giovedì 28 settembre 2023

La Dottrina Politica dell’Emergenza e la Regolamentazione Statale del Mercato…

Comunismo di guerra: ne vuoi un altro po'?
- di Sandrine Aumercier -

Negli ultimi anni - per aggirare i crescenti rischi planetari, primo fra tutti la catastrofe ecologica - una parte della sinistra si è convertita alla difesa di uno stato di eccezione permanente. Nel corso delle loro cene, in nome dell'emergenza climatica, i grandi "democratici" non hanno più alcuno scrupolo nel sostenere la dittatura ecologica, e sono arrivati persino a prendere la Cina come esempio. Infatti, la Cina è il primo produttore mondiale di energie rinnovabili (e per inciso, anche il più grande produttore mondiale di carbone, ma in questo caso ciò non conta). Ora, questa tendenza sembra essere del tutto compatibile con quello che è il posizionamento dei nuovi rivoluzionari climatici. Nel 2017, Andreas Malm, riprendendo la formula da Alysa Battistioni, ha detto: «D'ora in poi, ogni problema è un problema climatico» [*1]. In effetti, questa sintesi lapidaria dei problemi del presente, sembra che stia imponendo una ben precisa direzione alla lotta. e vediamo quale. Dire che «ogni problema è un problema climatico», consente di individuare un nemico chiaramente identificabile nella sfera delle infrastrutture "fossili" e nella persona di coloro che queste industrie le posseggono. Per Malm - così come egli lo sviluppa nel suo libro "Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming" (Verso Books) - il capitale è intrinsecamente fossile. Pertanto, Malm definisce il capitale a partire da quello che è il tipo di energia che è stata privilegiata ai fini della sua espansione storica, e non a partire da quelle che, per il capitale, sono le sue categorie operative. Non è forse semplice, quasi fosse una passeggiata? Prendendo di mira le infrastrutture fossili e i loro detentori, stiamo perciò prendendo di mira il capitale stesso. Quello che ci mancava - e di cui avevamo bisogno - era solo la strategia appropriata, la quale ci viene esposta dallo stesso Malm nel suo "Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia" [*2]. E adesso, passiamo a considerare     quali sono le argomentazioni di Malm a favore del  "leninismo ecologico"; così come ci viene oggi da lui presentato nel centesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre:

1/ Lenin amava la natura (ragion per cui gli daremo a scatola chiusa la patente di “bravo ragazzo”). I decreti per la conservazione della natura, approvati dai bolscevichi non appena presero il potere, sarebbero la prova, secondo Malm, del fatto che i bolscevichi erano pionieri dell'ecologia. Seguendo l'agiografia marxista, Malm continua, attribuendo allo stalinismo i notevoli degradi ecologici dell'URSS, in modo da poter così salvare, nel suo bilancio finale, il leninismo. E conclude asserendo che: «Un bolscevico attribuisce un'importanza fondamentale alla conservazione della natura». Tuttavia, la politica di conservazione di Lenin - così come quelle che vengono messe oggi in atto dal mondo occidentale - rimaneva comunque guidata dall'unica preoccupazione di non sprecare inutilmente tutte le risorse necessarie alla produzione industriale pianificata. Della natura, egli conservava la medesima visione strumentale, tecnocratica e produttivistica della sua controparte capitalista [*3]. E in tal senso, la protezione della natura, così come la conoscenza scientifica delle sue leggi non erano altro che la forma di quello che era un interesse che era stato ben compreso. Tuttavia, ben presto, l'economia di guerra avrebbe mostrato quali erano i limiti delle leggi ambientali. Ci vuole una discreta malafede per riuscire ad affermare, come fa Malm, parlando di un paese ecologicamente devastato come la Russia, che: «La Russia dispone oggi delle più grandi riserve naturali del mondo, le quali sono anche le più protette (...). E questo è un guadagno duraturo dovuto alla rivoluzione!». Ragion per cui, le «zone protette» sarebbero quindi, ancora cento anni dopo, merito dei bolscevichi, mentre invece tutti i degradi esistenti sarebbero dovuti alla deviazione «burocratica» stalinista. Con una simile divisione dei ruoli, il dogma marxista dello sviluppo delle forze produttive rimane intatto, e in questo modo vediamo come un breve momento della storia venga perciò innalzato a mito del tutto avulso dal suo proprio contesto. Secondo un simile modello, la razionalità strumentale oggi potrebbe benissimo risolvere tutti i problemi che essa ha creato, a condizione però che la classe dominante venga cacciata (in modo da metterne così un'altra al suo posto). E se mai questa razionalità dovesse dare dei risultati contrari a quelle che sono le sue intenzioni, ecco che allora ciò avviene necessariamente solo perché essa è stata  ostacolata dagli attori del grande capitale; e non certo per delle ragioni immanenti a questa stessa razionalità!

2/ Secondo Malm, Lenin era un pensatore della catastrofe (ma non ne era certo uno dei suoi attori!). A testimone, Malm prende il testo di Lenin pubblicato nel 1917: "La catastrofe imminente e i mezzi per evitarla". Così, riciclando la ben nota formula di Lenin che definisce la rivoluzione come «i soviet più l'elettricità», Malm ci propone di «passare al 100% di energie rinnovabili» (vale a dire, di elettrificare tutta la produzione, e i trasporti). Per Malm - invocando la scienza che gli conviene ma di certo evitando di menzionare quello che è il groviglio delle sue contraddizioni - tutte queste misure sono «abbastanza realizzabili». E conclude: «Nella politica di Lenin, c'erano dei legami molto forti tra le categorie di emergenza, di coinvolgimento e di insurrezione, e lo stesso dovrebbe valere oggi per la nostra politica». Ma guardiamo più da vicino cosa proponeva Lenin nel 1917: «Le misure da prendere sono abbastanza chiare, semplici, perfettamente realizzabili, pienamente commisurate alle forze del popolo, e se queste misure non vengono prese, è solo, esclusivamente perché la loro applicazione danneggerebbe i profitti esorbitanti di un pugno di grandi proprietari terrieri e capitalisti. (...) Questa misura è il controllo, la sorveglianza, il censimento, la regolamentazione da parte dello Stato; la distribuzione razionale del lavoro nella produzione e nella distribuzione dei prodotti, il risparmio delle forze popolari, la soppressione di ogni spreco di queste forze, che devono essere risparmiate. Controllo, sorveglianza, censimento: queste sono le prime parole della lotta contro la catastrofe e la carestia» [*4]. Ecco qual è la fonte d'ispirazione per Andreas Malm, benché egli stia molto attento, però, a citarne soltanto la prima parte. Del cocktail, facevano parte anche la disciplina, il razionamento, il lavoro obbligatorio, la repressione del dissenso, il partito unico e la propaganda. À la guerre comme à la guerre, tutto questo non preoccuperà di certo una sinistra convertita alle nuove emergenze. Così, Malm, che sembra qui vedersi come se fosse egli il nuovo Lenin, sta solo cercando il suo posto nell'attuale panorama della crisi, in un paesaggio che vede emergere ideologie popolari regressive e - simmetricamente - mezzi politici sempre più repressivi per gestirlo. A suo agio in questo clima autoritario, Malm mira a nient'altro che espellere una classe politica in modo da poterne poi mettere un'altra al suo posto. Pertanto, il paradigma della presa del potere ci rimanda costantemente da un polo di antagonismi all'altro, dalla fascistizzazione/fascinazione della strada alla fascistizzazione/fascinazione del potere politico. Questi antagonismi si condizionano continuamente a vicenda. A volte, la ricerca dell'efficienza richiede un'insurrezione violenta dal basso, e a volte invece un intervento autoritario dall'alto; a fronte della volontà sbagliata o maliziosa dei decisori in atto, ci si attribuisce sempre una volontà di potenza ben intenzionata.

3/ L'esempio della sconfitta delle primavere arabe - nelle quali egli è stato coinvolto - rappresenta per Malm un ulteriore motivo per tornare ai nostri capisaldi: i bolscevichi, contrariamente alla tentazione autonomista, sapevano bene che il potere doveva essere conquistato. Secondo Malm, il potere politico - disprezzato dai recenti movimenti orizzontali - era stato lasciato vacante, a disposizione delle forze reazionarie, e quindi era assai importante non rifiutare il potere, bensì cercarlo. Per Malm, lo stalinismo rimane una rivoluzione tradita, e non l'esito naturale di una rivoluzione che prevedeva la presa del potere statale. Così, in tal modo, ecco che tutto il resto della storia viene a essere solamente un incidente del destino. Malm appartiene alla schiera di quelle persone particolarmente illuminate, le quali sono in grado di distinguere tra gli attori politici buoni e quelli cattivi, e tra le infrastrutture buone e le infrastrutture cattive del capitalismo. Ovviamente, lui si considera tra i buoni. Come qualsiasi dittatore in erba. Ogni libro di Malm, colpisce, con il martello dell'urgenza, sempre più forte e un po' di più, la testa degli aspiranti all'insurrezione. In "Clima, Corona, Capitalismo" (Ponte alle Grazie), propugna nuovamente il «comunismo di guerra»,  prendendolo a prestito dal nome della politica dei bolscevichi durante la guerra civile russa. Secondo Malm, questa «dottrina politica dell'emergenza» è la sola in grado di essere all'altezza dell'emergenza climatica. Egli ammette che stavolta il clima non è l'unico problema ecologico, ma sostiene che bisogna affrontare il clima e la pandemia a partire dal fatto che «è stata la realtà presente ad averli scelti». Pertanto, per Malm è l'attualità a dettare l'urgenza dei problemi; la sua analisi non si orienta a partire dallo studio delle dinamiche sistemiche del capitale, ma piuttosto procede dalla selezione di alcuni problemi, e di alcuni attori che devono essere colpiti da dei sabotaggi e da delle insurrezioni. Si potrebbe credere che Malm sia troppo giovane per avere imparato dagli errori dei vecchi. Ma purtroppo, nemmeno i vecchi marxisti avevano imparato nulla. Negli ultimi anni, anche il linguaggio di Slavoj Žižek - ad esempio - si è ammorbidito in direzione di una nuova legittimità "rivoluzionaria". Per decenni, Žižek ha amato ripetere che: «Per Lenin, così come per Lacan, l'idea ha continuato a essere quella secondo cui una rivoluzione viene autorizzata soltanto da sé stessa» (anche se Lacan non parlava della rivoluzione ma dell'analista, e inoltre Lacan metteva in guardia proprio contro la tentazione di compiere un giro di 360° per finire per tornare... nello stesso luogo di prima; cosa che significa il termine "rivoluzione"). Nei suoi primi scritti, Žižek è stato leninista, come lo era stato Robespierre, oppure stalinista; l'importante era scioccare le anime belle. Adorava confondere i suoi lettori e il suo pubblico per mezzo di colpi di scena pseudo-dialettici come questo, con un atto di fede stalinista: «Ragion per cui dobbiamo perciò porre fine a quel ridicolo gioco che contrappone il terrore stalinista alla"autentica" eredità leninista tradita dallo stalinismo: il "leninismo" è una nozione assolutamente e del tutto stalinista. Il gesto di retro-proiettare il potenziale di utopia emancipatrice propria dello stalinismo in un'epoca precedente, indica pertanto che le nostre menti non hanno la capacità di tollerare la "contraddizione assoluta", l'insopportabile tensione intrinseca al progetto stalinista in sé stesso. Ragion per cui appare fondamentale distinguere il "leninismo" (in quanto nucleo autentico dello stalinismo) sia dalla prassi politica che dall'ideologia del tempo di Lenin: la grandezza reale di Lenin non è identica all'autentico mito stalinista del leninismo» [*5].

Il brodo ideologico di Žižek non è dissimile da quello delle sue precedenti affiliazioni, allorché, negli ultimi anni, si è apertamente convertito, come Malm, al «comunismo di guerra» per «salvare il clima»: «Siamo in guerra per la sopravvivenza, e ora abbiamo bisogno, subito, di un po' più di buona dominazione» [*6]. All'obiezione del giornalista, secondo cui si tratterebbe di un programma populista, Žižek risponde che non è populista poiché una simile autorità sarebbe (a suo avviso) in contrasto con la volontà popolare. Ciò corrisponde a una valutazione inadeguata di quelle che sono le tendenze sociali più regressive che stanno nascendo dalla crisi. Ma Žižek continua a confondere sfacciatamente il suo pubblico, usando l'espressione «comunismo di guerra» e riferendola alle politiche di... Roosevelt! Come a dire che, forse, così come il nucleo autentico dello stalinismo è leninista, anche il nucleo autentico del keynesismo è leninista? Le interpretazioni sono aperte. «Non fraintendetemi!» - dice Žižek, in un'altra intervista di quello stesso anno - «Non abbiamo bisogno di un nuovo Comitato Centrale. Non abbiamo bisogno di uno Stato mondiale che tenderebbe alla corruzione, ma di una vera e propria collaborazione globale. (...) Dovremmo controllare il mercato - allo stesso modo in cui lo facciamo con altri settori - attraverso uno Stato di Eccezione. Nel Regno Unito, a tal riguardo è stato detto detto che l'emergenza sanitaria avrebbe dovuto essere trattata come una guerra. Il mercato deve essere utilizzato, ma deve essere anche regolato attraverso una Direzione statale» [*7]. In sostanza, è da un secolo che la "rivoluzione" sta aspettando "l'apocalisse", come la chiama Žižek. E questa rivoluzione non sarà altro che la regolamentazione statale del mercato, una proposta sembre nuova e attuale! Questo continuum apologetico che va dal robespierrismo al leninismo e dal keynesismo allo stalinismo (arrivando ad invocare addirittura il movimento dei "beni comuni"), non è privo di una certa criticità. Esprime l'arroccamento in una riflessione politica che, non mettendo in discussione e non interrogandosi sul proprio quadro di riferimento, pertanto, non può altro che finire per fondersi con quella che è la linea "apocalittica" del capitalismo, elevata e trasformata dal filosofo in Escatologia. Se lo Žižek di vent'anni fa e lo Žižek del giorno d'oggi sanno ancora riscaldare sempre la stessa minestra, ciò vuol dire che c'è quanto meno un elemento nuovo: l'urgenza assoluta del clima, la quale, oggi costituisce il nuovo consenso politico universale. In questo modo, la negazione viene perpetuata ad ogni livello grazie ai nuovi mezzi. Oppure: in segreto sappiamo, però ciò che diffondiamo è il contrario. O ancora: sappiamo, ma non facciamo niente. Piuttosto: più sappiamo e affermiamo di sapere, più facciamo il contrario.

Il negazionismo vecchio stile - per le compagnie petrolifere e per le lobby di estrema destra - consisteva nel finanziare l'istigazione del dubbio scientifico per quel che atteneva alla realtà del riscaldamento globale. Oggi, questa forma piuttosto rozza di negazionismo ha fatto il suo tempo. Certo, esiste ancora, ma non ha più i mezzi per riuscire ad aumentare il suo pubblico. È stato notevolmente indebolito dagli eventi estremi, i quali stanno ora diventando la nostra quotidianità. Pertanto, questa forma di negazione oggi si sta impercettibilmente trasformando, ed è entrata a far parte della melassa della complotto-sfera: la confusione tra meteo e clima, le minacce all'agenzia meteorologica spagnola, e persino il sospetto che il governo spagnolo manipoli il tempo, l'attribuzione della siccità alle "scie chimiche" che diffondono prodotti chimici, la caccia ai migranti in Grecia, i quali sarebbero responsabili dei mega-incendi [*8]... I social media, sono ormai i responsabili della diffusione della confusione, che viene messa in pratica senza che nessuno spenda un centesimo. Oggi, per quelle stesse compagnie petrolifere, il nuovo modo di negare - a fronte di quello che sarà il previsto esaurimento delle riserve petrolifere - consiste nel diversificare gradualmente la produzione di energia, mascherando questa conversione come se fosse invece un'«azione per il clima». Finché ce ne sarà ancora una goccia, non si tratterà di certo di interrompere la ricerca di nuovi idrocarburi, come dimostrato ad esempio dall'ultimo progetto della Total Energies in Suriname, o da quello della Conoco Philipps in Alaska (progetto Willow) approvato dall'amministrazione Biden; pur essendo quest'ultimo un eroe del reintegro negli Accordi di Parigi. Ma con il raggiungimento del picco di tutti i combustibili fossili combinati - che è stato annunciato ufficialmente per la prima volta dall'IEA, e che avverrà intorno al 2030 - per le compagnie petrolifere, e per la loro sopravvivenza, la diversificazione diviene semplicemente essenziale. A sostenere e finanziare sia le energie rinnovabili che gli idrocarburi, sono le stesse persone: la schizofrenia capitalistica non conosce limiti. Continuerà a giocare fino in fondo il gioco di una catastrofe contro l'altra, pur di non dire niente sulla catastrofe che essa stessa rappresenta. D'altronde, tutto ciò è perfettamente compatibile con una COP28 [a Dubai tra il 30 novembre e il 12 dicembre] presieduta da un magnate del petrolio! Tutto questo, perché, per salvare il clima, il capitalismo non ha alcuna soluzione da offrire. Le ricerche serie e indipendenti sull'industria mineraria, condotte dal collettivo SystExt - che consigliamo vivamente di leggere -  ci fanno sospettare che le conseguenze della decuplicazione delle attività estrattive, che vengono ora realizzate proprio in nome della transizione energetica, genereranno impatti catastrofici almeno pari a quelli del cambiamento climatico stesso. Inoltre, tutti questi studi dimostrano che non esiste una miniera pulita che sia una, e che ci si può aspettare solamente alcuni "miglioramenti", i quali non vengono mai definiti con precisione [*9]. E infine, come dimostrano le ricerche di Jean-Baptiste Fressoz, le nuove fonti di energia, insieme alla loro scia di inconvenienti, si aggiungono alle vecchie, non le sostituiscono.

L'unica domanda che ci possiamo porre, è se sia questo il livello a partire dal quale dobbiamo criticare il capitalismo e «salvare il clima». L'unisono assordante degli attivisti, dei politici e degli industriali circa la priorità assoluta di riuscire a salvare il clima, è l'espressione più compiuta del nuovo tipo di negazionismo; sostenuto tra gli altri proprio da Malm e Žižek. Imprigionata nelle sue vecchie contraddizioni, questa sinistra opportunista ormai non nasconde più né il suo autoritarismo né la sua sfrenata collusione con la destra securitaria, che ora viene legittimata per mezzo dell'«apocalisse» climatica. Infatti, tanto coloro che accusano i governi di esagerare o di fabbricare il riscaldamento globale per limitare le libertà, quanto coloro che invece, al contrario, chiedono una gestione autoritaria dell'emergenza ecologica, alla fine condividono un'illusione comune: quella di attribuire la responsabilità della catastrofe a un certo "grado" raggiunto dalla società: vale a dire, il consumo di massa o l'imperialismo politico; come se queste non fossero altro che le due facce dello stesso modo di produzione! Ora, dopo la pandemia, questa divisione ideologica ha il sapore di un déjà vu. Di una critica radicale del sistema capitalistico, si continua ancora a non parlarne, proprio perché l'obiettivo rimane solo quello di governare e amministrare meglio la catastrofe, eventualmente offrendo e proponendo i propri servizi. Se il sistema capitalista non collasserà prima dall'interno, ci troveremo in una situazione in cui non solo non ci saranno più risorse di combustibili fossili, ma non ci saranno più nemmeno i metalli essenziali necessari alla cosiddetta "transizione": non ci sarà più sabbia, non ci sarà più acqua dolce, non ci sarà più il fosforo necessario agli input agricoli, non ci saranno più pesci negli oceani... Il pianeta, ormai invivibile, non sarà altro che un'unica pattumiera di rifiuti e di veleni, alcuni dei quali destinati a sopravvivere per decine, o forse centinaia di millenni nell'ambiente, senza contare l'interruzione duratura dei cicli fondamentali. Il cinismo spudorato della tecnocrazia completa il quadro.

Prendiamo ad esempio l'analisi di François Grosse, esperto in questioni di riciclaggio, che ci mette in guardia a proposito dei limiti intrinseci del riciclaggio, con tanto di calcoli a sostegno. La sua proposta, considerata estremamente ambiziosa, consiste in un modello di riciclaggio pragmatico, che consente di differire di cento anni l'esaurimento definitivo delle risorse critiche: «Come vedremo nelle prossime pagine, per le società umane, guadagnare 100 anni nella lotta contro l'esaurimento delle nostre risorse costituisce già una scommessa. Attuare le decisioni necessarie a realizzare una simile ambizione, non significa solamente una necessità immediata - a fronte di quelle scadenze che apparentemente appaiono lontane, ma che la crescita economica in pochi decenni ha già compresso -  ma rappresenta anche un primo passo in quelle trasformazioni che serviranno a preparare la nostra società per la sua prossima evoluzione: un'evoluzione, il cui contenuto è ancora sconosciuto, ma che per il nostro sistema economico sarà senza dubbio altrettanto rivoluzionaria di quanto lo sarà per i nostri stili di vita» [*10]. La dimostrazione che viene fornita da François Grosse, è inconfutabile: forse non ci avevamo mai pensato, ma in effetti la promozione del riciclaggio richiede una quantità sufficiente di rifiuti da riciclare... Ora, già da sé sola, la crescita esponenziale del consumo produttivo fornisce una quantità sufficiente di rifiuti da riciclare, la quale, a sua volta, annulla assai rapidamente qualsivoglia beneficio ecologico dovuto al riciclaggio. Si tratta del serpente che si morde la coda. E il nostro tecnocrate - che ha già ricevuto l'approvazione di Dominique Bourg - ha elaborato in quattro e quattr'otto la formula miracolosa: «un'economia quasi-circolare», che a suo dire sarà in grado di dare respiro al sistema grazie a una tregua di cento anni, per la quale fornisce dei criteri quantificati. Con quel "quasi", si risolvono tutte le contraddizioni: e un'economia quasi-circolare è pertanto un'economia quasi-sostenibile! Bisogna notare il fatto che l'ingegnere non è interessato al funzionamento dell'economia, e non è interessato a quale, nel capitalismo, sia il significato di crescita, ma egli usa il termine crescita esclusivamente nel senso di «crescita dei consumi». Pertanto, la proposta potrebbe quindi giustamente trarre in inganno alcuni decrescisti fuorviati, i quali potrebbero pensare che si tratti di una proposta di decrescita, o anche alcuni economisti, ai quali questa proposta di "decrescita" (dei consumi) potrebbe sembrare che essa non influisca su quello che è il loro dogma della crescita. Come avviene nel caso di tutte le proposte che vengono espresse sotto forma di "quasi", tutti potranno riconoscervisi, e tutto continuerà più o meno come prima. Del resto, dopo di me il diluvio (in effetti, tra cento anni, François Grosse e i suoi diretti discendenti non saranno più in questo mondo per poter assaporare le conseguenze collettive della sua proposta; conseguenze che sono state rinviate a un'«evoluzione dal contenuto sconosciuto» ma «rivoluzionaria» che verrà dopo).

Di conseguenza, per sua stessa ammissione, vediamo che il sistema capitalistico e i suoi esperti non hanno più nulla da promettere (e questo perfino in quelli che sono gli scenari più "ambiziosi"), se non un centinaio di anni al massimo per mettere finire a questa corsa verso il niente! Solo un rallentamento dell'agonia, una leadership politica regolatrice o autoritaria, e dei mezzi tecnologici che a tutto ciò corrispondono: è questo il massimo che si può fare, fino al momento in cui non ci sarà più nulla da estrarre dalla terra o dagli oceani. E se a questa "emergenza" ormai si è convertita anche la maggioranza di sinistra, cosa potrebbe mai chiedere il popolo? Immaginare, in un simile contesto, qualsiasi tipo di emancipazione sociale significa sognare un'utopia. La questione dell'emancipazione - se essa ha ancora un senso - ci impone una revisione immediata delle attuali priorità, le quali non sono di certo il "clima", o una delle tante cause isolate che vengono selezionate dall'ideologia del momento, ma piuttosto una valutazione senza mezzi termini delle sinistre prospettive che ci vengono promesse dal proseguire in questa logica.

- Sandrine Aumercier, pubblicato il 17 settembre 2023 su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -

NOTE:

[1] Andreas Malm, « Le Bolchevik et la nature », Période, 2017. En ligne : http://revueperiode.net/le-bolchevik-et-la-nature/

[2] Andreas Malm, - "Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia". Ponte alle Grazie

[3] Per quanto, andrebbe considerato anche il lavoro pionieristico del geochimico Wladimir Vernadsky, il quale tuttavia non era un bolscevico.

[4] Wladimir I. Lenin, "La catastrofe imminente e i mezzi per evitarla", 1917. Online: https://www.marxists.org/francais/lenin/works/1917/09/vil19170910a.htm

[5] Slavoj Žižek, "Revolution at the Gates" (Londra: Verso, 2002), p. 193.

[6] https://taz.de/Slavoj-iek-ueber-Krieg-und-Klima/!5943165/

[7] https://www.fr.de/kultur/gesellschaft/slavoj-Žižek-wir-sind-bereits-mitten-in-der-apokalypse-92346380.html

[8] https://www.liberation.fr/environnement/climat/complotisme-climatique-en-plein-record-de-chaleur-lagence-meteo-espagnole-cible-dinsultes-et-menaces-20230505_REXJNQ2XKRFKTOWWTXIBO5OZFQ/ ; https://www.geo.fr/environnement/comment-la-secheresse-fait-elle-remonter-de-nombreuses-theories-complotistes-214639 ; https://legrandcontinent.eu/fr/2023/08/30/en-grece-des-chasses-aux-migrants-en-marge-des-megafeux/

[9] Vedi https://www.systext.org/node/2 È deplorevole che le raccomandazioni pratiche del gruppo SystExt rifiutino di trarre le conseguenze ultime derivanti da quelli che sono i loro severissimi verdetti sull'intrinseca impossibilità che possa esistere una miniera pulita!

[10] https://lapenseeecologique.com/une-strategie-quasi-circulaire-un-modele-deconomie-circulaire-des-matieres-premieres-non-renouvelables/#_ftn1 ; vedi anche François Grosse, "Croissance soutenable ? La société au défi de l’économie circulaire", Grenoble, PUG, 2023.

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