martedì 31 ottobre 2023

Cos’è questa Sicilia ?!!??

Primo cronista antropologico dell’Isola, Sebastiano Aglianò è uno studioso da recuperare per il complesso della sua attività. Anche per evitare che sia ricordato come l’autore di un unico libro, per via dell’originalità del suo saggio d’esordio, “Questa Sicilia” (pubblicato nel 1945 a Siracusa, città natale di Aglianò) e, soprattutto, in forza dell’accoglienza dirompente che quello studio ebbe all’epoca (tra i primi lettori entusiasti ci fu pure Eugenio Montale; sarà poi Sciascia a recuperare il volume). In realtà lo sguardo di Aglianò si allarga presto dalla Sicilia all’Italia, in cerca di un’identità condivisa che egli rintraccerà proprio nella continuità letteraria, da Nord a Sud. Questa lunga indagine si sviluppò in una serie di saggi e interventi dispersi (alcuni dei quali qui per la prima volta allineati insieme), usciti tra gli anni Quaranta e Sessanta. Sono scritti dedicati soprattutto alla Divina Commedia (in particolar modo all’Inferno e al Paradiso), e poi a Ugo Foscolo e Giuseppe Giusti. Lo stile è delicato ed elegante, lo sguardo sempre acuto, capace di cogliere anche le minime increspature della pagina senza mai perdere di vista le questioni principali legate alla poetica e all’ideologia degli autori di volta in volta esaminati. In apertura del volume, la prefazione del curatore Alessandro Cutrona restituisce la figura di uno dei saggisti italiani più originali e umbratili del Novecento.

(dal risvolto di copertina di: Sebastiano Aglianò, "Italiani. Da Dante a Vittorini", Succedeoggi, Pagine 144, 16 euro)

Sebastiano Aglianò: Antropologia della Sicilia
- di Piero Melati -

Il primo "cronista antropologico"  italiano, nato a Siracusa nel 1917, morto a Siena nel 1982, era stato l'allievo prediletto di Luigi Russo alla normale di Pisa. Il grande storico della letteratura, il 5 maggio del '42, scrisse a Benedetto Croce di preferirlo a futuri accademici di grido come Giovanni Getto e Walter Binni, allora soltanto suoi compagni di studi. Non aveva ancora occupato la cattedra di letteratura a Siena, dove siederà fin dagli inizi degli anni Settanta, che Sebastiano Aglianò pubblicava già nel 1945, per Rosario Mascali editore, "Cos'è questa Sicilia: saggio di analisi psicologica collettiva”.

Non era un semplice studio, perché troppo letterario; e neppure un romanzo, poiché basato su una ricerca sul campo. Era piuttosto un "ibrido", come si direbbe oggi. Anticipava in qualche modo Il Viaggio in Italia di Guido Piovene (1957) e La linea Gotica di Ottiero Ottieri (1963), due esemplari cronache narrative dell'Italia del tempo. Eugenio Montale e Guido De Ruggiero, nel luglio dello stesso anno, lo rencensiranno quasi all'unisono: finalmente, parlando dell'isola, non c'è più soltanto il sole di Bellini o Verga, il nerofumo di Gentile, i lazzi di Angelo Musco, bensì quei "quarti di nobiltà" che, nel bene e nel male, fanno di questa terra un esempio unico al mondo. Era quasi un'anticipazione dei temi del futuro Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che uscirà nel 1958. Eppure esplose un pandemonio.

Era la prima volta, infatti, che la Sicilia e i siciliani non venivano trattati con i guanti gialli o, al limite, con massicce dosi di paternalismo e compatimento. Piovvero lettere sui giornali: «Signor Aglianò, se ne vada, ci tolga l'incomodo della sua indesiderabile presenza e faccia presto». Un'altra minacciava ritorsioni: «Non tutti i siciliani sanno sopportare a lungo, e non si può indeterminatamente ignorare un comportamento denigratorio come il suo». Tuttavia, il successo del libro non solo porterà a varie riedizioni, facendone un longseller (Mondadori nel 1950, Corbo e Fiore nell'82 con prefazione di Leonardo Sciascia, Sellerio nel 1996) ma anche a un cauto interessamento di Cesare Pavese per conto di Einaudi: «Vogliamo pubblicarlo, ma solo se nella seconda parte del volume venissero spiegate le ragioni de contenuto della prima». Aglianò si rifiutò di spiegare o modificare alcunché,. Attese, invece, che Ottiero Ottieri, allora capo ufficio stampa in Mondadori, lo presentasse così: «Un saggio di psicologia e sociologia, composto da uno scrittore che ha tutta la sensibilità e la capacità descrittiva, di paesaggi e d'anime, di un romanziere».

Nacque così la prima opera "ibrida" italiana. Una vera e propria inchiesta, ma dove entrava in gioco in maniera preponderante anche il "fattore umano". Il siciliano vi è dipinto come un "eroe impotente" con grandi doti interiori, ma che vive solitario in un'isola "luminosamente asfittica". Aglianò lanciò con questo un nuovo concetto, la "sicilitudine", che tanto influenzerà Sciascia, Consolo, Bufalino e Camilleri. Dovrà arrivare proprio lo scrittore di Racalmuto per infine spiegare: «La Sicilia deve ad Aglianò, patriota senza indulgenze, quello che un uomo deve a un medico della propria anima». Per Sciascia «si sente di toccar finalmente terra. Hanno termine tutte le sfumature, gli stati nebulosi, le incertezze, e subentrano i toni assoluti, essenziali. Si sa che il mare è azzurro, ma in Sicilia è proprio azzurro, senza sottintesi... e i fichi d'india aggrappati alle rupi e le agavi virulente sotto il sole di mezzogiorno scarnificano il pensiero fino ad allucinarlo. Se cercate l'oggettività assoluta, qui è il vostro mondo: non avrete più dubbi e andirivieni spirituali».

Il paesaggio isolano come specchio della condizione umana e oggetto di indagine filosofica. La Sicilia come sogno onirico dell'Italia. Affermazioni impegnative (ma più tardi le troveremo anche in Giuseppe Borgese e nei colori di Renato Guttuso) che confermano le visioni siciliane di Goethe nel suo Viaggio in Italia e sono copia carbone del famoso dialogo tra il principe di Salina e l'inviato piemontese Duvalier nel Gattopardo. Non solo: per Sciascia riguarderebbero perfino il tema del "sublime" indagato dal poeta tedesco settencentesco Friedrich Schillersublime come manifestazione del bello fondato sul caos»). Ancora Sciascia: «È una Sicilia che sembra scomparsa sotto le antenne televisive, il parossistico consumismo, la fuga dalle campagne, il disarmo delle zolfare. Sembra, ma non lo è».

Merito de critico Alessandro Cutrona (a cui si deve la definizione di "cronista antropologico") avere esteso il viaggio di Aglianò al resto d'Italia. Cutrone ha curato per l'editrice "Succedeoggi" il volume “Italiani”, che raccoglie gli altri scritti dell'autore siracusano. In apparenza sono testi letterari su Dante, Foscolo, Vittorini. In realtà, è un'altra immersione nel carattere degli italiani da parte di un intellettuale che, con Alessandro Natta e Mario Spinelli, aveva condiviso i gruppi clandestini antifascisti durante il regime, e che era rimasto convinto che in Italia «mentalità arcaica e feudale, camarille e schiavitù morale tardano a scomparire». Per questo «la Sicilia accoglie e riassume le caratteristiche che sono proprie di tutto il Paese, accentuandole e colorendole».

Gli darà ragione un altro guru dei "costumi" nostrani, il regista Pietro Germi, genovese, inventore della "commedia all'italiana". Quando girerà nel 1964 a Sciacca “Sedotta e abbandonata”, ricorda il suo esegeta Lorenzo Catania, dirà: «Credo che in Sicilia siano un po' esasperati quelli che sono i caratteri degli italiani in generale. Oserei dire che la Sicilia è Italia due volte. Insomma, tutti gli italiani sono siciliani e i siciliani lo sono di più, semplicemente».

- Piero Melati - Pubblicato su Robinson il 1° luglio 2023 -

lunedì 30 ottobre 2023

Brigitte Bardot, «semplicemente»…

Anne Carson, in uno dei suoi saggi  - "Il disprezzo", su Omero, Moravia e Godard -  parla di Brigitte Bardot, sul suo modo di apparire sullo schermo cinematografico, e di come usava il proprio corpo sul set cinematografico. Nell'incipit del film di Jean-Luc Godard tratto da un romanzo di Moravia - scrive Carson - vediamo la Bardot, che è nuda sul letto, e la macchina da presa che «zuma sul suo corpo e indugia sulla sua schiena». «In questa scena, la Bardot agisce senza disprezzo», scrive Carson, e continua: «I suoi gesti sono semplici, trasparenti; il tono della sua voce è serenamente banale. Il suo comportamento è innocente come l'acqua. Ma, tuttavia, in qualche modo, è proprio nel mezzo di questa esposizione totale e totalmente forzata di sé stessa, che ... scompare» (da Anne Carson, "On What I Think About Most"). «Nel momento di massima esposizione, la Bardot riesce a fare sparire il proprio corpo, fa sì che il proprio corpo rifiuti qualsiasi tipo di vicinanza proprio a partire dal fatto di... esporsi: in quella che sembra essere come una sorta di sorprendente applicazione immaginaria di quel procedimento narrativo inventato da Edgar Allan Poe ne "La lettera rubata".»

E Georges Didi-Huberman, nel suo "Passés cités par JLG", scrive: « E ci riesce semplicemente perché ci permette di rivisitare qualcosa che abbiamo già visto un tempo; un volto, un corpo, un gesto, un paesaggio, un edificio, una città, un atto collettivo. Si tratta di qualcosa per cui il cinema appare come un modo eminente di citare il passato: nel tempo, ciò che è stato filmato un giorno torna ora, nella proiezione, davanti ai nostri occhi, ripetibile a piacere.» (p. 67). Sta qui il potere del cinema -  come viene colto da Carson e da Didi-Huberman - risiede dietro quel... «semplicemente»: ecco, sembra tanto semplice, ma non lo è; non lo è perché il cinema ci permette di «citare il passato» (un corpo, un gesto, un edificio), riportandolo così nel presente, «davanti ai nostri occhi», «sotto il nostro sguardo».

Non si tratta di riproporre in maniera neutra "il medesimo", "lo stesso", come se si trattasse di una testimonianza "affidabile" di qualcosa che sarebbe accaduto; si tratta piuttosto di una "proiezione" - come scrive Didi-Huberman - si tratta di un'immagine situata nel presente la quale ha una risonanza con il passato (e ciò proprio perché il passato, nell'immagine, viene "citato": ragion per cui vale la pena di tornare a ciò che Antoine Compagnon dice a proposito della citazione... definita come «la più potente figura postmoderna»; oppure, a quel dice riferendosi alla citazione del passato visto come "proiezione"; soprattutto, vale la pena tornare a ciò che Billy Wilder ha fatto nel 1943 ne "I cinque segreti del deserto" (Five Graves to Cairo)!

fonte: Um túnel no fim da luz

domenica 29 ottobre 2023

Marx vs Engels ??!!??

Rileggere Engels
- di Michael Heinrich -

Per molto tempo, Marx ed Engels sono stati considerati come se avessero quasi formato un'unità indissolubile, sia sul piano politico che su quello scientifico. Come se ciò che uno di loro aveva scritto, dovesse valere per entrambi. Una  tale concezione simile, non dominava solamente il "marxismo-leninismo" della linea ufficiale del partito in Unione Sovietica, ma essa era ampiamente diffusa anche tra i molti scrittori marxisti che si situavano ben oltre una simile ortodossia. Su questa identità, i primi dubbi vennero espressi da Georg Lukács, il quale notò le differenze tra Marx ed Engels in quelle che erano le loro rispettive concezioni della dialettica, e in particolare criticò il tentativo che fece Engels per estendere anche alla natura la sua concezione della dialettica [*1]. E' stato a partire dagli anni '70, che l'intera opera tarda di Engels - in particolare l'Anti-Dühring - è stata sempre più sospettata, non solo di volgarizzare le analisi di Marx, ma anche di falsificarle. Engels venne pertanto concepito come il vero iniziatore di quel "marxismo" problematico che non aveva più molto a che fare con la critica di Marx. A loro volta, i sostenitori di un'unità intellettuale tra Marx ed Engels replicavano che, nonostante per anni i loro scambi su tutte le questioni siano stati intensi, tuttavia, tra loro non era mai sorta alcuna divergenza fondamentale. Al contrario, non solo Marx conosceva l'Anti-Dühring, ma avrebbe perfino collaborato con Engels nella sua stesura; si dice che una parte dell'Anti-Dühring, nella sezione sull'economia, sarebbe direttamente basata su dei lavori preparatori scritti da Marx. Tanto l'idea di una completa unità, tra Marx ed Engels, da un punto di vista sia scientifico che politico, quanto l'immagine di un Engels che avrebbe impoverito e falsificato la critica di Marx mi appaiono entrambi insostenibili. Non solo esiste tutta una ricchezza di prove lampanti che attestano le differenze di concezione tra Marx ed Engels; ma sarebbe stato anche alquanto insolito che due personalità entrambe notevoli, pur tuttavia con esperienze e interessi scientifici differenti, pervenissero a delle risposte identiche su tutte le questioni scientifiche e politiche. Ma sarebbe anche altrettanto grossolanamente semplicistico, pensare che dell'impoverimento della critica marxista il responsabile sia stato solo Engels. Come non si può certo incolpare Marx dello stalinismo, così non si può rendere Engels responsabile di ogni elemento dogmatico che si trova nel marxismo. Il rapporto intellettuale tra Marx ed Engels, non solo è molto più sfumato di quanto suggeriscano le posizioni che abbiamo appena delineato. Ma ogni volta - secondo i diversi campi e temi, così come secondo i diversi periodi - va specificato anche come e perché sia Marx che Engels siano stati entrambi in grado di imparare molto rapidamente, facendo in modo che nel tempo le loro concezioni si siano evolute. Il rapporto tra Marx ed Engels viene studiato in dettaglio nella mia biografia di Marx [*2], mentre in questo articolo affronterò solo di un piccolo episodio di questa relazione: la recensione in due parti, che Engels fa del testo di Marx del 1859, "Contributo alla critica dell'economia politica. Primo quaderno" [*3]. In questa recensione, dapprima Engels si esprime soprattutto circa il metodo marxiano della critica dell'economia politica - distinguendo tra un metodo "logico" e uno "storico" - ma poi giunge alla conclusione che piuttosto ci sarebbe un accordo fondamentale tra lo sviluppo logico e quello storico. Ecco, da qui, l'idea di un "metodo logico-storico" (espressione che Engels non usa da nessuna parte), il quale poi per decenni è stato considerato come il "metodo marxista" per eccellenza. Le osservazioni svolte da Engels in questa recensione, vennero poi usate come se fossero delle semplici spiegazioni di quello che era il testo di Marx. Un approccio simile era comune non solo al marxismo-leninismo sovietico [*4], ma lo troviamo anche in autori come Ronald Meek ed Ernest Mandel [*5]. A partire dalla fine degli anni 1960, i nuovi dibattiti sulla critica dell'economia politica che sono emersi, hanno assegnato un ruolo importante, non solo al Capitale ma anche ai Grundrisse e ai "Risultati del processo di produzione immediato" [*6] ; e in questo contesto anche l'introduzione del 1857 suscita un forte interesse. Alla visione engelsiana, viene opposto il fatto che - nel passaggio metodologico dell'Introduzione del 1857 - Marx ci spinge chiaramente nella direzione opposta: lo sviluppo storico e l'esposizione delle categorie, non seguono affatto dei percorsi paralleli [*7]. I sostenitori dell'unità tra Marx ed Engels, hanno cercato di minimizzare quest'evidente contraddizione per mezzo di argomenti assi poco convincenti [*8], mentre i critici di questa "unità" si sono generalmente accontentati di identificare la contraddizione per poi usarla come prova di quello che sarebbe stato un fraintendimento di fondo, da parte di Engels, senza mai chiedersi cosa avesse spinto Engels a fare tali affermazioni [*9].

- I -
Alla critica dell'economia politica, Engels era arrivato prima di Marx. Figlio di una famiglia di industriali, aveva potuto conoscere gli affari di famiglia già in tenera età, e alla fine della sua istruzione secondaria si era già formato come venditore. All'età di 18 anni aveva accompagnato a Manchester il padre, dove quest'ultimo era socio in un'impresa. Nel 1844, Engels aveva contribuito agli "Annali franco-tedeschi" con il suo "Schizzo d'una critica dell'economia politica", un saggio che Marx elogiò nel 1859 nella sua prefazione al "Contributo alla critica dell'economia politica", definendolo come un «geniale abbozzo» [*10], per poi lodarlo nuovamente, più tardi, nel I Libro del Capitale. E fu con quel saggio che Engels aiutò il giovane Marx a intraprendere la strada della critica dell'economia. Tuttavia, già negli anni Quaranta del XIX secolo Marx aveva rapidamente cominciato a recuperare terreno. E a partire dal 1850, mentre era in esilio a Londra, aveva intrapreso un secondo studio sull'economia; uno studio più approfondito che si può trovare per la prima volta nei suoi Quaderni londinesi, scritti tra il 1850 e il 1853. Fu solo allora che Marx superò quello che finora era stori solo un uso puramente critico delle categorie dell'economia politica; cosa che aveva caratterizzato i suoi scritti degli anni 1840. Fu solo a Londra che Marx sviluppò una vera e propria critica delle categorie economiche, che sarebbe poi diventata il segno distintivo della sua critica dell'economia politica. Il primo grande risultato di una simile critica furono i Grundrisse, scritti nell'inverno del 1857-58. E a partire da questi manoscritti, in seguito Marx scrisse il "Primo quaderno" di quel  "Contributo" che poi apparve nel 1859, e che Engels recensì. I numerosi autori, che si basano sull'idea che sia esistita una completa unità intellettuale tra Marx ed Engels, considerano questo testo di Engels come se si trattasse solamente di un brillante studio del metodo di Marx. Ma così facendo, le circostanze della sua stesura vengono totalmente ignorate. Se nel 1850 Marx si consacrò con ardore all'economia politica, Engels trascorse invece la maggior parte del proprio tempo a Manchester, nella ditta "Ermen und Engels", nella quale suo padre era uno dei due soci. A quel tempo, Engels non si trovava in una posizione invidiabile, e veniva visto con grande sospetto (se non addirittura sotto una vera e propria sorveglianza), sia da parte di suo padre, il quale non era per niente d'accordo con le opinioni politiche del figlio, sia dal socio di suo padre, Peter Ermen, e anche dal fratello del padre, suo zio Gottfried. Coi il denaro guadagnato, Engels sostenne per anni la famiglia Marx, e nel tempo che gli rimaneva, spesso riusciva anche a scrivere articoli per il New York Tribune, che poi apparivano sotto il nome di Marx. Nel 1850, gli articoli per il Tribune, erano la più importante fonte di reddito di Marx. Così, Engels non ebbe più tempo per potersi dedicare alle sue ricerche di teoria economica. la cosa diventa evidente allorché, in una lettera a Engels datata 2 aprile 1858, Marx spiega per la prima volta al suo amico il modo in cui concepisce l'opera che stava preparando, ed evidentemente si aspetta che tra loro ci sia una discussione approfondita. La risposta di Engels del 9 aprile 1858, invece, è assai breve, e sottolinea quanto il pensiero astratto gli fosse nel frattempo diventato estraneo: «Lo studio del tuo abstract [riassunto] del primo fascicolo mi ha richiesto molto tempo, è davvero molto astratto , cosa che non si può evitare in un'esposizione così breve; e mi sono spesso visto costretto a cercare dei collegamenti dialettici, dato che non sono più abituato a tutti quei ragionamenti astratti [a ogni ragionamento astratto].» [*10] Quando, un buon anno dopo, il 19 luglio 1859, Marx gli chiese di scrivere per la settimana successiva una recensione del "Contributo", che nel frattempo era stato pubblicato [*11], non c’è niente che indichi che la situazione fosse cambiata, e che Engels abbia avuto più tempo per potersi dedicare allo studio dell'economia. All'inizio Engels non reagì, e così Marx gli parlò nuovamente della recensione il 22 luglio. Il 25 luglio Engels rispose, un po' a malincuore, che non sarebbe stato in grado di consegnare l'articolo entro una settimana: «Scriverlo, rappresenta lavoro, e per poterlo fare avrei dovuto essere avvisato ["être prévenu"] un po' prima» [12]. Il 3 agosto – con evidente disagio - egli invia a Marx la prima parte della sua recensione: «In allegato, c'è l'inizio dell'articolo sul tuo libro. Rileggilo attentamente e, se non ti piace nella sua totalità ["dans son ensemble"], strappalo e dimmi qual è la tua opinione. Per mancanza di esercizio, ho perso l'abitudine a questo genere di testi, a tal punto che tua moglie riderà molto delle mie difficoltà. Se riesci a ritoccarlo, fallo pure. Sarebbe opportuno fornire alcuni esempi lampanti riguardo la concezione materialistica... »[*13]. Dal momento che degli esempi suggeriti da Engels non se ne trova nessuno da nessuna parte, e nella corrispondenza non ci sono riferimenti alle modifiche apportate al testo, è probabile che Marx abbia pubblicato il testo nella rivista così come l'aveva ricevuto da Engels [*14]. Come dimostra la lettera di Engels, egli si era impegnato per la pubblicazione di un testo di riferimento. E come dimostra la lettera di Engels, egli era molto meno convinto del suo testo, di quanto lo siano stati molti lettori del XX secolo.

- II.
La recensione di Engels sarebbe apparsa in tre parti su Das Volk [Il popolo], la rivista dell'Associazione londinese per l'educazione dei lavoratori tedeschi. Das Volk era all'epoca diretto di fatto (anche se non ufficialmente) da Marx. La prima parte, che tratta della concezione materialista della storia. delineata nella Prefazione al libro di Marx, apparve il 6 agosto 1859. La seconda parte, dedicata principalmente al metodo, apparve il 20 agosto. La terza parte, che avrebbe dovuto trattare della merce e del denaro, non venne mai pubblicata perché Das Volk aveva cessato le pubblicazioni per motivi finanziari. È probabile che Engels non abbia mai scritto questa terza parte. Nella prima parte della sua recensione, Engels comincia col riproporre una storia dell'opera di Marx. A causa della sua arretratezza economica, la borghesia tedesca, a differenza della borghesia inglese, non aveva ancora prodotto della letteratura economica. Ma il "partito proletario tedesco" si trova in una situazione del tutto diversa: «È dallo studio dell'economia politica che è scaturita la sua esistenza teorica, ed è stato a partire dalla sua entrata in scena che possiamo anche datare l'economia tedesca, scientifica e autonoma» [*15]. Quando Engels parla qui di «partito proletario tedesco», egli non sta pensando a  un partito nel senso attuale del termine, vale a dire, a una forma organizzativa fissa con statuti di partito, membri e funzionari eletti - all'epoca un simile partito non esisteva ancora - ma aveva in mente tutti coloro che difendono consapevolmente gli interessi del proletariato, a volte come individui, a volte in piccoli gruppi, più o meno formali; tutti criticando, in modi diversi, le condizioni economiche. Tuttavia, ciò che Engels dice nella frase successiva non si applica affatto a tutto il «partito proletario tedesco»: «Questa economia tedesca si basa essenzialmente sulla concezione materialistica della storia., le cui caratteristiche principali vengono presentate, a grandi tratti, nella Prefazione all'opera succitata» [*16]. Una tale concezione materialistica non era per niente dominante. All'inizio del movimento operaio tedesco, tra le altre cose, a occupare un posto importante erano le espressioni religiose. Furono soprattutto Marx ed Engels che, dalla seconda metà degli anni 1840 in poi, a difendere una tale "concezione materialista della storia", e che cercarono di imporla contro la critica moralizzatrice del "vero socialismo". Avevano raggiunto quest'obiettivo all'interno della Lega dei Comunisti grazie al Manifesto comunista, ma rappresentavano solo una piccola parte del movimento operaio. È Engels stesso a menzionare il fatto che questa nuova concezione incontrò delle resistenze non solo nella borghesia, «ma, ugualmente, anche nella massa dei socialisti francesi che volevano buttare il mondo a gambe all'aria grazie alla formula magica: libertà, uguaglianza, fraternità» [*17]. Quando, alla fine di questa prima parte, Engels scrive  che dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848-49  «il nostro partito lasciò le beghe dell'emigrazione» agli altri e «fu ben lieto di trovare qualche momento di quiete per poter studiare», ecco che diventa chiaro come per «nostro partito» Engels intendeva principalmente Marx e sé stesso. Tuttavia, l'affermazione secondo cui non avessero preso parte ai bisticci degli emigranti non è del tutto esatta. Nel 1852, mentre erano in esilio in Inghilterra, Marx ed Engels scrissero un libro assai dettagliato su questi battibecchi degli emigranti [*18]; libro che, a causa della mancanza di un editore, non fu mai stampato e quindi rimase del tutto sconosciuto. La forte insistenza di Engels sulla concezione della storia che viene delineata nella Prefazione di Marx, contribuì certamente al fatto che, nella ricezione successiva, questo testo verrà considerato come uno degli scritti fondanti del "materialismo storico". Tuttavia, nel suo testo, Engels non parla ancora di una grande teoria chiamata "materialismo storico", ma solo di una "concezione": la concezione materialistica della storia. Egli sottolinea il fatto che si tratta di una prospettiva specifica relativa allo studio della storia, che – sottolinea ancora Engels  – deve, tuttavia, essere prima dimostrata per mezzo di fatti materiali storici concreti, perché «qui non si tratta di mere formule» [*19].

III.
Quando, nella seconda parte della sua recensione – la parte sulla quale si è concentrata la lettura che ne è stata fatta nel XX secolo – Engels segue le indicazioni di Marx, nella sua lettera del 19 luglio 1859: «Qualche riga a proposito del metodo, e su ciò che c'è di nuovo nel contenuto» [*20]. Tuttavia, il problema è che, allo stesso modo in cui nell'opera di Marx non c'è assolutamente alcuna osservazione esplicita sul metodo, anche nella sua lettera, Marx non apporta alcuna precisazione in proposito. Engels parte da Hegel e dalla critica della dialettica hegeliana. Per i lettori del testo di Marx che viene recensito, cominciare così può essere stato in qualche modo sorprendente, dal momento che nel testo non si trova alcuna menzione della dialettica hegeliana. Allora, perché Engels si riferisce a Hegel? In quella che è stata la storia dei loro rispettivi sviluppi intellettuali, tanto la ricezione della filosofia hegeliana quanto la sua critica - e in particolare proprio quella che si trova nel primo libro scritto insieme da Marx ed Engels, "La Sacra Famiglia" – sono state due tappe decisive. Oltre tutto, Engels è stato informato, dalle varie lettere di Marx, che il confronto con Hegel aveva giocato un ruolo assai concreto anche in questa sua elaborazione del "Contributo alla critica dell'economia politica". Il 16 gennaio 1858 – nel periodo in cui Marx si stava dedicando al manoscritto dei Grundrisse – egli comunicava a Engels quanto segue: «Nel metodo di elaborazione di questo soggetto, c'è stata una cosa che mi ha reso un grande servizio: per puro caso [par pur hasard] stavo di nuovo sfogliando la Logica di Hegel; Freiligrath aveva trovato alcuni volumi di Hegel originariamente appartenuti a Bakunin, e me li aveva mandati in dono» [*21]. Nella sua lettera del 1° febbraio 1858, Marx è ancora più chiaro. Commentando il libro sull'economia che Ferdinand Lassalle aveva in mente di scrivere: «A partire dalla nota in questione [una nota del libro di Lassalle su Eraclito, che si riferiva all'analisi del denaro (M.H.)], ritengo il nostro ometto si stia proponendo di esporre, nella sua seconda grande opera, l'economia politica secondo il metodo hegeliano. Imparerà a sue spese che una cosa è arrivare a portare, per mezzo della critica, una scienza al punto da poterla esporre dialetticamente, e tutt'altra cosa applicare un sistema di logica astratta, già bell'e pronto, a dei presentimenti relativi, per l'appunto, a un tale sistema» [*22]. Da quest'ultima frase, Engels avrebbe potuto facilmente capire le intenzioni di Marx [*23]. L'inizio della seconda parte della recensione sembra quasi un commento a questa osservazione. Engels comincia coll'affermare che la critica di Marx all'economia è rivolta, non solo a questioni isolate, ma piuttosto alla scienza economica nel suo complesso. Era stato Hegel che era riuscito (cosa che da allora non è stata più fatta) a «sviluppare una scienza, vista nella totalità delle sue intrinseche relazioni interne» [*24]. Tuttavia, prosegue Engels, «nella sua forma attuale, il metodo di Hegel era assolutamente inutilizzabile. Dal momento che era essenzialmente idealista [...] Partiva dal puro pensiero, e invece qui bisognava invece partire dai fatti più ostinati» [*25]. Tuttavia, il pensiero hegeliano sarebbe basato su un importante fondamento storico: «Per quanto astratta e idealistica possa essere stata la sua forma, lo sviluppo del suo pensiero è stato nondimeno parallelo allo sviluppo della storia mondiale, e quest'ultimo sviluppo era in realtà la conferma del primo» [*26]. In realtà, invece, queste affermazioni, più che dare delle risposte, sollevano molte più domande. Da un lato, Engels equipara la filosofia hegeliana a un "idealismo" che sarebbe estraneo al mondo e rimarrebbe imprigionato nel "puro pensiero". D'altra parte, però, è costretto a riconoscere fino a che punto questa filosofia dipendesse dalla realtà. Per cercare di spiegare questa strana osservazione, Engels sostiene che lo sviluppo del pensiero hegeliano e quello effettivo della storia siano avvenuti "in parallelo". Ora, se il metodo hegeliano sarebbe partito dal "pensiero puro", e non dai "fatti", come spiegare allora che invece lo sviluppo del pensiero hegeliano finisce per essere «parallelo allo sviluppo della storia del mondo»?
Con la sua tesi del parallelismo, Engels può basarsi su Hegel solo in misura assai limitata. Nei suoi "Lineamenti della Filosofia del Diritto", Hegel constatava: «... Può darsi che l'ordine temporale dell'aspetto reale sia in parte diverso dall'ordine del concetto. Pertanto, non si può dire, per esempio, che la proprietà sia esistita prima della famiglia, e che tuttavia possa essere trattata e affrontata prima della famiglia» [*27]. Sono piuttosto le Lezioni sulla Storia della Filosofia di Hegel che potrebbero concordare con l'interpretazione data da Engels. Nell'introduzione, Hegel afferma che «il succedersi dei sistemi filosofici, nella storia, è identica alla successione del determinarsi della nozione di Idea, vista nella sua derivazione logica» [*28]. Tuttavia, egli subito limita questo parallelismo, specificando in modo un po' criptico che «è anche vero che da una parte la successione - in quanto successione temporale nella storia - si distingue dalla successione che avviene nell'ordine dei concetti. Ma mostrare quest'aspetto ci distrarrebbe troppo dal nostro obiettivo» [29]. E qui arriva subito al punto decisivo: «... per riconoscere, nella forma empirica e nel fenomeno che la filosofia storicamente, assume la sua successione come sviluppo dell'Idea, è necessario prima possedere una conoscenza dell'Idea... » [*30]. In altre parole: il presunto parallelismo tra lo sviluppo storico dei sistemi filosofici e lo sviluppo logico delle determinazioni dell'idea, può essere riconosciuto solo quando lo sviluppo logico dell'idea è già stato compreso. Pertanto, il parallelismo non è affatto un risultato diretto, ma piuttosto un risultato mediato; senza che Hegel ne faccia una base per la sua presentazione della storia della filosofia. Nel cercare di far coincidere "l'idealismo" della filosofia di Hegel con il suo ancoraggio alla realtà, mi sembra che il problema consista nel fatto che fondamentalmente la filosofia hegeliana non può essere definita semplicemente "idealista" (una designazione, questa, che possiamo trovare non solo in Engels, ma anche in Marx). Per i contemporanei di Hegel, una simile classificazione era invece tutt'altro che ovvia. Nel 1848,  alla voce "idealismo", sulle "Wigand's Conversations-Lexikon" (vol. 6, p. 872) si può ancora giustamente leggere [*31] che Hegel non può essere definito un idealista. Questo deficit, nel caratterizzare Hegel, che troviamo sia in Marx che in Engels, non può tuttavia essere approfondito in questa sede; tratterò l'argomento in dettaglio nel secondo volume della mia biografia di Marx. Dopo la descrizione della filosofia hegeliana, Engels torna - molto brevemente - alla critica marxiana di Hegel. Dice che Marx sarebbe stato l'unico a «impegnarsi nell'opera di estrazione del nucleo della logica hegeliana, che contiene le effettive scoperte di Hegel in questo campo, e di perfezionare la dialettica, spogliata dei suoi involucri idealistici, sotto la semplice figura in cui essa è l'unica forma corretta dello sviluppo del pensiero» [*32]. La caratterizzazione che Engels fa della critica di Marx, è del tutto vaga. Non viene specificata né la «semplice forma» di questo metodo, né le conseguenze che esso ha sulla critica dell'economia politica. Non fa altro che affermare che Marx è riuscito a criticare Hegel, e che ha conservato ciò che di Hegel avrebbe dovuto essere conservato.

IV.
Il paragrafo che segue, appare decisivo ai fini della ricezione della recensione di Engels. Secondo lui, la critica dell'economia politica può essere applicata sia "storicamente" che "logicamente". Engels, tuttavia non specifica esplicitamente che cosa intenda per "storico" e  per "logico"; dobbiamo dedurlo dalle sue dichiarazioni: «Dal momento che nella storia, così come nel suo riflesso letterario, lo sviluppo progredisce grossomodo dai rapporti più semplici a quelli più complessi, in questo lo sviluppo storico-letterario dell'economia politica ci ha offerto un filo conduttore a cui poteva legarsi la critica, di modo che così, all'incirca, le categorie economiche apparivano seguendo lo stesso ordine dello sviluppo logico» [*33]. Qui, il termine "storico" appare sotto due forme: come storia economica reale, e come suo "riflesso letterario", vale a dire, come storia delle teorie economiche. Apparentemente, lo "sviluppo logico" delle categorie consisterebbe in una rappresentazione che progredisce dalle condizioni più semplici a quelle più complesse. Ma quali sono le condizioni "semplici"? Tutto ciò ha a che fare con il processo del lavoro? Si tratta della merce? Del denaro? Oppure piuttosto dell'interazione di quei tre fattori della produzione che sono il lavoro, il capitale e la terra? La relazione "semplice", e la categoria che esprime questa relazione sono tutt'altro che evidenti, e la loro determinazione rimane essa stessa un processo sostenuto da una teoria. È assolutamente impossibile decidere, sulla base della semplice descrizione di una sequenza di fatti, se la storia economica e il suo riflesso letterario comincino davvero a partire dalle relazioni più semplici. E sebbene Engels consideri lo "sviluppo storico-letterario" come un "filo conduttore", egli constata tuttavia, nello stesso paragrafo, che la rappresentazione non viene guidata da esso, dal momento che la storia spesso fa «passi da gigante». E conclude: «Solo il modo logico può qui avere dominio. E infatti è questo il modo storico di trattare, spogliato solo della sua forma storica e delle contingenze inquietanti. È a partire da questo che comincia la storia, la quale deve necessariamente avere inizio dal cammino delle idee, e il suo ulteriore perseguimento non sarà altro che il riflesso, in forma astratta e teoricamente consequenziale, del processo storico» [*34]. Ed ecco che la modalità "logica" di esposizione diverrebbe così un'esposizione "storica" corretta: uno sviluppo storico senza alcun "zigzag". È questo il modo in cui, a partire da questo testo, il "metodo logico-storico" è stato inteso nel ventesimo secolo, e coloro che hanno assunto l'esistenza di un'unità intellettuale di Marx ed Engels hanno attribuito tutto questo anche a Marx. Di conseguenza, coloro che erano critici di una simile concezione, non hanno avuto difficoltà a confrontarsi con essa. Nell'introduzione del 1857, Marx aveva esaminato in dettaglio la relazione tra l'apparenza storica e lo sviluppo logico delle categorie, ed era giunto alla seguente conclusione: «Sarebbe quindi impraticabile e falso mettere in successione le categorie economiche, una dopo l'altra, secondo l'ordine secondo cui sarebbero state a loro volta storicamente decisive. Piuttosto, al contrario, è il loro ordine a essere stato determinato dalla relazione che hanno, l'uno con l'altro, nella moderna società civile borghese; il quale è esattamente l'opposto di quello che sembra essere il loro ordine naturale, o corrispondente alla serie costituita dallo sviluppo storico» [35].

V.
Ciò che è importante per noi, è innanzitutto capire in che modo Engels sia arrivato alla sua concezione del parallelismo dello sviluppo delle categorie logiche e storiche (letterarie). Una ragione importante, mi sembra essere quella della mancanza di comunicazione tra Marx ed Engels. Sebbene si siano scambiati molte lettere sui problemi politici del giorno, sulle azioni degli amici e su quelle dei loro avversari, non ha avuto luogo una vera discussione sulle questioni teoriche della critica dell'economia politica. Marx gli ha dato pochissime informazioni sul proprio lavoro. Marx non inviò mai a Engels un manoscritto incompiuto da discutere con lui. Ed Engels non vide mai né i Grundrisse né il manoscritto del "Contributo". E anche dopo, tutto questo non è cambiato. Engels ha avuto il testo del Libro I del Capitale, per la prima volta nelle sue mani, quando Marx gli inviò le bozze [*36]. Nella corrispondenza degli anni 1850 e 1860, ci sono diversi esempi dove Marx attinge alle conoscenze di Engels relative al commercio, ma nessun vero dibattito teorico ha luogo tra i due. Pertanto, al momento della morte di Marx, Engels non aveva idea di quale fosse la situazione dell'elaborazione dei libri 2 e 3 del Capitale; egli ne viene a conoscenza solo quando esamina i manoscritti lasciati da Marx [*37]. Il primo e unico resoconto dettagliato del progetto del "Contributo", lo si trova nella lettera di Marx a Engels del 2 aprile 1858, di cui sopra. Marx inizia esponendo il piano del suo progetto in sei libri (Capitale, Proprietà fondiaria, Lavoro salariato, Stato, Commercio internazionale, Mercato mondiale) e, a titolo di spiegazione, aggiunge: «Il passaggio dal capitale alla proprietà fondiaria è allo stesso tempo storico, perché la forma moderna della proprietà fondiaria è il prodotto dell'azione del capitale sulla proprietà feudalem e fondiaria, and so on. Allo stesso modo, il passaggio dalla proprietà fondiaria al lavoro salariato non è solo dialettico, ma storico, poiché l'ultimo prodotto della  proprietà fondiaria moderna è il costituirsi ovunque del lavoro salariato, che che appare quindi come la base di tutta questa merda» [*38]. Allo stesso modo, nella presentazione della determinazione del denaro "come denaro", Marx scrive: «La semplice circolazione del denaro non ha i sé il principio dell'autoriproduzione, e quindi si riferisce ad altre categorie che si trovano al di là di essa. Nel denaro – come lo dimostra lo sviluppo delle sue determinazioni – si postula il valore che entra in circolazione, che si conserva in esso, e nello stesso tempo lo implica:  c'è il Capitale. Anche questo passaggio è storico. La forma antidiluviana del capitale è il capitale mercantile, che sviluppa sempre denaro. Nello stesso tempo della nascita del vero e proprio capitale, dal denaro o dal capitale mercantile, che si impadronisce della produzione» [*39]. Se si conosce solo questa lettera - come avviene per Engels -  si può facilmente arrivare all'idea che Marx assuma un parallelismo sistematico tra lo sviluppo "logico" (dialettico-concettuale) delle categorie, e quello del modo in cui si impongono le condizioni economiche corrispondenti a queste categorie. Ma, come dimostra l'Introduzione del 1857, Marx non aveva assunto esattamente tale parallelismo: per cui, a volte lo sviluppo storico può seguire l'ordine secondo cui avviene lo sviluppo concettuale delle categorie, e a volte può avvenire esattamente il contrario. I passi citati dalla sua lettera sulle transizioni "storiche" non avevano alcun significato sistemico, costitutivo del suo modo di esposizione; si trattava, per così dire, solo di osservazioni supplementari, che Engels non poteva comprendere solo sulla base di questa lettera. Per Marx, la questione del parallelismo tra lo sviluppo storico, e quello concettuale delle categorie, non era affatto centrale. Come chiarisce la versione originale del 1858 (quella che a volte viene indicata come "Urtext of the Contribution") si interessava a una questione completamente diversa, che riguardava la relazione tra sviluppo concettuale e sviluppo storico. Verso la fine della sua versione primitiva, Marx scrive: «A questo punto, quanto sia corretta la forma dialettica dell'esposizione, diventa chiaro solo quando se ne conosce i limiti» [*40]. Qui, Marx si occupa dell'esistenza del "lavoratore libero", vale a dire, di quei lavoratori che, in quanto persone, sono legalmente liberi di vendere la propria forza-lavoro, e che allo stesso tempo vengono privati dei mezzi di sussistenza e di produzione; di modo che così sono costretti a vendere la loro forza-lavoro. Si tratta di una precondizione storica «per la nascita, e ancor più per l'esistenza, del capitale in quanto tale» [*41], il quale non può essere dedotto dialetticamente. La "forma dialettica dell'esposizione" presuppone che il capitale esista già, che si vedano le determinazioni immanenti del capitale e le sue dinamiche immanenti (come lo sviluppo delle forze produttive, l'accumulazione, la propensione alla crisi), e che possa anche indicare chiaramente i presupposti su cui poggia il capitale (l'esistenza di lavoratori "liberi"). Tuttavia, solo un'analisi storica può mostrare in che modo questi presupposti si siano verificati, ed ecco che è allora che la «forma dialettica dell'esposizione» non è più sufficiente, e che la visione storica diventa parte dell'esposizione. Nel Libro I del Capitale, questo avviene nel quadro dell'analisi dell'«accumulazione primitiva»; dopo che le determinazioni del processo di produzione capitalistico sono state esposte. Nel Capitale, appare un altro limite della rappresentazione dialettica: l'analisi concettuale ha mostrato chiaramente che i limiti della giornata lavorativa non possono essere determinati concettualmente, ma che essi sono il risultato della lotta tra capitalisti e lavoratori. In altre parole, la durata della giornata lavorativa è un risultato storico che può essere spiegato solo dall'analisi storica. Pertanto, l'analisi storica fa parte della presentazione della critica dell'economia politica, ma nel momento e a condizione che possa essere ottenuta solo attraverso una trattazione "logica". Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la ricerca di parallelismi tra l'evoluzione "logica" e quella "storica"; come sembrava invece che Marx avesse previsto nella sua lettera del 2 aprile 1858. L'altro significato di "storico", così come Engels lo espone nella sua recensione, ossia, lo «sviluppo storico-letterario» e il suo parallelo con lo sviluppo "logico" delle categorie, viene in qualche misura suggerito nel Contributo: dopo aver trattato una categoria, Marx espone l'evoluzione storica delle teorie riguardo quella categoria. All'analisi della merce, svolta nel primo capitolo, segue la sezione "Storia dell'analisi della merce", e dopo l'analisi della moneta vista come misura dei valori, segue la sezione "Teorie dell'unità di misura della moneta", e alla fine del capitolo sulla moneta viene la sezione "Teorie sui mezzi di circolazione e sulla moneta". Nel Manoscritto del 1861-63, che è stato concepito come un'estensione diretta del Contributo, le Teorie del plusvalore si collocano dopo l'analisi del Capitale e del Plusvalore. Un'analisi così tanto frammentata, presuppone perciò che le teorie delle diverse categorie possano essere tutte presentate in modo sostanzialmente indipendente l'una dall'altra, e nello stesso ordine seguito dallo sviluppo "logico" delle categorie; cosa che così Engels invece interpretò come un parallelismo tra lo sviluppo storico-letterario e quello logico. Ma mentre lavorava alle "teorie del plusvalore", a Marx apparve poi chiaro che questa storiografia frammentata della teoria non era più praticabile: le teorie del plusvalore – una categoria che l'economia borghese non aveva espresso in modo esplicito, e che era, nella migliore delle ipotesi, solo implicitamente presente – non potevano essere formulate affatto; almeno non senza le "teorie del profitto". È questo il motivo per cui Marx, quando cominciò a scrivere Il capitale, dal 1863 in poi, abbandonò il progetto di scrivere una storia della teoria, separata per ogni singola categoria. Invece, una "storia della teoria" avrebbe dovuto essere raccolta in un volume separato, il Libro IV del Capitale [*42].

***
Su questa recensione, né Marx né Engels sono più tornati. Coloro che credono in una completa unità intellettuale tra Marx ed Engels, a partire dal silenzio di Marx, concludono che sono d'accordo: Marx conosceva la recensione e non la contraddiceva, e perciò deve averla accettata come se fosse stata una presentazione adeguata delle proprie posizioni; così si argomenta di solito. A me sembra che sia vero il contrario. Marx stimava Engels, sia come scienziato, e sia come amico che lo sostenne per tutta la vita; sia materialmente che nella sua ricerca. Ogni volta che è stato possibile, Marx ha cercato di citare gli scritti di Engels. Nel Libro I del Capitale, lo Schizzo di una critica dell'economia nazionale di Engels del 1844 viene citato quattro volte, la sua "Situazione della classe operaia in Inghilterra", del 1845, undici volte, e il suo saggio del 1850 sulla legge inglese delle dieci ore, due volte. Il fatto che non abbia citato una sola volta la recensione di Engels appare così essere tanto più importante, a partire dal fatto che nella postfazione alla seconda edizione, Marx affronta proprio i problemi metodologici dell'esposizione, così come il suo rapporto con la filosofia hegeliana; tutti temi centrali nella recensione di Engels. Se fosse stato d'accordo con Engels, con ogni probabilità in quel momento sarebbe stato ben felice di poter citare la sua analisi. Mentre, il fatto che lo abbia evitato accuratamente suggerisce che non fosse d'accordo. Pertanto, la recensione di Engels non è quindi né un brillante trattato sul metodo marxista, né una lettura impoverita della critica di Marx all'economia politica, e apre inevitabilmente la strada a un crescente impoverimento del pensiero di Engels. Nella sua recensione, Engels dovette prendere posizione su delle questioni che egli non studiava da molto tempo, e sulle quali sapeva molto poco sullo stato delle riflessioni di Marx. Dai pochi indizi che aveva, cercò – in pochissimo tempo – di fare del suo meglio. Grazie a quella che è la nostra conoscenza, molto più completa, dei testi di Marx e dell'evoluzione delle questioni che egli poneva - come quella relativa alla graduale scomparsa della questione delle transizioni dialettiche e storiche - diventa facile per noi oggi individuare gli errori e le inadeguatezze della recensione di Engels. Ma considerarla semplicemente come se fosse nient'altro che la prima espressione di un progressivo impoverimento - o addirittura di una falsificazione dell'opera di Marx  - significa ignorare le condizioni in cui è stata scritta, così come il ruolo che le affermazioni di Marx possono aver effettivamente giocato negli errori di Engels.

- Michael Heinrich - pubblicato sul sito Contretemps con il titolo "Come fare la critica dell'economia politica? Rileggere Engels (e Marx)" -

Acronimi:

HW: Georg Friedrich Wilhelm Hegel, Werke in 20 Bänden, Francoforte/M.: Suhrkamp 1970
MEGA: Karl Marx, Friedrich Engels, Gesamtausgabe, Berlino: Walter de Gruyter
MEW: Karl Marx, Friedrich Engels, Werke, Berlino: Dietz

NOTE:

1 - Si veda, in francese, Michael Heinrich, "Comment lire Le Capital de Marx ? Introduction à la lecture et commentaire du début du Capital", Toulouse, Smolny, 2015, 318 p., 20€ ; e Michael Heinrich, Alix Bouffard Alix, Alexandre Féron et Guillaume Fondu, "Ce qu’est Le Capital de Marx", Paris, Les Éditions sociales, coll. « Les parallèles », 2017, 152 p., 11 €.

2 - Su questo, vedi su Contretemps, “Biographie de Marx et travail théorique. Entretien avec Michael Heinrich” (https://www.contretemps.eu/michael-heinrich-biographie-marx/#sdfootnote3sym).

3 - Georg Lukács, Storia e coscienza di classe.

4 - Michael Heinrich, Karl Marx et la naissance de la société moderne. Biographie intellectuelle. Tome 1: 1818-1841 [2018], trad. V. Béguin, A. Bouffard, G. Fondu, C. Fradin et J. Quétier, Les éditions sociales, 2019.

5 - Karl Marx, Contribution à la critique de l’économie politique, trad. G. Fondu et J. Quétier, Les éditions sociales, 2014. La recensione di Engels è alle pp. 221-229.

6 - Ad esempio, nel caso di Zeleny (Die Wissenschaftslogik bei Marx und "Das Kapital", Berlino, Akademie Verlag, 1968) e Rosental (Die dialektische Methode der politischen Ökonomie von Karl Max, Berlino, Dietz, 1973).

7 - Ronald Meek, Studies in the Labour Theory of Value (New York: Monthly Review Press, 1956), 148 ss.; Ökonomie und Ideologie. Studien zur Entwicklung der Wirtschaftstheorie, Francoforte/M., EVA, 1973, p. 130 ss.; Ernest Mandel, Introduzione, in Karl Marx, Capital Volume 1, Harmondsworth, Penguin, 1973, pp. 21 e segg.

8 - Karl Marx, Capitolo VI, manoscritti del 1863-1867, trad. G. Cornillet, L. Prost, L. Sève, Les éditions sociales, 2010.

9 - ad esempio, Helmut Reichelt, Zur logischen Struktur des Kapitalbegriffs bei Karl Marx, Francoforte/M., EVA, 1970, pag. 233 e segg.; Hans-Georg Backhaus, Materialien zur Rekonstruktion der Marxschen Werttheorie 2, in Gesellschaft. Beiträge zur Marxschen Theorie 3, Francoforte/M., Suhrkamp, 1975, p. 139 e segg.

10 - Ad esempio, Klaus Holzkamp (Die historische Méthode des wissenschaftlichen Sozialismus und ihre Verkennung durch J. Bischoff, in Das Argument 84, Jg. 16, H. 1/2, 1974, pp. 1–75) nella sua risposta a Joachim Bischoff (Gesellschaftliche Arbeit als Systembegriff. Über wissenschaftliche Dialektik, Westberlin, VSA, 1973).

11 - La discussione più completa e sfumata della recensione di Engels nel mondo di lingua tedesca è stata proposta da Heinz Dieter Kittsteiner ("Logisch" und "Historisch"). Über Differenzen des Marxschen und des Engelsschen Systems der Wissenschaft (Recensione di Engels "Zur Kritik der politischen Ökonomie" von 1859), in IWK, Jg. 13, H. 1, 1977, pp. 1-47), che cerca di rintracciare le ragioni dietro le concezioni di Marx ed Engels. Su molti punti concordo con l'argomentazione di Kittsteiner. Tuttavia, il suo tentativo di attribuire un diverso concetto di scienza all'origine di tutte le differenze tra Marx ed Engels è, a mio parere, discutibile, perché Kittsteiner è portato a confrontare le affermazioni di Engels nella sua recensione con il suo libro "Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie" [Ludwig Feuerbach e l'uscita dalla filosofia classica tedesca).], che fu scritto più di 25 anni dopo; come se gli scritti di Engels fossero un'opera unificata e coerente! In realtà, non abbiamo alcun documento per stabilire la concezione della scienza di Engels alla fine degli anni 1850. Tra i contributi in lingua inglese alla recensione di Engels c'è Arthur's ("Engels as Interpreter of Marx's Economics", in Christopher J. Arthur, ed.), "Engels Today". Un apprezzamento per il centenario. London, Macmillan, 1996, pp. 179-188) merita particolare attenzione, anche se l'autore non è stato in grado di familiarizzare con l'intenso dibattito tedesco degli anni 1970, poiché i testi non sono stati tradotti all'epoca.

12 - MEGA II/2: 101; MEW 13: 10, Contributo alla critica dell'economia politica, Les éditions sociales, 2014, p. 64.

13 -  MEGA III/9: 126; MEW 29: 319., Karl Marx, Friedrich Engels, Corrispondenza, vol. 5, 1857-1859, Éditions sociales, 1975, p. 175 e segg.

14 -Cf. MEGA III/9: 515; MEW 29: 460, Karl Marx, Friedrich Engels, Corrispondenza, vol. 5, op. cit., p. 361.

15 - MEGA III/9: 522; MEW 29: 464, Karl Marx, Friedrich Engels, Corrispondenza, vol. 5, op. cit., p. 365.

16 - MEGA III/9: 534; MEW 29: 468, Karl Marx, Friedrich Engels, Corrispondenza, vol. 5, op. cit., p. 369.

17 - Contrariamente a quanto affermano gli editori nella riedizione della recensione allegata al Contributo (Éditions sociales, 2014), i quali scrivono: «È probabile che l'autore del Contributo sia anche in larga misura l'autore di detta recensione». (p. 221).

18 - MEGA II/2: 247; MEW 13: 469, Contributo..., Les éditions sociales, 2014, p. 222.

19 - Ivi

20 - MEGA II/2: 249; MEW 13: 471, ibid. p. 223.

21 - Karl Marx, Friedrich Engels, Les grands hommes de l’exil, Agone, 2015.

22 - MEGA II/2: 249; MEW 13: 471, ibid. p. 224.

23 - MEGA III/9: 515; MEW 29: 460, Corrispondenza, op. cit., p. 361.

24 - MEGA III/9: 24 sec.; MEW 29: 260, Corrispondenza, vol. 5, op. cit., p. 116.

25 - MEGA III/9: 52; MEW 29: 275, Corrispondenza, vol. 5, op. cit., p. 129.

26 - In una lettera a Lassalle scritta tre settimane dopo, il 22 febbraio 1858, Marx descrisse la sua impresa come segue: «Il lavoro in questione è prima di tutto la critica delle categorie economiche, o, se volete, del sistema dell'economia borghese presentato in forma critica. È allo stesso tempo un'immagine del sistema e una critica del sistema attraverso l'esposizione stessa.» (MEGA III/9: 72; MEW 29: 551, Corrispondenza, vol. 5, p. 143). Tuttavia, Engels non era a conoscenza di questa affermazione di Marx, che è molto spesso citata oggi, e che si esprime molto più chiaramente della lettera citata sopra il rapporto della critica con l'esposizione attraverso la quale è condotta.

27 - MEGA II/2: 250; MEW 13: 472, Contributo alla critica dell'economia politica, op. cit., p. 225.

28 - MEGA II/2: 250; MEW 13: 472, Contributo alla critica dell'economia politica, op. cit., p. 226.

29 - MEGA II/2: 251; MEW 13: 473, Contributo alla critica dell'economia politica, op. cit., p. 226.

30 - HW 7: 86, §32 aggiunta, GWF Hegel, Principi di filosofia del diritto (1821), aggiunta al § 32, trad. J.-F. Kervégan, Parigi, PUF, 2013, p. 680.

31 - G.W.F. Hegel, Leçons sur l'histoire de la philosophie, Gallimard, 2007, p. 50.

32 - Ivi

33 - Ivi

34 - Otto Wigand fu l'editore di molti degli scritti dei Giovani Hegeliani e pubblicò anche la Situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels.

35 - MEGA II/2: 252; MEW 13: 474, Contributo alla critica dell'economia politica, op. cit., p. 227.

36 - MEGA II/2: 252; MEW 13: 474s., ibid.

37 - MEGA II/2: 253; MEW 13: 475, ibid.

38 - MEGA II/1.1: 42; MEW 42: 41, Contributo alla critica dell'economia politica, op. cit., p. 54.

39 - Su questa fase dello sviluppo del Capitale, v. Michael Heinrich, Che cos'è il capitale di Marx, Les éditions sociales, 2017, pp. 47-48. [Nota dell'editore]

40 - Si vedano le sue lettere a Lavrov del 2 aprile 1883 (MEW 36: 3), a Nieuwenhuis dell'11 aprile 1883 (MEW 36: 7) e a Bernstein del 14 aprile 1883 (MEW 36: 9).

41 - MEGA III/9: 122, MEW 29: 312 , Corrispondenza, vol. 5, op. cit., p. 171.

42 - MEGA III/9: 125; MEW 29: 317, Corrispondenza, vol. 5, op. cit., p. 174.

43 - MEGA II/2: 91, Contributo alla critica dell'economia politica, Éditions sociales, 1957, p. 253.

44 - Ivi

45 - Questo volume non venne mai scritto. Dal momento che le teorie del plusvalore devono la loro esistenza alla concezione, successivamente abbandonata, di una storia delle categorie viste come isolate l'una dall'altra, esse non possono – contrariamente all'opinione popolare – essere considerate come un progetto per questo Quarto libro del Capitale.

fonte: ContreTemps

Il colore dell’indifferenza…

Traccia luminosa di molte situazioni quotidiane, il grigio è il simbolo di una sana indifferenza che esorta a deporre le armi della lotta continua, a scegliere una «medietà attiva, al servizio di un evento più grande». Seguendo il filo di questo «non colore» dalla Genesi alla fotografia, dai fenomeni atmosferici alle avanguardie di Piero Manzoni e Marcel Duchamp, Peter Sloterdijk, autore di opere controverse e divisive, ripercorre la storia dell’umanità alla luce dei significati allegorici di questa tinta fluida e ambigua. Si afferma così una nuova teoria estetica e filosofica del compromesso fra chiaro e scuro, che abbraccia letteratura, arte, religione e politica, dal mito platonico della caverna, dove i prigionieri non vedono altro che le ombre grigie delle cose, a Hegel, secondo il quale la filosofia dipinge il suo grigio su grigio. Da Heidegger, convinto che sia la tonalità emotiva quotidiana del nostro essere-nel-mondo, a Nietzsche, che celebra il grigio argenteo come la chiave del passaggio tra umano e oltreumano, tra idilliaco e terrificante. Dal Purgatorio dantesco ai corridoi kafkiani, da Cézanne, per il quale non è un pittore chi non ha dipinto il grigio, a Andy Warhol, il pioniere dell’indifferenziazione. Dal tramonto del rosso del Terrore giacobino, della Rivoluzione d’ottobre, del nazifascismo e delle dittature del proletariato alle «eminenze grigie» della Ddr e al grigiore dell’era di Angela Merkel.

«Una volta risvegliata dalla latenza, la parola “grigio” perseguita il pensiero del sé e del mondo fino alle cose ultime e meglio nascoste. Non c’è essere umano che non sia immerso nel crepuscolo della propria situazione, circondato dagli altri, i pochi vicini e gli innumerevoli lontani, ciascuno nel proprio campo crepuscolare.»

(dal risvolto di copertina di: Peter Sloterdijk, "Grigio. Il colore della contemporaneità" (traduzione di Matteo Caparrini). Marsilio, pp.304, €20)

Grigio è il colore del nostro tempo, un chiaro scuro tra mistero e banalità
- Peter Sloterdijk traccia una storia della tinta opaca per eccellenza, dalla Bibbia a Platone, da Hegel a oggi -
di Federico Vercellone

La teoria del colori ha una storia filosofica che ha un punto di svolta fondamentale con la disputa di Goethe con Newton nella quale ne andava della qualità atmosferica, fenomenica della luce e del colore per il primo, mentre, per l'altro, di ciò che veniva analiticamente restituito dalle rifrazioni del prisma. Oggi la considerazione filosofica del colore ha una declinazione ben differente a testimoniare che anch'esso vive un'intensa e mutevole storia culturale. Lo testimonia "Grigio. Il colore della contemporaneità", uscito ora da Marsilio, il libro che Peter Sloterdijk dedica al colore opaco per eccellenza, quello apparentemente più anodino e triste. Quella di Sloterdijk è una vera e propria maratona nel grigio che attraversa la filosofia da Platone a Hegel e a Martin Heidegger, per venire alla tradizione religiosa, a partire dalla Bibbia e dal libro della Genesi e abbracciare uno spettro di pensatori e artisti molto variegato, da Nietzsche, a Cézanne, per lambire la grande letteratura moderna e contemporanea, da Kafka a Thomas Mann a Cormac McCarthy senza dimenticare naturalmente la figura monumentale di Goethe. Il panorama offerto da Sloterdijk è dunque davvero insigne e maestoso, mentre il suo procedere ha un passo analogico, rinvia a un'intelligenza laterale che non è solo quella del soggetto ma anche quella delle cose. Il grigio è un colore misterioso e opaco che le anime più geniali sono tuttavia capaci di ravvisare fino a farne il cuore pulsante della vita. Non è solo un colore ma anche una nuance interiore, una tonalità emotiva neutra e anodina che inclina al malinconico in sintonia con il nostro tempo. È questo il presupposto dal quale Sloterdijk muove, riprendendo, a suo modo, l'insegnamento di Martin Heidegger, per il quale siamo sempre e fin dall'inizio consegnati a una situazione emotiva. Programmaticamente Sloterdijk scrive: «Ogni esistenza capace di vedere è immersa nelle coloriture del mondo». Tutta la nostra esperienza dunque è, a suo modo, «immersiva». Il grigio - ci ricorda Sloterdijk - è il colore della medietà, della monotonia, di ciò che è così consueto da risultare greve. Non spicca certo come la balena bianca del Moby Dick di Melville o come la bandiera rossa sulle macerie del Reichstag.

Sloterdijk richiama in questo contesto un autore tedesco molto eccentrico, quasi sommerso dallo stream principale della filosofia del Novecento. Si tratta di Hermann Schmitz, il teorico di una teoria delle atmosfere, oggi originalmente proseguita in Italia da Tonino Griffero. Viviamo immersi in una tonalità emotiva nella quale i soggetti tendono a prendere le distanza anche da sé stessi, quasi avvolti dal timore di essere travolti da passioni o movimenti troppo violenti. Il grigio - rivela Sloterdijk - è sinonimo di indifferenza, di sfocatura dei campi, è un sentimento flou che supera la distinzione tra interno ed esterno. Ma non è solo questo. È spesso anche una tonalità rilevatrice: non a caso uno dei più grandi maestri tedeschi della pittura del nostro tempo, Gerhard Richter, lo ha adottato nei propri quadri connettendolo al riemergere del rimosso, come esemplarmente avviene nelle tele dedicate alla vicenda della banda terroristica Baader-Meinhof. Chi aveva ragione in questo terribile conflitto? I figli che avevano espresso, sia pure criminalmente, il loro disgusto nei confronti della generazione dei padri che aveva taciuto sui crimini di guerra, o lo Stato che aveva represso, forse anch'esso criminalmente, questa protesta? La verità si trova in una zona grigia che non appartiene a nessuno ed è per questo tanto più tragica.

Il grigio svolge un ruolo fondamentale anche nell'ambito della teoria della conoscenza. Si pensi, tornando alle origini, alla teoria della caverna di Platone, in cui il mondo luminoso delle idee è reso accessibile dalle ombre chiaroscurali della caverna.E come non citare la civetta hegeliana che viene sul fare del tramonto a cogliere il senso profondo degli accadimenti diurni? Il grigio attraversa così come una dimensione atmosferica necessaria (non solo negativa) le nostre vite e le nostre culture, le une embricate alle altre, e può assumere nella tradizione una valenza religiosa e metafisica, come testimonia anche il primo libro della Bibbia, quello della Genesi, dove non si delinea una contrapposizione netta tra luce e tenebra, bensì è presupposta la necessità dell'una e dell'altra affinché si pervenga a quel miracolo chiaroscurale che è la creazione nella miriade infinita delle sue forme. Il conflitto tra la luce e le tenebre perdura nella tradizione religiosa: è quasi superfluo rammentare l'incipit del Vangelo di Giovanni dove a contrapporsi in una sfida cosmica sono un'altra volta la luce e le tenebre che non l'accolgono. Si può supporre, andando forse oltre Sloterdijk, che esse si miscelino nel grigiore del mondo meno irruente e ben più caduco della luce assoluta della verità. La realtà, probabilmente, adotta sempre tonalità intermedie, diciamolo pure: è un po' grigia. È quanto ricordava Victor Hugo, difendendo il chiaroscuro, a ben vedere molto tendente al grigio, nella sua Prefazione al dramma Cromwell, Ciò che chiamiamo reale è infine uno snodo in cui il mistero e la banalità fatalmente si incrociano.

- Federico Vercellone - Pubblicato su Tutto Libri del 1° luglio 2023 -

sabato 28 ottobre 2023

Derive (Per Sofia Samatar; Zero a Zero) …

«[Sofia] Mi scrive che oggi suo figlio giocava a calcio e che, ogni volta che la squadra di suo figlio segnava, un bambino della squadra perdente, con voce acuta e stridula incoraggiava tutti i suoi compagni dicendo loro: "È ancora zero a zero!" Mi ha ricordato di quale stato psicologico ho bisogno in modo da essere così in grado di scrivere, qualcosa, qualunque cosa. Devo fingere che ancora niente sia perduto, che non ho mai fallito, che siamo ancora all'inizio, tutto è ancora sullo zero a zero. Si tratta di fare come uno sforzo di volontà, in modo che ci si possa ancora immaginare che ci troviamo ancora al punto di partenza, e così, anche se in realtà sappiamo benissimo a che punto siamo, tutto rimane ancora possibile. Siamo ancora zero a zero, Kate. Stiamo sempre zero a zero!»

( Kate Zambreno , da "Drifts. A novel". Riverhead Books, New York, 2020)

venerdì 27 ottobre 2023

Lo Sguardo di Orfeo

«Un libro, per quanto frammentario, ha un centro d’attrazione: tale centro non è fisso, ma si sposta per la pressione del libro e per le circostanze della composizione. Centro fisso, che inoltre – se è un vero centro – si sposta rimanendo tuttavia il medesimo e al contempo divenendo sempre più centrale, sempre più nascosto, sempre più incerto e sempre più imperioso. Chi scrive un libro, lo scrive perché desidera e al tempo stesso ignora questo centro. L’impressione d’averlo trovato può essere anche soltanto l’illusione d’averlo raggiunto; quando si tratta di un libro di chiarimenti, vi è una sorta di lealtà di metodo che induce a dire qual è il punto verso il quale il libro sembra dirigersi; qui, verso le pagine intitolate "Lo sguardo d’Orfeo".»

« Quando Orfeo scende verso Euridice, l’arte è la potenza che fa sì che la notte si apra. Attraverso la forza dell’arte, la notte lo accoglie, e si muta in intimità accogliente, nell’intesa e nell’accordo della prima notte. Ma è verso Euridice che Orfeo è sceso: per lui Euridice è l’estremo che l’arte possa raggiungere, ella è, sotto un nome che la dissimula e sotto un velo che la copre, il punto profondamente oscuro a cui sembrano tendere l’arte, il desiderio, la morte, la notte. Euridice è l’instante in cui l’essenza della notte si avvicina come altra notte.

L’opera di Orfeo non consiste, tuttavia, nell’assicurare l’avvicinamento a quel «punto» scendendo verso la profondità. La sua opera è riuscire a riportarlo alla luce del giorno e a conferirgli, nel giorno, forma, figura e realtà. Orfeo tutto può, eccetto che guardare in faccia quel «punto», eccetto che guardare il centro della notte nella notte. Egli può scendere verso di lui, egli può, capacità assai più forte, attirarlo a sé, e, insieme a sé, attirarlo verso l’alto, ma solo distogliendone lo sguardo. Voltarsi è l’unico modo possibile per avvicinarsi a esso: questo il senso della dissimulazione che si rivela nella notte. Ma Orfeo, nel suo moto migratorio, dimentica l’opera che deve portare a termine, e di necessità la dimentica, perché l’esigenza ultima del suo movimento non è che ci sia un’opera, ma che qualcuno si mantenga di fronte a quel «punto», ne colga l’essenza, là dove questa essenza appare, là dove è essenziale e insieme essenziale apparenza: nel cuore della notte.

Dice il mito greco: si può fare un’opera solo quando l’esperienza smisurata della profondità – esperienza che i greci riconoscono essere necessaria all’opera, esperienza in cui l’opera esperisce la sua dismisura – solo quando non è perseguita per se stessa. La profondità non si dà frontalmente, essa si rivela solo nel suo dissimularsi nell’opera. Risposta capitale, inesorabile. Cionondimeno, il mito dimostra al contempo che il destino di Orfeo è di non sottostare a questa legge estrema – e, certo, voltandosi verso Euridice, Orfeo rovina l’opera, l’opera si dissolve immantinente ed Euridice fa ritorno nell’ombra; l’essenza della notte, sotto il suo sguardo, si rivela come l’inessenziale. Così egli tradisce l’opera, e insieme Euridice e la notte. Ma non voltarsi verso Euridice, anche questo sarebbe stato tradirla, avrebbe significato non essere fedele alla forza smisurata e incauta del suo impulso interiore, che non vuole Euridice nella sua verità diurna e nel suo incanto quotidiano, ma la vuole nella sua oscurità notturna, nel suo allontanamento, col suo corpo rinchiuso e il volto sigillato, che vuole vederla non quando lei è visibile ma quando è invisibile, non come l’intimità della vita familiare, ma come l’estraneità di ciò che esclude qualsiasi intimità, non farla vivere, ma avere vivente in lei la pienezza della morte. È solo questo che egli è venuto a cercare negli Inferi. Tutta la gloria della sua opera, tutta la potenza della sua arte e il desiderio stesso di una vita felice alla limpida luce del giorno vengono sacrificati in nome di quell’unica preoccupazione: guardare nella notte ciò che la notte dissimula, l’altra notte, la dissimulazione che appare.

Movimento infinitamente problematico, che il giorno condanna come ingiustificata follia o come espiazione di un eccesso. Per il giorno, la discesa agli Inferi, il movimento verso la vana profondità, è già di per sé un eccesso. È inevitabile che Orfeo trasgredisca la legge che gli vieta di «voltarsi», perché l’ha già infranta fin dai suoi primi passi verso le ombre. Questa considerazione ci suggerisce che, in realtà, Orfeo non ha mai smesso di essere rivolto verso Euridice: l’ha vista invisibile, l’ha toccata intatta, nella sua assenza di ombra, in quella presenza velata che non dissimulava la sua assenza, che era presenza della sua assenza infinita. Se non l’avesse guardata non l’avrebbe attratta, e certo lei non si trova là, ma anche lui, in quello sguardo, è assente, non è meno morto di lei, e non morto di quella tranquilla morte del mondo che è fatta di riposo, silenzio e fine, bensì di quell’altra morte che è morte senza fine, prova dell’assenza di fine.

Il giorno, nel giudicare l’impresa di Orfeo, gli rimprovera anche d’aver peccato di impazienza. L’errore di Orfeo pare allora risiedere nel desiderio che lo porta a vedere e a possedere Euridice, lui, il cui unico destino è di cantarla. Orfeo è solo nel canto, non può rapportarsi a Euridice all’infuori dell’inno, egli esiste solo grazie alla poesia e attraverso di essa, ed Euridice non rappresenta nient’altro che quella dipendenza magica che fa sì che fuori del canto egli non sia che un’ombra e che lo rende libero, vivo e sovrano solo nello spazio della misura orfica. Le cose stanno così: è soltanto nel canto che Orfeo ha potere su Euridice, ma, al contempo, nello stesso canto, Euridice è già perduta e Orfeo stesso è l’Orfeo disperso, l’«infinitamente morto» come lo rende la forza del canto sin dal principio.

Egli perde Euridice perché la desidera oltre i limiti misurati del canto, e si perde lui stesso, ma quel desiderio, Euridice perduta e Orfeo disperso sono necessari al canto, così come l’opera necessita della prova dell’inoperosità eterna. Orfeo pecca d’impazienza. Il suo errore sta nel voler esaurire l’infinito, nel mettere un termine all’interminabile, nel non sostenere senza fine il movimento stesso del suo errore. L’impazienza è lo sbaglio di chi vuole sottrarsi all’assenza di tempo, mentre la pazienza è l’astuzia che cerca di gestire quell’assenza di tempo facendone un altro tempo, un tempo misurato in altro modo. Ma la vera pazienza non esclude l’impazienza, essa ne è invece l’intimità, è impazienza sofferta e sopportata infinitamente. L’impazienza di Orfeo è quindi un movimento giusto: in essa ha inizio ciò che diverrà la sua vera passione, la sua più grande pazienza, il suo soggiorno infinito nella morte.»

Maurice Blanchot - da "Lo spazio letterario" -

giovedì 26 ottobre 2023

«Filosofi da Poltrona» !!??

Il pensiero e la vita appassionante dei maestri del cosiddetto Pensiero critico o della Scuola di Francoforte: Walter Benjamin, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Erich Fromm, Jurgen Habermas e molte altre figure leggendarie del mondo intellettuale europeo del Novecento. Benestanti di nascita ma in rotta con le proprie famiglie, colti, spesso elitari ma sempre impegnati fino allo stremo nel contrasto a ogni forma di fascismo. Sullo sfondo di questa ampia biografia di gruppo si vede passare l'intero secolo: la Repubblica di Weimar, l'avvento del nazismo, la tragedia della guerra e la Shoah, l'ambiente degli esuli in America, lo stalinismo e i partiti comunisti europei, la Guerra fredda, il Sessantotto e le contestazioni, la caduta del comunismo e l'avvento del postmoderno. Di loro il marxismo duro e puro disse che erano intellettuali da salotto, residenti in un elegante grand hotel affacciato sulle catastrofi del secolo; eppure questo gruppo di filosofi ha saputo negli anni creare un laboratorio intellettuale di insuperata libertà, nel quale sono stati radicalmente messi in discussione temi come la personalità autoritaria, la sessualità, il fascismo, la xenofobia, il consumismo, il dominio delle coscienze, la libertà individuale, la cultura di massa, il dominio della natura e molto altro. Uno spazio di pensiero libero che non ha mai smesso di essere preso di mira da ogni integralismo e da ogni conservatorismo. Stuart Jeffries ordisce in questo libro un denso intreccio di concetti elevati e di storie umanissime, di grandi affermazioni pubbliche e di vizi privati. Un affresco in cui le idee la fanno da padrone, dimostrando la loro straordinaria capacità di illuminare non solo la storia che abbiamo alle spalle, ma il nostro complesso presente.

(dal risvolto di copertina di: Stuart Jeffries, "Grand Hotel Abisso", (traduzione di Bruno Amato) EDT, pp. 536  €26)

La bella vita dei filosofi di Francoforte che volevano fare la rivoluzione vista oceano
- Erano benestanti di nascita, colti, elitari, studiosi del marxismo e oppositori tenaci di ogni forma di fascismo. Una storia della Scuola che voleva cambiare il '900 (con attacchi troppo veementi alla cultura di massa). -
di Simone Regazzoni

«La spia più formidabile della storia»: così Ian Fleming, creatore di James Bond, definì Richard Sorge, ufficiale subalterno del Comintern inviato in Germania nel 1921. Sorge non aveva licenza di uccidere, ma un accesso privilegiato alla biblioteca dell'Istituto per la ricerca sociale di Francoforte. Se il padre di 007 avesse scritto questa vicenda leggeremmo oggi una pagina inedita nel rapporto tra filosofia e spy story: quella della spia russa che lavora sotto copertura presso la Biblioteca della Scuola di Francoforte. Tutto questo non è accaduto, e ci dobbiamo accontentare della storia, non romanzata, del rivoluzionario Herbert Marcuse, membro della Scuola insieme a Marx Horkheimer e Theodor W. Adorno, che, negli USA, lavorava come analista di intelligence per l'Office od Strategic Service (OSS), il servizio segreto precursore della CIA, come ci racconta Stuart Jeffries nel suo Grand Hotel Abisso. Biografia avventurosa della scuola di Francoforte, pubblicato da poco in Italia da EDT.

Ora, se la Scuola di Francoforte non compare nei romanzi di 007 è forse perché, ci informa Jeffries, la spia del brillante libro di Jeffries che ricostruisce le avventure di un gruppo di filosofi che «anziché portare la rivoluzione in Germania, rivoluzionarono la teoria marxista». Grand Hotel Abisso è la storia di un grande paradosso, quello dei «filosofi da poltrona» che volevano fare la rivoluzione sul piano della teoria. A questo paradosso rimanda il titolo del libro, una citazione del filosofo marxista György Lukács che accusava i colleghi tedeschi di aver preso alloggio in un hotel la cui vista sull'abisso accresceva la gioia di poter godere di pasti consumati negli agi e altri confort. Che ci fosse un fondo di verità nel sarcasmo di Lukács lo dimostrano non solo la villetta che Horkheimer si fece costruire a Pacific Palisades, nel ricco settore occidentale di Los Angeles, tra le Santa Monica Mountains e l'Oceano Pacifico, negli anni dell'esilio americano, ma anche alcuni aneddoti riportati nel libro di Jeffries. Parlando dell'atteggiamento tenuto da Horkheimer negli USA, Jeffries scrive: «Horkheimer si andava scrupolosamente assicurando che il periodico della scuola, laddove possibile, usasse eufemismi al posto di parole che potevano interpretarsi come dimostrazioni delle simpatie politiche dell'Istituto e tradursi in attacchi politici da parte del Paese che lo ospitava». Per questo, al momento della pubblicazione del saggio di Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, le frasi finali del testo vennero modificate e la parola «comunismo» sostituita con «le forze costruttive dell'umanità». Qualcosa di analogo avvenne anni dopo, al momento del ritorno della Scuola in Germania. Nel 1957 Horkheimer allontanò dalla Scuola un giovane e promettente studioso di nome Jürgen Habermas nei cui saggi di ricerca per l'Istituto l'impegno politico era stato espresso con troppa veemenza. Come scrisse Horkheimer in una lettera ad Adorno: «Professioni di fede come queste, espresse nella relazione di una ricerca condotta da un Isituto che ufficialmente vive dei mezzi forniti da questa società carceraria, sono inammissibili». E inammissibili erano anche le contestazioni studentesche all'interno della Scuola, che sfociarono nel Busenattentat, «attentato dei seni»: il 22 aprile 1969 tre studentesse circondarono Adorno in aula, si denudarono il seno e sparsero addosso a Teddy petali di rosa e tulipano, facendolo cadere in una profonda depressione.

Se sul piano della prassi la Scuola di Francoforte si contraddistingue per una sorta di pragmatismo della sopravvivenza costellato di intoppi, sul piano della teoria le cose non sembrano andare meglio. I paralleli tra l'industria di Hollywood e il Terzo Reich, i veementi attacchi contro il cinema e la cultura di massa che non risparmiano nessuno, né Chaplin né Paperino, , più che esempi di lucidità dialettica sembrano reazioni stizzite di filosofi che hanno guadagnato una villetta con vista sul Pacifico ma non il riconoscimento intellettuale negli USA. Solo Walter Benjamin, che peraltro resta un outsider rispetto alla Scuola, e morì suicida a Portbou nel 1940, mostra capacità e profondità di lettura che lo rendono ancora oggi un filosofo attualissimo. C'è però almeno un aspetto della Scuola di Francoforte che può essere salvato: l'idea che lo spazio della cultura in grado di produrre effetti reali sui soggetti non sia solo quello della cultura alta, ma l'insieme di tutti i fenomeni culturali, compresa la cultura di massa. Benché nell'ottica di una critica che spesso manca totalmente di bersaglio, con la Scuola di Francoforte sport, stili di vita, moda, musica, oroscopi, cinema, tv, diventano oggetti degni di interrogazione filosofica. Da qui l'esigenza vitale di multidisciplinarietà della Scuola di Francoforte contrapposta al processo, ancora in atto, di chiusura accademica: «Le università stavano diventando moderne torri di Babele, sempre più divise in facoltà specialistiche popolate da esperti che a malapena parlavano lo stesso linguaggio».

- Simone Regazzoni - Pubblicato su Tutto Libri del 1° luglio 2023 -

mercoledì 25 ottobre 2023

Niente di nuovo sotto il sole…

Lettera di Emma Goldman sulla Palestina all'editore di "Spain in the World" (1938)

Caro compagno,
a proposito dell'articolo "Rivoluzionari e Palestina", scritto dal nostro buon amico Reginald Reynolds in Spain and the World del 29 giugno 1938. Sono d'accordo con alcuni dei suoi contenuti, tuttavia c'è una parte ancora più importante della sua argomentazione che mi sembra contraddica le idee di un socialista con posizioni quasi anarchiche. Prima di sottolineare queste incongruenze, voglio dire che l'articolo del nostro amico potrebbe suggerire che egli sia un rabbioso antisemita. Diverse persone mi hanno chiesto perché Spain and the World abbia pubblicato un articolo antisemita. Erano ancora più sorpresi del fatto che ad averlo scritto sia stato Reginald Reynolds. Dal momento che lo conosco bene, ho potuto rassicurare i miei amici ebrei sul fatto che Reginald Reynolds non contenga in sé il minimo atomo di antisemitismo, per quanto sia vero che il suo articolo purtroppo dia una simile impressione. Non metto in discussione le critiche che il  nostro buon amico rivolge ai sionisti. In effetti, mi sono opposta per anni al sionismo; il quale non è altro che il sogno che hanno i capitalisti ebrei di tutto il mondo di creare uno stato ebraico con tutti i suoi accessori: governo, leggi, polizia, militarismo, ecc. Detto in altre parole, vogliono creare una macchina statale ebraica, in modo da poter proteggere così i privilegi di una minoranza contro una maggioranza (di ebrei) [*1]. Tuttavia, Reginald Reynolds ha torto quando afferma che i sionisti sono gli unici sostenitori dell'emigrazione ebraica in Palestina. Forse egli non sa che le masse ebraiche in tutti i paesi, e specialmente negli Stati Uniti, hanno contribuito a raccogliere grandi somme di denaro per il medesimo scopo. Hanno messo generosamente a disposizione i loro magri risparmi nella speranza che la Palestina diventasse un asilo per i loro fratelli, così crudelmente perseguitati in quasi tutti i paesi europei. Il fatto che in Palestina ci siano molte comuni non sioniste, dimostra che i lavoratori ebrei che hanno aiutato gli ebrei perseguitati non lo hanno fatto perché sono sionisti, ma per la ragione che ho appena detto: perché ritengono che in Palestina verranno lasciati soli, che saranno in grado di stabilirsi lì e vivere la propria vita. Il compagno Reynolds invece si oppone a quegli ebrei che affermano che la Palestina fosse la loro patria duemila anni fa. Insiste sul fatto che questo non ha alcuna importanza, dal momento che gli arabi hanno vissuto in Palestina per generazioni.

Per me, nessuno dei due argomenti ha molto valore, a meno che non si creda nelle virtù del monopolio fondiario e nel diritto dei governi di ogni paese di rifiutare l'ingresso ai nuovi arrivati. Reginald Reynolds sa che i popoli arabi hanno lo stesso diritto di decidere chi ha il diritto (o meno) di entrare nei loro paesi, così come lo hanno gli sfruttati in qualsiasi altra regione del mondo. In effetti, il nostro amico questo lo ammette, allorché scrive che i signori feudali arabi vendettero la terra agli ebrei senza informare il popolo arabo. Questo non è un fenomeno nuovo nel mondo. La classe capitalista possiede, controlla le sue ricchezze e ne dispone ovunque per soddisfare i propri interessi. Che siano arabi, inglesi o altro, le masse hanno ben poco da dire a riguardo. Difendendo il diritto degli arabi di impedire agli ebrei di immigrare in Palestina, il nostro buon amico fa un affronto ai principi socialisti, tanto quanto lo fa il suo compagno John McGovern. Certo, quest'ultimo è il difensore dell'imperialismo britannico, mentre Reginald Reynolds sostiene i diritti dei capitalisti arabi. Ma anche questa è una brutta posizione, per un socialista rivoluzionario. Ed è ancora più incoerente invocare il monopolio della terra, e riservare questo diritto solo agli arabi.

Forse ci sono delle gravi lacune nella mia educazione rivoluzionaria, ma mi è sempre stato insegnato che la terra deve appartenere a chi la coltiva. Le sue profonde simpatie per gli arabi non dovrebbero impedire a Reginald Reynolds di riconoscere che gli ebrei coltivavano la terra in Palestina. Decine di migliaia di loro, giovani e devoti idealisti, andarono in Palestina per coltivare la terra nelle difficilissime condizioni dei pionieri. Hanno disboscato terreni abbandonati e li hanno trasformati in terra fertile e giardini fioriti. Intendiamoci: non sto dicendo che gli ebrei abbiano più diritti degli arabi; ma il fatto che un socialista dica che gli ebrei non hanno nulla a che fare con la Palestina mi sembra esprimere una strana concezione del socialismo. È vero che Reginald Reynolds non nega agli ebrei il diritto di asilo in Palestina, ma insiste anche sul fatto che l'Australia, il Madagascar e l'Africa orientale avrebbero tutto il diritto di chiudere i loro porti agli ebrei. Se tutti questi paesi hanno il diritto di respingerli, allora perché i nazisti in Germania o in Austria non dovrebbero fare lo stesso? O tutti i paesi? Purtroppo, il nostro compagno non menziona un solo luogo in cui gli ebrei possano trovare pace e sicurezza.

Sono certa che Reginald Reynolds sostenga il diritto d'asilo per i rifugiati politici. Sono certa che si rammarichi del fatto che questo grande principio, un tempo onore e gloria dell'Inghilterra, oggi non venga più applicato. E me ne pento anch'io. Quindi non capisco come Reynolds possa conciliare i suoi sentimenti positivi nei confronti dei rifugiati politici con il suo rifiuto di concedere asilo agli ebrei. Il nostro amico sostiene ardentemente il diritto all'indipendenza nazionale degli arabi e degli altri popoli sotto il dominio britannico. Non sono contraria alla lotta per l'indipendenza nazionale, ma non vedo in essa gli stessi vantaggi che essa ha sotto un regime capitalista. Il progresso che questa indipendenza dovrebbe portare può essere riassunto nell'avvento della democrazia; la quale è un inganno e una trappola. Basti pensare al caso dei paesi che hanno recentemente ottenuto l'indipendenza nazionale. La Polonia, ad esempio, gli Stati baltici o alcuni paesi balcanici. Lungi dall'essere progressisti (nel vero senso della parola), sono diventati fascisti. La persecuzione politica oggi lì è grave, come lo era sotto lo zar, mentre l'antisemitismo, prima incoraggiato dai vertici dello Stato, ora infetta tutti gli strati della vita sociale in questi paesi. Tuttavia, dal momento che il nostro amico difende il diritto all'indipendenza nazionale, perché non è coerente fino alla fine, e non riconosce tale diritto ai sionisti, o, più in generale, a tutti gli ebrei? Di tutti gli argomenti a favore di questo diritto - la precaria condizione degli ebrei, il fatto che essi siano dappertutto indesiderabili - è ciò che dovrebbe dar loro diritto almeno alla stessa considerazione che il nostro compagno accorda con tanta serietà agli arabi. Naturalmente, so che molti ebrei non hanno diritto allo status di rifugiati politici. Al contrario, la maggior parte di loro era del tutto indifferente alla persecuzione degli operai, dei socialisti, dei comunisti, dei sindacalisti e degli anarchici; purché essi stessi si trovassero al sicuro. Allo stesso modo in cui la borghesia in Germania e in Austria sfruttava gli operai, e si opponeva a qualsiasi tentativo delle masse di migliorare la loro condizione. Alcuni ebrei tedeschi ebbero la temerarietà di affermare che non si sarebbero opposti all'espulsione degli Ostjuden (ebrei provenienti dalla Polonia e da altri paesi). Tutto ciò è vero, ma rimane il fatto che, da quando Hitler è salito al potere, tutti gli ebrei, senza alcuna eccezione, sono stati sottoposti alle persecuzioni più crudeli e ai trattamenti più indegni e orribili; a parte il fatto che sono stati spogliati di tutti i loro beni e averi. Mi sembra quindi alquanto strano che un socialista neghi a queste persone sfortunate il diritto di stabilirsi in altri paesi e iniziare una nuova vita in quei paesi.

L'ultimo paragrafo dell'articolo di Reginald Reynolds "Rivoluzionari e Palestina" [*2] raggiunge nuove vette. L'autore scrive: «Cos'è più importante? Chi fa una pretesa? Il motivo per cui essa viene avanzata? Oppure chi scrive le note a piè di pagina del disegno di legge, per dire se questa richiesta è giustificata? Rifiutare una rivendicazione legittima significa sostenere la tirannia e l'oppressione: accettarla e difenderla non è solo un nostro dovere, ma anche l'unica politica che può smascherare le rivendicazioni dei nostri nemici.»
Caro Reginald Reynolds, la domanda è chi decide la "legittimità" di un'affermazione. A meno che non si sia afflitti dallo stesso difetto che l'autore attribuisce agli ebrei, cioè «l'intollerabile arroganza di coloro che si considerano membri di una razza superiore», non possiamo decidere se la pretesa degli abitanti di un paese di mantenere il monopolio della loro terra sia più legittima del disperato bisogno di milioni di persone che vengono lentamente sterminate. 0Per concludere, vorrei chiarire che il mio atteggiamento nei confronti di questa tragica questione non è dettato dalle mie origini ebraiche. È motivato dal mio odio per l'ingiustizia e la disumanità degli uomini contro gli altri. Ho combattuto tutta la vita per l'anarchismo, l'unico capace di porre fine agli orrori del regime capitalista e di garantire uguaglianza e libertà a tutte le razze e a tutti i popoli, compresi gli ebrei. Fino a quel momento, considero incoerente che i socialisti e gli anarchici sostengano qualsiasi forma di discriminazione contro gli ebrei.

- Emma Goldman, Pubblicato su "La Spagna e il mondo", 26 agosto 1938 -

NOTE:

1. In "Emma Goldman Primer", il sito web della rivista Ballast cita questo paragrafo nascondendo il contesto e soprattutto la posizione di Emma Goldman a favore del diritto di emigrare in Palestina, o in altri paesi, mentre vengono «lentamente sterminati» come lei scrive. Va ricordato che l'articolo risale al 1938, il che sottolinea la lucidità dell'autrice! Ma il lento sterminio degli ebrei negli anni '30 non interessa affatto la meschina falsificazione radicale di Ballast! Cfr.: https://www.revue-ballast.fr/labecedaire-demma-goldman/ .

2. Cfr. Compila n. 1, "La questione ebraica e l'antisemitismo". Sionismo e antisionismo, Editions Ni patrie ni frontières, 2008, pagine da 147 a 160, disponibile anche sul sito web npnf.eu . I tre articoli sono "Rivoluzionari e Palestina" di Reginald Reynolds (1938); "Lettera alla Spagna e al mondo" di Emma Goldman (1938); e "Risposta al direttore della Spagna e del mondo" di Reginald Reynolds (1938)


fonte: https://npnf.eu/spip.php?article1090