa bugiarda di Eichmann - come fece la Arendt – dimostra solo il loro impegno nel comprendere il malessere e la "rovina" del mondo "moderno" in termini heideggeriani. I Tiqqun portano avanti la loro tesi, secondo cui tutti noi siamo Eichmann (beh, forse tutti tranne loro, visto che forse sono più intelligenti di tutti noi) e che, essenzialmente, Eichmann è stato solo una vittima "innocente" (sebbene, come ha insistito anche Arendt, abbia meritato il suo destino): «Ma è proprio nella misura in cui Bloom non è un individuo, che egli stabilisce relazioni con i suoi simili. Bloom [è l'] io che è un LORO [e] il LORO che è un io, [che] è proprio ciò che la finzione dell'individuo è stata inventata per contrastare» (Tiqqun 1999) (si veda sotto Appendice 2)

Come scrive Andreas Grossmann: « Heidegger, nei passaggi finali della sua conferenza su Eraclito [1943] sostiene  che "la prova più grande e genuina dei tedeschi" deve ancora esserci. Si tratta di sapere "se essi, i tedeschi, sono in armonia con la verità dell'Essere, se sono abbastanza forti, al di là della disponibilità alla morte, da riuscire a salvare il germe, nella sua sobria apparenza, dalla pochezza del mondo moderno". Il vero pericolo che corre la Germania, afferma, non è "il pericolo della sua caduta, ma il pericolo che noi, confusi, ci arrendiamo alla volontà della modernità e andiamo alla deriva". E Heidegger conclude: "Affinché questa calamità non si verifichi, nei prossimi decenni saranno necessari quei trentenni e quei quarantenni che hanno imparato a pensare essenzialmente"» (Grossmann, 2004). Confrontiamolo con Giorgio Agamben, che ha reso il linguaggio heideggeriano ancora più vago e "privo di senso": «Ai fini del potenziale destituente è necessario pensare strategie del tutto diverse, la cui definizione è compito della politica a venire» (Agamben, 2014). « La profanazione dell'inprofanabile è il compito politico della prossima generazione » (Agamben 2005). Seguendo Heidegger, gran parte della "sinistra vitalista" (o quanto meno coloro che seguono Agamben a livello accademico) e l'estrema destra in Italia, sono propensi a utilizzare Friedrich Hölderlin come se egli fosse stato una sorta di "poeta originario" dei nostri "tempi destituenti". Ma Andreas Grossmann (2004) ha individuato il mondo in cui Heidegger utilizza erroneamente Friedrich Hölderlin per i propri fini "antimoderni" [*]:

«Ciò perché Hölderlin era stato il primo [secondo Heidegger] a sperimentare la condizione tedesca di non essere a casa [lo si confronti per questo, con Camatte e con l'«erranza» di Emil Cioran], e che quindi solo lui aveva potuto enunciare la “legge del ritorno a casa dei tedeschi”. Nel dramma della storia, rappresenta colui che è necessario, colui che scongiura il pericolo, colui che rende possibile una “dimora poetica” [lo si confronti con Tiqqun e con Agamben], rendendo in tal modo  accessibile, in un tempo empio, la dimensione del "sacro". Ad ogni modo, le interpretazioni di Heidegger, tuttavia, non possono che porsi su questa linea, dal momento che esse escludono forzatamente le diverse sfaccettature decisive del testo di Hölderlin - come ad esempio le allusioni alla Rivoluzione francese in "Andenken", o l'immagine dell'Oriente asiatico, in quella stessa poesia e in "Ister". In tal modo, Hölderlin viene assoggettato a una prospettiva che viene radicata in una filosofia della storia; una prospettiva che gli è completamente estranea, cosicché di conseguenza i suoi testi poetici vengono “totalizzati”» ( Da:"The Myth of Poetry: On Heidegger’s Hölderlin", di Andreas Grossmann, 2004, disponibile su Jstor).

E così, per quanto assurdo, la poesia, l'«atto poetico», e la teologia sono diventati i nuovi slogan della sinistra libertaria: «Abbiamo bisogno di creare un esterno dall'interno. Immaginazione, poesia: l'atto della creazione di un esterno, è il gesto poetico di cui abbiamo bisogno ora. Chiamatelo, se volete, trascendenza immaginativa» (Franco Bifo Berardi, 2012). Oppure, «Ciò di cui la critica ha bisogno ora, è di poeti e teologi» (Tiqqun, 1999). E, «In ogni avventura, una vita poetica è quella che si mantiene ostinatamente in relazione, non con un atto ma con una potenza, non con un dio ma con un semidio» (Agamben, 2015). Ancora, «In un tempo desolato, essere poeta significa: seguire, cantando, le tracce degli dei fuggiaschi. È per questo che il poeta nel tempo della notte del mondo [...sì, sospira pure, povero Martin, che i nazisti sono appena stati sconfitti...] proferisce il sacro» (Heidegger, 1946). Ai fini delle attuali prospettive "neo-religiose", Heidegger è fondamentale, non solo per Agamben e per gran parte della "sinistra vitalista", ma anche, ad esempio, per Gerardo Muñoz e per Alberto Moreiras (Infrapolitics: A Handbook, 2020/21), nonché per l'accademico comunista in ascesa Kieran Aarons, che presto pubblicherà con Idris Robinson (allievo di Muñoz) sul South Atlantic Quarterly. Aarons, nella sua ricerca sul "potere destituente" e sulla "anarchia", comprende e integra in sé, ad esempio, Furio Jesi e il filosofo Padre Reiner Schürmann.

[*] - Per saperne di più sull'uso improprio di Hölderlin, da parte di Heidegger, e che, passando l'Italia, ha riscosso così tanto successo nel mondo accademico radicale anglofono, si veda:
http://jacketmagazine.com/32/stephens-heidegger.shtml

- Mickey Moosenhauer - 2022 -

Appendice 1
«Banale», è un termine diventato famoso negli ambiti dell'Internazionale Situazionista, e che nei paesi anglofoni è diventato un segno di radicalità - o di insofferenza verso la società - allorché si riusciva a inserirlo in qualsivoglia testo scritto o verbale (e per alcuni è ancora così, come ad esempio per coloro che continuano a usarlo come se fosse un distintivo di credibilità; mentre ovviamente, volendo détournare Raoul Vaneigem, chi parla si riempie la bocca di un cadavere). Il termine "banalizzazione" («Una malattia mentale ha invaso il pianeta: la banalizzazione»), è stato usato da Ivan Chtcheglov in "Formulario per un nuovo urbanismo" (1953) (scritto mentre egli era membro dell'Internazionale Lettrista - precursore dell'IS -, e poi stampato nel primo numero di Internationale Situationiste (giugno 1958). Nel numero 7 della rivista (aprile 1962), Raoul Vaneigem pubblica "Banalità di base". Nel 1963 viene pubblicato il libro di Hannah Arendt sul processo Eichmann: "Eichmann in Jerusalem. A report on the Banality of Evil" [in italiano: "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme"]. La banalizzazione, che presumibilmente caratterizza la vita moderna, veniva descritta da Chtcheglov come «una malattia mentale»: «Sono tutti ipnotizzati dalla produzione e dalle comodità; sistema fognario, ascensore, bagno, lavatrice». Chtcheglov prosegue: «Questo stato di cose, che nasce dalla lotta contro la povertà, è andato oltre quello che era il suo obiettivo finale - liberare l'umanità dalle preoccupazioni materiali - ed è diventato un'immagine ossessiva onnipresente. Di fronte all'alternativa tra l'amore e il tritarifiuti, i giovani di tutti i Paesi hanno scelto il tritarifiuti.Si è reso pertanto essenziale provocare una completa trasformazione spirituale, riportando alla luce desideri dimenticati, e creandone di completamente nuovi.Svolgendo inoltre un'intensa propaganda a favore di questi desideri».

69 anni più tardi (nel 2022) Tiqqun (Manifeste conspirationniste) scrive ancora le stesse cose, ma lo fa aggiungendovi la "cospirazione": «Dietro ogni oggetto innocente che usiamo, dietro ogni dettaglio del pisciatoio dove uriniamo, dietro ogni luce di ogni espositore a cui ci avviciniamo, c'è un progettista». Anche Martin Heidegger - un tradizionalista un po' più ortodosso che si lamentava del fatto che i nazisti non si fossero spinti abbastanza in là - disprezzava la tecnologia moderna e l'«ipnotizzazione» delle masse. Egli incorniciava questo disprezzo nel quadro di un discorso di "autenticità" e "inautenticità", che aveva ripreso da Jean-Paul Sartre e dagli esistenzialisti. Heidegger insisteva inoltre sul fatto che bisognava riflettere sulla «potenza dello svelamento delle radici della tecnologia» e sulla «istruzione del linguaggio». È interessante notare come l'attuale rivista di ultra-sinistra, di "teoria critica", Cured Quail lamenti «il prevalere estetico, sociale e concettuale dell'analfabetismo». Heidegger attribuiva al popolo ebraico la colpa dell'aumento, o dell'accelerazione della tecnologia, e sosteneva che lo sviluppo delle camere a gas e delle altre infrastrutture della Shoah era stato un risultato diretto dell'influenza ebraica sul mondo (modernità). La Shoah era, secondo Heidegger, «colpa loro», come spiega Donatella Di Cesare in "Heidegger e gli ebrei". Per Heidegger, è stato il popolo ebraico a creare, o a far esistere il fenomeno "Loro". Il colpevole di averci reso tutti "non pensanti", secondo Heidegger, va indiciduato nel popolo ebraico. Inoltre, come è noto, egli si lamentava anche dell'ascesa della democrazia nell'Antica Grecia. Come mai la Filosofia Continentale e gruppi come Endnotes, Cured Quail, ecc. continuano a fare riferimento a questo tema anti-modernità? Un tema che ha le sue radici in quella stessa "inautenticità" della vita moderna che Heidegger pensava potesse essere minimizzata grazie allo sradicamento del popolo ebraico?

Ivan Chtcheglov, ad ogni modo, non immaginava affatto che ci sarebbe stato un ritorno nel bosco, come Heidegger (o come Jacques Camatte), in modo da risolvere così il problema della tecnologia. Proponeva invece di estenderla,la tecnologia, in modo da realizzare una nuova città che fosse in continua evoluzione, espressiva di una «dérive continua» per i suoi abitanti. Ma la fantasiosa idea di Chtchglov non è mai decollata. Sembra che sia molto più facile lamentarsi della tecnologia moderna, e svolgere in tal modo il ruolo del «vecchio brontolone». Ma come ha scritto Américo Schvartzman nel 2021, Heidegger ha avuto anche dei primi critici (oggi dimenticati): «L'avversione di Heidegger per la modernità e per la tecnologia - ripetuta oggi da vari filosofi, alla moda o meno - già ai suoi tempi veniva vista come un'espressione di quel conservatorismo che caratterizza i pensatori reazionari di tutte le epoche.» Ma, per tornare al termine «banale», come prima cosa è importante collegare questo termine ai concetti di "inautenticità" e di "autenticità" e di "Loro" così come essi vengono espressi da Heidegger. E se guardiamo a quello che è stato il testo di maggiore ispirazione per Guy Debord (quello a cui egli è tornato più spesso: si veda a tal proposito il capitolo di Anselm Jappe in The Situationist International: A Critical Handbook, 2020), vale a dire, "La critica della vita quotidiana" di Henri Lefebvre (1947); allora forse possiamo vedere direttamente da dove Chtcheglov ha preso la "banalizzazione",  e in che modo questa “banalizzazione” sia passata da Heidegger - attraverso Lefebvre, Arendt, Debord, Marcuse, Baudrillard, eccetera - fino a Tiqqun e all'attuale ultradestra: «Gli intellettuali, gli uomini 'colti', sono convinti in anticipo (perché?) che la vita quotidiana abbia solo delle banalità da offrire. In effetti questa convinzione gioca un ruolo importante nella cosiddetta filosofia "esistenziale", la quale condanna tutta la vita non metafisica alla banalità e all'inautenticità. Lo studio della vita quotidiana mostra chiaramente che le persone con segreti, con vite interiori, con misteri, conducono una vita quotidiana banale. Il mito della banalità della vita quotidiana viene sfatato ogni qual volta che ciò che sembra misterioso si rivela davvero banale, e ciò che sembra eccezionale si rivela manifestamente banale» (Lefebvre 1947).
In Metafilosofia (1965), Lefebvre scrive: «In "Essere e tempo" [1927], Heidegger mostra l'uomo e il pensiero come scagliati nel mondo, nella derelizione [cioè, "destituiti/destituenti"]. L'uomo sfugge a tutto questo nascondendo la sua condizione di essere-votato-alla-morte... e lo fa nell'inautentico, nella banalità». Ora, si confronti tutto questo con tutto il tardo lavoro "antimodernista" (tradizionalista) di Jean Baudrillard - da "Simulacri e Simulazione" in poi, il quale, insieme a Camatte e a Debord, trova oggi il favore anche dell'estrema destra, oltre a quello dei conservatori religiosi. È chiaro che qualcosa è andato storto. Ma con un po' di ricerca non è così difficile trovare l'origine dell'errore, e quindi il modo in cui è stato diffuso, e perciò forse riuscire a correggerlo e a interrompere quel percorso assurdo in cui si trovano insieme l'ultradestra e gli impegnati nell'«antipolitica».

Appendice 2
L'insistenza di Tiqqun sul fatto che "l'individuo" sia una finzione, non è utile alla loro tesi per due motivi. In primo luogo, perché affermano che "Bloom" potrebbe essere «un individuo», se «lui» non fosse Bloom (cioè se non vivesse in epoca moderna). In secondo luogo, perché non si mettono, come dovrebbero, nei panni di Bloom stesso in maniera significativa o intelligente; se lo facessero, dovrebbero spiegare che tutto ciò che hanno scritto è "spazzatura". L'incapacità di Tiqqun, a essere radicale, come invece crede di essere, è un altro aspetto umoristico del fenomeno Tiqqun. Non esiste alcuna possibilità di "individualità", in nessuna società: tutti i membri di una società sono funzioni e riproduttori di quella società. L'analisi di Tiqqun non è in alcun modo abbastanza radicale, per quanto, nel suo linguaggio colorito e disinvoltamente "macho", egli aspiri alla radicalità e all'estremismo.

- Mickey Moosenhauer - 19/9/2022 -

fonte: ContraHistorical

Il cervo sul pullover e le «parole bizzarre»

All'inizio della seconda parte de "Gli emigrati" - dedicata alla figura del suo maestro alle elementari, Paul Bereyter - il narratore di Sebald dà inizio a un lungo ricordo della propria infanzia, e di come egli sia diventato allievo di Bereyter. Il bambino-narratore, pertanto, si trasferisce nella sua nuova città e si reca al suo primo giorno di scuola, calorosamente accolto dal professor Bereyter: l'insegnante nota il disegno del cerco sul maglione verde scuro del bambino e ne fa un'occasione per consolidare la lezione del giorno precedente; la scena diventa inoltre anche l'occasione per una performance dello sguardo - così tanto ricorrente nell'opera di Sebald - allorché più persone si concentrano su un'immagine (o su più immagini) e ne scompongono poco a poco gli elementi, analizzandone poi la struttura. Ciò che viene separato, non è solo l'immagine sul maglione, ma anche il termine che si riferisce all'immagine del salto dell'animale e che, in poche righe, viene presentato in cinque varianti: springenden Hirsch; die Hirschsprungsage; eines Hirschsprungs; meinem Hirschsprungpullover; des Hirschsprungmusters.

Al centro della scena, troviamo la ripetizione scolastica, così come lo sforzo degli alunni di fronte al compito di riprodurre il disegno sul pullover; qualcosa che poi apparirà anche nell'ultimo capitolo de "Gli emigrati", quando Max Ferber, il pittore di Manchester, mostrerà al narratore una sua fotografia da bambino che lo ritrae mentre scrive qualcosa con il viso molto vicino al foglio. Nella narrazione di Sebald, la personalizzazione delle parole svolge una funzione importante, come una reiterazione a volte angosciosa che rimanda direttamente allo stile di Thomas Bernhard (un modello che, nelle interviste, Sebald commenta ed esalta). Ad esempio, all'inizio di "Austerlitz", arrivando alla fortezza di Breendonk, il narratore sottolinea come l'odore (di «sapone tenero» e di «pulizia») del luogo lo riporti direttamente ai «terrori dell'infanzia», e a una delle parole preferite del padre, il quale ripeteva spesso, «Wurzelbürst», quella «parola bizzarra» - scrive il narratore - che indica una «spazzola di saggina»; la pulizia, l'ordine e il lindore come elementi che, nell'opera di Sebald, si intrecciano con la polvere, la rovina, la tomba.

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 26 settembre 2022

Senza qualità !!

Attraverso la storia di un fascista esemplare - un eroe di guerra diventato un importante gerarca al comando delle Camicie nere - Victoria de Grazia mostra come il personale diventi politico nella ricerca fascista di potere e virilità. La storia che Victoria de Grazia racconta in questo libro parte ricordandoci che «fascisti si diventa, non si nasce». Il libro capta, nella figura di Attilio Teruzzi, l’archetipo del piccolo uomo del primo Novecento che da persona decente e buon soldato finisce per guidare squadre di picchiatori fascisti e partecipare alla marcia su Roma da ufficiale decorato di guerra di bella presenza, per arrampicarsi in cima alle gerarchie del regime e infine collaborare con le SS. Basandosi sulle carte del suo infausto matrimonio con Lilliana Weinman, giovane diva dell’opera, ebrea, newyorkese, viene fuori la storia sociale di un uomo che si fa largo attraverso una rete di relazioni sia umane che politiche: un impietoso ritratto del fascismo italiano.
Il perfetto fascista ci invita a vedere nel vano, leale, licenzioso e impetuoso Attilio Teruzzi, un ufficiale dell’esercito decorato privo di scrupoli e con un debole per le parate militari, un esempio dell’Uomo Nuovo fascista. Perché Teruzzi repentinamente si liberò della donna che aveva così intensamente corteggiato? E perché, quando venne il momento di trovare un’altra compagna, scelse un’altra donna ebrea come sua moglie putativa? Nel racconto coinvolgente di Victoria de Grazia, vediamo Teruzzi vacillare tra il volere del Duce e ciò che il cuore gli dettava. In ogni società il matrimonio è un atto fondativo. È il cuore del nostro modo di considerare cosa conta davvero nella vita. Il perfetto fascista prende in esame il matrimonio di Teruzzi come punto di partenza per un’esplorazione della vita morale sotto il regime fascista. Indaga lo scopo perseguito da Mussolini nel considerare il movimento fascista una rivoluzione «spirituale» ed «etica», una «politica del cuore» in contrasto con quella da lui denigrata come la sterile «politica della mente» della società liberale. Esplora il modo in cui Mussolini strumentalizzò un nuovo ordine morale che esaltava una ipermascolinità razzialmente omogenea per consolidare il proprio potere, e rivela fino a che punto questo nuovo ordine morale si imperniasse sulle guerre mosse all’estero e all’interno del Paese. Esamina la natura dell’Uomo Nuovo fascista e rivela la fondamentale inadeguatezza dell’ambizione di Mussolini di creare una reincarnazione novecentesca dell’Impero romano.

(dal risvolto di copertina di: Victoria de Grazia, "Il perfetto fascista". Einaudi, pagg. 522, € 36)

Il fascismo attraverso la vita di Attilio Teruzzi
- di Raffaele Liucci -

Gli antifascisti hanno sempre dipinto il fascismo come una brutale dittatura. Ma la maggioranza degli italiani non lo percepì affatto così. Si lasciò cullare dolcemente dal manganello e dalle adunate oceaniche, sino al ’42 inoltrato. E già alla fine del ’45, metà del Paese cominciava ad elevare nuovi altarini al «buonuomo» Benito (copyright Indro Montanelli). Non fosse entrato in guerra a fianco di Hitler, il duce sarebbe morto anziano e riverito, come Franco in Spagna. Per cercare di capire come mai il fascismo non fu quell’«invasione degli Hyksos» evocata da Benedetto Croce, bensì un movimento e poi un regime profondamente incistato nella società del tempo, la storica statunitense Victoria de Grazia ha scelto di ripercorrerne la parabola attraverso una figura oggi poco conosciuta, quella del milanese Attilio Teruzzi (1882-1950), figlio di un vinattiere di Porta Genova. Vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, governatore della Cirenaica, capo della Milizia, ministro dell’Africa Italiana, fascista convinto ma non fanatico, Teruzzi fu un piccolo «uomo senza qualità». Forgiato dalla Grande Guerra, vide nello squadrismo e nella Marcia su Roma del ’22 - di cui era stato uno degli artefici - soprattutto un’occasione di riscatto. Fu un «perfetto fascista», come recita il titolo del libro? Difficile a dirsi, non esistendo il «fascista perfetto». Questa però non è soltanto la biografia politica - di affascinante lettura, anche se talvolta un po' prolissa e con qualche svista - di un personaggio qualunque, asceso alle più alte cariche esecutive del regime. È anche un lungo viaggio nella sua sfera sentimentale, ricostruita grazie alle carte personali di Teruzzi, e non solo. Centrale è il «matrimonio fascista», da lui contratto nel ’26 con una facoltosa cittadina americana di ascendenza ebraica (Lilliana Weinman), promettente cantante lirica, e celebrato in pompa magna a Roma alla presenza dello stesso duce. Tre anni più tardi, Teruzzi ripudierà pubblicamente la moglie. L’unico modo per ottenere il “divorzio” sarà quello di rivolgersi ai tribunali della Chiesa. Ne sorgerà un’interminabile vertenza giudiziaria, conclusasi soltanto nel ’48, in un’altra Italia, con una sentenza definitiva della Sacra Rota che darà torto all’uomo (in quel momento in carcere per «atti rilevanti» a favore del regime), legatosi da tempo a un’ebrea romena. È stupefacente quanti temi traspaiano dai quasi ventennali scartafacci processuali, qui meritoriamente recuperati: la vita morale e famigliare sotto il fascismo, la condizione sottomessa della donna, il mito della virilità, ma anche l’indipendenza dei giudici ecclesiastici all’indomani della Conciliazione (’29). Sullo sfondo, «un sistema politico intriso di corruzione strisciante» e il crescente antisemitismo, sfociato nelle leggi del ’38.

- Raffaele Liucci -  Pubblicato su Domenica del 14/8/2022 -

domenica 25 settembre 2022

Blood for Gas !!

Gas naturale dall'Azerbaigian in cambio di sangue armeno
- Povera, circondata da nemici, senza alleati: l'Armenia si trova in una situazione geopolitica disperata, come dimostra il reiterato e continuo attacco dell'Azerbaigian -
di Tomasz Konicz

Il tempismo dell'attacco su larga scala, lanciato a tarda notte il 12 settembre, è stato perfetto. Nello stesso momento in cui, in Ucraina orientale l'esercito russo subiva quella che, dai tempi dell'implosione dell'Unione Sovietica, è stata la sua più grande sconfitta, l'Azerbaigian sferrava i suoi attacchi massicci sul territorio armeno. Città, infrastrutture e installazioni militari che si trovano nella regione di confine meridionale dell'Armenia, sono state attaccate con artiglieria pesante e droni. In poche ore, Yerevan ha dovuto registrare decine di morti civili e militari. L'intensità degli attacchi si è un po' attenuata il 14 settembre, in seguito agli appelli provenienti dall'Occidente e dalla Russia, ma tuttavia si è continuato a registrare attacchi di artiglieria contro città e villaggi armeni. Allo stesso tempo, secondo fonti azere non ufficiali, l'esercito di Baku è riuscito a conquistare diverse postazioni strategiche nella zona di confine con l'Armenia; il che significa che l'artiglieria azera può ora esercitare il suo controllo su ampie zone dell'Armenia sud-orientale. Gli attacchi sferrati dall'Azerbaigian, a cui è stato assicurato il pieno sostegno della Turchia, suo stretto alleato, avvengono solo due anni dopo l'invasione della regione armena del Nagorno-Karabakh [*1]; separatasi dall'Azerbaigian negli anni '90 conseguentemente a una sanguinosa guerra che era seguita al crollo dell'Unione Sovietica. Nell'autunno del 2020, Baku, che considera il Nagorno-Karabakh parte dell'Azerbaigian, è riuscita a conquistare gran parte di quest'area di insediamento armena, e a espellere la sua popolazione mediante un'invasione coordinata con la Turchia [*2]. In seguito a questa sconfitta - che in Armenia ha ridestato il trauma del genocidio turco avvenuto nel 1915 - l'esercito di Erevan non è più stato in grado di tenere testa, militarmente, alla schiacciante alleanza turco-azera. L'Armenia è povera, priva di risorse minerarie e di fonti energetiche. Invece l'Azerbaigian, al contrario, grazie ai ricchi giacimenti di gas naturale e petrolio, non solo può permettersi di disporre di un budget militare superiore all'intero bilancio nazionale dell'Armenia, ma può utilizzare anche l'«arma del gas», come leva diplomatica per isolare l'Armenia. Ciò si è reso evidente - non solo nel corso dell'attacco da parte di Azerbaigian e Turchia avvenuto nel 2020, allorché né l'Occidente né la Russia potevano essere convinti a dare un sostegno sostanziale all'Armenia - proprio nel momento in cui oggi sta emergendo un costellazione geopolitica simile. L'Armenia è un membro dell'alleanza militare post-sovietica a guida russa, l'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), che il Cremlino intendeva trasformare nella controparte eurasiatica della NATO. Poco dopo i primi attacchi azeri, diretti principalmente contro il territorio armeno riconosciuto a livello internazionale, Erevan si è rivolta all'Alleanza che comprende sei repubbliche ex sovietiche, in una videoconferenza, con una richiesta di assistenza. Ma Mosca - la cui arcaica macchina militare sta ora raggiungendo il suo punto di rottura nell'Ucraina orientale - ha reagito in maniera evasiva. Putin ha acconsentito solamente a inviare una squadra di osservatori dell'OTSC.

Abbandonati da Putin e dall'UE
Non è solo la catastrofe militare degli ultimi giorni in Ucraina orientale a costringere Mosca - che ha dovuto ridurre la sua presenza di truppe in Armenia e nel Nagorno-Karabakh - a suggerire di esercitare una moderazione militare. L'Azerbaigian - che sguazza nella valuta estera - è uno dei più importanti clienti dell'industria bellica russa, e il dittatore azero Aliyev intrattiene ottimi rapporti con Putin. Proprio alla vigilia dell'invasione russa dell'Ucraina, il 22 febbraio, i due leader autocratici hanno firmato un accordo di cooperazione globale. L'Armenia, viceversa, nel 2018 ha vissuto la cosiddetta «rivoluzione di velluto» borghese, nel corso della quale la cricca corrotta fedele a Putin è stata spodestata, mentre sono andate al potere forze più liberali orientate all'Occidente, costituitesi attorno al presidente Pashinyan, il quale ha osato una cauta democratizzazione e un avvicinamento all'Occidente; che Mosca ha punito con il suo non intervento nella guerra del 2020. L'errore più grande di Pashinyan, tuttavia, è stato probabilmente quello di prendere sul serio la retorica democratica dell'Occidente, dato che l'UE, in maniera particolare, ora vuole promuovere l'Azerbaigian rendendolo un fornitore centrale di gas, soprattutto nel contesto della guerra contro l'Ucraina. A luglio, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è riuscita ad accordarsi con l'autocrate azero Aliyew circa «l'estensione» del corridoio meridionale del gas attraverso la Georgia e la Turchia, il quale in futuro dovrebbe trasportare il doppio del gas verso l'UE. Il giorno dell'attacco all'Armenia, il ministro dell'Energia dell'Azerbaigian ha dichiarato che il suo paese, ben armato, solo quest'anno intende aumentare le forniture di gas all'UE del 30%. L'Azerbaigian si trova pertanto impegnato in una «politica di oscillazione», un'altalena geopolitica tra Mosca e l'Occidente, assai simile in piccola scala a quella della Turchia, al fine di riuscire a ottenere le massime concessioni da entrambi i blocchi di potere. Inoltre, per anni Baku ha semplicemente corrotto l'establishment politico di Berlino e Bruxelles, con milioni di euro, per far valere le proprie ragioni. Nelle loro dichiarazioni iniziali, i rappresentanti dell'UE hanno di conseguenza invitato entrambe le parti a una de-escalation del conflitto, occultando così il palese attacco di Baku. Bruxelles e Berlino, sembrano ora disposte a pagare il gas azero con il sangue e con il territorio armeno, per fare in modo che il processo di valorizzazione nell'UE - la base materiale di tutti gli altisonanti valori europei - non perda la sua base energetica. L'attuale ondata di attacchi dimostra che Baku e Ankara intendono cogliere l'occasione favorevole per riuscire così ad avvicinarsi a quelli che sono due obiettivi strategici: costringere l'Armenia ad abbandonare le aree di insediamento armeno nel Nagorno-Karabakh, e ottenere un corridoio terrestre tra la Turchia e l'Azerbaigian che passi attraverso il territorio dell'Armenia meridionale.

- Tomasz Konicz - Pubblicato il 14/9/2022 su analyse & kritik. Zeitung für linke Debatte & Praxis

*** NOTA: Il lavoro giornalistico di Tomasz Konicz è finanziato in gran parte grazie a donazioni. Se vi piacciono i suoi testi, siete invitati a contribuire - sia tramite Patreon che con un bonifico bancario diretto, dopo una richiesta via e-mail:  https://www.patreon.com/user?u=57464083

Note

[*1]https://www.akweb.de/politik/armenien-linkes-onlinemagazin-sev-bibar-interview-zum-krieg-in-bergkarabach/
[*2] - https://www.akweb.de/politik/bergkarabach-aserbaidschan-armenien-tuerkei-flucht-in-die-expansion

sabato 24 settembre 2022

Tutto (non) cambi ?!!???

Italia: sbandata verso destra
- di Michael Roberts -

L'Italia va alle urne domenica 27 settembre.  Si tratta di elezioni lampo che sono state imposte al presidente italiano, perché il governo "tecnocratico", guidato dall'ex capo della BCE Mario Draghi, è caduto dopo aver perso il sostegno della maggioranza in Parlamento.  Tale sostegno è stato in parte perso perché Draghi ha sostenuto con forza il sostegno della NATO all'Ucraina contro l'invasione russa - cosa cui, sia i principali partiti di destra, che i Cinque Stelle di sinistra, erano meno propensi - e in parte perché il governo Draghi era determinato a rispettare i vincoli fiscali fissati dalla Commissione UE, in cambio dell'enorme pacchetto di risanamento dell'UE che l'Italia avrebbe ricevuto per rilanciare l'economia dopo il crollo dovuto al COVID. Se i sondaggi sono corretti, l'Italia uscirà dalle elezioni politiche di domenica con un nuovo governo di estrema destra guidato dall'arciconservatrice Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, un partito che è salito alla ribalta, spuntando dal nulla dopo le ultime inconcludenti elezioni del 2018. La Meloni e il suo alleato populista Matteo Salvini, leader della Lega (che ha perso un enorme sostegno a favore di Fratelli), insieme sembrano pronti per una vittoria decisiva su un centro-sinistra profondamente diviso.

Questo, dai tempi del dittatore fascista Benito Mussolini, rappresenterebbe il primo esperimento di governo di estrema destra in Italia, dopo un totale di 69 governi ideologicamente diversi che si sono succeduti a partire dal secondo dopoguerra. Sia la Meloni, una conservatrice di razza, la cui carriera politica è iniziata come attivista adolescente nell'ala giovanile del neofascista Movimento Sociale Italiano, sia Salvini, che è stato un ardente ammiratore del presidente russo Vladimir Putin, sono entrambi Euroscettici. Tuttavia, tra di loro esistono delle differenze che si manifesteranno dopo la formazione del nuovo governo. Mentre la Meloni si è impegnata a portare avanti le politiche di Draghi di sostegno militare all'Ucraina, e adotterebbe pertanto una linea dura riguardo le sanzioni alla Russia, Salvini, in campagna elettorale, si è invece pubblicamente lamentato del prezzo che le sanzioni stanno facendo pagare all'economia italiana. I due leader di destra sono però uniti nella loro feroce opposizione all'immigrazione, così come dal sostegno dato ai cosiddetti "valori familiari" conservatori. Ma mentre la Meloni è una convinta atlantista (favorevole agli Stati Uniti) che sostiene politiche di sicurezza nazionale repressive, la base di sostegno di Salvini include delle aziende che fino all'invasione avevano stretti rapporti commerciali con la Russia. Il nuovo governo di destra dovrà affrontare due problemi immediati.  Il primo consiste nella crisi del costo della vita, determinato dall'energia, e che sta colpendo tutta l'Europa.  Il costo dell'elettricità in Italia è secondo solo a quello del Regno Unito.  E il gas proveniente dalla Russia costituisce oltre il 40% di tutte le forniture energetiche.

Il futuro economico immediato dell'Italia dipende dalla concessione del pacchetto di 200 miliardi di euro dell'UE, per aiutare a rilanciare la sua economia cronicamente sottotono, evitando così una crisi del debito.  L'Italia ha un enorme debito pubblico, pari al 150% del PIL, e il costo del finanziamento di questo debito sta aumentando con l'aumento dei tassi di interesse globali. Questo potrebbe portare gli investitori stranieri a vendere le obbligazioni italiane, provocando così una spirale del pagamento del debito. Per questo genere di evento,  la BCE è pronta ad adottare delle misure di salvataggio speciali. Ma la speranza rimane quella che il nuovo governo sostenga la correttezza fiscale, e riporti i conti in pareggio, in modo da poter così ricevere le sovvenzioni dell'UE previste per i prossimi anni. Ciò significa che qualsiasi governo "radicale" di destra  si troverà di fronte a un dilemma: Meloni romperà con l'UE e adotterà politiche economiche e di spesa simili a quelle che vennero proposte dal governo britannico della Brexit sotto il nuovo premier Liz Truss, o da Orban in Ungheria; oppure Meloni si atterrà ai vincoli dell'UE?  Sembrerebbe che si tratterà della seconda ipotesi. La Meloni ha promesso di rispettare le regole fiscali, e ha invitato alla prudenza e alla cautela. E tutto ciò è stato accolto con favore dalla classe finanziaria italiana. «Vogliono essere percepiti come un partito col quale si possono fare affari, e che può governare il Paese», afferma Lorenzo Codogno, ex direttore generale del Tesoro italiano, parlando di Fratelli d'Italia. Ma non bisogna stupirci di questo. Il governo Mussolini, durante il suo governo fascista, appoggiò sempre l'imprenditoria e la finanza. E con la Meloni non sarà diverso, o anche con Salvini. Del resto i governi italiani che si sono succeduti, sia di destra che di sinistra, hanno generalmente rispettato le regole fiscali. Infatti,  anno dopo anno, i governi italiani hanno sempre registrato avanzi primari di bilancio (avanzo prima del pagamento degli interessi sul debito). Finora l'Italia è stata anche un contributore positivo rispetto al bilancio dell'UE. E in effetti, l'Italia è sempre stata in austerità permanente, per riuscire a coprire i costi del debito.

Il problema dell'Italia non è la spesa pubblica dissennata, ma la scioccante incapacità del capitalismo italiano di crescere e aumentare la produttività della forza lavoro per competere con Germania, Francia (le altre economie del G7 nell'Eurozona) e persino con la Spagna. L'Italia si trova ancora al secondo posto nell'UE, dopo la Germania, per la produzione industriale, soprattutto grazie alle strutture economiche delle regioni settentrionali. E si colloca al terzo posto per le esportazioni di beni, subito dopo la Francia, mantenendo un suo primato riguardo l'ingegneria meccanica, nella costruzione di veicoli e nei prodotti farmaceutici. Però, se si misura la crescita del PIL reale e della produttività, vediamo che l'Italia è diventata il "malato" d'Europa . Dopo il boom della ricostruzione del dopoguerra, il capitale italiano si è mostrato particolarmente corrotto e oligarchico. La disuguaglianza tra ricchi e poveri e tra il Nord Italia industriale - vicino a Germania e Francia - e il Sud Italia rurale continua a rimanere assai accentuata.

La crisi del prezzo del petrolio degli anni '70 ha messo ancora più in evidenza questa situazione, dando luogo a disordini politici e al declino economico. La crescita della produttività italiana ha cominciato il suo costante declino a partire dagli anni '70, diventando negativa negli anni successivi all'ingresso dell'Italia nell'area dell'euro. In Italia, il tasso medio annuo di crescita pro capite, dall'adozione dell'euro (1999-2016), è stato pari a zero. A titolo di confronto, quello della Spagna è stato dell'1,08, quello della Francia dello 0,84, e quello della Germania dell'1,25 per cento. Gli altri tre Paesi, i quali hanno adottato l'euro contemporaneamente all'Italia, dall'introduzione dell'euro sono cresciuti, in media, di circa l'1% ogni anno, mentre l'economia italiana ha ristagnato.

Crescita reale media annua pro capite in Italia, Spagna, Germania e Francia. (1999-2016).
Francia Germania Italia Spagna
0.84% 1.25% 0.00% 1.08%

La demografia italiana è particolarmente negativa, con una quota crescente di anziani. Ciò significa che la crescita dell'occupazione è bassa.  A ciò si aggiunge un alto tasso di disoccupazione giovanile (circa il 25%); il che significa che la creazione di valore dalla parte potenzialmente più produttiva della forza lavoro umana viene trascurata. Tra questi giovani disoccupati, la quota di disoccupazione di lunga durata raggiunge il 40%, secondo Eurostat, soprattutto a causa della scarsa istruzione, e del fatto che per lo più vivono nel Sud Italia.  Meno del 20% della forza lavoro italiana ha ricevuto un'istruzione di livello terziario. Di conseguenza, nel corso dei decenni, gli italiani più qualificati hanno dovuto abbandonare il Paese, peggiorando ulteriormente la performance economica nazionale. Combinando la bassa crescita dell'occupazione con la bassa crescita della produttività, non c'è da stupirsi che l'economia italiana, a lungo termine, abbia un basso tasso di crescita potenziale non superiore all'1% annuo. La crescita della produttività ha ristagnato anche perché il capitale italiano non investe in modo sufficientemente produttivo. I livelli di investimento sono ancora ben al di sotto di quelli che erano stati raggiunti prima della Grande Recessione.

E la ragione di questo è chiara. Nel corso dei decenni, la redditività del capitale produttivo in Italia è diminuita drasticamente, ma in particolare ciò è avvenuto dopo l'ingresso nell'area dell'euro e dopo il collasso finanziario globale.

Mentre nel secondo dopoguerra la redditività del capitale italiano era molto più alta rispetto a quella di Germania e Francia, grazie alla manodopera a bassissimo costo e all'uso del credito americano per riqualificare l'industria italiana del dopoguerra, la crisi di redditività degli anni Settanta ha colpito un'economia italiana che era più debole di quella tedesca e francese. Il periodo di ripresa neoliberista degli anni '80, con l'espansione dell'UE, ha aiutato in qualche modo il capitale italiano. Ma l'ingresso nell'area dell'euro ha ben presto messo l'Italia in una posizione di svantaggio competitivo rispetto alla Germania, dove la redditività è aumentata, fino alla Grande Recessione.

Nessuno dei fallimenti del capitale italiano, verrà affrontato dal nuovo governo di destra. Non farà meglio dei precedenti governi italiani di centro-sinistra, centro-destra o "tecnocratici". Anzi, è probabile che peggiori ulteriormente la situazione, adottando politiche reazionarie e antioperaie, e questo lo farà per sostenere la propria coalizione.

- Michael Roberts - Pubblicato il 23/9/2022 -

fonte: Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist

venerdì 23 settembre 2022

Un’Avventura Autoimmune !!

All'inizio del suo libro "Il principio responsabilità", Hans Jonas cita un'«antica voce», il canto del coro dell'Antigone di Sofocle, andando in cerca di un'archetipica «nota tecnologica» (dal momento che nel suo libro, il nocciolo dell'argomentazione di Jonas è proprio questo: il modo in cui la promessa della tecnologia si trasforma alla fine in una minaccia, richiedendo pertanto una rinnovata riflessione etica).

Il coro di Sofocle canta le meraviglie della natura, precisando come però la più grande di queste meraviglie sia proprio l'uomo: per quanto schiumoso sia il mare, l'uomo si spinge avanti; per quanto dura possa essere la terra, l'uomo con i suoi strumenti apre solchi e pianta semi; l'ingegnoso essere umano intrappola con le sue reti i più piccoli pesci; con il medesimo ingegno addomestica gli animali selvatici, facendo del cavallo un compagno, del toro un servo; e per quanto possa aver scoperto rimedi a molte malattie, tuttavia l'uomo rimane impotente di fronte alla morte (il grande ostacolo contro il quale non esiste alcun ingegno possibile).

Certo, esisteva l'orizzonte infinito della natura, delle sue risorse e dei suoi misteri (come testimoniato dagli dei, queste finzioni che cristallizzano l'astrazione dell'infinito). Ma già con Marx emerge l'idea del capitale visto come un'avventura autoimmune, come una dinamica di espansione che conduce necessariamente alla sua implosione (un Saturno che non divora non i suoi figli, bensì sé stesso: Erisittone, colui che per quanto più mangi, tanto più ha fame, e che viene recuperato da Anselm Jappe ne "La società autofaga"). E arriviamo così a un altro profeta del negativo, Kafka, il quale scrive che «c'è una speranza, una speranza infinita, solo che non è per noi» (e non è certo a caso che Kafka compaia nel libro di Jonas in quanto contro-argomento al "principio di speranza" di Ernst Bloch).

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 22 settembre 2022

Il debito e le eccedenze commerciali ...

Basta con le eccedenze commerciali
- di Tomasz Konicz -

Per la prima volta in oltre 30 anni, la Germania ha registrato una bilancia commerciale negativa. Il modello economico tedesco, fissato sulle esportazioni, sta entrando in crisi.

Il "campione mondiale delle esportazioni" ormai è una storia del passato: a maggio, per la prima volta dal 1991, la bilancia commerciale tedesca ha registrato un deficit, sebbene ancora di poco inferiore a un miliardo di euro. L'industria tedesca, che era stata viziata dal successo, e che dagli anni '90 era stata responsabile di avanzi commerciali (quasi sempre consistenti), ora a quanto pare si trova di fronte a dei grossi problemi. I fattori decisivi sono due: il rapido aumento dei prezzi delle fonti energetiche e delle materie prime, e la continua perturbazione delle catene di approvvigionamento globali, a causa della quale le aziende tedesche mancano di componenti per la produzione, e i prezzi delle importazioni aumentano. Di conseguenza, rispetto all'anno precedente, il costo delle importazioni è salito del 27,8%, raggiungendo i 126,7 miliardi di euro, mentre le esportazioni sono aumentate solo dell'11,7%, raggiungendo i 125,8 miliardi di euro. Rispetto al mese di aprile, la nuova tendenza appare ancora più chiaramente: il valore delle esportazioni tedesche è aumentato solo dello 0,5%, mentre le importazioni sono aumentate del 2,7%.
Sembra che i rappresentanti delle aziende tedesche si stiano preparando al fatto che l'era degli elevati surplus commerciali tedeschi - già scesi da 224 a 173 miliardi di euro all'anno tra il 2019 e il 2021 a causa della pandemia - rischia di finire. Volker Treier, responsabile del commercio estero dell'Associazione delle Camere dell'Industria e del Commercio tedesche (DIHK), all'inizio di luglio ha parlato di una «flessione delle esportazioni» a lungo termine. E la fine degli aumenti dei prezzi, così come quella dei problemi della catena di approvvigionamento, non si riesce ancora a vedere. La Federazione tedesca del commercio all'ingrosso, del commercio estero e dei servizi (BGA) ha commentato dicendo che le «conseguenze della guerra di aggressione russa, e le interruzioni alle catene di fornitura internazionali» lasceranno nella bilancia commerciale tedesca «tracce assai più grandi», soprattutto se si dovesse verificare «un'interruzione nelle forniture di gas dalla Russia». Ci sono stati dei quotidiani, come il Tagesspiegel, che a causa del deficit commerciale, che mette in pericolo il «modello tedesco di prosperità», hanno visto in tutto questo un'«epocale inversione di tendenza». I giornalisti economici del Die Welt sono arrivati persino a chiedersi se il «declino» della Germania avrebbe portato a una «crisi sociale».

In realtà, nel XXI secolo, il successo economico della Repubblica Federale si è basato sul fatto che le eccedenze commerciali con l'estero, alle quali erano pervenuti per oltre 60 anni, durante questo periodo avevano toccato vette straordinarie. Per molti altri Paesi questo è stato devastante, poiché alle elevate eccedenze commerciali della Germania, che spesso hanno superato i 200 miliardi di euro - nel 2017 addirittura 247 miliardi di euro - hanno corrisposto deficit altrettanto consistenti. Nel dibattito economico tedesco, guidato dall'ideologia, una tale connessione viene in genere ignorata, ma dovrebbe essere ovvio per tutti che le eccedenze e i deficit nei saldi commerciali con l'estero devono uniformarsi su scala globale. La prosperità della Germania - la cui distribuzione ineguale, tra l'altro, si sta accentuando sempre più - si è quindi basata de facto sull'esportazione del debito verso i Paesi destinatari dell'offensiva tedesca sulle esportazioni. In questo Paese,  il fatto che la Germania sia ancora uno dei principali Paesi industriali viene considerato come un grande successo. La preservazione e l'espansione dell'industria tedesca è avvenuta a spese di altri Paesi, dove la deindustrializzazione ha assunto proporzioni enormi e la disoccupazione e il debito sono cresciuti. Ad esempio, le enormi esportazioni dell'industria tedesca hanno portato al declino della concorrente industria nell'Europa meridionale. Gli screzi che ci sono stati tra il governo federale e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump - che aveva promesso ai suoi elettori di ridurre l'enorme deficit commerciale degli Stati Uniti - derivano anche da questo contesto sociale. Trump si era insediato nel 2016, promettendo di restituire prosperità a quei settori in declino della società statunitense, spostando la produzione industriale negli Stati Uniti, sia attraverso il protezionismo sia facendo pressione sui grandi Paesi in surplus, come Cina e Germania, e che per di più avevano approfittato della relativa debolezza dell'euro rispetto al dollaro. E nel mentre che minacciava l'industria automobilistica tedesca con i dazi, la sua amministrazione aveva imposto alla Cina delle tariffe sulle importazioni che, curiosamente, non sono poi state ritirate dall'attuale amministrazione statunitense guidata da Joe Biden.

Queste tendenze protezionistiche, nei conflitti di politica commerciale, preceduti da gare di svalutazione monetaria, sono una conseguenza della crisi sistemica del capitale, il quale non dispone di un nuovo regime di accumulazione, nel quale il lavoro salariato di massa, impiegato nella produzione di merci, possa così essere valorizzato con profitto, a quello che è il livello di produttività globalmente dato. Invece avviene che, al contrario, i capitali in competizione si trovano impegnati in una lotta sempre più feroce, per cercare di tenere a bada al meglio gli effetti della crisi. Così, questa crisi sistemica si manifesta concretamente in un debito globale, che cresce più velocemente dell'economia mondiale, e che ora ammonta a 296.000 miliardi di dollari, circa il 350% della produzione economica mondiale. Il sistema iper-produttivo sta funzionando, per così dire, a credito. La competizione di crisi tra le diverse località economiche, in cui la Repubblica Federale ha ottenuto un grande successo, è consistita nel trasferire il vincolo del debito verso altre economie, attraverso le eccedenze commerciali. Gli elevati avanzi commerciali della Germania, sono una conseguenza dell'introduzione dell'euro e della cosiddetta Agenda 2010. L'attuale saldo del bilancio commerciale tedesco, il quale tiene conto dei servizi, oltre che del commercio di merci, negli anni '90 si trovava ancora in equilibrio, mostrando solo delle eccedenze relativamente gestibili. È stata l'introduzione dell'euro a determinare le enormi eccedenze commerciali della Germania, soprattutto nei confronti degli altri Paesi dell'Eurozona. Questo perché la moneta unica ha impedito ai Paesi dell'euro di reagire al rapido aumento delle eccedenze commerciali tedesche, per mezzo di svalutazioni monetarie, nel mentre che le leggi Hartz hanno garantito la svalutazione del lavoro in Germania.

Questa strategia da parte di quello che poi sarebbe diventato il futuro campione mondiale delle esportazioni, è stata resa possibile solo grazie al corrispondente accumulo di debito pubblico, soprattutto nell'Eurozona meridionale. Le bolle speculative e del debito che ne sono derivate, sono scoppiate nel 2008. Dopo l'esplodere della crisi dell'euro, la Germania - grazie al dettame dell'austerità, incarnato dal ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble (CDU) - è stata in grado di trasferire le conseguenze sociali di quella crisi ai Paesi della periferia meridionale dell'Unione monetaria. Allo stesso tempo, a causa della sottovalutazione strutturale dell'euro rispetto alla performance dell'industria tedesca, veniva attuato simultaneamente un riallineamento geografico dei flussi commerciali tedeschi. Mentre la crisi nell'Europa meridionale indeboliva la domanda di beni tedeschi, le eccedenze commerciali tedesche nelle esportazioni verso i Paesi extraeuropei erano cresciute rapidamente. L'Eurozona, che inizialmente aveva un bilancio commerciale in pareggio, dopo la crisi dell'euro generava crescenti surplus commerciali, e questo dopo che l'unione valutaria era stata trasformata in una "Europa tedesca" per mezzo di politiche di austerità e di svalutazione interna. Ma ora anche questo è arrivato alla sua fine: secondo l'ufficio statistico Eurostat, il deficit commerciale destagionalizzato dell'Eurozona nello scorso aprile è aumentato, dai 13,9 miliardi di euro del mese precedente a 31,7 miliardi di euro. Dalla creazione dell'Unione valutaria, si tratta del deficit commerciale estero di gran lunga più elevato. È questa la ragione sistemica che si trova dietro la crisi dell'industria tedesca delle esportazioni: nei due decenni in cui il debito globale è passato da meno del 200 a più del 350 percento della produzione economica mondiale, la Germania era stata ancora in grado di trasferire la litigiosa crisi ad altri, attraverso il suo surplus di esportazioni, ma ora questa crisi minaccia di estendersi a quello che è il nucleo economico dell'Eurozona.

La situazione di bilancio stabile degli ultimi anni, con tassi di interesse bassi, a volte negativi, sulle obbligazioni emesse, si era basata anche su anni di esportazioni di debito, consentendo al governo tedesco di mobilitare centinaia di miliardi di euro in modo da attutire così anche le conseguenze economiche della pandemia di Covid-19 e della guerra di aggressione russa. Ora tutto questo è a rischio, per quanto il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner (FDP) continui a promettere che si atterrà al cosiddetto freno al debito. Quanto meno, questo dovrebbe mettere a tacere la retorica economica sciovinista dell'opinione pubblica tedesca nei confronti dei Paesi debitori dell'Eurozona, grazie alla quale il più grande esportatore di debito d'Europa si indigna per quelle montagne di debito che esso stesso costringe gli altri Paesi ad accumulare. Tuttavia, è probabile che questa sarà l'unica conseguenza politica interna positiva della temuta «flessione delle esportazioni»; se questa tendenza di crisi dovesse diventare permanente. Alla crisi delle esportazioni, probabilmente le élite funzionali tedesche reagiranno nello stesso modo brutale con cui avevano avviato il boom del commercio estero per mezzo delle leggi Hartz: svalutando all'interno, ulteriormente, la merce lavoro, la bilancia commerciale potrebbe venire riportata in territorio positivo, in modo da difendere così il modello di accumulazione tedesco in crisi. Inoltre, la fine del boom delle esportazioni potrebbe riuscire a dare un nuovo impulso all'estrema destra e all'euroscetticismo nella Repubblica Federale, nel caso che l'Eurozona, da vantaggio competitivo, si dovesse trasformare in un mero fattore di costo, e se le preoccupazioni per un'immagine della Repubblica Federale che promuove le esportazioni all'estero finissero per passare in secondo piano.

Tomasz Konicz - Originariamente pubblicato in Jungle World il 21/7/2022 -

fonte: Exit! in English