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lunedì 1 dicembre 2025

PROFEZIE di CRISI…

UN INCIDENTE IMMINENTE
- di Ernst Lohoff -

Il settore dell'Intelligenza Artificiale,  mobilita somme astronomiche di capitale monetario. Finora, per le aziende tecnologiche che vi investono, non è stato un business redditizio, però, tuttavia, le sue azioni si trovano ancora ai massimi storici. Nel frattempo, crescono gli avvertimenti riguardanti una bolla dell'IA, la quale potrebbe scoppiare ben presto, proprio come avvenne, alla fine degli anni '90, con la bolla di internet. Nonostante ciò, va detto che la struttura di mercato, e la dinamica di svalutazione dei due settori sono piuttosto diverse. In generale, gli esperti economici non riescono a prevedere lo scoppio delle bolle finanziarie, oppure se ne rendono conto solo quando è ormai troppo tardi. Accadde questo, nell'autunno del 1845, quando, improvvisamente, in Inghilterra, un crollo della borsa interruppe bruscamente il primo grande boom ferroviario, rovinando finanziariamente molti investitori; trai quali anche Charles Darwin. All'inizio del millennio, la situazione era assai simile. Pochi mesi prima che la bolla di Internet scoppiasse, nel marzo 2000, la maggior parte degli economisti prevedeva ancora l'aumento delle azioni IT. Il quadro attuale è ben diverso. Mai, prima d'ora, il periodo di allerta era stato così talmente lungo. Cinque anni fa, all'inizio del boom dell'IA, pubblicazioni come il Financial Times e il Wall Street Journal parlavano già di una possibile bolla. Ora, ormai quasi tutti avvertono a proposito della possibilità di un incidente. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca d'Inghilterra, sono preoccupati quanto lo è Deutsche Bank e la stampa economica tedesca. Figure di spicco nel settore di Information Technology - come Sam Altman, CEO di OpenAI, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Bill Gates -  stanno fungendo anch'essi come dei profeti della crisi. Alla fine di ottobre, Oliver Welke, sul programma satirico "Heute-Show", aveva scherzato  sulla "fragilità della bolla dell'IA". In quella stessa settimana, il Tagesschau aveva riferito che «il produttore di chip Nvidia è diventato la prima azienda a raggiungere un valore di mercato di cinque trilioni di dollari.» A seguito di questo livello record, anche l'indice azionario Nasdaq della borsa tecnologica statunitense aveva raggiunto un massimo storico. Naturalmente, ci sono anche voci dissenzienti, come quella di Jerome Powell, Il presidente della Federal Reserve, che nella veste di guaritore, ha dovuto dichiarare recentemente che il boom dell'IA non è una bolla, e che non vede alcun parallelo tra la bolla di internet e l'attuale aumento dei prezzi azionari delle aziende di IA.

Un parallelo con la bolla di Internet
Tuttavia, bisogna dire che una caratteristica comune, è assai evidente: nella seconda metà degli anni '90, i prezzi delle azioni di molte startup salirono alle stelle; per quanto poi, solo poche divennero redditizie. Bastava che fossero in qualche modo collegate ai primi passi di internet. Dall'inizio di questo decennio, la parola magica "AI" ha avuto un effetto assai simile, alimentando le fantasie degli investitori. Chiunque abbia promesso che con l'IA si possa guadagnare, finora è riuscito a raccogliere enormi somme di capitale monetario per finanziare un'azienda che, innanzitutto, costa moltissimo. Un esempio rimarchevole è OpenAI, l'operatore di ChatGPT. Solo nel terzo trimestre di quest'anno, l'azienda avrebbe registrato una perdita di dodici miliardi di dollari. Ma, nonostante le enormi perdite, il suo valore di mercato è schizzato alle stelle, fino a 500 miliardi di dollari. Le sei più grandi aziende tecnologiche statunitensi (Nvidia, Microsoft, Apple, Amazon, Meta e Alphabet), che investono miliardi in IA, stanno vivendo un fenomeno simile. Il loro valore in borsa, è aumentato di circa otto trilioni di dollari, nei primi due anni trascorsi dal lancio di ChatGPT nel novembre 2022. E questo equivale a circa il doppio del PIL annuo della Germania. Come dimostrato dallo scoppio della bolla di internet, queste enormi quantità di "capitale fittizio" (Marx) possono anche svanire, nel caso i profitti attesi non si dovessero concretizzare, e si verificasse una fuga di investitori delusi. All'epoca, cinque trilioni di dollari in azioni di aziende IT in tutto il mondo, in 3 anni si trovarono a essere cancellate. Anche la Borsa di Francoforte non sfuggì a questo. Nel momento in cui sospese la quotazione dell'indice Nemax, nel marzo 2003, le società quotate sul Neuer Markt (un segmento della Deutsche Börse introdotto negli anni '90, modellato sul Nasdaq) avevano già perso il 95% del loro valore rispetto al picco della speculazione. A sua volta, iI Nasdaq americano impiegò ben 15 anni per poter ritrovare il livello del marzo 2000. Una cosa è certa: un crollo dell'IA non sarebbe una semplice ripetizione dello scenario del collasso della Nuova Economia. Innanzitutto, il progresso della digitalizzazione ha cambiato radicalmente il punto di partenza. La digitalizzazione è diventata onnipresente, e in modo negativo, nella forma economica privata. I giganti tecnologici di oggi, sono sopravvissuti all'estinzione economica di massa di quell'epoca. L'intera infrastruttura digitale globale di queste aziende, ora è di proprietà privata. I cosiddetti "Magnifici Sette" (che, oltre alle aziende tecnologiche menzionate, includono anche Tesla) occupano delle importanti posizioni strategiche,le quali danno loro enormi profitti. Nella bolla di internet, le giovani startup — ad eccezione delle aziende di telecomunicazioni — erano solo delle portatrici di speranza. Ma nella bolla dell'IA, i giganti IT affermati, non solo partecipano come investitori, ma sono anche in prima linea nello sviluppo dell'IA. Inoltre, i requisiti finanziari per lo sviluppo del settore dell'IA, sono assai più elevati rispetto a quelli richiesti per la costruzione della vecchia industria IT. Naturalmente, si sono resi necessari anche dei grandi investimenti, finalizzati a costruire reti mobili e infrastrutture digitali. Tuttavia, rispetto alle somme esorbitanti che le aziende di IA hanno già speso, e che intendono ancora spendere, il capitale richiesto allora, adesso sembra quasi trascurabile. L'espansione della potenza di calcolo, in particolare, consuma somme astronomiche. Secondo le stime della banca d'investimento Morgan Stanley, a New York, entro il 2028, la spesa globale per la costruzione di un data center arriverà a circa tre trilioni di dollari. Questo supera persino le capacità finanziarie delle grandi aziende tecnologiche. Secondo le stime degli analisti, tali aziende potranno permettersi poco meno della metà di quella somma. Il vuoto pertanto dovrà essere colmato in altri modi, soprattutto tramite prestiti. Nel finanziare progetti di IA, la quota di queste aziende  è già aumentata, arrivando alle stelle. Anche aziende come Meta, che per molti anni ha finanziato i suoi investimenti con il flusso di cassa, ora ha dovuto cambiare le proprie pratiche finanziarie. Per costruire il data center Hyperion, in Louisiana, Meta, in collaborazione con la società di investimenti e co-proprietaria Blue Owl Capital, spenderà oltre 26 miliardi di dollari in capitale preso in prestito; Meta ha già investito 6 miliardi di capitale proprio. La situazione del debito nelle aziende di IA di secondo e terzo livello, appare assai più drammatica. «Anche la piccola azienda britannica di cloud AI, Fluidstack, che lo scorso anno impiegava solo dieci persone, avrebbe ora preso in prestito fino a 10 miliardi di dollari dalla banca d'investimento australiana Macquarie», come ha riportato il Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) all'inizio di novembre:  fungono da garanzia, i chip AI dell'azienda.

Particolarità della bolla dell'IA
Il grande afflusso di risorse finanziarie esterne per alimentare l'euforia intorno al settore dell'IA dipende, ovviamente, dal mantenere le aspettative degli investitori di rendimento. Il fattore decisivo è l'evoluzione dei ricavi. Secondo una previsione di settembre della società di consulenza Bain & Company, le aziende di IA devono generare 2 trilioni di dollari di fatturato all'anno entro il 2030 per diventare redditizie. Tuttavia, il leader di mercato Open AI ha raggiunto solo 4,3 miliardi di dollari di fatturato nella prima metà del 2025. Il business delle applicazioni commerciali di IA, crescerà poi davvero così rapidamente da raggiungere questa scala esorbitante? Questo è assai dubbio, dal momento che l'euforia dei potenziali utenti di IA con alto potere d'acquisto, si è già attenuata. Se crediamo allo studio "State of AI in Business 2025" del Massachusetts Institute of Technology, il 95% delle aziende che hanno iniziato a lavorare con l'IA non ha ancora registrato alcun aumento di produttività o di crescita. Probabilmente si tratta di un fenomeno transitorio. Ci vuole tempo per adattare all'IA i processi operativi, e oltretutto i dipendenti, che temono di perdere il lavoro, resistono al cambiamento. Børge Brende, presidente del Forum Economico Mondiale (WEF), prevede, che non l'uso dell'IA, a  lungo termine, ci sarà un aumento della produttività fino al 10%, e il che comporta riduzioni di posti di lavoro. Questo, tuttavia, richiede perseveranza, e probabilmente a redditività rimarrà irraggiungibile per la maggior parte dei fornitori di IA. Come dice la rivista The Economist, «anche se la tecnologia sfruttasse tutto il suo potenziale, molte persone perderanno tutto». Questo è tanto più probabile, dato il rapido ritmo dello sviluppo tecnologico nel settore dell'IA, il quale minaccia di realizzare l'obsolescenza di attrezzature e prodotti molto più rapidamente di quanto i loro costi possano essere ammortizzati: una minaccia questa, per tutti gli investimenti in IA. Non c'è nulla di nuovo nel fatto che il progresso tecnologico porti alla svalutazione del capitale esistente. Marx ha già analizzato questo processo, e gli ha dato il particolare nome di «logoramento morale». Tuttavia, per molto tempo, questa usura si è limitata ai mezzi di produzione. Oltre tutto, allora avvenne gradualmente, e rimase parziale. Con l'IA, la situazione è diversa. Da un lato, anche i prodotti realizzati a partire da una enorme applicazione di risorse, diventano rapidamente obsoleti. In tal modo, una generazione di strumenti di IA succede a un'altra, rendendo economicamente inutile lo sforzo di sviluppare strumenti obsoleti. Dall'altra parte, a seguito dei progressi tecnologici, un'infrastruttura di IA, che ieri era ultra-moderna, domani potrebbe essere abbandonata. La portata di questa minaccia, è diventata chiara a gennaio, quando l'azienda cinese Deepseek ha presentato il suo modello linguistico. [*1] Si dice che sia superiore a Chat GPT e che sia stato addestrato senza utilizzare i chip più avanzati, e che abbia una potenza di calcolo molto inferiore rispetto a prodotti simili dei concorrenti della Silicon Valley. Quando la notizia è arrivata, hanno trattenuto il respiro non solo gli investitori che hanno versato i loro soldi nei data center;  ma è rimasta scossa tutta l'intera industria dell'IA statunitense. In un solo giorno, le azioni di Nvidia - un produttore di "superchip" - sono crollate del 17%. E questo da solo ha già causato il fatto che una capitalizzazione di quasi 600 miliardi di dollari sia svanita.

IA e monopoli naturali
Spesso, i libri di testo di economia esaltano la competizione. Un'eccezione a questo. è il  cosiddetto "monopolio naturale": una ricerca su Google, su questo termine, rivela la seguente definizione: «Un monopolio naturale nasce quando una singola azienda può servire l'intero mercato in modo più efficiente e a un costo inferiore, di quanto avverrebbe se ci fossero invece più aziende. Ciò è spesso dovuto agli elevati costi fissi e alle economie di scala, che rendono proibitivo per i concorrenti partecipare. Esempi includono le compagnie di servizi pubblici, così come i fornitori di elettricità o di acqua, poiché costruire ulteriori reti sarebbe non economico.» E infatti, sarebbe uno spreco enorme di risorse e di denaro costruire e mantenere reti elettriche, o sistemi di approvvigionamento idrico, paralleli nella stessa città. Questo, naturalmente, non ha impedito alla società capitalistica che, durante il suo sviluppo, di impegnarsi frequentemente in simili assurdità. Ad esempio, è così che venne realizzato il progetto infrastrutturale più importante del XIX° secolo, la costruzione di una rete ferroviaria che portò allo spreco di ingenti somme in strutture parallele superflue, in  particolar modo rispetto alla rete pionieristica della Gran Bretagna. Vennero create diverse società per azioni che dapprima costruirono linee ferroviarie sull'isola, e poi sul continente europeo, senza alcun piano generale, e in competizione tra di loro. In Germania, fu solamente nel 1885 che tutte le importanti compagnie ferroviarie private vennero portate sotto la proprietà statale, e riunite in tal modo sotto un unico tetto; cosa che richiese ancora più tempo per poter raggiungere anche gli altri principali paesi capitalisti d'Europa. Alla fine del XX° secolo, la pratica di trasformare la costruzione di nuove infrastrutture in un campo d'azione per capitali privati concorrenti, prese nuovamente forza. Negli anni '90, sotto la religione neoliberista del mercato, sia le reti telefoniche cellulari, sia l'intera infrastruttura IT, sono state costruite tutte in questo modo, ed entrambe si trovano ancora in mano di aziende a scopo di lucro. Naturalmente, l'ideologia neoliberista della concorrenza, non cambia il fatto che esista una forte tendenza ai "monopoli naturali" nei segmenti chiave dell'industria IT. Una moltitudine di sistemi operativi diversi, porta solo ad avere problemi di compatibilità. La maggior parte delle persone, usa lo stesso servizio di messaggistica che usano tutti gli altri, e anche i ricavi pubblicitari vengono concentrati. Ecco perché la fase di competizione tra startup, per lo stesso segmento di mercato, in diversi settori chiave è durata solo pochi anni. La bolla di internet, che ha portato tante nuove aziende al fallimento, non è stata la causa, bensì un acceleratore del processo di concentrazione. Una volta che un'azienda ottiene una posizione dominante nel mercato, e stabilisce lo standard in un settore, poi non è più così facile perderla. Per anni, circa il 90% delle ricerche su internet nel mondo venivano effettuate su Google, e oggi più del 70% dei computer desktop utilizza ancora il sistema operativo Windows. Solo a partire dalle trasformazioni tecnologiche, emergono nuove opportunità. Fino ad allora, le aziende che detengono il monopolio nel settore IT, hanno profitti garantiti. A differenza dei tradizionali "monopoli naturali", limitati a un certo territorio, i monopoli digitali si estendono in tutto il mondo. Fino alla prossima rivoluzione tecnologica, potranno estorcere le tariffe d'uso alla società mondiale, tariffe che rappresentano quasi una licenza per stampare denaro. Non sorprende che nel settore IT si concentrino le dieci aziende più ricche del mondo. Parti importanti dell'industria dell'IA ,seguono anch'esse la logica del "tutto va a un solo vincitore". John Lovelock, analista tecnologico di Gartner, sul giornale "Faz", ha riassunto bene la questione, commentando i chatbot: «i maggiori fornitori di IA,  stanno correndo una corsa in cui arriverà uno solo.» Lovelock, spera che alla fine rimarranno solo uno o due modelli di IA. E anche nel settore, nel suo complesso, i segnali indicano un processo di concentrazione accelerato: «presumiamo che, nei prossimi anni, solo il 10% delle startup attuali continuerà a operare in modo indipendente». Il resto sarà assorbito, o fallirà. Il fatto che la rivoluzione dell'IA divori quasi tutti i suoi figli, è stato il punto di partenza delle strategie aziendali dei giganti dell'IT. Tutti, sono stati concepiti per essere tra i pochi sopravvissuti alla grande battaglia finale e dopo, in quanto «padroni dell'universo dell'IA», per pretendere e riscuotere, dalla società mondiale, tributi che oscureranno tutto ciò che si è visto finora. Questo significa anche, che tutti gli investitori che non hanno scommesso sul vincitore hanno buttato via i soldi. Non si sa ancora come avverrà il processo di distruzione del capitale fittizio, ma non c'è dubbio che avverrà.

La casa di tutte le bolle
L'importanza di tutta quest'euforia intorno all'IA, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche per l'intera economia globale, è innegabile. L'economista di Harvard, Jason Furman, ha concluso che nella prima metà del 2025 il 92% della crescita del PIL degli Stati Uniti è stato attribuito agli investimenti nelle infrastrutture di IA. È Il settore delle costruzioni, in particolare, a trarne beneficio diretto. Nel 2024, un investimento record di 180 miliardi di dollari in infrastrutture, è stato dedicato alla costruzione di data center di IA. Espandere le capacità delle centrali che forniscono questi nuovi consumatori di energia, genera anche dei posti di lavoro e dei profitti nei settori più convenzionali. Se il consumo globale di elettricità dei data center di AI, è stato di 50 miliardi di kilowattora nel 2023, si prevede che entro il 2030 si moltiplicherà fino ad arrivare a 550 miliardi; un disastro per la protezione climatica, ma un vantaggio per il prodotto interno lordo. Quando i sogni dell'IA si dissolveranno, gli Stati Uniti non solo perderanno l'unico motore di crescita rimasto loro, ma è anche probabile che si inneschi una reazione a catena, nei mercati finanziari. Il punto di partenza più probabile sono le banche ombra, così come i fondi di investimento. Questo segmento, non regolamentato, del sistema finanziario, è cresciuto enormemente negli ultimi anni, e ha contribuito in modo significativo a finanziare l'euforia cresciuta attorno all'IA. Sarebbe quindi quello più colpito da una battuta d'arresto. Nel suo Global Financial Stability Report, pubblicato a ottobre, il FMI è preoccupato per questa faccenda. Il rapporto, non solo avverte del rischio di «correzioni di mercato nette», nelle azioni dell'IA, ma mette in guardia anche del fatto che le banche ombra potrebbero avere dei problemi. Questo, a sua volta, innescherebbe una reazione a catena. Lo scoppio della bolla dell'IA, non colpirebbe soltanto un settore economico, ma provocherebbe una crisi generalizzata. E questo vale, prima di tutto, per la terra d'origine dei giganti tecnologici. Nell'era del capitalismo, guidato dalle dinamiche dei mercati finanziari, gli Stati Uniti hanno già provocato due crisi che hanno scosso l'economia mondiale: lo scoppio della bolla di internet e la grande crisi finanziaria del 2008. In entrambi i casi, la recessione è stata superata grazie all'emergere di bolle ancora più grandi, negli Stati Uniti, le quali hanno così portato l'economia mondiale a riprendere la sua crescita. Con lo scoppio della bolla dell'IA, tuttavia, il ruolo degli Stati Uniti come "casa di tutte le bolle globali" potrebbe essere arrivata al termine.

- Ernst Lohoff -  pubblicato su Jungle World 2025/47 de 20.11.2025

NOTA (1) https://francosenia.blogspot.com/2025/11/il-pollo-fritto-e-le-barriere-interne.html .

sabato 29 novembre 2025

Fascisti !!

Paolo Berizzi: “CasaPound coperta per anni dalle istituzioni”
- Intervista a Paolo Berizzi, che nel “Libro segreto di CasaPound” racconta i retroscena dell’organizzazione neofascista -
Intervista di Fabio Bartoli

L’uscita de "Il libro segreto di CasaPound" (Fuoriscena, 2025), di Paolo Berizzi, non è passata inosservata e non solo per il successo dell’operazione editoriale. Il movimento neofascista romano ha infatti cercato di bloccarne la pubblicazione - un tentativo fallito - cui ha fatto seguito una campagna di boicottaggio sui social, culminata in un video diffuso da Davide Di Stefano, fratello di Simone Di Stefano, ex segretario dell’organizzazione. In questa intervista Berizzi, da anni sotto scorta per le minacce ricevute dall’estrema destra, parla della sua inchiesta che svela chi ha finanziato CasaPound, i suoi legami con la politica e le connivenze istituzionali, ripercorrendo la parabola di un movimento che, dopo l’ascesa, vede oggi il suo declino:

Fabio Bartoli: «Il libro si basa sulle rivelazioni di una talpa, una fonte davvero riservata. Il prologo evoca questa genesi. Come ha fatto a fidarsi di uno sconosciuto proveniente da un contesto politico dove, per usare un eufemismo, non è certo apprezzato?»

Paolo Berizzi: «Lo spiego nel prologo del libro. Questo è quello che è successo: nel 2020 sono andato a Roma, accompagnato dalla mia scorta di polizia — ero già sotto scorta da quasi due anni — per seguire una manifestazione di CasaPound contro il pass sanitario introdotto dal governo Conte per contenere il Covid. Si teneva in Piazza Santi Apostoli ed è ricordata come la protesta contro le "maschere tricolori". In realtà, è stato un semi-flop: tirando le fila dei raduni più violenti contro le misure sanitarie, era più Forza Nuova che CasaPound. Alla fine della manifestazione, mentre sto tornando alla mia auto, una giovane donna apparentemente innocua si avvicina a me: nessun simbolo o segno la colleghi all'universo neofascista. Ha detto: "Berizzi, può sembrarti strano, ma se vuoi sapere di più su CasaPound, contattami a questo numero." Mi lascia un biglietto, mi saluta e se ne va. La scena mi incuriosisce e mi lascia perplesso: capisco che dovrebbe stare nel mezzo, ma non so cosa pensarne. Immagino sia uno scherzo, una provocazione. Passarono alcuni mesi. Un giorno ho scritto un tweet e ho ricevuto un messaggio privato da un utente con un nome fittizio: mi ha detto che era pronto a raccontarmi cose nuove su CasaPound e ha aggiunto che aveva già provato a contattarmi tramite una ragazza, la sua partner, che mi aveva lasciato un numero di telefono. Nella mia testa si accende una luce. Ma avevo buttato via il biglietto. Qualche giorno dopo, ho deciso di chiamarlo, senza troppe aspettative. Durante la nostra prima conversazione telefonica — circa dieci minuti — mi ha detto che era un attivista di spicco nell'organizzazione, con molto da rivelare. Rimango cauto, controllo alcune fonti romane e capisco subito che la fonte è autentica e affidabile. Certo, considero anche il rischio che voglia usarmi per regolare conti interni, ma ciò che prevale è il valore della sua storia: una testimonianza diretta dall'interno sui meccanismi segreti e operativi dell'organizzazione.»

Bartoli: «E dopo questi primi contatti, quali sviluppi sono seguiti?»

Berizzi: «Ha iniziato a fornirmi documenti, conversazioni, messaggi, fotografie, file audio: prove che confermavano la sua affidabilità. Capisco che questa quantità di materiale non possa essere limitata a una semplice indagine per un giornale, perché è troppo e senza precedenti. Deve diventare un libro. L'ho proposto a un editore e, dopo vari colpi di scena, è nato questo lavoro investigativo. Per la prima volta, un militante di CasaPound — la più importante organizzazione fascista degli ultimi vent'anni — rivela i suoi segreti dall'interno: i suoi relè politici, i suoi finanziatori, la sua struttura, i suoi legami con la destra al potere, l'uso della violenza come metodo, i suoi campi di addestramento, i suoi leader e i suoi sotto-leader. È un libro nato da un incontro fortuito ma decisivo. La mia fonte non è un pentito, non è un anziano: fa ancora parte dell'organizzazione. È un fascista che si è sentito tradito dai suoi stessi compagni e ha deciso di rivelare chi sono veramente.»

Bartoli: «Da anni hai a che fare con l'estrema destra, mettendo anche in evidenza i suoi legami con le istituzioni. Questo sondaggio ti ha insegnato qualcosa di nuovo?»

Berizzi: «Sì, mi ha permesso di scoprire i rapporti — in alcuni casi molto stretti, persino personali — che legano CasaPound ai membri dei Fratelli d'Italia e a certi rappresentanti del governo italiano. Ciò che mi ha sorpreso di più, e che non era mai stato chiarito fino ad ora, è uno degli scoop del libro: i collegamenti tra Giorgia Meloni e alcuni membri di spicco di CasaPound. In particolare, questi sono due nomi. Il primo è Alessandro Giombini, soprannominato Manolo: uno dei cinque "arditi" che, nella notte del 27 dicembre 2003, ruppero le finestre di Via Napoleone III e occupò il palazzo che da allora è la sede di CasaPound. Alcuni anni fa, Meloni aveva un rapporto personale e stretto con Giombini. Il secondo è Alessio Tarani, leader di CasaPound Padova, ancora a capo del movimento. Meloni aveva anche un legame con lui durante la sua giovinezza. Così come con i fratelli De Angelis, Marcello e Renato: il primo, un ex terrorista di Terza Posizione e cognato di Luigi Ciavardini (condannato per l'attentato a Bologna); il secondo, per anni, fidanzato dell'attuale Primo Ministro. Quello che mi ha colpito è stato che due figure di spicco di CasaPound avevano un rapporto così stretto e personale con la donna che ora è Presidente del Consiglio. Sono rimasto anche sorpreso nel vedere che Alessandro Giombini vive ancora oggi nel palazzo in Via Napoleone III — un edificio appartenente allo stato, all'attuale Ministero dell'Istruzione e del Merito — occupato da CasaPound dal 2003. In breve, un uomo che aveva un legame personale con l'attuale Primo Ministro vive in un edificio che è stato rimosso dallo stato.»

Bartoli: «Cosa possiamo dedurre esattamente da questo?»

Berizzi: «Va chiarito: questi collegamenti non dimostrano in alcun modo che Giorgia Meloni faccia parte di CasaPound o ne condivida la ideologia. Ma ci parlano di un ambiente, di un contesto, di una rete di relazioni che esistono da anni a Roma. In effetti, Giombini e Tarani non abbandonarono mai la loro militanza di estrema destra per cercare il loro posto in altri partiti: rimasero fedeli al loro ambiente originario. Dettaglio curioso: quando il nostro collega Daniele Piervincenzi è stato aggredito a Ostia nel 2017 da Roberto Spada (membro della famiglia mafiosa Spada), Tarani ha pubblicato un messaggio sui social network per difendere l'aggressore, con lo slogan "Dieci, cento, mille Spada". Non stiamo quindi parlando qui di personalità particolarmente legate alle regole democratiche. Poi c'è un altro elemento interessante: Meloni iniziò a impegnarsi in politica nel 1992 nella sezione del Movimento Sociale Italiano a Garbatella, il suo quartiere natale. Fu Simone Di Stefano ad accoglierlo alla porta di questa sezione. In seguito divenne uno dei leader di CasaPound — per anni una figura di spicco del movimento, portavoce, segretario nazionale — prima di lasciarlo a causa di una disputa con Gianluca Iannone e la leadership. In breve, i rapporti di Meloni con questo ambiente risalgono agli inizi della sua attività politica: mi ha sorpreso scoprirlo, e questa è una delle rivelazioni inedite del libro. Nel capitolo dedicato ai rapporti tra CasaPound e la destra al potere, parlo anche di Ignazio La Russa, Andrea Delmastro e altri rappresentanti dei Fratelli d'Italia che, nel corso degli anni, hanno partecipato a festival, raduni e manifestazioni organizzate da CasaPound. Questo dimostra che la destra al potere e la destra neofascista, nelle strade, non sono così distanti come sostiene i Fratelli d'Italia. Ufficialmente si distacano, ma in realtà ci sono comunanze — ideologiche e talvolta persino fisiche — che li avvicinano molto di quanto vorrebbero farci credere.»

Bartoli: «Riguardo all'edificio occupato, "la torre", che viene ampiamente discusso nella prima parte del libro: com'è possibile che un edificio appartenente allo Stato sia stato occupato impunemente per più di vent'anni? Durante tutto questo tempo, Giorgia Meloni non è sempre stata al governo...»

Berizzi: «Penso che non ci sia mai stata una vera volontà politica concreta di espellere CasaPound e rimediare a questa tipica anomalia italiana. Stiamo parlando di un gruppo apertamente neofascista, violento, sotto indagine e oggetto di diversi procedimenti per aggressione e violenza squadrista. Un movimento che continua ad associare il proprio nome alla violenza e che si colloca de facto fuori dalla Costituzione repubblicana. CasaPound occupa un edificio nel centro di Roma da più di vent'anni, causando anche considerevoli danni finanziari: nel 2019 si stima che lo Stato abbia perso circa 4,5 milioni di euro di entrate, senza contare le bollette elettriche mai pagate. In quegli anni, nessuno, tranne Virginia Raggi quando era sindaca di Roma, cercò davvero di risolvere la questione. Raggi — che non è senza motivo nel mirino degli attivisti di CasaPound — è stato l'unico a tentare di affrontare la situazione, ma senza successo. In secondo luogo, i governi di ogni tipo non hanno mai fatto nulla. Oggi, almeno in termini di parole, il Ministro dell'Interno Matteo Piantedosi sembra voler affrontare anche il "caso CasaPound". Dopo l'evacuazione del Leoncavallo, che aveva scatenato molte controversie, Piantedosi disse che "arriverà anche il momento di CasaPound". Recentemente, al Leopolda di Renzi, ha ribadito che "il momento si avvicina." Vedremo se e quando ciò accadrà davvero.»

Bartoli: «Anche il tuo informatore ne parla?»

Berizzi: «La fonte del mio libro ci dice che CasaPound, negli ultimi anni, ha certamente potuto contare sulla complicità e sui favori di alcune persone all'interno delle istituzioni, inclusa l'amministrazione municipale di Roma e le aziende che forniscono elettricità, acqua e gas. Perché, semplicemente, se vuoi evacuare un edificio, il modo più semplice è interrompere i servizi: si taglia l'elettricità, si spegne l'acqua e l'evacuazione avviene quasi naturalmente. Ma il fatto che nessuno abbia mai tagliato l'elettricità o l'acqua suggerisce, come dice la fonte, che ci sia sempre stato un accordo con qualcuno complice, in collusione con loro. Esiste quindi anche una spiegazione tecnica per il fatto che questo edificio non sia mai stato evacuato. Personalmente, penso che l'assenza di intervento rappresenti una seria responsabilità politica. Questo vale per i governi di destra — che sono in combutta con questi ambienti, quindi non li evacueranno — ma è particolarmente vero per chi è di centro-sinistra, che in tutti questi anni non ha mai mosso un dito.»

Bartoli: «Il sostegno economico che CasaPound ha ricevuto da varie fonti, come racconti nel libro, va ben oltre la fornitura di elettricità e acqua...»

Berizzi: «Nel libro, riveliamo per la prima volta chi, nel corso degli anni, ha finanziato CasaPound. E menzioniamo nomi: circa settanta persone, molte delle quali ricoprono posizioni di rilievo nella società civile e, in molti casi, anche nell'apparato statale. Sono ambasciatori, generali, professori universitari, imprenditori, manager, giornalisti, politici. Il nome più conosciuto è quello di Mario Vattani, ex console "fascio-rock", attuale commissario italiano per l'Expo Osaka 2025, che sta per diventare ambasciatore italiano in Giappone. Ma c'è anche un generale dell'aeronautica, oltre a una rete di professionisti e personalità che, nel corso degli anni, hanno partecipato a eventi, cene autofinanziate e iniziative pubbliche, contribuendo anche finanziariamente alla causa neofascista. Questa è una delle principali scoop del libro, poiché mostra come CasaPound sia andato ben oltre l'attivismo di strada, insinuandosi nel funzionamento dello stato. E questo, a mio avviso, è l'aspetto più preoccupante: il neofascismo, quando accettato, protetto e coperto da chi detiene il potere, diventa un vero pericolo per la democrazia. E lo è ancora di più quando è sostenuto da persone che lavorano all'interno delle istituzioni, che fanno parte della stessa macchina pubblica che dovrebbe difendere la Repubblica e i suoi valori. Questi sostenitori, noti come "gli Unici" nel gergo interno di CasaPound, sono distribuiti in cinque città (Roma, Milano, Firenze, Verona e Torino) e hanno garantito un flusso costante di denaro all'organizzazione nel tempo, permettendole di sopravvivere e continuare le sue attività. Erano infatti un elemento fondamentale dell'attività politica e materiale di CasaPound.»

Bartoli: «Hai già menzionato Simone Di Stefano, che per anni ha rappresentato l'ala "istituzionale" di CasaPound, quella che aspirava a entrare nelle istituzioni. Ma Di Stefano lasciò l'organizzazione e fu l'approccio militante di Gianluca Iannone a prevalere. Da allora, si può dire che il declino dell'organizzazione sia iniziato, che certamente non è oggi al suo apice...»

Berizzi: «Sì, confermo. A un certo punto, CasaPound, che aveva raggiunto un numero considerevole di membri e un peso specifico — al punto di conquistare la leadership dell'estrema destra italiana — decise di svolgere un ruolo politico autonomo. Dopo l'alleanza con la Lega, quando Salvini divenne segretario federale, nacque un'intesa politica che durò alcuni anni: CasaPound e il Carroccio organizzarono manifestazioni insieme e condividevano la loro militanza all'interno di Sovranità, un gruppo comune il cui simbolo era una spiga di grano di Mussolini. Era il periodo delle campagne anti-immigrazione, delle quadrate infuocate e degli slogan nazionalisti. Ma questa relazione viene interrotta per motivi di candidatura e di equilibrio elettorale. CasaPound chiede spazi e riconoscimenti che non ottene, nonostante molti dei suoi attivisti abbiano lavorato per sostenere i rappresentanti della Lega, in particolare Mario Borghezio, eletto al Parlamento Europeo grazie ai loro voti. Dopo questa parentesi, CasaPound scelse la via autonoma e si candidò, con risultati modesti. Dopo il fallimento delle elezioni europee del 2019, il movimento ha deciso di non partecipare più al gioco elettorale. È poi apparsa una spaccatura interna: da un lato, Simone Di Stefano, che ha spinto per trasformare CasaPound in una vera forza politica; dall'altro, Gianluca Iannone, che vuole mantenerlo a livello "metapolitico", più militante. La frattura divenne irreversibile: il primo lasciò il movimento, portando con sé molti attivisti. Da quel momento in poi, CasaPound cercò di infiltrarsi in altri partiti — Fratelli d'Italia, ancora la Lega — cercando di collocare i propri uomini qua e là. Nel libro racconto anche di una sorta di "tentata presa" da parte di Giorgia Meloni di CasaPound, e in particolare di Di Stefano: l'attuale Presidente del Consiglio gli offrì di unirsi ai Fratelli d'Italia, ma lui rifiutò, dicendo che sarebbe entrato solo con gli altri. Questo portò a contatti e negoziati che non si concretizzarono mai. Dopo questa fase, iniziò un lento declino. Rispetto agli anni di forte espansione, CasaPound perse terreno, chiuse molte sedi e vide anche un indebolimento delle attività economiche legate al movimento: il marchio Pivert di Francesco Polacchi, le edizioni Altaforte e altre iniziative commerciali. Oggi, in realtà, è un movimento incentrato sulla figura di Iannone e dei suoi luogotenenti, sempre più marginale, anche nel mondo neofascista, dove la Rete dei Patrioti, Lealtà e Azione e una Forza Nuova risorta sono più attive. CasaPound è così tornato a essere un movimento di strada romano, con poche ripercussioni altrove. Gli Uniques, cioè i principali finanziatori, non esistono più. Iannone ha trasformato alcune sezioni — come quella di Milano — in gruppi di motociclisti, più legati a raduni e uscite che all'attivismo politico. Era una parabola dall'alto al basso, ma resta il fatto che, negli ultimi vent'anni, CasaPound è stata l'organizzazione neofascista più importante in termini di numero, capacità d'azione e presenza mediatica. Ho sentito che era mio dovere raccontare e smascherare CasaPound: i suoi sostenitori politici, i suoi finanziamenti, i suoi segreti interni, la vita nell'edificio occupato su Via Napoleone III. Penso che sia un atto necessario per chi fornisce informazioni e si riconosce nella Costituzione repubblicana, antifascista e antirazzista. Spero che CasaPound non solo venga espulso dalla sua sede a Roma, ma venga anche sciolto per aver tentato di ricostituire il partito fascista. E aggiungerei che questo dovrebbe valere anche per Forza Nuova e tutti i gruppi neofascisti ancora attivi in Italia.»

- Intervista pubblicata il 12 novembre 2025 su MicroMega -

La Crisi della Modernità…

Le sorgenti irrazionali dell'adesione al fascismo
- di Tristan Lefort-Martine -

   L'irrazionalismo è un carattere che viene esplicitamente rivendicato dal fascismo storico: la riflessione deve lasciare il posto all'azione, e questa azione deve essere diretta solo dall'interpretazione proveniente dal leader ispirato, dal «giusto sentimento del popolo». Ancora oggi, i portavoce dell'estrema destra sostengono di «dire ad alta voce ciò che tutti gli altri pensano in un sussurro», di rivelare dei sentimenti inconfessati e di difendere i propri diritti: incluso quelli derivanti da sentimenti negativi, dato che la loro retorica respinge, con lo stesso gesto sprezzante, con obiezioni tecniche, la morale caritatevole del "partito del bene". Come si arriva a rifiutare la logica e i sentimenti positivi? E da dove proviene il potere seducente dell'ideologia di estrema destra? L'antifascismo può ignorare la comprensione delle sorgenti irrazionali dell'adesione al fascismo? Questo problema, venne posto assai chiaramente dallo psicoanalista marxista Wilhelm Reich, in un libro intitolato "La psicologia di massa del fascismo", scritto nel pieno dell'epoca, tra il 1930 e il 1933, vale a dire proprio nel momento stesso dell'ascesa del nazismo. Pertanto, comincio ricordando il contenuto di questo libro, ed evocando le estensioni che poi esso ha trovato nel lavoro di Alice Miller sulla "pedagogia tossica". Tuttavia, la soluzione che da lei viene proposta mi sembra troppo generale, per poter essere soddisfacente. Gli studi del sociologo Alain Bihr, raccolti nel 1998 con il titolo "L'Actualité d'un archaïsme" - basati su una descrizione più stretta del pensiero di estrema destra - suggeriscono invece delle risposte assai più precise.

Il problema della "psicologia di massa del fascismo"
L'analisi di Wilhelm Reich parte da una critica interna riguardo l'impotenza dei movimenti socialisti contro il fascismo. Il socialismo tedesco dei primi anni '30, in particolare, non riesce a spiegare perché le masse impoverite, che avrebbero dovuto essere le più colpite dalla rivoluzione proletaria, in occasione della tanto attesa crisi del capitalismo e della democrazia liberale, si stiano invece spostando a destra. Eppure (a + b)  mostrava come le richieste del fascismo fossero contrarie al loro interesse oggettivo. E allora perché queste dimostrazioni ebbero così poco effetto? Tale sviluppo, sembrava incolpare tutta la loro teoria politica e confermare che avevano ragione i nazionalisti che rimproveravano loro di aver escluso dalle loro analisi, lo "spirito" . Così come non riuscirono a comprendere il sostegno popolare, analogamente, non spiegarono come potesse, il fascismo, opporsi alla grande borghesia fin dall'inizio, incapace com'erano di vedere in essa nient'altro che un «guardiano del capitale». Così rimasero sorpresi dal suo carattere di movimento di massa. Il rifiuto totale dell'ideologia, e il rigido determinismo economico dell'analisi marxista, portarono a trascurare i fattori psicologici: così, questo materialismo rozzo finiva per impedire ai socialisti di comprendere che cos'era che rendesse le teorie "ideologiche" (come il nazionalismo) così tanto efficaci tra le masse. Non riuscivano a vedere che un'ideologia, quando produce un carattere psicologico, può a sua volta diventare essa stessa una forza materiale, e agire così sul corso della storia. Ora, quando vedi che delle condizioni ampiamente condivise producono caratteristiche comuni in un gran numero di persone, allora devi ammettere che è possibile una psicologia di massa la quale spieghi questo fattore soggettivo dei processi storici. La psicologia di massa, integra l'analisi socio-economica spiegando dei comportamenti che, ai suoi occhi, non sono razionali e che derivano proprio dall'inerzia delle strutture psichiche ereditate relative alle trasformazioni delle condizioni economiche. Basandosi sulla tesi di Freud, secondo cui il desiderio sessuale è il motore più profondo e generale dei processi psichici, Reich cerca l'origine del comportamento irrazionale nella repressione dei desideri sessuali, che avvengono fin dall'infanzia, prima nella famiglia autoritaria, e poi nella comunità religiosa. Pertanto, la sua argomentazione prende due direzioni: da un lato, Reich vuole mostrare che l'inibizione sessuale produce un soggetto generalmente resistente alla rivolta; dall'altro, ci fa vedere come il fascismo offra uno sfogo perverso per tutti questi desideri repressi. Dal servilismo, appreso verso il padre autoritario, alla sottomissione al leader politico, l'atteggiamento è sempre lo stesso: il potere patriarcale all'interno della famiglia è, indirettamente, il sostegno primario dell'autoritarismo statale. Questa supremazia del padre, nella famiglia, si esprime soprattutto nel controllo che egli esercita, con il sostegno della religione che associa la sessualità all'angoscia del senso di colpa, sulla sessualità della moglie e dei figli. Al contrario, il mito nazionalista mobilita l'immaginario risultante dalla repressione sessuale: l'attaccamento degli uomini alla "madrepatria" ripete l'attaccamento problematico del ragazzo alla madre, la rappresentazione della civiltà occidentale, che viene vista così in una Atene minacciata di stupro dai satrapi orientali, ripete la situazione di conflitto nel quale l'ideale della pura astinenza viene costantemente minacciato da dei desideri bestiali. Nella competizione tra socialisti e fascisti, per raggiungere le masse "apolitiche", l'argomentazione economica dei primi, per quanto ben fondata, si scontra col fatto che molte persone che si rifiutano positivamente di schierarsi, lo fanno ora perché sono occupate con problemi più urgenti, problemi che sono "personali" solo all'apparenza, poiché riguardano la vita familiare e la vita amorosa. Il fascismo, invece, per quanto debole a livello economico, non offre la soluzione a questi problemi sessuali, quanto piuttosto una forma di sublimazione; nello stile della religione. Nella mia analisi, mi sono accontentato di riprodurre il profilo generale dell'argomentazione di Reich, e non ho voluto parlarne nei dettagli, che a mio avviso sono spesso ridicoli. Un'altra interpretazione nello stesso stile (e meno stravagante nelle sue elaborazioni secondarie) è quella che è stata proposta più recentemente da un'altra terapeuta con formazione psicoanalitica, Alice Miller. Nel suo "It's for Your Good", Miller sostiene che le caratteristiche dei leader nazisti, così come il sostegno popolare che sono riusciti a suscitare, derivino dalla «pedagogia nera», a cui i bambini tedeschi venivano e continuano ancora a essere esposti quotidianamente. A differenza di Reich, Miller non si concentra solo sulla repressione sessuale, ma estende la sua critica a tutte le forme di trattamento crudele, violento e sprezzante che esistono all'interno della famiglia patriarcale. Non è semplicemente il fatto che una pedagogia, interamente ed esplicitamente intesa a spezzare la volontà del bambino, a proibirgli ogni emozione e ogni riflessione, produca esseri terrorizzati all'idea di pensare con la propria testa, i quali così tendono facilmente a fare affidamento su un dittatore che assuma il ruolo del padre, e ne imitino persino le sue furie incomprensibili. Il bambino ferito, nel divieto di esprimere il proprio odio e rabbia, e ancor più di comprenderli, li reprime senza eliminarli: allorché diventa adulto, egli sarà tentato di trovare un oggetto sostitutivo, per sé o per lei, su cui indirizzare tutto questo, senza violare il divieto. Le persone già discriminate nella società, e che possono essere odiate senza timore di giudizio, ecco che sono allora i capri espiatori evidenti. Tipicamente, vengono etichettati, per proiezione, con le stesse caratteristiche di malvagità, sporcizia, che il bambino ha inizialmente dovuto dissociare da sé, interiorizzando così il giudizio crudele dei suoi genitori. Il carattere epidemico della "pedagogia nera" ci spiega perché la maggior parte della popolazione tedesca, compresi i suoi intellettuali, abbia aderito alla "soluzione" proposta da pochi uomini che erano stati particolarmente abusati durante l'infanzia, e l'abbia fatto senza scoprirne la sua irrazionalità. Senza sminuire i meriti di queste teorie psicoanalitiche, mi sembra chiaro che la soluzione che propongono sia troppo generale: proprio come la repressione sessuale, anche l'oppressione dei bambini è millenaria, e le caratteristiche che produce potrebbero servire da supporto a qualsiasi forma di autoritarismo. Il fascismo, invece, è peculiare dell'epoca contemporanea ed è solo una particolare forma di nazionalismo.

Tre sorgenti irrazionali dell'adesione al fascismo  
Nel suo "L'Actualité d'un archaïsme", Alain Bihr sostiene che il pensiero di estrema destra, spesso presentato dai suoi detrattori come arcaico e delirante, presenta in realtà una logica originale, la quale poteva apparire solo con la "crisi della modernità". Bihr riduce la struttura comune di tutte le manifestazioni dell'ideologia di estrema destra, a tre elementi essenziali. Innanzitutto, tutto il pensiero di estrema destra afferma l'esistenza di un'identità collettiva eterna e sacra. L'appartenenza di un individuo alla propria comunità non è negoziabile, la sua vita assume significato solo nella misura in cui egli sostiene i valori della sua comunità. Qualsiasi differenza - esterna o interna - dev'essere interpretata come una minaccia, e pertanto la minaccia è costante. In secondo luogo, l'universo viene rappresentato da tutti come se fosse un ordine gerarchico disuguale, dove non solo i forti dominano i deboli, ma dov'è bene che sia così. Riconoscere una differenza, porta inevitabilmente e comunque a stabilire la preminenza di una parte sull'altra. Terzo, tutti descrivono la vita come una lotta permanente per difendere la propria identità e supremazia sugli altri. È attraverso la guerra, che i forti rivelano il proprio valore a discapito dei deboli. Una visione della natura, in cui ogni organismo cerca di perseverare in sé, nel proprio essere, quella che è una competizione con gli altri, fino alla morte,la quale, grazie ai suoi successi, si colloca in un'unica scala, dove costituisce il modello ricorrente in cui tutti e tre questi aspetti si uniscono. Da questi emergono quelli che sono gli assi tipici della politica di estrema destra, in particolare il fatto che si chiede allo Stato, di difendere l'identità minacciata contro i nemici interni ed esterni, lasciando a una sola volontà, la definizione di questa identità. Inoltre, i nemici appaiono evidenti: il liberalismo, per la sua enfasi sulla libertà individuale a discapito delle norme comunitarie; il socialismo, per la promozione dell'uguaglianza, a costo di una lotta all'interno della comunità; e infine, l'umanesimo, per promuovere una fratellanza universale che supera i confini della comunità. «Alla triade repubblicana di "libertà, uguaglianza, fratellanza", si contrappone la propria triade: "identità, disuguaglianza, combattività". È comprensibile, che un programma del genere presupponga di mettere da parte determinati sentimenti positivi. Ma cos'è che rende questa visione del mondo così tanto affascinante?» Nel libro, Bihr analizza per prima cosa un romanzo dal forte sapore autobiografico del fascista francese Drieu La Rochelle, poi i discorsi politici dell'ex presidente del Fronte Nazionale, Jean-Marie Le Pen, e infine la retorica, ispirata dall'Action Française, di Maurice Barrès; oltre alle condizioni sociali e psicologiche di ricezione di tutti questi discorsi. Evito di dare un resoconto di ciascuno di questi studi, ma pensavo di poterne estrarre tre sorgenti irrazionali di adesione al fascismo.
   Per prima cosa, la solitudine dell'individuo nella società moderna. La costituzione delle grandi nazioni ha scombinato tanto le comunità di villaggio quanto i grandi quadri di pensiero, in particolare quelli religiosi. Li sostituisce con un maggiore anonimato, una maggior mobilità e con la prospettiva di felicità individuale, spesso associata a un semplice comfort materiale. Alla sofferenza della solitudine mentale, si aggiunge così anche la sensazione dell'assurdità degli sforzi richiesti. La corrispondente risposta psicologica, è il desiderio di appartenere a una comunità e al suo calore, dove la vita assuma un senso; e insieme a questa risposta, l'idea di una decadenza della società moderna. Essa diventa davvero irrazionale nel momento in cui vediamo società composte da migliaia di individui che vengono chiamate a dover svolgere questo ruolo di "comunità" nazionale, razziale o regionale. Se aggravato, questo comunitarismo può finire  per produrre l'idea che esista salvezza solo nel sacrificio di sé stessi, ai fini dell'avvento - o della difesa - di una simile comunità. Pertanto, per ottenere tutto questo, nessuna deviazione, o obiezione di coscienza, rispetto ai valori della comunità andrebbe tollerata.
    In secondo luogo, l'insicurezza degli uomini riguardo alla propria virilità. Gli uomini imparano a reprimere l'espressione dei propri sentimenti, così come l'empatia verso quelli altrui, imparano a concentrarsi sul lavoro, facendolo a discapito delle proprie relazioni emotive: un condizionamento queto,  che può solo aggravare la loro solitudine. Al contrario, per la maggioor parte di loro, l'ideale di una virilità irraggiungibile, legata al successo sociale, rimane una fonte continua di umiliazione. La risposta psicologica corrispondente è quella secondo cui la comunità ideale viene fantasizzata da loro a partire da un modello spartano, dove gli uomini si riconoscono a vicenda nella loro propria virilità comune. L'irrazionalità di questa risposta, ancora più evidente rispetto al primo punto, consiste nel voler cercare il rimedio proprio nel male. Se aggravato, questo virilismo può produrre l'idea che gli uomini debbano essere guerrieri, e le donne, madri e mogli dei guerrieri. Nessuna disabilità - né alcuna deviazione dalle norme tradizionali di genere - può essere tollerata.
    Terzo, il senso di colpa che deriva dal privilegio bianco. I bianchi sanno che parte del loro comfort deriva dallo sfruttamento coloniale e dalle sue eredità. La corrispondente risposta psicologica, consiste nel nascondere a sé stessi questa ingiustizia, denigrando le persone e le culture associate ai paesi colonizzati. Ma una simile rappresentazione, finisce per colorarsi degli elementi precedenti. Per una comunità di guerrieri, gli stranieri sono nemici, pronti a colonizzare a loro volta. Così, ai barbari africani, o orientali, viene attribuita una virilità straordinaria e minacciosa, mentre ad altri una lasciva effeminata. Infine, in tutto questo, vediamo che la figura dell'ebreo assume un'importanza particolare, a causa della sua associazione, reale o immaginaria, con degli ambienti intellettuali o finanziari: egli diventa così l'incarnazione della fredda astrazione della società moderna. Se aggravato, questo razzismo può produrre l'idea secondo cui la comunità dovrebbe rimanere pura e - se necessario - purificarsi dagli elementi etnici stranieri.

Nessuna influenza culturale esterna al gruppo - e nessun membro esterno - verrà tollerata. Se questa analisi è corretta, allora la conclusione è quella che le persone che oggi lavorano per promuovere la convivialità su piccola scala, e/o per decostruire mascolinità e bianchezza a livello personale, contribuiscono alla lotta antifascista. In modo che così, in effetti, riconoscendo l'importanza della sfera privata, stanno facendo ciò che i socialisti degli anni Trenta non riuscirono a fare.

- Tristan Lefort-Martine - Pubblicato su lundimatin#498, 24 novembre 2025 -

giovedì 27 novembre 2025

Contaminazioni, e Processi…

   La complessità della morte di Socrate: nonostante fosse una sorta di "eroe di guerra" (Socrate aveva servito come oplita nella guerra del Peloponneso), egli venne comunque condannato (tra le altre cose) a causa della sua mancanza di impegno nei confronti dell'ortodossia che governava (o che doveva governare, secondo coloro che lo condannarono) la città. Condannato per aver corrotto la gioventù,  ma non "necessariamente" per averli indirizzati verso una certa direzione, ma quanto piuttosto per aver loro insegnato "che esistono altre direzioni"; condannato per non aver corroborato "in maniera acritica" la dimensione religiosa che aveva assunto la vita in città (la religione costituiva il braccio della politica, in quanto ingrediente della coesione sociale), e per aver sostenuto di intrattenere una sorta di connessione privata con la divinità; che poi si tratta sempre di quella vecchia discussione, così ben riassunta e sviluppata da Plutarco, del rapporto che Socrate aveva con i suoi "daimon" personali.

   Forse si potrebbe dire - seguendo la linea di pensiero di Friedrich Kittler -  che una parte dell'apprendimento impartito da Socrate consistesse nello stabilire un nuovo modo di comunicare con il divino: il poeta speculativo, inteso come un mezzo di contatto tra l'alto e il basso, tra il dicibile e l'indicibile, tra tutto ciò che appartiene e che riguarda l'etere, la nuvola, il cosmo, e quello che invece appartiene a ciò che sta in basso, l'accessibile, i sensi, il quotidiano; Socrate costruisce pertanto come una sorta di infrastruttura volta a inaugurare questo nuovo hub comunicazionale; con una contraddizione decisiva, tuttavia, per cui egli ... non si sporca le mani, non scrive, non registra, non "inscrive" la sua innovazione tecnologica (il compito di questo verrà lasciato a Platone).

   Ora però,  anche prima di Kittler - con Marshall McLuhan, nella "Galassia di Gutenberg": «Prima di Socrate, il sapere, la conoscenza era stata il precettore che ci insegnava come vivere rettamente e parlare bene. Ma con Socrate venne la frattura tra la lingua e il cuore. Ed era inspiegabile che, tra tutte le persone, fosse stato proprio l'eloquente Socrate a dare inizio alla scissione tra il pensare saggiamente e il parlare bene». Socrate, visto come il poeta che abbandona la vita per dimostrare il suo punto di vista; che cede ai capricci dei governanti, persino potendo scegliere l'esilio; spinge fino al limite la sua dottrina, la sua posizione, così come la consapevolezza di essere soltanto una goccia nell'oceano, nient'altro che un granello di sabbia sulla spiaggia (la morte che egli potrebbe evitare, è conseguenza dell'idea che «so solo di non sapere nulla»).

   In tal senso, Socrate prepara il terreno per l'arrivo di Gesù, dal momento che è Socrate a preparare il terreno per il martirio, vale a dire, per la valorizzazione filosofica dell'auto-sacrificio di sé come procedura della difesa di una credenza, di una dottrina. La strada che porta a Paolo e alle sue epistole è la stessa che, dal sacrificio di Socrate, porta a quello di Gesù; Paolo, nutrito dalla precedente filosofia greca (gran parte della quale è stata coinvolta nel compito di dare un senso al sacrificio di Socrate, ossia, dare senso alla relazione tra la parola e la verità, tra la libertà e la politica, e così via), riconfigura e riorganizza l'avvenuto sacrificio di Socrate, inquadrandolo in un nuovo contesto dottrinale, reso a sua volta possibile dal sacrificio di Gesù; le strutture teoriche di Platone e di Paolo, vengono edificate sulle eredità di questi due celebri cadaveri (condannati in dei processi, le cui sentenze vengono eseguite con metodo, all'interno di un rituale precedentemente stabilito).

fonte: Um túnel no fim da luz

domenica 23 novembre 2025

Competitivi e Pronti alla Guerra…

Militarizzazione, tagli sociali, economia di guerra... Guerra?
- di Herbert Böttcher -

   In poche settimane, la Germania ha tolto i freni al Debito innescando un Debito gigantesco. È questo il modo in cui dovrebbe trasformarsi l'economia tedesca, destinata a essere competitiva e pronta alla guerra. La necessità di una militarizzazione appare talmente plausibile da non esserci nemmeno un dibattito su quanto siano realisti gli scenari di militarizzazione. Come "giustificazione", basta dire che "Il russo è alla porta" (Jens Spahn). Per cercare degli scettici, bisogna rivolgersi ad Habermas. «Anziché grida di guerra che sventolano bandiere... sarebbe necessario riflettere in maniera realistica su quali sarebbero i rischi di una guerra prolungata» [*1], egli scrive, ricordando l'inizio dell'attacco russo all'Ucraina. Le chiese si comportano, ancora una volta, in maniera piuttosto conformista. Si dovrebbe sostenere la politica, [*2] ci avverte un teologo morale. Come se fosse necessario! Da sinistra, ci mettono in guardia rispetto a un orientamento imperialista: «Una pretesa europea di essere una potenza mondiale sarebbe una errore fatale».[*3] In tutto questo, la questione della guerra e del capitalismo continua a essere ignorata. In contrasto con il desiderio di avere un "mondo perfetto" di normalità capitalistica, quella che non sembra emergere, è proprio la critica del capitalismo. Tuttavia, sarebbe essa quella più necessaria che mai; non come regressione, però, vista nel contesto di un "eterno ritorno" delle invocazioni alla lotta di classe, o a delle personalizzazioni che - contrariamente alle analisi che parlano di dominazione astratta - insistono sul fatto che i dominanti possono essere identificati in quanto attori centrali.[*4] Un "pensiero realistico" dovrebbe riconoscere che le crisi non sono imputabili ai dominanti; così come non lo sono né i loro successi né i loro fallimenti. E non si tratta nemmeno di un'espansione imperiale del potere nazionale, oppure di quello dei vari blocchi, quanto piuttosto di un imperialismo di esclusione e sicurezza. Le "guerre di ordinamento mondiale"(Robert Kurz) [*5] degli ultimi decenni, sono stati una reazione dell'Imperialismo di sicurezza agli stati che collassano a causa della crisi del capitalismo e che continuerà, fino alla sua transizione che porterà a una situazione di ferocia, nella quale gang, gruppi Terroristi e resti di attori statali combatteranno per i residui, vale a dire per l'accesso alle materie prime, agli impianti di produzione e a quei mercati rimasti ancora funzionanti. Le "guerre di ordine mondiale", erano intese a creare ordine e a garantire così il funzionamento del capitalismo globale. Tutto questo è miseramente fallito, come testimoniato eloquentemente dal caotico ritiro dall'Afghanistan. L'Imperialismo di Esclusione prende di mira i migranti, i quali vengono visti come se costituissero una minaccia per i mondi della prosperità.

   Di fronte alla necessità di sostituire il lavoro, il solo che genera valore e plusvalore, attraverso la tecnologia, vediamo come la normalità capitalista della prosperità stia raggiungendo i limiti della sostenibilità finanziaria. La risposta data dall'amministrazione della crisi è stata quella di tagliare la spesa sociale interna, e usare la repressione per proteggere dall'esterno le frontiere, dai rifugiati. Tutto ciò corrisponde alla logica capitalistica che seleziona le persone, in quanto materiale umano da dividere tra prezioso o superfluo. Con l'attacco della Russia all'Ucraina, la guerra ritorna in Europa. [*6] Ciò dimostra che anche le vecchie grandi potenze sono coinvolte nei processi di disintegrazione economica e politica. Il Collasso dell'Unione Sovietica, e del suo Impero, non ha costituito il collasso di quella che sarebbe stata un'alternativa al sistema, quanto piuttosto il collasso del sistema, nella sua variante statalista della produzione di merci.[*7] Dopo il fallimento del tentativo, fatto dalla Russia, di superare la crisi attraverso misure neoliberiste, vediamo come, sotto Putin, si stia assistendo a una svolta nazionale-autoritaria, per mezzo della quale si pretende ora di riprendere il controllo, di fronte alla disgregazione. Già, in quanto vicepresidente della Camera e presidente della Commissione Affari Esteri di San Pietroburgo, Putin, di fronte ai rappresentanti dell'economia tedesca, aveva chiarito come egli stesse considerando una dittatura militare, nello stile cileno di Pinochet, vista come una risposta ai problemi della Russia. La cosa venne accolta con un applauso amichevole da parte dei rappresentanti dell'economia tedesca, così come del Console Generale tedesco che era presente. [*8] L'autoritarismo di Putin è diventato un problema in Occidente, solo quando è entrata in gioco la politica economica nazionalista della Russia, in conflitto con gli interessi occidentali. Inizialmente, gli Stati Uniti erano riusciti a compensare il proprio declino economico, dovuto alla forza militare e al dollaro a essa legato in quanto valuta mondiale. La situazione economica potrebbe ora essere stabilizzata attraverso dei circuiti di deficit, i quali hanno reso possibile mantenere il debito esorbitante all'interno dell'ambito di un Economia delle bolle finanziarie. Il profilarsi di nuove crisi finanziarie ricorrenti, segnala però la fine dei circuiti di deficit. Anche l'economia cinese è in crisi, come viene chiaramente segnalato in particolare dal deragliamento del progetto egemonico della Via della Seta. [*9]

   La fase neoliberista, che aveva compensato la crisi di accumulazione di capitale usando montagne di debito globale, e di corrispondenti bolle speculative, sta ora per finire. Tuttavia, sta di fatto che, dalla crisi, non può emergere alcun nuovo potere egemonico, dal momento che non c'è in vista alcuna nuova fase di accumulazione di capitale, in grado di poter servire da base per far questo. Gli Stati Uniti sono in declino, ma nemmeno la Cina può essere in grado di assumere il ruolo di nuova potenza egemonica, come avevano fatto un tempo gli USA. Il declino economico, viene a essere accompagnato da una perdita della capacità politica di agire, tanto interna quanto esterna. E tuttavia, la lotta per la dominazione continua. Alleanze di convenienza, si alternano sempre più velocemente all'inazione tattica . Anche le grandi potenze sono in competizione irrazionale tra di loro, al fine di riuscire ad attuare una sorta di auto-affermazione nel bel mezzo della decadenza. La mancanza di prospettive, rende ancora più autoritarie, imprevedibili, irrazionali e pericolose tutte le loro azioni. E tutto questo viene accompagnato da un'assenza di riflessione sociale su quella che è la totalità delle relazioni capitalistiche, e sulla loro crisi. La falsa immediatezza - così come il suo contrario, l'inazione -  si riflette nella cosiddetta personalizzazione. Ecco così che l'ossessione di Putin per il potere finisce per diventare allora il problema centrale. A partire da Trump, il i processi di decadenza economica e politica negli Stati Uniti vengono ora proiettati nella follia di un presidente narcisista che agisce in maniera irrazionale.

   L'Europa si rifugia nel mondo ideale della democrazia, e allucina sé stessa vedendosi come un baluardo della difesa della libertà e dei diritti umani. Ciò di cui non si tiene conto, è il fatto, che nella realtà, si intende in tal modo difendere solo la libertà dei solventi (di coloro che devono ripagare il debito), e questo viene fatto non in modo "liberale", quanto piuttosto in modo sempre più autoritario, repressivo, carico di risentimento e irrazionale, nel mentre che i processi di crisi sfuggono al controllo. La militarizzazione, in quanto risposta irrazionale e immediata non si limiterà solo agli armamenti. Ma bisognerà che anche la frontiera interna debba essere preparata alla Guerra. È prevedibile che il debito aggraverà ulteriormente le crisi. I processi di crisi, sempre più gravi, che colpiscono e interessano principalmente l'ecologia e la sicurezza sociale, così come la politica vista come livello regolatorio, potrebbero finire per aprire la strada a qualcosa di simile a un economia di guerra. Nel bel mezzo di tutte le crescenti incertezze delle crisi, aumenta anche la pressione volta a garantire l'accesso alle risorse e per far sì che sia possibile, quanto meno, una riproduzione social-darwiniana. Quello che rimane potrebbe essere una sorta di miscela tra un regime autoritario e la cosiddetta anomia: analogamente a quanto sta accadendo nelle regioni in decadenza nel globo.

   In tutto questo si annida la possibilità di un'irrazionale autodistruzione – forse ancora più forte in un'Europa che è la massima espressione della difesa della libertà e della democrazia – e in una situazione in cui l'obiettivo irrazionale del capitalismo, ovvero accumulare capitale per il gusto di farlo, sta raggiungendo i suoi limiti assoluti. Per la sinistra, la sfida centrale è quella di liberarsi da una realpolitik nella quale non c'è nulla che tenda a essere reale, e dove tutto è illusorio. Bisognerebbe che guardasse alla società nel suo insieme, e a partire da quella criticasse le indignazioni sociali, il risentimento contro i migranti e i più deboli, così come l'ignoranza, soprattutto quella relativa alle crisi ecologiche. A partire da questa prospettiva, sarebbe necessario opporsi in maniera offensiva alla militarizzazione, e alla propaganda relativa alla capacità bellica, e  nell'ambito di un'etica della responsabilità, contrapporsi decisamente a tutti coloro che cantano inni al Eroismo militare e trasformano nel più alto dovere civico quella che invece è solo la loro disposizione alla morte eroica. Mentre così vediamo agire con particolare cinismo gli ex obiettori di coscienza che annunciano che, nelle condizioni attuali, non rifiuterebbero il servizio militare. Simili campioni, non dovendo più temere un ordine di marcia, mandano senza esitazione altri alla morte eroica. Solo assumendo quella che è la totalità della socializzazione capitalistica, vista come dominazione astratta, è possibile riconoscere quale e quanto sia il potenziale pericoloso e irrazionale che vediamo associato alla militarizzazione, e capire che l'emancipazione è possibile solamente se si rompe con la forma capitalistica della società e se, su questa base, vengono promossi dei processi di trasformazione. Cosa che, innanzitutto, richiede una pausa per poter riflettere, anziché continuare a emettere grida di guerra.

- Herbert Böttcher - Originariamente pubblicato su: micha.links 1/2025 -

NOTE:

1. Jürgen Habermas, Ein Appell für Europa (Un appello per l'Europa). Articolo pubblicato su Süddeutsche Zeitung, 21.3.2025.

2. Secondo il teologo morale Jochen Sautermeister al Kölner Stadt-Anzeiger il 10.3.2025.

3. Jan von Aken, citato da Kölner Stadt-Anzeiger del 10.3.2025.

4. Cfr. (Perché è giusto personificare la critica al capitalismo), in: Neues Deutschland, 20.3.2025 e, un po' più elaboratamente:  (Potere dei potenti o Dominio anonimo? Sulla costituzione dell'economia), in: Jochen et al. (a cura di), Ökonomie als Gesellschaftstheorie, Baden-Baden 2024,

5. Vedi  La Guerra dell'Ordine Mondiale. La fine del Sovranità e le metamorfosi dell'imperialismo nell'era della globalizzazione, Online: http://obeco-online.org/a_guerra_de_ordenamento_mundial_robert_kurz.pdf

6. Almeno questa è la percezione pubblica. Le Le guerre jugoslavie negli anni '90, in parte dichiarate missioni di mantenimento della pace della NATO, sono generalmente "ignorate".

7. Vedi Robert Kurz, Der Kollaps der Modernisierung. Vom Zusammenbruch des Kasernensozialismus zur Krise der Weltökonomie, Lipsia 1991.

8. Vedi https://www.rf-news.de/2022/kw09/1993-putin-nahm-sich-pinochet-als-vorbild;

9. Cfr. Tomasz Konicz, Mehrfachkrise statt Hegemonie. Wieso die staatskapitalistische Volksrepublik nicht in der Lage sein wird, die USA als Hegemonialmacht zu beerben, in: Netztelegramm. https://www.oekumenisches-netz.de/wp-content/uploads/2022/10/nt-2022-2-druckversion.pdf. Cina: Crisi multiple invece di egemonia. Perché la Repubblica Popolare statale-capitalista non erediterà il potere Egemonia negli Stati Uniti, online: http://www.obeco-online.org/tomasz_konicz32.htm

Le lacrime e la sobrietà dell’analisi !!

Per lo storico Omer Bartov, la memoria dell'Olocausto ha oscurato la Nakba ed è diventata parte del proseguimento della catastrofe palestinese: nel suo ultimo libro, cerca pertanto di riuscire a collocarle nel medesimo contesto storico e morale. Qui, Eva Illouz ci offre un lettura di tale operazione, e lo fa mettendo in discussione gli occhiali politici di Bartov, chiedendosi fino a che punto il raffronto sia ragionevole, e che piuttosto non distorce gli oggetti che intenderebbe unire tra loro?

Omer Bartov e i limiti del confronto storico
- Recensione di "Genocide, the Holocaust and Israel-Palestine: First-Person History in Times of Crisis"" (Bloomsbury Academic) di Omer Bartov -
di Eva Illouz

Questo libro, è composto da diversi libri insieme: da un saggio storiografico, da un appello politico e da una testimonianza personale. In tal modo, mette in discussione quella che è l'interpretazione eccezionalista dell'Olocausto, così come la riduzione di questo evento, nel momento in cui esso viene invece piuttosto concepito come se fosse un caso unico, visto all'interno di un quadro più ampio di "genocidio coloniale". Quello che fa Bartov, è piuttosto di invitarci ad affrontare l'Olocausto vedendolo in una tensione fertile, tra la sua singolarità e la sua comparabilità con le altre forme di genocidio, tenendo allo stesso tempo conto degli attributi specifici di ciascun genocidio. Nel contesto degli studi postcoloniali, nei quali viene respinta la presunta pretesa di singolarità dell'Olocausto, trattandolo come se non fosse stato altro che l'ennesimo massacro coloniale europeo, questa proposta diventa benvenuta. Essa, ha il valore di preservare la singolarità dell'evento, senza però cedere alla strumentalizzazione della memoria inserendola in una sorta di  contesto delle competizioni tra le vittime.

Una storia dell'Olocausto a livello locale
Nei migliori capitoli, viene a essere esaminata quella che è la specificità geografica e culturale dell'Olocausto, nell'Europa dell'Est, un progetto rispetto al quale Timothy Snyder ha contribuito in modo significativo con il suo "Bloodlands" (2010), ma dove tuttavia rimane ancora molto da fare. Particolarmente utile, è l'attenzione che viene rivolta alle dinamiche innescate dalle radici locali: per Bartov, l'Olocausto non è solamente un massacro industrializzato compiuto burocraticamente, ma è anche un evento intimo e comunitario, strettamente intrecciato con le relazioni di vicinato, e persino relative anche alla vicinanza che gli occupanti nazisti instaurarono con le loro vittime ebraiche. Qui, l'opera di Bartov si incrocia con il decisivo "Neighbors" (2000), di Jan Gross, il quale esplorava il massacro di 1.600 ebrei a Jedwabne nel 1941, compiuto con la partecipazione attiva ed entusiasta dei loro vicini. Bartov, si concentra invece su Buczacz, nella Galizia orientale (da dove proviene la famiglia dello storico), e scopre i molteplici modi in cui i suoi 60.000 ebrei vennero sterminati, e questo malgrado ci fosse  una presenza tedesca minima. Alla luce della Microstoria, viene mostrato come almeno la metà delle vittime ebree venne uccisa dentro, o vicino alle loro case, e non nei campi, ma neppure su ordine diretto, bensì da persone che essi conoscevano. Questa narrazione, mette in discussione l'idea preconcetta di un'impresa burocratica, anonima e assassina, e mette piuttosto in evidenza il ruolo avuto dalle dinamiche comunitarie nella sua attuazione. Particolarmente preziosa, appare la sua nozione di "luoghi di non-memoria" – quali le sinagoghe abbandonate – poiché  mostrano la graduale cancellazione della precedente presenza ebraica. Bartov è uno storico rigoroso, che mobilita le testimonianze dei sopravvissuti, carnefici e testimoni. Non è l'unico ad aver seguito la via della storia testimoniale, ma si dimostra esemplare nella sua meticolosità. Prestando attenzione costante alle esperienze vissute, e alle interazioni concrete, questa storia dal basso ci offre una visione più multidimensionale di quella che è stata una catastrofe la cui portata si è vista troppo spesso ridotta alla macchina ufficiale (e lo fa revisionando e sostituendo la lettura canonica di Hannah Arendt). In tal modo, rende più comprensibile un fenomeno che ha stupito le menti per il grado e per l'entità della sua irrazionalità. L'analisi dei tribunali del dopoguerra, apre la strada al secondo tema del libro: la costruzione e l'uso di una memoria distorta. Nel dopoguerra, i tribunali tedeschi aiutarono a eludere le responsabilità, e lo fecero, percependo assai spesso i responsabili come se fossero stati solo dei semplici ingranaggi di una vasta macchina, se non addirittura come se fossero anch'essi delle vittime a loro volta, evadendo in tal modo la questione della loro complicità. Sono state anche messe in discussione le testimonianze delle vittime. Le aule di tribunale, ancora piene di ex nazisti, hanno pertanto così formato una memoria selettiva, e delle narrazioni collettive fuorvianti, relative a colpevolezza e a responsabilità. Tutto questo prepara la discussione in quei paesi che hanno messo in pratica una memoria selettiva; tra i quali Ucraina, Polonia, Turchia e Israele. Ciò che tutti essi hanno in comune, è l’avere approvato leggi che criminalizzano alcune narrazioni commemorative (la "legge sull'Olocausto", polacca, del 2018, la quale limita l'evocazione del ruolo avuto dai  polacchi nella distruzione degli ebrei; l'Ucraina, che glorifica i combattenti complici dei nazisti; la Turchia, che vieta la menzione del genocidio armeno; e in Israele, la cosiddetta "legge Nakba", la quale criminalizza la commemorazione della Nakba). Queste leggi, sostiene Bartov, hanno aiutato tali nazioni a eludere la propria responsabilità morale relativa alla pulizia etnica o al genocidio.

Quando la memoria diventa politica
L'ultima parte – che confronta i sopravvissuti ebrei sfollati dall'Europa, da una parte, e i palestinesi sfollati dalla Nakba (1948), dall'altra – viene goffamente articolata con le precedenti, dal momento che essa cerca di collegare la Germania nazista e il Medio Oriente per mezzo del prisma della memoria. Qui, Bartov supera una linea, quella che separa una ricerca archivistica attenta da quelle che sono delle controverse dichiarazioni politiche. Il X°capitolo, si legge come un saggio intimo che ripercorre l'itinerario compiuto da Bartov. Figlio di sopravvissuti all'Olocausto in Israele, divenne uno storico della Wehrmacht – dimostrando così la complicità di quest'ultima nei crimini nazisti – e della città natale di sua madre, Buczacz. Probabilmente è stato proprio questo interesse per la Wehrmacht a portarlo a scrivere, nel 1987 durante la Prima Intifada, una lettera a Yitzhak Rabin (allora Ministro della Difesa), avvertendolo del fatto che l'esercito israeliano rischiava di compiere atti di barbarie morale ed etica, paragonabili a quelli dell'esercito tedesco sotto il nazismo (una lettera che egli cita molto spesso). Ai suoi occhi, gli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1948, quando fu creato lo Stato di Israele, furono fatali: fu lì che gli ebrei perseguitati si arrogarono il diritto di perseguitare i nativi. Gli sradicati sono diventati degli sradicatori. Era, dice Bartov, una guerra di vendetta per atti commessi che erano stati commessi da altri. Si appropriarono della terra, cancellarono la presenza degli altri; poi chiamati palestinesi. Questo, dagli ebrei, venne percepito come giustizia, ma da parte dei palestinesi, come espropriazione. Eppure, ci dice Bartov, «i passati repressi, raramente scompaiono», e l'oblio spianerà la strada verso l'inferno. In Israele, i resti del passato palestinese sono stati cancellati, come altri resti sono stati cancellati in Ucraina, o in molti villaggi polacchi. Bartov ci offre un parallelo ancora più radicale: tra l'inumanità di un soldato nazista, che demonizza un ebreo in quanto minaccia per il mondo, e l'inumanità dei soldati israeliani, che combattono i palestinesi durante l'Intifada o, come dice nei testi recenti, durante la guerra di Gaza. Egli arriva a chiedere un'empatia radicale: vedere il mondo attraverso gli occhi di ciò che abbiamo cancellato, e la cui voce non è più udibile. Secondo Bartov, il doppio spostamento di ebrei e palestinesi ha finito per ancorare le loro rispettive identità alla perdita, rendendo così indissolubili le loro rivendicazioni territoriali. L'ultimo capitolo, allinea delle affermazioni, legittime senza dubbio, ma formulate in maniera impressionante e piene di buone intenzioni, sulla necessità di dare voce alla narrazione della Nakba. Solo allora emergerà un futuro plausibile per tutta la regione, riconoscendo così sia l'Olocausto che la Nakba. C'è molto da lodare in questo libro, il quale ci offre una chiara sintesi dell'opera storica di Bartov, e giustifica l'alta reputazione che egli ha acquisito tra gli storici. Ma c'è anche molto da contestare e da dibattere. Questo libro avrebbe dovuto uscire come due libri separati, e soffre pertanto di una disgiunzione tematica. Anche il tono è dissonante: la distanza accademica non coesiste bene con le vituperazioni da "profeta sulla montagna". Cosa ancora più preoccupante: Bartov scrive come se essere uno storico dell'Olocausto gli conferisse un'autorità speciale al fine di poter parlare del conflitto israelo-palestinese. La sua ossessione sulla "disumanizzazione" funge da ponte tra due epoche storiche e due aree geografiche che hanno assai poco in comune. Perfino un grande storico del genocidio tedesco, non ha per questo il privilegio di un punto di osservazione che gli consenta di arbitrare il conflitto più complesso e infiammabile del pianeta. L'Olocausto, non è stata una disputa territoriale, e ci offre assai poca luce per illuminare meglio quello che è un antico confronto tra due popoli; e un'occupazione intollerabile, che priva i palestinesi di qualsiasi diritto umano fondamentale, non è tuttavia paragonabile a una vasta impresa di distruzione. Inoltre, Bartov, a volte, sembra suggerire che sia proprio la memoria dell'Olocausto a essere responsabile della perpetuazione del conflitto mediorientale. In assenza di potere analitico, l'ultima parte può quindi essere letta come una raccolta di ammonimenti e di pii desideri.

Le trappole della memoria collettiva
La memoria collettiva funziona come la memoria personale. Innumerevoli studi in psicologia cognitiva, dimostrano che essa è altamente selettiva. Ricordare, significa ricordare male, vuol dire cancellare i fatti che minacciano l'identità personale. Come gli individui, anche i gruppi scrivono e riscrivono il passato, al fine di costruire una narrazione coerente, nella quale appaiono, a loro volta, come eroi e vittime. Queste storie sono la base della loro identità. Possiamo deplorare il fatto che la memoria sia una pessima Storica, ma piangerci sopra non cambierà nulla. Dal momento che la memoria è sempre così centrale per l'identità, essa è sempre di parte; in entrambi i sensi della parola. Ecco perché abbiamo bisogno di storici: proprio per salvare la memoria dai suoi fallimenti, riesumando fatti dimenticati, e documentando i meccanismi istituzionali,  come quando gli attori orchestrano delle cancellazioni selettive. Una volta che sarà stata completata questa scoperta di tutte le verità scomode, i gruppi faranno ciò che possono con tali verità: a volte potranno affrontare il loro passato, a volte no. Ma ci si chiede se rimproverare Yad Vashem, perché aderisce a una narrazione sionista che trascura la Nakba, sia un modo produttivo, o moralmente saggio, per avanzare verso la soluzione di questo conflitto. Tutti i gruppi (inclusi gli ebrei) costruiscono la propria identità attorno a un filo della loro storia, e trascurano tutti gli altri. Francia, Belgio e Germania, non hanno mai affrontato davvero, per molto tempo, dopo la fine della violenza, quello che è stato il loro passato genocida. Israele si trova ancora immerso in un conflitto sanguinoso. Perché allora pretendere da esso ciò che nessun altro paese è riuscito a realizzare prima: rappresentare, nel mezzo della guerra, due narrazioni moralmente e politicamente antagoniste, o ancora e di più, comporre una grande narrazione polifonica con voci e trame intrecciate? I palestinesi in Israele possono e devono raccontare la propria storia, ma molti ebrei israeliani potrebbero non essere pronti ad ascoltarla – non perché siano dei bruti immorali, ma, purtroppo, la guerra porta prima di tutto l'adesione alla propria narrazione nazionale. Piuttosto che incolpare Yad Vashem, per aver omesso la Nakba, sarebbe stato più appropriato criticarla per una cecità ancora più palese: il museo menziona a malapena lo svolgimento dell'Olocausto nei paesi arabi, e il Farhudun pogrom devastante e brutale contro gli ebrei ,in Iraq nel 1941, ispirato da un regime arabo vicino ai nazisti – è stato completamente omesso, ignorando così la dimensione non europea del nazismo. Questa critica sarebbe stata ben più appropriata, sottolineando come l'orientalista Yad Vashem non sta recandosi in quello che si afferma che sia: un museo che commemora la distruzione del popolo ebraico nel suo insieme; e che pertanto viene complicata anche la narrazione della Nakba, collocandola in un più ampio quadro mediorientale di espulsioni degli ebrei dai paesi arabi. C'è un altro problema, più serio, legato alla legittimità delle narrazioni sioniste e dell'Olocausto, e alla loro cancellazione dalla narrazione palestinese. In linea con le tesi decoloniali, Bartov sostiene che le narrazioni collettive sioniste basate sull'Olocausto sono una macchina ideologica che produce un senso di eccezionalità, cieche ai crimini di Israele e alle sofferenze palestinesi. In "The Problems of Genocide" (2021), Dirk Moses ha sostenuto, in modo simile, una memoria non gerarchica, che spodestava l'Olocausto dal suo posto centrale nella cultura memoriale europea. Questo approccio viene difeso anche da Achille Mbembe, per il quale l'Olocausto fa parte di un continuum di violenza coloniale, non degno del suo posto centrale nella storia della violenza. Comprenderei, piuttosto, molto meglio l'obiezione alla visione eccezionalista dell'Olocausto, se essa avesse tenuto conto dell'unicità della condizione ebraica, e distinto più chiaramente l'eccezionalismo dalla singolarità storica. Il sionismo, fu la risposta ideologica ed esistenziale alla comprensione che l'Illuminismo non avrebbe cancellato la violenta persecuzione degli ebrei (i pogrom del 1881-1882 in Russia, l'affare Dreyfus e i pogrom in Ucraina dopo la Prima Guerra Mondiale ne testimoniano). Inoltre, lo Stato di Israele nacque a seguito dello spettacolare successo dei nazisti nell'eliminare gli ebrei; i nazisti intendevano portare al termine il lavoro, anche in Palestina, annientando i sionisti; i leader arabi dell'epoca erano tutti allineati con il fascismo italiano e con il nazismo tedesco, chiedendo un annientamento simile, e rifiutandosi di scendere a compromessi. Ricordare questi fatti, e integrarli nella narrazione collettiva, non significa invocare l'eccezionalismo: significa riconoscere la situazione storica singolare degli ebrei; forse troppo scomoda per molti. Poco dopo la creazione dello Stato di Israele, in realtà dopo la Guerra dei Sei Giorni, grazie allo sforzo concertato dell'Unione Sovietica e degli stati arabi, l'arena internazionale iniziò a mettere in discussione la legittimità dello stato ebraico (vedi, ad esempio, la Risoluzione ONU 3379 del 1975, la quale dichiarava il sionismo una forma di razzismo; oppure la conferenza di Durban del 2001 che ripeté l'accusa). Non fu l'occupazione della Cisgiordania, delle Alture del Golan e di Gaza a consolidare una certa memoria dell'Olocausto, ma la crescente sensazione che la legittimità di Israele non fosse più così evidente. Incolpare Israele per aver portato leader stranieri a Yad Vashem, appare meschino e ingiusto. Il sospetto decoloniale e progressista, secondo cui la memoria dell'Olocausto sia solo strumentalizzata, mina in ultima analisi l'intelligibilità del sionismo. Forse l'accusa di strumentalizzazione, è essa stessa strumentalizzata da degli attori politici che erano, e sono ancora, ostili all'esistenza di Israele (l'ex URSS ha seminato i semi; Iran, i Fratelli Musulmani e la Jihad Islamica li hanno coltivati). Questa discussione, avrebbe acquisito chiarezza qualora  Bartov avesse distinto tra eccezionalismo e singolarità storica, tra strumentalizzazione inaccettabile e strumentalizzazione di routine della memoria collettiva (l'arrivo di Gilad Erdan all'ONU con una stella gialla è grottesco; i leader principali di Yad Vashem rappresentano la politica ordinaria). Più fondamentalmente: se dobbiamo criticare la strumentalizzazione della memoria della Shoah, allora perché mai la narrazione della Nakba dovrebbe sfuggire allo stesso sospetto? Non c'è anche qui opportunismo politico? Perché Bartov e altri progressisti esentano la memoria della Nakba dall'esame che applicano invece alla memoria dell'Olocausto? Ecco il punto cieco di una simmetria forzata: uno (la Shoah) sarebbe uno strumento politico rozzo; l'altra (la Nakba), sarebbe invece la base di indiscutibili pretese morali. Non hanno forse, i difensori della causa palestinese, mobilitato e plasmato anche risorse simboliche e organizzative, per i loro obiettivi politici? Le loro narrazioni contengono omissioni paragonabili a quelle delle narrazioni nazionali israeliane. Come ricorda Mitchell Cohen, la parola Nakba — "catastrofe" — fu usata per la prima volta da Constantin Zurayk, un pan-arabista, al fine di deplorare la disunità araba nel 1948, e nel tentativo di sconfiggere i sionisti. Inoltre, il panislamismo, un risveglio religioso del diciannovesimo secolo, volto a unire i musulmani e fortemente contrario all'Occidente e al sionismo, ha svolto un ruolo chiave nella formazione della coscienza palestinese, manifestatasi oggi in gruppi come Hamas o la Jihad Islamica. Questi fatti dovrebbero entrare nella narrazione della Nakba? Se la memoria collettiva è sempre un'arma politica nelle lotte ideologiche e nella costruzione dell'identità - e quasi sempre lo è - allora questo vale per tutti i partiti. Relegare una narrazione al regno della politica strumentale di base, e l'altra al cielo sublime dell'alta moralità, o è una contraddizione concettuale oppure è un trattamento discriminatorio. Per quanto riguarda l'affermazione secondo cui la narrazione della Nakba sarebbe stata cancellata dalla coscienza collettiva israeliana, ancora una volta la tesi è aperta alla discussione, tanto per usare un eufemismo. Nonostante la "Nakba Law" del 2011 in Israele – che proibiva la commemorazione di ciò che accadde ai palestinesi nel 1948-49 – la narrazione palestinese è ben nota, e persino accettata da una parte significativa dell'élite israeliana, grazie soprattutto al lavoro degli storici post-sionisti. Fuori da Israele, la Nakba è tutt'altro che censurata. Ha conquistato un pubblico tale che molti la vedono come l'emblema di tutte le lotte progressiste. È stata plasmata attraverso molteplici canali istituzionali e realizzata da imprenditori morali e intellettuali che meritano un'indagine. Si è persino consapevolmente modellata sulla narrazione dell'Olocausto, presentando lo sfollamento di 700.000 palestinesi in una guerra, come se fosse un crimine senza paragoni nella storia moderna. Ancora una volta, Bartov non riesce a ragionare in modo comparativo. Se i genocidi devono essere paragonati, allora lo si deve fare anche con le pulizie etniche. A seguito della guerra greco-turca, circa 1,6 milioni di cristiani ortodossi dalla Turchia, e musulmani dalla Grecia, vennero scambiati con la forza, a partire dal Trattato di Losanna. Gli Alleati espulsero dai 12 ai 14 milioni di tedeschi etnici, ridisegnando i confini per rendere meno probabile la vendetta tedesca. La mappa dell'Europa del dopoguerra, venne ridisegnata da dei massicci e forzati movimenti demografici. Se l'Olocausto può essere paragonato ad altri genocidi, allora – per quanto tragico sia stata – anche la Nakba può essere paragonata ad altre pulizie etniche. Le sue cause, la portata, gli attori e le strategie politiche meritano di essere esaminate. Un serio problema dei rifugiati fu effettivamente creato; ma solo dopo che cinque paesi arabi dichiararono guerra a Israele nel 1948, quando era già riconosciuto dall'ONU. Rifiutarono ogni compromesso. Come si confronta questo, con altri casi in cui i belligeranti hanno perso la guerra? Dove si inserisce questo fatto nelle nostre valutazioni politiche e morali della tragedia? Bartov non lo dice. Né dice, se la condizione di 700.000 rifugiati palestinesi, in paesi dove potevano parlare la stessa lingua e praticare la stessa religione, possa essere paragonata all'eradicazione sistematica di una cultura, di una lingua e di un popolo dalla faccia della Terra. Dire questo non significa chiamare all'eccezionalismo, né minimizzare la tragedia palestinese. Serve per esigere delle analogie, trattate con rigore intellettuale, a rischio di confondere e rovinare il nostro panorama morale e le nostre categorie analitiche. Termini vaghi, come "disumanizzazione" e "perdita", da sé soli non possono portare il peso di una comprensione politica e morale dei conflitti in cui ciascun popolo desidera la scomparsa dell'altro. L'analisi di Bartov è sia troppo astratta che troppo personale per poter servire da guida morale o intellettuale. Il nostro cuore sanguina per qualsiasi tragedia – genocidio sistematico, espulsione o guerra – ma, nelle nostre comparazioni, le lacrime non devono sostituire la sobrietà dell'analisi. Infine, se denunciamo il fatto che una narrazione ne sostituisce un'altra, allora questa tesi risuona inevitabilmente altrove: la narrazione della Nakba, che è diventata centrale nell'opinione pubblica, non ha forse reso invisibili i milioni di rifugiati provenienti da altre regioni – come in Sudan o nel Congo – le cui tragedie non sono meno gravi di quelle dei palestinesi? Dicendo ciò, non cerco di diminuire o di deviare il disagio palestinese, ma ricordarci come la visibilità di una tragedia è quasi sempre pagata con l'invisibilità di un'altra. Così come la distruzione degli ebrei da parte dei nazisti, ha per troppo tempo oscurato la decimazione dei Rom, così come un unico focus sul genocidio degli ebrei ha ingiustamente reso invisibili le guerre coloniali genocidarie in Africa o in Asia, ci si chiede allora se l'attuale attenzione occidentale alla memoria palestinese, non abbia a sua volta bloccato il nostro impegno morale verso altre regioni. In particolare l'Africa, la quale sta urgentemente richiedendo la nostra attenzione collettiva. Il concetto di "memoria multidirezionale" di Michael Rothberg – fare sì che ogni ricordo si ispiri agli altri, anziché competere con essi – sarebbe la strada da seguire, ma lo spazio pubblico è saturo di gruppi dotati di tecniche e risorse finanziarie, per dirottare il dibattito a beneficio di una sola causa, rendendo invisibili altre tragedie, e riducendo la memoria multidirezionale a un desiderio illusorio. La mia visione dell'esito del conflitto israelo-palestinese, differisce profondamente da quella di Bartov. La memoria collettiva, così come la memoria personale, è instabile; sta cambiando, sia per ragioni opportunistiche, sia perché abbiamo una migliore conoscenza del passato, ed esso spesso viene strumentalizzato. Per questi motivi, non si possono fondare grandi progetti di pace e di riconciliazione, se non quando una parte si assume da sé sola la colpa e la responsabilità (come nella Germania del dopoguerra). Inoltre, la memoria collettiva, quasi per definizione, congela le ferite e irrigidisce il dolore. Dobbiamo districare l'identità tra memoria e ferite. Nei casi in cui due popolazioni devono coesistere – e solo in questi casi, come in Ruanda, Sudafrica o oggi in Israele-Palestina – l'esortazione, di David Rieff, a dimenticare piuttosto che insistere sulla memoria è la via più saggia (In "Praise of Forgetting", 2016]). Ciò di cui israeliani e palestinesi hanno bisogno, non è più memoria collettiva, ma una politica di dimenticanza e, sì, una politica di perdono.

- Eva Illouz - 19 novembre 2025 - Pubblicato su https://k-larevue.com/ -