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domenica 9 marzo 2025

Anche se hai sparato a un uomo a Reno…

Al Ward ha sessantacinque anni e vive isolato nella concessione mineraria nel Nevada lasciatagli dal prozio. Ormai da mesi si sostiene solo con zuppe in scatola, caffè istantaneo e ricordi della sua vita da musicista. Una mattina, fuori dal suo rifugio, appare un vecchio cavallo, derelitto e accecato da una malattia agli occhi, incapace di difendersi dagli attacchi dei coyote. A 1800 metri di altitudine, a cinquanta chilometri dal ranch più vicino, tormentato dall’alcolismo e dall’ansia, Al deve decidere cosa fare per se stesso e per l’esausto animale che si è presentato alla sua porta, mentre i ricordi della sua vita da cantautore e chitarrista si fanno sempre più insistenti, dai primi passi sulle pedane dei bar e dei casinò e poi oltre, in un crescendo di piccoli successi e occasioni mancate. Perché convivere con una band e trascorrere gran parte del tempo in tour può essere logorante, e molti dei suoi amici e compagni non ce l’hanno fatta a tenere il passo. A loro, a tutti gli sconosciuti musicisti che rendono più gioiosa la nostra vita, è dedicato il romanzo. E la storia di Al, come quella di tutti i personaggi di Willy Vlautin, ha il ritmo di una canzone triste che si trasforma in una toccante riflessione sulla solitudine, sulla forza d’animo e sulla musica come salvezza.

(dal risvolto di copertina di: Willy Vlautin, "Il cavallo". Jimenez. Traduzione di Gianluca Testani, pagg.192, € 18)

L'anima punk del cowboy
- di Piero Melati -

L'affermazione dividerà i fan. Ma può darsi che dopo sei romanzi (Motel Life, Verso Nord, La ballata di Charley Thompson, The Free, Io sarò qualcuno, La notte arriva sempre), con Il cavallo, Willy Vlautin abbia scritto il suo capolavoro. Quantomeno ha chiuso un cerchio. Prima di essere uno scrittore, va ricordato che Vlautin è un musicista e un compositore: ha scritto centinaia di note e testi per due band di culto della scena americana di cui egli è il leader (Richmond Fontaine and the Delines). E nel suo ultimo libro il protagonista, Al Ward, è un musicista proprio come l'autore. Ma attenzione, che tipo di musicista ? A questo punto si deve spulciare la nota biografica dello stesso Vautlin: nato in Nevada, a Reno, la stessa città la cui nera epopea di violenza è stata cantata dall'icona del country Johnny Cash. Il 3 gennaio 1968, in un concerto nel carcere di massima sicurezza di Folsom: «Ma ho sparato a un uomo a Reno, solo per vederlo morire». Quei versi inquietanti si pianteranno tanto a fondo nel cuore dei valori biblici dell'America profonda (peccato e senso di colpa, redenzione e seconda opportunità) da essere poi ripresi da artisti di diverse epoche (Bob Dylan, Merle Haggard, Keb' Mo' tra gli altri) e diventeranno anche il titolo di  di uno dei primi racconti di Charles Bukowsky. Quindi sì, nella prosa di Vautlin ci sono certamente John Steinbeck e «gli individui la cui esistenza è un campo di battaglia senza premi»), c'è la scrittura secca di RaymondCarver e una compassione senza sentimentalismo. Ma qual è  la particolarità di questo autore? Come ha coniugato in una letteratura originale il canone - negli Stati Uniti molto amato - di essere «nato nel deserto» e «cresciuto nel contesto di chi fa tre turni di lavoro per sopravvivere»? La risposta è nel romanzo. Il protagonista, Al Ward, 65 anni, vive isolato in una miniera dismessa nel Nevada, a 1800 metri di altitudine e a 50 chilometri dal ranch più vicino. Di inverno si gela, d'estate si squaglia. L'uomo è tormentato dall'alcolismo e dall'ansia, da mesi sopravvive con zuppe in scatola, caffè istantaneo e una stufa mal funzionante. Una notte appare un cavallo, derelitto e accecato da una malattia agli occhi, incapace di difendersi dai coyote. Nel tentativo di assisterlo, riparte in Ward la macchina della memoria: le chitarre rotte, i concerti nei bar, i lunghi tour, l'alcol, le centinaia di canzoni scritte, il ricordo di coloro che non ce l'hanno fatta. Insomma, il contesto di una vita intera, che ha il sapore di un'oscura ballata: «But I shot a man in Reno, just to watch him die». Tanti musicisti hanno provato a scrivere. Molte autobiografie, a dire il vero, ma poca letteratura. Vlautin, invece, non è soltanto un compositore che si è scoperto un valido scrittore. La sua ricetta più originale è un'altra. Il musicista di Reno ha portato dentro la letteratura l'effetto che solo certe canzoni suscitano, la capacità quasi ontologica della musica di evocare senza spiegare, di farti sentire qualcosa senza farci troppi ragionamenti o descrizioni. Vlautin appartiene a una corrente musicale che è stata definita "insurgent country" oppure "cow punk". Negli anni Novanta, parallelamente al fenomeno grunge dei Nirvana, tanti giovani musicisti provenienti dal mondo dell'indie rock trassero il country di Nashville dal suo contesto tipicamente wasp, aggiungendo alla tradizionale steel guitar un graffio punk e storie da loser (la band pilota del fenomeno si chiamava Whiskeytown, una delle etichette madri la berlinese Glitterhouse). Fu una piccola rivoluzione culturale che riportò una certa America alle radici. Il punto più alto si raggiunse quando il produttore Rick Rubin rilanciò un'icona del country ormai dismessa, proprio il già citato Johnny Cash, e lo ripropose come padre di questo nuovo genere. Tornò alla ribalta così un modo di comunicare (Dylan ne è il massimo esempio, non a caso verrà insignito del Nobel per la letteratura nel 2016) dove la poetica dei testi, anziché essere ermetica o non comprensibile, al contrario serva a evocare la condizione umana come le parole ordinarie non riescono a fare. Siamo, in sostanza, a un passo dalla poesia, ma con un'arma di supporto in più: la musica. È come se Willy Vlautin ci dicesse: una chitarra non dice né nasconde, ma come l'oracolo accenna. E avesse trasposto questo metodo in scrittura. Ma c'è di più: Vlautin racconta di essersi ispirato a un episodio reale, l'incontro con un cavallo solitario quasi cieco (che ha fatto poi soccorrere) nel deserto del Nevada, e di avere nei giorni successivi fatto un bilancio della sua vita. Per chiedersi alla fine: perché il mio protagonista, Al Ward, scrive canzoni che non sentirà quasi nessuno? Perché alla fine di una canzone c’è una speranza. Anche se hai sparato a un uomo a Reno.

- Piero Melato - Pubblicato su Robin del 19/5/2024 -

Il cavallo: perché ho scritto questo libro
- di Willy Vlautin - pubblicato su minima&moralia il 15 Maggio 2024 -  (la traduzione è di Valentina Zucca) -

Ho sempre avuto una lista di argomenti di cui avrei voluto scrivere. La cosa strana è che la musica non è mai stata in cima a quell’elenco. La verità è che è entrata a malapena nella lista, anche se ho fatto parte di band in tour per trent’anni e ho scritto centinaia e centinaia di canzoni da quando avevo undici anni. I miei libri menzionano appena la musica e in essi i musicisti sono più simili a santi che a suonatori. Willie Nelson (Motel Life) perché volevo che proteggesse i fratelli Flannigan e Amália Rodrigues (The Free) perché se una voce potesse salvarvi sarebbe la sua. Otto anni fa mi trovavo in una strada sterrata nel centro del Nevada con un vecchio amico, Brian Foster. Eravamo a cinquanta chilometri da Tonopah e si avvicinava il crepuscolo quando ci imbattemmo in un cavallo selvaggio nel bel mezzo del deserto. Era una cosa talmente strana vedere un cavallo nel deserto che ci fermammo e uscimmo dal pick-up. Non c’era acqua, né erba, né ombra per chilometri e il cavallo era immobile, sembrava una statua. Appena ci avvicinammo, notammo che era cieco. Entrambi gli occhi erano gonfi e da una delle orbite pendeva un rametto d’artemisia. È la cosa più triste che abbia visto in vita mia. L’idea che si possa vivere tutta una vita per poi ritrovarsi cieco e solo in mezzo al deserto mi ha paralizzato. Quella notte ci siamo accampati e siamo tornati in città la mattina dopo. Abbiamo contattato l’ufficio per la gestione del territorio di Tonopah e sono andati a prendere il cavallo. Cosa gli sia successo dopo, non lo so. Ma le notti seguenti non riuscivo a dormire. Durante il giorno tutto ciò di cui parlavamo era il cavallo. Guidavamo, ascoltavamo musica, bevevamo e parlavamo. Quando arrivammo a un vecchio sito minerario, ancora più lontano, e vedemmo una baracca di legno con una sola stanza, un ufficio del saggiatore abbandonato, dissi al mio amico che era lì che avrei voluto vivere il resto della mia vita. Dico un sacco di stronzate, ma quella volta non stavo scherzando. Gli ho detto che non ero più tagliato per la brutalità e lo strazio della vita. Che non ero mai stato abbastanza forte e che con l’età mi ero sempre più abbattuto, per giunta. La mia pelle era diventata più sottile, non più spessa. Mi conosce da trentacinque anni ed è sempre stata la stessa storia con me: musica, scrittura, alcol, tenebre e fuga. Gli ho detto che avrei vissuto da solo e che così facendo avrei abbandonato la mia lotta con l’alcol, con la scrittura di canzoni, con i romanzi e con la mia incapacità di fermare cose come un cavallo cieco nel mezzo del deserto. Il mio amico ha semplicemente riso. «Sei sempre il solito vecchio figlio di puttana. In una settimana finiresti le scorte di tequila e birra, ti mancherebbero tua moglie e le tue colonne sonore da spaghetti western, e Criterion Channel. Finiresti per trovare lavoro a Las Vegas, per cercare di rimetterti in sesto e sistemare le cose con tua moglie, rivorresti indietro la tua chitarra e la possibilità di comprare una bottiglia di tequila decente. E una volta ottenuto tutto questo, vorresti un posto dignitoso in cui vivere, una macchina e un cane. Ricomincerebbe tutto daccapo.»
Ho avuto a che fare con autori di canzoni per gran parte della mia vita. Solo un paio ci hanno guadagnato da vivere. E allora perché tutti loro continuano a farlo? Perché Al Ward scrive canzoni sapendo che nessuno le ascolterà mai? Tutto ciò che posso dire è che c’è una specie di sollievo che arriva quando finisci per la prima volta una canzone che pensi sia buona. Una canzone che nessun altro ha sentito. C’è della speranza. È come essere innamorati ma essere gli unici a sapere come ci si sente. O forse è proprio come un drink, come quel momentaneo sentore di paradiso, cavolo se è difficile da abbandonare. Ma come con un drink, l’euforia per una nuova canzone se ne va non appena te ne accorgi, e tutto ciò che puoi fare è cercare di inciampare in un’altra per sentirti di nuovo così. Al Ward ha vissuto la sua vita sul filo del rasoio, sempre in bilico e, purtroppo, sempre nel tentativo di riprendere fiato. Ma non ha mai mollato, e lo amo per questo. E proprio perché non ha mai mollato, ha salvato il cavallo e, con lui, ha salvato se stesso. So che il libro è solo frutto dei miei sogni, ma mi rincuora pensare che il cavallo stia bene, almeno in qualche mondo. Nel mio, è al sicuro con Lonnie, in un pascolo con altri cavalli. Può vedere quanto basta per andare avanti, e non è solo.

La playlist
C’è una malinconia che vive in questo libro, come una canzone triste che sta sempre in sottofondo. In qualche modo, il libro stesso è come una canzone. Al Ward ha attraversato la sua vita scomparendo nella musica, così Amy Baker e io abbiamo messo insieme un elenco di artisti, gruppi e canzoni che compaiono nel libro. Alcuni sono brani che Al ha dovuto suonare nei casinò, altri sono quelli che lo hanno ispirato e altri ancora danno un’idea del suo stile come autore, dagli inizi come musicista da casinò con Bobbi Blue and the Bonnevilles fino agli anni del cowpunk con i Sanchez Brothers. Speriamo che queste canzoni aiutino a descrivere il mondo della musica all’interno di Il cavallo.

Willy Vlautin

sabato 8 marzo 2025

Per l’analisi e la discussione !!

 

Quale futuro per il capitalismo?

Durante la tele-riunione di martedì sera abbiamo ripreso l'articolo "Il grande collasso", pubblicato sulla rivista n. 41 (2017), utilizzandolo come chiave di lettura per inquadrare quanto accade nello scenario mondiale.

Il fenomeno della disgregazione degli Stati si manifesta in diversi forme: dai casi più evidenti di collasso delle amministrazioni politiche (Libia, Siria, Somalia, Sudan, Haiti, ecc.) fino a quelli meno visibili di disfunzione dei servizi pubblici. In un breve video presente su YouTube, intitolato "Il problema dell'Italia è lo Stato che non funziona", Lucio Caracciolo, direttore di Limes, afferma che il problema è l'incapacità non tanto del governo-guidatore, quanto dello Stato-macchina. Nel secondo dopoguerra, in Italia, lo stato ha realizzato piani di edilizia popolare, ampiamente criticati dalla Sinistra. La corrente a cui facciamo riferimento ha scritto numerosi articoli sulla questione abitativa; tra questi, "Il problema edilizio in Italia" (1950) analizza come la Democrazia Cristiana di Fanfani, in combutta con socialisti e "comunisti", abbia continuato, in versione democratica, la politica d'intervento nell'economia nazionale iniziata con il fascismo. Il capitalismo costruiva alloggi popolari, ma anche grandi impianti industriali, per dare lavoro a masse di operai che affluivano dal sud Italia. Era l'epoca dell'occupazione di massa, a tutti era garantita una vita di sfruttamento. Ora, quel modello non funziona più e gli stati devono fare i conti con la crescita della miseria e della disoccupazione. Le metropoli globali sono bombe ad orologeria: alcune sono abitate da 15 o 20 milioni di persone e, senza un adeguato rifornimento di cibo ed energia, rischiano il collasso.

In "Imperialismo vecchio e nuovo" (1950) viene evidenziata la dinamica che porta il sistema capitalistico al crollo, proprio perché incapace di avvicinare gli estremi dei redditi, "non solo tra metropoli e paesi coloniali e vassalli, tra zone progredite industriali e zone arretrate agrarie o di agricoltura primordiale, ma soprattutto fra strato e strato sociale dello stesso paese, compreso quello dove leva la sua bandiera il capitalismo più possente ed imperiale". Douglas Rushkoff, esperto di nuove tecnologie, nel libro Solo i più ricchi: come i tecnomiliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci qui, descrive le possibili soluzioni che i capitalisti stanno sviluppando per il futuro: bunker sulle isole, criptovalute per pagare i contractor-mercenari, scorte di cibo. Se saltassero le catene logistiche, anche chi dispone di derrate alimentari e risorse economiche verrebbe travolto dallo sconvolgimento generale. Ci sono periodi storici in cui avvengono potenti accelerazioni e le settimane valgono anni. Nella società si accumulano contraddizioni tali che, ad un certo punto, devono manifestarsi delle discontinuità. Se fino a poco fa il nemico dell'Occidente era la Russia di Putin e l'Ucraina era sostenuta economicamente e militarmente, ora l'America si sta accordando direttamente con Mosca, senza curarsi troppo di Ucraina ed Europa. Dalla prima amministrazione Trump ad oggi, si è manifestata una lunga serie di rivolte che ha coinvolto numerose aree del pianeta, e gli stessi Stati Uniti si sono trovati a dover gestire un mondo in preda al marasma sociale e alla guerra. I repentini cambi di strategia sono il portato di uno scombussolamento generale. Niente, comunque, che non sia stato previsto dalla nostra teoria; nel 2017 scrivevamo:

«Donald Trump è dunque l'espressione di un movimento economico in corso da tempo e incarna la speranza di un ritorno all'epoca d'oro, esattamente come otto anni fa Barack Obama era l'espressione dell'impoverimento della classe media americana, la quale sperava in un presidente che a parole si presentava come raddrizzatore di torti. Ma se anche avvenisse il rientro completo delle multinazionali auspicato da Trump, cosa impossibile, esse non potrebbero portarsi dietro tutti i salariati che oggi vi lavorano nei vari paesi. E quei salariati non sarebbero sostituiti da salariati americani, a meno che questi ultimi non accettassero di lavorare con salari messicani, cinesi, coreani o vietnamiti. Ogni ristrutturazione prevede l'adozione di nuove strutture organizzative, metodi, tecnologie.»

Se la politica di Roma è decisa a Washington, dove allora quella di Washington? Forze più potenti degli stessi USA, quelle del capitale internazionale, fanno ballare tutti alla propria musica. Il mondo non è più quello post 1945, diviso tra USA e Unione Sovietica. La chiamavano guerra fredda, ma era un mondo che aveva trovato un suo equilibrio. Oggi, come abbiamo detto, siamo al collasso degli stati, diretta conseguenza delle materiali condizioni economiche della struttura produttiva e distributiva. Tale situazione si riverbera sul maggiore paese capitalistico e, a cascata, su tutti gli altri. Da anni gli USA cercano di frenare lo sviluppo della potenza cinese con tutti i mezzi possibili. La guerra, afferma Marx, è il modo di essere della società capitalistica, dove si scontrano borghesie, stati, ma soprattutto classi. I paesi più avanzati stanno spingendo la propria capacità produttiva nel settore degli armamenti, se non altro per essere autonomi. Rafforzare l'industria delle armi e delle munizioni, così come annunciato dall'amministrazione Trump, serve a sviluppare una base produttiva per scopi militari, anche in funzione delle guerre future. Siamo dunque in una fase di inter-guerra che prepara una grande conflitto mondiale tra blocchi imperialistici? Che tipo di conflitto può emergere in un periodo in cui gli stati faticano a controllare sé stessi? Che tipo di guerra può prendere forma con l'impiego di sistemi basati sull'IA? La paura di tutti è un'intelligenza artificiale che inneschi processi del tutto incontrollabili. Gli Stati Uniti si sentono minacciati nel loro ruolo di rentier globale e non hanno più tempo da perdere, ma non c'è all'orizzonte una soluzione praticabile per ritornare ad essere grandi. Dopo l'introduzione dei robot nelle fabbriche, il largo impiego di satelliti per uso civile e militare, e lo sviluppo dell'intelligenza artificiale, cos'altro si può inventare il capitalismo per aumentare il saggio di plusvalore? Se in pochi minuti di lavoro i salariati producono quanto serve per il loro sostentamento, mentre il resto della giornata lavorativa è plusvalore, ciò significa che si è arrivati a raschiare il fondo del barile. Non c'è guerra che possa ridare ossigeno al capitalismo, anche perché la "politi-guerra" americana è già in corso da anni e su scala mondiale. Anche il risultato delle recenti elezioni tedesche è un sintomo della crisi generale del capitalismo. Lo storico partito socialdemocratico è crollato, insieme ai Liberali, mentre ha avuto un prevedibile successo l'AfD, ricevendo il voto di un quinto degli elettori. La Germania si ritrova divisa, anche geograficamente, con la parte est polarizzata intorno al populismo di destra e l'ovest nelle mani della CDU. Fino a pochi anni fa il paese era politicamente ed economicamente stabile, negli ultimi anni è invece cresciuto il malessere sociale a causa della recessione, dell'aumento della disoccupazione e della precarietà. Sul fronte tecnologico, gli USA si stanno organizzando per la costruzione di un enormi datacenter. Stargate, "il più grande progetto infrastrutturale di intelligenza artificiale della storia", come l'ha definito Trump, potrebbe mobilitare fino a 500 miliardi di dollari. L'infrastruttura che rende possibile lo sviluppo dell'IA è estremamente dissipativa e necessita di quantità crescenti di energia e di chip. Il capitalismo è sempre più energivoro, e ciò vuol dire che una parte crescente di plusvalore deve essere destinata ai rentier (e qui si inseriscono le pressioni di Trump su Zelensky per poter mettere le mani sulle terre rare ucraine). Se non si aumenta, a livello globale, la quota di plusvalore da devolvere alla rendita, il sistema semplicemente non funziona più, come abbiamo scritto nel numero speciale sull'energia (n. 31, aprile 2012). Non si tratta solo di produrre plusvalore ma di realizzarlo sul mercato con la vendita delle merci: non tutti possono crescere ed espandere la propria area di influenza allo stesso tempo. I proletari sono sottoposti ad una pressione crescente da parte del Capitale, costretti a ritmi lavorativi infernali in cambio di salari da fame. Essi non hanno nulla da difendere in questa società, dato che sono dei senza riserve. Interessante, a tal proposito, il libro Riot. Strike. Riot: The New Era of Uprisings di Joshua Clover, che sostiene che, nell'era moderna, lo scontro di classe si sta spostando direttamente con lo Stato e nelle piazze, tema da noi affrontato nella newsletter "Rivolta contro la legge del valore" (31 dicembre 2019).

da: N+1 – Quinterna Lab

Inutile negarlo, il tema è interessante “"!!

Esiste un “romanzo futurista”? Questo saggio intende rispondere alla domanda adottando un punto di vista particolare, quello dei rapporti tra avanguardia e pubblico. La produzione narrativa del movimento viene qui suddivisa in tre categorie, ordinate per gradi di complessità formale: dai romanzi più sperimentali a quelli più accessibili, dalla contaminazione verbo-visiva al feuilleton. In un viaggio attraverso le opere di Filippo Tommaso Marinetti, Benedetta Cappa, Paolo Buzzi, Mario Carli, Bruno Corra, Fillia (Luigi Colombo) e altri, emergerà un quadro sorprendente e caleidoscopico della letteratura futurista, a torto ridotta alle sole parole in libertà. Protagonisti di queste pagine sono invece i racconti intermediali, la prosa lirica, generi quali l’erotica e la fantascienza. Ne risulterà un futurismo che, attraverso i romanzi, ha inteso rivolgersi ora a pochi, ora a molti, potenzialmente a ciascuna fascia di lettori. Un’avanguardia per tutti.

(dal risvolto di copertina di: Vincenzo Pernice, "I romanzi del futurismo.. L’avanguardia per tutti". Prefazione di Antonio Scurati, Mimesis, pagg. 292, € 25)

Futurismo avventuroso ed erotico
- di Bruno Pischedda -

Al fondo delle nostre conoscenze circa le avanguardie del primo Novecento sta una questione sin qui troppo elusa, o sottostimata. Possiamo renderla con una domanda: è mai esistito un romanzo futurista, riconoscibile nei tratti e magari anche letto fuori dalle ristrette cerchie di seguaci? Prova a schiarirci le cose un promettente studioso milanese, Vincenzo Pernice, in un volume dal titolo, appunto: I romanzi del futurismo, appena edito da Mimesis. Due sono i maestri che sembrano assistere l’autore nella ricerca: per un verso lo storico dell’arte Maurizio Calvesi, a cui è attribuibile sul finire degli anni 70 un concetto come avanguardia di massa; per altro verso, metodologicamente, Vittorio Spinazzola e la sua idea di un sistema letterario stratificato dove convivono tipologie testuali e pubblici diversi: livello alto, o sperimentale; medio o istituzionale, medio-basso o di intrattenimento. A ciascuno di essi, Pernice fa corrispondere un gruppo di romanzi ispirati al futurismo italiano: da quelli più inclini all’innovatività tipografica e al paro-liberismo, all’ibridismo drammaturgico e filmico; sino a quelli più chiaramente debitori delle poetiche già invalse, finendo con un corpo di narrazioni a sfondo sensazionale e consumistico. Gli incroci, le sovrapposizioni sono frequenti. E il fatto stesso che i  medesimi autori partecipino con più testi in tutte le griglie già suggerisce l’aspetto sperimentale della proposta: su questo terreno i futuristi andavano un po’ a tastoni, saggiavano i vari segmenti del mercato, non rifiutandosi a nulla in termini di principio. C’è d’altronde un problema di comunicazione, giacché dedicarsi a un pulviscolo d’opere spesso di trascurabile valore impedisce una preconoscenza comune tra studioso e lettore (quand’anche a sua volta studioso). Di certi titoli non conoscevamo neppure l’esistenza, altri li abbiamo appena sentiti menzionare da esperti e collezionisti: eppure hanno avuto vita, osserva Pernice, si sono avvalsi di una estesa rete editoriale, in casi non rari hanno anche avuto successo (con punte tutt’altro che trascurabili tra le 20mila e le 50mila copie vendute).
Inutile negarlo, il tema è interessante. Il primo e unico documento che il movimento dedica al genere cardine della narrativa moderna è alquanto tardo, risale alla fine del 1939 e al romanzo sintetico. Manifesto futurista. Tardo e poco incisivo: qui Marinetti, con Luigi Scrivo e Piero Bellanova batte genericamente su caratteri come sintesi, simultaneità, attualismo avvenirista; depreca i suoi stessi tentativi precedenti e si lancia con foga in avanti. Eppure fin da subito noi possiamo contare su opere significative:Mafarke le futuristeè del 1909, Il codice di Perelà risale al 1911, e seguono poi testimoni a dozzine. Il fatto è che «Marinetti e sodali preferiscono comporre romanzi piuttosto che discuterne». Pertanto, se a rigore, per carenza di teorizzazioni e applicazioni conseguenti, non esiste un romanzo propriamente futurista; esiste però una consolidata e diffusa prassi a sfondo narrativo a cui sinora si è posta troppo scarsa attenzione. Il vero è – dice Pernice con Calvesi – che «rispetto alla separatezza del da-da e del surrealismo, il gruppo di Marinetti sarebbe democraticamente e funzionalmente aperto alle masse». E che insomma nel romanzo i futuristi sperimentarono una non maggioritaria ma significativa penetrazione del mercato librario. Basterebbe un occhio attento ai generi più frequentati per avere una visione chiara del fenomeno. In dominante salirebbero allora le narrazioni a sfondo erotico, neo-libertino, dove per programma si aggredisce il sentimentalismo borghese, svalutando matrimonio, famiglia, verginità a favore della lussuria e dell’amore libero. Ossia Marinetti-Corra con L’isola dei baci, 1918 (Capri, ambiente omosessuale); il bestseller del solo Bruno Corra: Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno, 1918, cui seguono Perché ho ucciso mia moglie, dello stesso 1918, Santa Messalina, del 1921; quindi Fillia con L’ultimo sentimentale e L’uomo senza sesso, 1927, relativamente alla sconsacrazione dell’eros e alla ricerca di un nuovo equilibrio tra i sessi. E ancora possiamo reperire forme primordiali di fantascienza in volumi come Una donna con tre anime di Rosa Rosà, 1918; La fine del mondo di Volt, 1921; Viaggio al pianeta Marte di Enzo Benedetto, 1926. Infine ecco il grande romanzo di avventure, con risvolti politici e spionistici: Lo Zar non è morto, del 1928, un romanzo a cui misero mano ben dieci autori, tra i più diversi e noti del periodo (Marinetti, Bontempelli, Zuccoli, ecc.). Generi insomma a forte statuto fattuale, imprevedibile, che rimandano a più lontani assetti narrativi. E dice bene Pernice, confermandosi acuto osservatore: laddove gli storici della letteratura tendono «a considerare il romanzo modernista la naturale evoluzione del "novel" sette-ottocentesco, viceversa i romanzi delle avanguardie appaiono, per molti aspetti, procedere sul binario parallelo del romance». Un’acquisizione di non poco conto, magari di per sé non sufficiente a ridisegnare i quadri entro cui si manifestò il romanzo italiano primonovecentesco, però necessario punto di aggiornamento, giusta escavazione da cui ripartire: sia riguardo all’esclusivismo elitarista, che solitamente si annette al concetto stesso di avanguardia; sia riguardo allo scarso interesse che un movimento apologetico della modernità come il futurismo avrebbe mostrato rispetto al genere fondamentale tramite cui in letteratura si è espresso il moderno.

- Bruno Pischedda - Pubblicato su Domenica del 19/5/2024 -

venerdì 7 marzo 2025

Bourbon, Jeans, Harley-Davidson e Noccioline… e tanto gas liquefatto…

Un passo via l'altro, nella Crisi
- Con la sua politica tariffaria protezionistica, la nuova amministrazione statunitense sta inaugurando l'
addio all'era della globalizzazione neoliberista -
di Tomasz Konicz

È probabile che il protezionismo diventi la nuova normalità. Il primo riflesso della nuova amministrazione statunitense, sulla politica estera, è stato quello quello di fomentare dei conflitti commerciali. All'inizio di febbraio, pochi giorni dopo il suo insediamento, il presidente Donald Trump ha imposto dei dazi punitivi sulle merci provenienti da Cina, Canada e Messico. L'aumento dei prezzi all'importazione di beni provenienti da Messico e Canada, pari al 25%, è stato molto più elevato rispetto a quello sulla Cina, i cui beni sono stati soggetti a dazi doganali aggiuntivi del 10%. Per tutti e tre i paesi, con i quali registrano  surplus commerciali, gli Stati Uniti sono di gran lunga il partner commerciale più importante. Ma mentre i dazi contro la Cina sono entrati effettivamente in vigore il 3 febbraio, Trump ha invece sospeso per 30 giorni l'attuazione delle misure protezionistiche nei confronti dei paesi confinanti a nord e a sud degli Stati Uniti. Contemporaneamente, il governo degli Stati Uniti ha avviato trattative con Messico e Canada, nel corso delle quali continua a permanere la minaccia di tariffe punitive. In realtà, Trump è già riuscito a ottenere delle concessioni significative: sia il Canada che il Messico hanno accettato di rafforzare i controlli alle loro frontiere con gli Stati Uniti. Il Messico prevede di mobilitare circa 10.000 soldati per proteggere il suo confine, in modo da non mettere così a repentaglio la sua posizione economica di regione di confine settentrionale, quasi come se fosse un'estensione degli Stati Uniti. In realtà, il presunto protezionismo economico di Trump costituisce uno strumento di potere geopolitico che può essere utilizzato per estorcere concessioni. Nel caso del Messico, che è particolarmente sensibile alla pressione economica degli Stati Uniti - avendo sviluppato una crescente dipendenza economica dagli USA a seguito della strategia di nearshoring statunitense - l'obiettivo è quello di isolarsi meglio rispetto ai movimenti migratori. Mentre il Canada, da parte sua, appare costretto a una maggiore integrazione nell'economia statunitense: la prevedibile lotta per le risorse e per le rotte commerciali dell'Artico, in rapido scioglimento, rende quantomeno comprensibili le bizzarre richieste di annessione fatte da Trump riguardo Canada e Groenlandia.

   La Cina invece, da parte sua, ha immediatamente annunciato delle misure di ritorsione: ora, gli aumenti tariffari introdotti includono il 15% sulle fonti energetiche e il 10% sui macchinari agricoli, sui pezzi di ricambio per camion e altri prodotti simili provenienti dagli USA. Ma in queste guerre commerciali, il governo cinese si ritrova in mano la parte più corta del bastone. Nel 2024, il deficit commerciale degli Stati Uniti ha raggiunto la cifra esorbitante di 918,4 miliardi di dollari, dei quali 295,4 miliardi di dollari appartengono alla sola Cina. E anche se inizialmente entrambe le parti subirebbero degli svantaggi economici in un conflitto commerciale, soprattutto se visto nell'attuale fase di crisi stagflazionistica - ad esempio sotto forma di un'inflazione più elevata - bisogna dire che un'escalation finirebbe per colpire sempre più duramente proprio quell'economia che ha un surplus di esportazione, rispetto al paese in deficit, il quale può quanto meno sperare di riuscire a sostituire le importazioni gravate da dazi, grazie a un aumento della produzione interna. L'Unione Europea si trova in una situazione simile, questo perché, dopo la crisi dell'euro, si è orientata verso il modello economico tedesco incentrato sulle esportazioni, e arrivando così, nel 2024, ad avere un surplus commerciale di 235,5 miliardi di euro con gli Stati Uniti. Circa il 20% di tutte le esportazioni dell'UE è destinato agli USA, che rappresentano così il mercato di vendita più importante per l'Europa. I dazi speciali del 25%, su acciaio e alluminio imposti da Trump a metà febbraio, sono stati immediatamente definiti illegali dall'UE. La Commissione europea ha sostenuto di non vedere «alcuna giustificazione per l'imposizione di tariffe sulle esportazioni», e ha minacciato delle contromisure per poter «proteggere gli interessi delle aziende, dei lavoratori e dei consumatori europei, da misure ingiustificate».

   Questa costituisce solo la prima salva sparata da Trump, in quella che sarà la futura guerra commerciale transatlantica, poiché saranno solo pochi produttori dell'UE a esserne sostanzialmente colpiti. Il surplus commerciale dell'UE è dovuto principalmente alle automobili prodotte in Germania, ai macchinari e ai prodotti farmaceutici: così, il 18 febbraio Trump ha minacciato tariffe punitive del 25% su automobili, semiconduttori e prodotti farmaceutici. Inoltre, il settore agricolo dell'UE ha attirato l'ira del governo USA, a causa di alcune restrizioni commerciali imposte dall'UE, come quelle contro il famigerato pollo al cloro degli Stati Uniti. Il settore agricolo dell'UE sa esattamente cosa lo aspetta. A cavallo dell'anno, le esportazioni agricole dell'UE verso gli Stati Uniti hanno raggiunto il livello più alto mai raggiunto negli ultimi 15 anni. In previsione delle prossime barriere commerciali, attualmente stiamo creando «montagne di burro, piramidi di formaggio e laghi di latte» per l’esportazione, ha riferito l’Austrian Standard. Trump, ha già lasciato intendere ai rappresentanti dei media che la sua amministrazione sta lavorando a un'offensiva protezionistica su vasta scala, la quale probabilmente colpirà duramente l'UE. In linea di principio, i prossimi dazi statunitensi dovrebbero essere imposti contro i singoli paesi dell'UE, e non contro l'intera area economica, con il fine di promuovere tendenze divisive all'interno dell'UE, in modo da rendere così più difficile all'UE sviluppare una controstrategia comune, e per premiare con delle esenzioni quei paesi governati dagli alleati ideologici di Trump, come l'Ungheria. Attualmente, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti sta compilando un elenco di paesi che hanno adottato «pratiche commerciali sleali» con l'obiettivo di imporre loro delle "tariffe reciproche”. È quasi certo che le case automobilistiche tedesche in difficoltà dovranno affrontare dei nuovi oneri, dal momento che i dazi sulle importazioni di automobili nell'UE sono pari al 10%, e sono di gran lunga più elevati di quelli degli USA (2,5%). Il panico crescente risultava già evidente nell'annuncio pubblico fatto dal CEO della VW, Oliver Blume, che aveva dichiarato di voler avviare dei colloqui diretti con il governo degli Stati Uniti. Probabilmente anche l'industria meccanica tedesca dovrà fare i conti con degli aumenti tariffari. Nel caso il conflitto commerciale con gli Stati Uniti dovesse intensificarsi, le previsioni indicano, soprattutto per la Germania, un'ulteriore recessione economica, fino all'1,5% del prodotto interno lordo.

Per l'Unione Europea, quali misure di ritorsione rimangono?
   Bourbon, jeans, Harley-Davidson, e noccioline: sono queste, per l'Unione Europea, le misure di ritorsione che rimangono? A Bruxelles e a Berlino sono di certo consapevoli del fatto che l'Unione Europea è svantaggiata, per quel che riguarda i conflitti commerciali, a causa del suo surplus nelle esportazioni. Finora, all'orizzonte si vedono, segnalate, solo una proposta di compromesso e una contro-minaccia fatta al governo degli Stati Uniti. L'UE sembra intenzionata ad acquistare maggiori quantità di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti, oltre a ridurre le tariffe sui veicoli statunitensi, in modo che così si possa ridurre anche il deficit statunitense. Sulla base dell'esperienza protezionista maturata durante la prima presidenza Trump, l'UE aveva già adottato, alla fine del 2023, un regolamento che consentisse rapide misure di ritorsione nel caso in cui, contro l'area monetaria europea, venisse utilizzata l'arma della "coercizione economica". Ma stavolta non si tratta solo dell'importazione di beni, ma anche di servizi. Ciò potrebbe causare dei problemi ai giganti informatici statunitensi, come Alphabet, Meta o Amazon, i quali si sono immediatamente adeguati alle aspirazioni autoritarie di Trump. Tuttavia, in termini di politica economica, difficilmente si può parlare di un'inversione di tendenza nella politica statunitense. Si tratta piuttosto di un'ulteriore intensificazione di quelle che erano state tutte le precedenti tendenze restrittive al commercio, dal momento che l'amministrazione di Joe Biden aveva anche prorogato, in forma modificata, le medesime misure protezionistiche del primo mandato di Trump, soprattutto sotto forma di programmi di stimolo economico, de quali hanno beneficiato in particolar modo i produttori nazionali. Ed è proprio nel crescente protezionismo che appare sempre più evidente il processo di crisi. La lotta per i surplus commerciali, è un'espressione concreta delle barriere interne a un Capitale sempre più soffocato dalla sua propria stessa produttività, finora superate solo nel quadro delle economie deficitarie neoliberiste, soprattutto negli Stati Uniti. Ora, Trump sembra stia dando inizio a una rottura definitiva con quella che è stata l'era della globalizzazione neoliberista, la quale aveva finora prodotto dei giganteschi cicli di deficit, alimentati dalla formazione di bolle speculative. Gli Stati Uniti - con il dollaro in quanto valuta leader a livello mondiale - si trovano al centro di questa bolla economica finanziaria, nella quale i deficit commerciali statunitensi fungono da programma di stimolo economico globale, fino a quando la conseguente deindustrializzazione non ha portato a un diffuso sconvolgimento sociale, e a un'instabilità politica in quegli Stati Uniti, che ora hanno portato alla Casa Bianca le forze populiste di destra. Adesso, al loro secondo tentativo, sembrano più determinate che mai, non solo a promuovere il fascismo in patria, ma anche a far rivivere nella politica economica il devastante protezionismo degli anni '30, che all'epoca riuscì a esacerbare la Crisi.

- Tomasz Konicz - Pubblicato il 27/2/2025 su Jungle World -

I “Fanatici della Valorizzazione”…

In risposta ad alcune domande e, talvolta, a qualche fraintendimento su alcuni concetti della "Critica della Dissociazione del Valore" e della "Teoria Critica",  quella che segue è una presentazione dei diversi termini di "Astrazione Reale" e "Dominio Senza Soggetto" (come dice Marx); concetti questi, che di solito usiamo nella Nuova Critica Anticapitalistica.  Quella che segue è quindi una semplice esposizione dei concetti di “Astrazione Reale” e di “Dominio senza Soggetto” (sempre per dirla con Marx) che abitualmente utilizziamo. Questa esposizione si articola brevemente intorno alla questione dell'individuo e della classe, e alla necessaria Critica del “materialismo storico”, in quanto esso appare legato al pensiero borghese, e in contrasto con il modo in cui i concetti di cui sopra vengono di solito affrontati nel sotto-pensiero marxista tradizionale.

Astrazione Reale e Dominio senza soggetto sotto il Capitalismo
- di Kritik de la valeur-dissociation, repenser la théorie kritik du capitalisme -

Il materialismo storico non può essere applicato in quanto tale, dal momento che esso ignora il meccanismo fondamentale costitutivo delle società umane fino a oggi. Nel capitalismo, la produzione materiale, il lavoro e il consumo di merci – vale a dire, "l'economico" – non coincidono con quelle che sono le possibilità che corrispondono a un processo metabolico dell'essere umano con la natura. Detto in altri termini,  il capitalismo non ha come obiettivo la soddisfazione dei bisogni umani concreti, come la casa o il cibo. Secondo Robert Kurz, nella sua lettura di Marx, condivisa anche da altri interpreti, all'interno della forma sociale capitalistica, il "valore d'uso" delle merci, gli "interessi materiali" degli individui e delle classi - ovvero, la "produzione materiale" presentata come se costituisse la cosiddetta base economica trans-storica - costituiscono solo il volto apparente di una realtà assai più fondamentale e storicamente specifica, di cui esse sono solo le forme fenomeniche:  il valore come processo di accrescimento, ovvero, il fine in sé del capitale che si realizza come auto-moltiplicazione del denaro.

Questo valore in processo, descritto da Marx come "Hirngespinst" (fantasmagoria), è un'astrazione reale, e non una semplice astrazione nominale, un'illusione, una manipolazione ideologica, un'invenzione intellettuale o una proiezione puramente ideologica (o religiosa, mitologica, ecc.). Ed è questo capitale a costituire un'astrazione materializzata, “operante” nella pratica economica, incarnandosi in degli atti concreti di produzione e di scambio, che si svolgono in una abitudinarietà sociale, nei corpi e nella soggettività, diventando così una “proiezione feticista” nella quale la materia e la pratica diventano l'espressione concreta dell'astrazione. Seguendo il pensiero di Alfred Sohn-Rethel, va sottolineato che l'astrazione reale non è un mero costrutto ideologico, o un errore cognitivo, quanto piuttosto un processo oggettivo radicato nella stessa pratica sociale capitalistica. L'astrazione reale non rientra nelle categorie tradizionali della teoria della conoscenza; come lo sono la falsa coscienza, o il semplice travisamento del mondo. Al contrario, questa astrazione si produce a partire dai  gesti materiali degli individui, che essi svolgono nella loro attività sociale. Non si tratta di un'astrazione che avviene nella testa degli individui, bensì di un'astrazione che si svolge proprio nell'attività del lavoro stesso e attraverso di essa, indipendentemente dalla coscienza dei partecipanti. L'astrazione reale costituisce una struttura che è immanente alle relazioni sociali stesse. Si trova inscritta nella materialità del lavoro che produce merci, ed è questo ciò che la rende così potente: essa funziona indipendentemente dalla volontà, o dalla coscienza degli individui. È così che Marx descrive il capitalismo come un mondo in cui «gli individui sono dominati da delle astrazioni, mentre prima invece dipendevano l'uno dall'altro»;  vale a dire che il mondo si concretizza in un'azione-feticcio immediata, compiuta in tale forma sociale.  Il processo che porta il denaro a muoversi su sé stesso viene paragonato a un «Moloch, cui viene sacrificata la vera ricchezza» (Grundrisse). Pertanto, al centro della socializzazione moderna si trova quella vera astrazione che Marx definisce come forme oggettive o oggettivate di pensiero, e che costituiscono  delle «forme ossificate di pensiero sociale, che organizzano pratiche e istituzioni sulla testa degli esseri umani». È questa vera astrazione, ciò che plasma i "corpi delle merci" (Marx), disciplina la soggettività e la corporeità vivente sfruttata (e non sfruttata), riduce la natura a mero supporto per la propria espansione, mentre la divora e la distrugge sul proprio cammino, così come fa con tutto ciò che trasforma in un concreto astratto. Tutto quanto il vivente e il sociale, sia nelle società storiche premoderne come negli individui concreti, viene dominato in maniera transclassista e transculturale da questa astrazione omogenea e totalizzante, da questo «looping cibernetico dell'astrazione reale, "valore", su sé stessa», che sintetizza, riproduce e antagonizza una nuova società a sua immagine e somiglianza, prima che si autodistrugga, alla fine della sua traiettoria storica, senza che gli individui possano pensarla diversamente se non attraverso gli automatismi sociali.

Gli individui e le classi funzionali - impegnati nei diversi momenti del processo-feticcio che li domina  e che essi attualizzano e riproducono attraverso l'azione-feticcio immediata -hanno valore, in relazione l'uno all'altro, solo in base al loro posto e al loro ruolo nella riproduzione del capitale. Una vera e propria astrazione che - come se fosse una nuova testa di Medusa che emerge dalle fondamenta delle moderne relazioni sociali - reifica in tal modo gli esseri umani in quanto meri ingranaggi di un movimento tautologico e distruttivo; ma non di certo come se essi fossero delle "marionette". Tale approccio supera la critica sociologica incentrata sulle classi sociali e sugli “interessi materiali” e su un concetto rinsecchito di dominazione soggettiva, ancora radicato nel modo di pensare borghese, per riuscire così a cogliere il dominio trans-classe delle forme sociali del sistema moderno. Si tratta infatti di un dominio senza soggetto, astratto e impersonale, costitutivo di automatismi sociali, dei quali il funzionale “dominio di classe” è solo un'espressione fenomenologica tra le altre. Pertanto, il materialismo storico può essere criticato in quella che è la sua superficiale comprensione del dominio sociale nel capitalismo. La relazione sociale capitalistica - al suo livello fondamentale - non è una semplice e pura relazione di volontà, o di interesse, o di violenza, e non è nemmeno un carattere ideologico-simbolico (vale a dire, l'imposizione di una "ideologia dominante"), né tantomeno si tratta di un semplice dominio diretto, esercitato da certi uomini su altri uomini, che viene così ridotto al vantaggio personale di un gruppo, di un'istituzione, o di una classe. Il capitalismo non esiste perché una classe o un individuo abbia un "interesse" in esso, o perché esercita il proprio potere sul resto della società. Questa riduzione utilitaristica e soggettivista del "dominio" (o del "potere") può essere trovata in tutte le teorie moderne, tanto di sinistra quanto di destra. Nelle teorie non marxiste o non liberali del dominio, «l'utilità economica astratta» - sottolinea Kurz - «viene a essere semplicemente sostituita da un'utilità altrettanto astratta di "puro potere". Laddove il marxismo comune presuppone una base ontologica per quello che sarebbe “l'interesse economico”, le altre teorie borghesi del dominio assumono invece, o la base biologica di una “pulsione di potere” (o di una pulsione di aggressione) geneticamente radicata o, come minimo, delle componenti antropologiche e a-storiche». Queste teorie riconducono il dominio storicamente specifico del capitalismo alle caratteristiche “particolari” di un puro agente di volontà individuale o collettiva (una classe) che,  a partire dalla sua “volontà di sfruttamento” o di “dominio”, creerebbe il capitalismo. In realtà, le categorie che di solito accompagnano la definizione di dominio non sono affatto ciò che sembrano.

Come osservava Adorno, in maniera ancora parzialmente sociologica, «"ciò che vogliono"  potrebbe essere esso stesso il risultato della società di classe». A causa delle forme sociali in cui vengono assunti a priori, i fini e gli interessi individuali non vengono determinati dagli individui stessi, dal momento che i fini e gli interessi non sono delle categorie primarie e trans-storiche, bensì categorie già derivate, e storicamente specifiche:  sono i punti di applicazione di un meta-principio storicamente specifico che si lega alla falsa universalità negativa del capitale, che li determina e di cui essi sono l'espressione secondaria. Pertanto, la "soggettività", i "desideri", la "volontà", gli "interessi", la "violenza" dei capitalisti e "l'ideologia dominante" vanno tutti sempre considerati a partire dalla mediazione con "qualcos'altro", con il principio più fondamentale di una forma che li determina a priori: vale a dire, l'esecuzione del meccanismo proiettivo metafisico-reale della valorizzazione del valore/lavoro astratto. Ragion per cui, in superficie, gli individui perseguono i loro interessi e sembrano usarsi l'un l'altro per i loro fini individuali – cosa che in realtà credono solo di fare – ma «realizzano su di sé un fine assai diverso, un fine sovra-individuale e senza soggetto: il fine del movimento autonomo (valorizzazione) del denaro». Il potere del capitale non può perciò essere ridotto al "dominio di classe", poiché esso costituisce un meccanismo di dominio al quale tutti sono sottomessi, sebbene in modi differenti. Come sottolinea Kurz, «coloro che impongono il proprio dominio, hanno anche sempre qualcosa che viene imposto loro; essi non dominano mai realmente per il proprio bisogno o per il proprio benessere, ma per qualcosa che semplicemente rimane al di fuori di loro.»: i capitalisti «eseguono qualcosa che è alieno e apparentemente esterno rispetto a loro» (a tal proposito, vediamo che Marx definisce i capitalisti chiamandoli gli "ufficiali" e i "sottufficiali del capitale"),  docili esecutori, subordinati al processo di valorizzazione, che va tanto a loro proprie spese, quanto a quelle di altri). Il dominio sotto il capitalismo va pertanto pensato in modo diverso. Esso viene strutturato secondo quelle che sono delle forme sociali trans-classiste, "astratte" e "oggettive", e riveste un carattere impersonale, indiretto e astratto. A quello che è il suo livello più fondamentale, il dominio del capitalismo è il «dominio degli uomini esercitato per mezzo di strutture sociali astratte che gli uomini stessi costituiscono».  Marx coglie questo rapporto capitalistico per mezzo del concetto, sorprendente e paradossale, di «soggetto automatico» (a un altro livello di astrazione, più fenomenologico, egli parla di «vincolo silenzioso», di «fili invisibili»). Paradossalmente, i veri “attori” della società feticista-mercantile non sono né i capitani d'industria, né gli imprenditori, né gli amministratori delegati (“CEO”), né i fieri lavoratori dalle mani callose, bensì un astratto valore-lavoro, in quanto vera e propria astrazione reale in movimento incrementale (D-M-D'), il quale esiste solo mediante l'azione feticcio trans-classista degli individui i quali ne eseguono la sua logica, secondo quelli che sono i diversi ruoli e le diverse classi sociali necessarie a questo processo di auto-divoramento. Quegli attori che indossano l'uniforme del soggetto della volontà, dell'azione, e della conoscenza nel capitalismo - siano essi individui, classi o istituzioni - sono in realtà delle "maschere di carattere", sono i "portatori" e le élite capitalistiche di funzione (Marx parla spesso degli individui in quanto "agenti") di questo processo di astrazione reale in movimento del Capitale. Il valore, veicolato dall'azione-feticcio immediata degli individui vincolati ai ruoli e alle classi che essi incarnano, diventa, - spiega Marx - il vero soggetto del processo globale. La logica del capitale si manifesta sotto forma di un movimento autonomo che cresce e si sviluppa attraverso le azioni degli individui, nel flusso materiale e in tutta la devastazione ecologica che tale movimento accompagna. In un certo qual senso, l'astrazione reale si è come antropomorfizzata nel materiale umano, ne è diventata il suo supporto adeguato, e così praticamente lo riproduce, a sua insaputa. In quanto tale, la classe borghese è una "classe dominante", ma lo è solo attraverso questa forma-contesto di dominio senza soggetto, di cui è essa stessa il docile oggetto; non si tratta tanto del potere, quanto dell'estatica sottomissione all'astrazione che la muove. Essa costituisce una classe funzionale, quella dei "fanatici della valorizzazione" (Marx); cosa che la rende soprattutto solo una classe redditizia, e non "dominante" nel senso tradizionale del termine borghese-marxista.

Se la produzione materiale della vita sociale umana sotto il capitalismo, in quanto mezzo di produzione di plusvalore, non è una pura necessità oggettiva e trans-storica, ecco che allora il materialismo storico può e deve essere criticato per aver erroneamente identificato tutto ciò che è "economico" (la produzione materiale sotto il capitalismo) con il metabolismo umano con la natura (una definizione "sostanziale" dell'economia, questa, condivisa con Karl Polanyi);  o, detto in altre parole, va criticato in quanto forma di teleologia vitale della vita. Come si è detto, la “produzione materiale” e il “consumo” sotto il capitalismo - che sono sempre la produzione e il consumo della merce - non hanno assolutamente niente di “materiale”, e teoricamente non possono essere intesi in maniera “materialista” dal punto di vista della critica marxiana dell'economia politica. Le relazioni, così come i beni reificati sotto forma di merci, che nell'economia si istituiscono tra gli individui, non hanno origine da questi ultimi, e non trovano in essi la loro ragione d'essere. Ontologicamente, un prosciutto o un servizio di pulizie, rappresentano sempre qualcosa più di un maiale, di una festicciola a base di tartine o di un pavimento e delle stanze perfettamente puliti, ma si presentano immediatamente come una cristallizzazione del lavoro astratto, come un mezzo per la valorizzazione del capitale fatta attraverso la proiezione dell'astrazione reale e il meccanismo dello sfruttamento, che dall'allevamento e arriva fino al macello, passando per le catene agroindustriali e l'industria alberghiera. Tutti i prodotti recano il marchio della medesima proiezione-feticcio. Pertanto, queste relazioni, beni e servizi sono già, a priori, “pieni di sottigliezze metafisiche” (Marx), sono quindi sottomessi alla produzione, che si suppone illimitata, di un'astrazione in processo, materializzata negli atti di produzione e di scambio, nelle merci, nei corpi e nelle “tecniche corporali”, nelle soggettività, nella psiche umana e nell'affettività, nell'industria culturale, nell'assetto del territorio e nel denaro. Di tutto ciò, la produzione e il consumo di merci, viste nel loro carattere, tanto di valore quanto di valore d'uso, ne sono le manifestazioni concrete. In tal senso, il capitalismo, in quanto modernità produttrice di merci,costituisce una società concretamente animata e riprodotta grazie alla realtà metafisica di un principio astratto materializzato, il quale funziona socialmente, nella sua costituzione e riproduzione, assumendo le caratteristiche e i tratti di un “idealismo reale” che si concretizza nella valorizzazione del valore. Infatti, Marx descriveva la merce prodotta e venduta come "sensibile-sovrasensibile". La merce è «una miscela di materiale e di ideale», osserva Anselm Jappe, «con il primato dell'ideale». Il concreto viene prodotto in quanto esso è il divenire-concreto di un'astrazione; l'utilità (il valore d'uso) si trova già sempre modellata nella sua forma di utilità astratta, determinata dall'astrazione reale. «Con il capitalismo», prosegue Jappe, «in questa vera e propria inversione feticistica che fondamentalmente lo caratterizza, il cielo è [in tal modo] disceso sulla terra: la dimensione sovrasensibile, metafisica, dell'esistenza sociale [...] si trova ormai presente fin nei più piccoli oggetti, e nelle più piccole azioni della vita quotidiana. […] Quello che vediamo è il mondo veramente a rovescio; rispetto al quale la dialettica hegeliana è la sola descrizione adeguata: è la vera descrizione di una falsa realtà. Quindi non ha bisogno di essere riportata coi piedi per terra, come hanno ripetuto generazioni di marxisti: è la realtà, descritta come dominata da delle astrazioni, quella che ha bisogno di essere riportata coi piedi per terra.» Di conseguenza, se la teoria vuole porsi sul piano dell'astrazione del suo oggetto, il quale è anche esso stesso un'astrazione, ha bisogno di ricorrere a un vocabolario che sembra essere preso in prestito dai difetti della filosofia idealistica, ma che nei fatti rivela quale sia il paradosso di tale oggetto, sia materiale che ideale. Conseguentemente, l'economico e l'economia non possono essere interpretati come se fossero il prodotto del «disincastramento» di quella che viene vista come una «sostanza economica» trans-storica e trans- culturale preesistente, amalgamatasi con quelle che, nelle società non capitalistiche, erano le altre relazioni sociali; come pensava ancora Karl Polanyi. Nella modernità, il dominio circoscritto appartenente alla "economia" costituisce perciò una forma di astrazione storicamente specifica di quella che è la forma capitalistica della vita sociale. Queste dimensioni storicamente specifiche, costituiscono la materializzazione concreta, il supporto materiale, di un'astrazione sociale inscritta nel cuore del sistema capitalistico. La «realtà economica», in quanto sfera funzionale della logica del capitale, non si «disincastra» da sé sola: essa emerge radicalmente nella sua forma di vero e proprio paradosso costitutivo di un «dominio materiale-astratto», il quale è specifico della formazione sociale capitalistica; e ciò avviene nel corso della sua genesi tra il XVI e il XVIII secolo. Ed è in questo senso  che «l'economia» e «l'economico» non possono essere considerate come una "invenzione" degli economisti o come il risultato della loro "propaganda"; come hanno sostenuto Serge Latouche e Jean-Pierre Voyer, sebbene in modo diverso. Né l'economia può essere interpretata in modo culturalista - come fa Marshall Sahlins - e neppure per mezzo del prisma di un'antropologia del simbolico, alla maniera di Jean Baudrillard. Sahlins, come ha sottolineato anche Postone, ipostatizza la categoria di "cultura", senza alcuna mediazione, e così fa derivare il capitalismo da quella che egli chiama «cultura capitalista». Se questa dimensione del livello culturale-simbolico della strutturazione della vita sociale sotto il capitalismo, è davvero importante e pertanto va presa in considerazione, essa non può essere eretta a principio esplicativo autonomo. La "cultura capitalista" evocata da Sahlins va integrata nel paradigma di Roswitha Scholz - in connessione con la sua teoria dei livelli - e va situata nel quadro di una totalità spezzata, appresa attraverso un concetto non hegeliano di totalità, a un meso-livello culturale-simbolico e socio-istituzionale.

Il materialismo storico, viene a essere smascherato anche da Kurz, in quelle che sono le sue false arie rivoluzionarie di opposizione al pensiero borghese: «esso appartiene completamente all'eredità borghese dell'Illuminismo, al Marx della modernizzazione e del movimento operaio». Con il suo identificarsi nello sviluppo delle "forze produttive", viste come motore della storia di tutta l'umanità, a partire dalla preistoria, esso non è altro che «la proiezione sulla Storia di quella che è una dialettica speculativa specificamente capitalistica; la quale viene così resa positiva, vista in un continuum di "progresso" che obbedisce a una logica che è relativa al suo modo di formazione sociale». Il cosiddetto "corso necessario della Storia", insieme ai concetti ereditati dall'Illuminismo del progresso e dell'evoluzione, così come l'idealismo oggettivo di uno Spirito universale realizzato attraverso la metafisica del progresso, vengono tutti riciclati sotto quella che è una forma volgarizzata ed escatologica: una visione trionfalistica dei presunti "modi di produzione" in successione, accompagnati dai loro modi di pensiero, coronati dall'avvento finale, non della "civiltà" borghese, ma del "socialismo operaio". Questa lettura "materialista" della storia, particolarmente presente nel giovane Marx, postula che ogni formazione sociale procede dalla negazione della precedente, «pur recuperando qualcosa, vale a dire le "forze produttive materiali" che in ogni tempo via via sono diventate troppo strette per la vecchia formazione precedente». In una simile prospettiva, propria della modernità mercantile e del suo regime di storicità, sia nella sua affermazione "idealistica" che in quella "materialista", le forme di socializzazione e le categorie che ad essa sono proprie, vengono in tal modo de-storicizzate e ontologizzate, per poi retro-proiettarsi sulle società passate. Con la sua metafisica della Storia, ereditata dall'Illuminismo, con la sua ontologizzazione e positivizzazione delle moderne categorie esclusivamente capitalistiche, il materialismo storico doveva per forza portare logicamente a una teoria della rivoluzione concepita come una modernizzazione in ritardo, di recupero, operante all'interno di categorie capitalistiche che non vengono messe in discussione. Così, da Marx a Lenin, e in tutte le dittature "socialiste" basate sulla Modernizzazione recuperatrice, la rivoluzione viene sottomessa agli imperativi dello "sviluppo delle forze produttive" e della "missione civilizzatrice" del capitalismo.

- Kritik de la valeur-dissociation, repenser la théorie kritik du capitalisme -

mercoledì 5 marzo 2025

“Eliminazionismo” !?!!

In che modo i marxisti si sono sempre opposti al sionismo
- Un estratto di “Dove falliscono gli schematismi e le semplificazioni”, un testo scritto da Jacob Gorender nel 1998 come prefazione alla prima edizione di “Marxismo ed ebraismo”. -
- di Jacob Gorender -

In effetti, come suggerisce il titolo di questo libro ("Marxismo e Judaismo"), l'approccio del marxismo alla questione ebraica non è stato facile. Accanto a una raccolta di studi illuminanti, indubbiamente preziosi, il marxismo registra anche non pochi scivoloni, quando teorici e ricercatori adepti del suo metodo cercarono di spiegare che cosa fossero e siano gli ebrei, le cause dell'antisemitismo, e le proposte socialiste per la questione ebraica. Frutto di una tesi di master, approvata con lode dal Dipartimento di Storia dell'Università di San Paolo in Brasile, il lavoro di Arlene Elizabeth Clemesha offre un'escursione straordinariamente interessante che attraversa le sinuose complessità della materia. Il testo, snello e accessibile, si distingue per erudizione e un frequente uso di fonti originali (ad eccezione di quelle in lingua yiddish), ivi compresa una bibliografia aggiornata e ricca. Il punto di partenza dell'escursione è relativo alla prima manifestazione di Marx sull'argomento: un'opera del 1843 intitolata "Sulla questione ebraica". Quando la scrisse, Marx non aveva ancora dato una formulazione conclusiva alla teoria del materialismo storico, poi associata al suo nome. Ma il suo lavoro procedeva bene e “Sulla questione ebraica” è stato considerato come uno dei più importanti contributi alla rivoluzione, che il suo autore ha dato nel campo delle scienze storiche. Il libro ha poi acquisito anche un altro significato; cosa che lo rende ancora più importante, se visto nel contesto della ricerca di Arlene Clemesha. Alcuni autori lo considerano un'espressione di antisemitismo, e lo vedono persino come una proposta genocida, la quale anticiperebbe addirittura la "soluzione finale" nazista. E visto che Marx stesso era di origine ebraica, questi autori spiegano il suo antisemitismo come se fosse stato una reazione psicologica estrema di ripudio delle radici della sua identità.

 L'autrice si impegna così a dimostrare quali sono gli equivoci e gli errori grossolani di una simile interpretazione. Marx, infatti, svolge una dura critica dell'ebraismo in quanto religione, caratterizzandolo come la religione che assegna priorità alla necessità pratica, all'interesse egoistico. Simultaneamente, egli afferma anche che la società borghese ha assorbito lo spirito dell'ebraismo, dando anch'essa priorità alla necessità pratica. Nella società borghese, il cristianesimo si era giudaizzato. In questo modo, l'emancipazione civile degli ebrei, sebbene costituisse un importante passo progressivo, non li avrebbe liberati dalle limitazioni e dalle oppressioni insite nella condizione borghese. Il fine supremo, pertanto, non avrebbe potuto essere l'emancipazione civile, bensì l'emancipazione umana. L'articolo si concludeva con l'affermazione secondo cui emancipare socialmente l'ebreo, equivale a emancipare la società dall'ebraismo. Vale a dire, liberarlo dai suoi vincoli con l'egoistico bisogno pratico immanente ai rapporti mercantili. Ora, come ci avverte H. B. Davis, Marx non dice nulla sulla religione ebraica che non dica anche della religione cristiana. Creatore della concezione filosofica materialista più radicale, Marx è stato un critico intransigente di tutte le religioni. Il periodo storico in cui ha vissuto Marx ebbe a segnare, nell'Europa occidentale, un forte declino dell'antisemitismo. Gli ebrei lasciarono i ghetti, e cominciarono a godere dei diritti civili e politici. Dopo l'articolo sopra citato, Marx allora non era più tornato a trattare la questione ebraica, in una sua qualche opera particolare. Si era limitato a fare alcuni riferimenti scarsi e occasionali, come quello che si legge nella prima delle "Tesi su Feuerbach", in cui critica il filosofo tedesco per aver concepito la prassi in una forma in cui essa si manifesta in modo eccessivamente ebraico. In questo passaggio egli ribadisce l'idea di una necessità pratica egoistica quale fondamento della religione ebraica. Essendo sopravvissuto a Marx per dodici anni, Engels fu testimone dell'ascesa dell'antisemitismo sul finire del XIX secolo. Anche se non vi dedicò uno studio speciale, Engels espresse più volte il più deciso ripudio dell'antisemitismo, sottolineando in particolare lo schiacciante sfruttamento a cui erano sottoposti i lavoratori ebrei a Londra. Da allora in poi, il movimento socialista europeo non poté fare a meno di dover affrontare la questione ebraica.

   L'antisemitismo è un'ideologia di destra, che non ha bisogno di essere dimostrata come tale. Tuttavia, esiste anche un antisemitismo di sinistra, e uno dei meriti di questo libro è il concentrarsi su di esso; cosa che forse sorprenderà molti lettori. L'identificazione dell'ebreo con l'usuraio, con il più spietato sfruttatore mercantile (personificato in Shylock, nel dramma di Shakespeare Il mercante di Venezia), è stata interiorizzata dalla massa dei lavoratori, ed è stata assunta dai partiti operai, come se fosse un approccio socialista. Arlene Elizabeth Clemesha cita l'antisemitismo di Fourier, di Proudhon e di Bakunin e registra il rifiuto dei socialisti francesi, guidati da Jules Guesde, di partecipare alla campagna a favore della liberazione del capitano Dreyfus e, di conseguenza, anche alla lotta contro l'antisemitismo, in quella che era stata la sua prima manifestazione esplosa nell'Europa occidentale. Sarebbe spettato a Jean Jaurès, come avrebbe detto poi Rosa Luxemburg, assumersi la missione di salvare l'onore del socialismo francese. La Seconda Internazionale si mostrò enfatica nella sua condanna dell'antisemitismo, ma anche questa posizione non venne assunta senza ambiguità. Pertanto, sarebbe stato sintomatico che Victor Adler, uno dei principali teorici della Seconda Internazionale, ed egli stesso di origine ebraica, sostenesse una posizione contraria sia all'antisemitismo che al filo-semitismo, ponendoli entrambi in termini equivalenti. Karl Kautsky e Otto Bauer, invece, superarono questa esitazione e non ebbero riserve nel condannare l'antisemitismo. Entrambi hanno dato un contributo primario all'analisi della situazione degli ebrei nel groviglio etnico europeo, in particolare rifertendosi all'Impero austro-ungarico. Tuttavia, anch'essi ritenevano che la cosiddetta questione ebraica sarebbe stata risolta tramite il processo di assimilazione, e si rifiutarono sempre di concedere un'autonomia culturale alle popolazioni ebraiche. Questo non poteva non scontrarsi con le pretese delle numerose e dense popolazioni ebraiche delle regioni della Polonia, della Russia e della Galizia, quest'ultima appartenente all'Impero Austro-Ungarico.

   Lenin fu un avversario radicale e appassionato dell'antisemitismo, insistendo più volte sul suo contenuto ultra-reazionario. Tuttavia, Lenin ebbe a polemizzare con il partito socialista ebraico noto come Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei di Russia, Polonia e Lituania); (in yiddish il termine può essere tradotto come "unione", "associazione"), il quale rivendicava l'autonomia culturale per i lavoratori ebrei, e che venisse riconosciuta la loro identità all'interno della lotta del proletariato. Lenin assunse il punto di vista secondo cui la questione nazionale doveva essere subordinata agli interessi di classe, e quindi il proletariato dell'Impero russo non poteva essere suddiviso a partire da quelle che erano caratteristiche nazionali. Il leader bolscevico, inoltre,  adottò anche l'opinione secondo cui il problema ebraico sarebbe stato risolto a partire dal processo di assimilazione, che era già in corso nella stessa Russia. Non si rese conto del fatto che l'antisemitismo ostacolava tale processo di assimilazione e che gli ebrei dell'Europa centrale e orientale stavano creando, proprio in quel momento, una letteratura di alto livello estetico in lingua yiddish. La storia dell'Unione Sovietica dimostra, o quanto meno suggerisce, come il socialismo non possa essere una soluzione automatica alla questione ebraica. La dittatura del proletariato, non implica necessariamente l'estinzione dell'ideologia antisemita. I pregiudizi millenari non si dissolvono solo con il cambio di regime. L'adozione di soluzioni corrette, dal punto di vista degli stessi principi marxisti, richiede una conoscenza fattuale e una profonda elaborazione teorica, che non sempre è disponibile. A causa della loro dispersione, della loro integrazione, in varia misura, in molte nazioni, delle loro tradizioni e della loro cultura, gli ebrei non possono essere compresi mediante schemi e semplificazioni, dalle quali il marxismo non sempre è esente. A questo proposito, Arlene Clemesha cita Abraham Léon, autore di un saggio sulla questione ebraica, egli stesso ebreo polacco e aderente al trotskismo, assassinato all'età di 26 anni ad Auschwitz. Risalendo all'antichità e al Medioevo, Léon mostra come l'antisemitismo abbia rappresentato una stigmatizzazione degli ebrei a causa della loro specializzazione commerciale e usuraia, in mezzo a popolazioni agrarie che producevano principalmente beni d'uso. Con uno sguardo al futuro, il giovane saggista sostiene la libertà degli ebrei di decidere senza coercizioni tra l'assimilazione e la conservazione della propria identità.

   Pur dedicandosi con impegno allo studio della questione ebraica, i marxisti vennero sorpresi da due eventi interconnessi e imprevisti: l'Olocausto e la creazione dello Stato di Israele. L'Olocausto non viene affrontato da Arlene Clemesha, le cui ricerche si fermano alla Prima Guerra Mondiale. Ma annuncia che la cosa sarà oggetto di ulteriori studi, promettendo di concentrarsi su di essi, ponendo la questione sotto il prisma della possibilità o dell'impossibilità di spiegarlo attraverso la concezione secondo cui la storia sarebbe fondamentalmente la storia della lotta di classe. Alla luce di ciò che lei ci offre in questo libro, dobbiamo aspettarci un nuovo contributo sostanziale alla comprensione di questa tragedia paradigmatica del XX secolo. I marxisti si erano sempre opposti al sionismo e, fino alla seconda guerra mondiale, la cosa aveva coinciso con il sentimento della maggioranza degli ebrei in tutto il mondo. I marxisti vedevano nel sionismo un'ideologia nazionalista borghese, e consideravano inammissibile l'ambizione di creare uno Stato ebraico in un territorio già abitato da secoli da una popolazione araba, giudicando l'intera proposta sionista come un'utopia che per definizione era irrealizzabile. Non c'è dubbio che rimasero sorpresi dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948, legittimato da una decisione dell'ONU condivisa dall'Unione Sovietica e dai paesi socialisti dell'Europa orientale. Dal momento che Israele ha costituito, nei cinque decenni della sua esistenza, un centro di guerre e tensioni costanti in Medio Oriente, e oggi molti marxisti rimangono perplessi e disorientati o fuorviati dalla giovane entità politica; la stragrande maggioranza dei partecipanti alla Conferenza Tricontinentale, tenutasi nel 1967 a L'Avana, approvò una risoluzione che raccomandava l'estinzione dello Stato di Israele. Come si può vedere, quando si tratta degli ebrei, c'è una propensione alle soluzioni finali eliminazioniste. A destra e a volte anche a sinistra..

- Jacob Gorender - 1998 - fonte: Blog da Boitempo -

[Nota]: La presente edizione di "Marxismo ed ebraismo", oltre a essere stata completamente rivista, amplia l'ambito temporale dello studio fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, includendo un capitolo sugli ebrei nelle brigate internazionali della guerra civile spagnola (1936-1939), e un altro sulle idee di Leon Trotsky (1879-1940).

martedì 4 marzo 2025

Come la mano dell'estrema destra lava la mano della democrazia !!

Il sudiciume sotto il tappeto della libertà
- Sul legame interno tra democrazia liberale e nuovo estremismo di destra -
di Robert Kurz

Ad ascoltare i democratici certificati, sembra di avere a che fare come con un religione manichea: per cui, nel mondo, ci sarebbe come un principio buono e uno cattivo. Il bene per eccellenza è la democrazia, insieme all'economia di mercato che l'accompagna; mentre invece Il male è la dittatura, il totalitarismo, il fascismo, il razzismo, ecc. Gli umori e le atrocità dell'estrema destra  devono per forza provenire tutte da "fuori", da quello che è stato il primitivo background della "bestia umana", prima della civilizzazione, o forse la cosa è dovuta solo a cattiva educazione. Questo ingenuo pensiero democratico omette il fatto che, storicamente, democrazia e totalitarismo non hanno mai avuto, storicamente, alcuna relazione esterna l'uno con l'altro. Le dittature di modernizzazione, più o meno totalitarie di ogni sorta - da Cromwell a Hitler - non sono state delle semplici aberrazioni rispetto al "buon" principio della democrazia, ma esse costituivano piuttosto una sorta di stadio larvale della democrazia stessa. Dopo la seconda guerra mondiale, la democrazia occidentale diventa indissociabile dalla storia che porta fino alla situazione attuale, e tale storia è stata sempre e ovunque scritta con il sangue. Potrebbe sembrare strano considerare le dittature moderne, piuttosto che come in opposizione alla democrazia, come se esse rappresentassero invece le forme storico-genetiche di imposizione che ha avuto la democrazia stessa. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la democrazia è anche, a partire dal suo stesso nome, una forma di dominio: vale a dire, l'auto-dominio dell'uomo attuato nel nome di principi astratti, l'auto-sottomissione alle leggi del mercato totale. Sono state le dittature della modernizzazione, quelle che (usando differenti nomi ideologici) hanno istituito socialmente questo nucleo del dominio della democrazia: la sottomissione a delle norme temporali astratte, alla disciplina di fabbrica e di ufficio, alla necessità di un "lavoro" alienato svolto per denaro. In nessun altro luogo, gli uomini hanno accettato così tanto volentieri, e di buon grado, di piegarsi a queste esigenze. La democrazia, nel senso attuale del termine, significa innanzitutto l'interiorizzazione di questi obblighi e legami, a tal punto che gli uomini, diventati monadi astratte del lavoro e del denaro, eseguano da sé soli tutto ciò che un tempo veniva loro imposto. Il totalitarismo, la logica della produzione di merci che è stata così generalizzata, non è più una forza esterna, ma essa risiede negli individui stessi. Ed è essenzialmente qui che si esaurisce la differenza tra la dittatura totalitaria (aperta) e la democrazia totalitaria (interiorizzata) nella modernità. Persino il nazionalsocialismo, come ha sottolineato Ralf Dahrendorf, possedeva ancora numerose caratteristiche proprie di una rivoluzione modernizzatrice: non solo per quel che riguardavano le nuove forme di consumo industriale di massa (Volkswagen, autostrade), che vennero commercializzate dopo il 1945 e che portarono al "miracolo economico", ma anche mediante il rimodellamento e la messa in riga dei vecchi circoli sociali.

   In astratto, il “Volksgenosse” in uniforme era, per così dire, al pari della Volkswagen, il prototipo dello scapolo di oggi, altamente individualizzato e completamente omologato, come descritto da Ulrich Beck nel suo “La società del rischio”. Pertanto, tra il nazionalsocialismo e la democrazia del dopoguerra esiste quello che è un complesso legame interno, il quale è  poi stato represso dai democratici brevettati solo perché essi non volevano riconoscere il momento totalitario della democrazia stessa. Le provocazioni naziste, i graffiti con la svastica e gli atti barbarici dei bambini violenti di oggi, mostrano cinicamente, mettendolo in luce, ciò che è stato represso. Nei suoi ragazzi ribelli, la democrazia vede soltanto il proprio riflesso, nel quale ricompaiono le brutte cicatrici, altrimenti nascoste, prodotte dalla sua stessa storia di imposizione. Tuttavia, a diventare visibili non sono solo le cicatrici del passato, ma anche le conseguenze, altrettanto orribili, del presente democratico. Infatti, la libertà della democrazia liberale è identica al suo nucleo di dominio, dal momento che questa libertà è sempre e solo la "libertà economica" di comprare e vendere sé stessi, la libertà delle persone solvibili. Non è prevista alcun'altra libertà. La forma di azione di tale libertà è la competizione, la concorrenza, la quale, essenzialmente, vuole essere totale: "Ciascuno per sé, Dio contro tutti". E nella democrazia dell'economia di mercato,  la concorrenza non viene forse elogiata in quanto principio superiore che, solo, può garantire "l'efficienza"? La democrazia è una società di performance pura, laddove nessun handicap viene visto di buon occhio, e la quale non tollera (in linea di principio) alcuno slancio di umanità che non possa sottomettersi al criterio della "redditività". In tal modo, gli estremisti di destra, in realtà, proprio nel momento in cui rinunciano a ogni solidarietà umana e attaccano i rifugiati, le minoranze, le persone con disabilità e i senzatetto - in quanto scomodi "fattori di costo" -  stanno solo parlando apertamente di quello che è il principio più intimo della democrazia stessa. Pertanto, è proprio a tal proposito che i democratici non dovrebbero essere sorpresi o indignati dal fatto che i nuovi estremisti di destra si considerino democratici, e vogliano essere riconosciuti come una componente legittima della democrazia. In particolare, questo vale per tutte le nuove forme di estremismo di destra, come il miliardario Ross Perot o la star repubblicana Newt Gingrich negli Stati Uniti, o il Gruppo Berlusconi [N.d.T: sta per, “Forza Italia”]o la "Lega Nord" in Italia, e il partito di Jörg Haider (significativamente, il "Partito della Libertà") in Austria. Ciò che qui ci colpisce,  è l'odore nauseabondo di un darwinismo sociale tutto occidentale e universalista, il quale predica un individualismo asociale, che in nome dei "forti" vuole sbarazzarsi degli "improduttivi", per poter semplicemente gestire la povertà in uno Stato di polizia. Il mondo democratico,nel quale le persone vengono suddivise in vincitori e vinti dell'economia di mercato, alimenta tale darwinismo sociale secondo i propri criteri. Questi demagoghi populisti, trovano un'eco anche tra i perdenti, ai quali viene suggerito di far parte del gruppo dei "forti", ai quali viene offerta una posizione vincente fantastica, da cui, in nome della competizione, diventa lecito attaccare i più deboli . E anche i piromani, gli attentatori e gli assassini dell'estrema destra clandestina: cosa fanno se non "perseguire la concorrenza con altri mezzi"? Se la democrazia ha fatto un idolo, della capacità di imporsi con forza nella società della performance totale, allora non dovrebbe affatto stupirci che questa mentalità - che essa stessa ha coltivato - proliferi al di là di ogni limite riguardo alle "regole del gioco" giuridicamente codificate. In fin dei conti, la democrazia dell'economia di mercato non possiede una sua propria morale, che derivi dai suoi principi immanenti e che non sia stata introdotta dall'esterno secondo dei criteri artificiosi, di fatto estranei ai suoi meccanismi. In ogni caso, lo stato sociale, così tanto invocato al fine di sopperire ai deficit sociali strutturali della democrazia di mercato, nel mondo non è mai stato altro che un prodotto di lusso per una manciata di paesi vincitori dell'OCSE. Finché si continuerà a illudersi che questi “legami sociali” costituiscano un obiettivo alla portata di tutti i Paesi, il lato brutto della democrazia rimarrà sommariamente oscurato. Ma dal momento che il “sistema di sfruttamento” economico della democrazia - vale a dire la macchina sociale per la trasformazione del “lavoro astratto” in denaro - minacciava di bloccarsi, si è reso necessario scatenare il diluvio del male. Sono stati proprio i risultati della così tanto decantata concorrenza ed "efficienza" ad aver generato, a partire dagli anni '80, la disoccupazione di massa su una scala senza precedenti: secondo gli studi dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) di Ginevra, il tasso di disoccupazione della popolazione attiva mondiale supera ormai il 30%.

  La razionalizzazione e l'empowerment resi possibili dalla rivoluzione microelettronica, il ridimensionamento delle linee organizzative ("lean production") e la globalizzazione dei mercati finanziari e delle materie prime, nonché la frammentazione internazionale dei processi produttivi, rendono economicamente "superflua" una massa sempre più crescente di persone, anche nei paesi centrali della democrazia occidentale. Le finanze pubbliche vengono ostacolate, lo stato sociale si sta riducendo e sta perdendo credibilità, lo stato democratico si sta ritirando perfino dalla cultura. La democrazia stessa sta cominciando ad abbandonare le conquiste della civiltà, poiché essa viene soffocata dal suo stesso criterio di "vitalità finanziaria". Ancor prima di qualsiasi occupazione ideologica del fenomeno, il meccanismo sistemico oggettivato della democrazia di mercato ha iniziato ad escludere, automaticamente, sempre più persone. I partiti democratici, compresi socialdemocratici e verdi, così come la burocrazia statale democratica, diventano gli agenti politici di questa esclusione, anche se se se ne lavano le mani e vogliono rendere "socialmente accettabili" le atrocità, per usare una frase del dizionario del diavolo. Questa ipocrisia è talmente insopportabile che ora fomenta apertamente il darwinismo sociale di estrema destra. L'insicurezza esistenziale, che sta crescendo a una velocità vertiginosa, genera un tale potenziale sociale, a causa della paura per cui qualsiasi persona sfortunata vorrebbe disperatamente far parte della "élite" e dei famigerati "benestanti", anche se questo si traduce nelle irrazionali esplosioni di violenza contro quelli che sono i concorrenti sociali, reali o percepiti come tali. Non si può fare a meno di sospettare che, per i coraggiosi democratici, il terrorismo di strada e gli attacchi terroristici di destra non siano del tutto inopportuni. In modo che così possono usarli come una cortina fumogena, sotto le pie parole di "indignazione di fronte alla disumanità", per poi lasciarsi trasportare dallo stato d'animo popolare dell'estrema destra e attuare, con legittimazione costituzionale, misure in termini di legislazione sociale e di diritto d'asilo che siano del tutto allineate al "male", dichiarandole anche ora come se fossero una sorta di difesa omeopatica "contro il pericolo della destra". È così che la mano dell'estrema destra lava la mano della democrazia.

  Anche la rinascita dell'antisemitismo ha le sue origini nel medesimo potenziale sociale di paura generato dalla democrazia stessa. All'odio per i deboli, razzialmente etichettati come inferiori, corrisponde l'odio contro il fantasma di una super-intelligenza malevola e delirante che, in quanto "ebreo", si nasconderebbe dietro i poteri incompresi del denaro, provenienti dalla sua stessa forma di feticcio sociale. La crisi del sistema di mercato, e dei suoi criteri di redditività, si manifesta non solo come una crisi del mercato del lavoro, ma anche, in ultima istanza, come una crisi dei mercati finanziari: sotto la pressione della razionalizzazione, sempre più capitale monetario non poteva più essere investito nell'espansione e nell'occupazione, e ha dovuto migrare verso i settori speculativi dei derivati. Negli anni '80, gli yuppies della finanza venivano celebrati e i giovani della simulazione democratica fiorivano, e tutto ciò avveniva in quella che era un'atmosfera di capitalismo da casinò. Da quando la festa è finita, i postumi della sbornia si fanno sentire, e l'inevitabile scoppio della bolla finanziaria e speculativa globale si profila sotto forma di fallimenti bancari (Barings), di scandali finanziari e di crisi valutarie; ed è stata la stessa opinione pubblica democratica ad aver cercato dei capri espiatori, anziché ammettere i limiti del sistema industriale basato sull'economia di mercato:  sentiamo ipocritamente ripetere sui giornali che "Gli Speculatori" stanno distruggendo "la nostra bella economia di mercato". Questa zelante caccia all'uomo portata avanti dai democratici, che all'improvviso mimano la serietà economica, si differenzia solo di poco da quella della folla antisemita che, assetata di denaro sino al midollo, sospetta che dietro al crack finanziario ci sia una “cospirazione giudaica globale”. È impossibile negare che a generare, alimentare e fa crescere il "male" dell'estrema destra, sia il processo di decomposizione sociale e di civiltà della stessa democrazia di mercato. Ecco perché è assurdo voler difendere la democrazia, così com'è, contro la "destra". Se la democrazia non è capace di un'autocritica radicale, e di un'auto-abolizione della sua macchina economica, non ci potrà mai più essere alcuna pace interiore. O le regole del gioco vengono cambiate radicalmente, o la democrazia stessa si trasforma in barbarie, ed ecco che allora l'estrema destra non è più nient'altro che una componente di una stessa e unica forma di evoluzione. Una critica fondamentale della società, non è mai stata altrettanto drammaticamente necessaria così come lo è oggi. Ma la sinistra, che ha sempre considerato sé stessa come portatrice di una critica radicale ed emancipatrice, è rimasta in un silenzio imbarazzante. Il crollo del socialismo di stato stalinista, che non è mai stato altro che una dittatura di "modernizzazione di recupero", con i suoi burocratici "mercati pianificati", è stato invece erroneamente interpretato come se rappresentasse la presunta confutazione di qualsiasi critica fondamentale dell'economia di mercato. Nel vuoto ideologico lasciato dal fallimento della sinistra democratica, il fondamentalismo e l'estremismo di destra, che non hanno nulla di emancipatorio, si stanno diffondendo in tutto il mondo, attraverso la crisi. Ad agire senza ritegno, è una miscela di pseudo-critica radicale, sia della modernità che, simultaneamente, quella della brutale estensione dei moderni criteri di performance e di concorrenza, che ha sempre caratterizzato il populismo demagogico di destra. Se una nuova critica emancipatrice della società non riuscirà a sviluppare delle forme di sicurezza sociale che vadano al di là del mercato e dello Stato (nazionale), e a estrarre risorse dai meccanismi di mercato in funzione, radicalizzando la trasformazione socio-ecologica, anziché cedere invece sempre più ai dettami del mercato mondiale, allora la democrazia diventerà il becchino di sé stessa.

- Robert Kurz - Pubblicato in EuropaKardioGramm (ECG) nell'ottobre 1995 - 
- fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -