giovedì 30 novembre 2023

Lavorare stanca …

Il romanzo del lavoro
- di Angelo Ferracuti -

Rimossa come un anacronistico ferro vecchio del Novecento, torna in Italia - e già successo in Francia e in Inghilterra - una nuova letteratura che racconta il lavoro come autorappresentazione di classe con memoir, poesia, reportage e romanzo dal vero. Quello sporco, corporale, operaio, precario, sfruttato di cui non si sa niente, mentre però si contano oltre mille morti all’anno nonostante la retorica neoliberista ripeta da tempo che le classi sociali non esistono più — siamo tutti ceto medio. Questo immaginario cancellato torna anche grazie a un partecipatissimo festival autogestito alla ex Gkn di Campi Bisenzio, Firenze, presidiata da due anni, la fabbrica che produceva semiassi per la Stellantis. Là dove lavoravano 500 operai — licenziati dal fondo speculativo britannico Melrose Industries Plc con un’email per delocalizzare la produzione — la scorsa primavera ho partecipato anch’io al festival leggendo i versi di Luigi Di Ruscio, scrittore autodidatta e operaio emigrato, «poeta di miseria e fame — ha scritto Franco Fortini, di avvilimento e di rivolta». Un risveglio storico e una forma di resistenza culturale operaia di straordinaria forza politica voluta dai delegati di fabbrica, dall’Arci, dalla casa editrice Alegre e coordinata da due scrittori toscani (entrambi figli di lavoratori) che su questi temi hanno costruito una loro originale poetica, Simona Baldanzi e Alberto Prunetti. La prima in libreria con la storia operaia al femminile di Se tornano le rane (Alegre, 2022) e il secondo con la ristampa il 5 settembre del suo libro d’esordio, Amianto (Feltrinelli).

Quello di Campi Bisenzio, festival unico in Europa come il Working Class Writers Festival di Bristol, sostenuto da un crowdfunding, è stato un controcanto rispetto alle passerelle degli intellettuali e dell’effimero dei tanti salottini sparsi per l’Italia, un evento di impressionante forza simbolica con picchi di duemila partecipanti in una fabbrica presidiata mentre i liquidatori della proprietà minacciavano l’intervento della polizia e pesanti azioni legali. Dentro l’ex stabilimento c’erano militanti politici, sindacalisti, cittadini alla ricerca di legame sociale, di vita collettiva e di senso, quel concetto scomparso dalle scene sociali già quando Paolo Volponi dava alle stampe Le mosche del capitale — eravamo nel 1989, in pieno «finanz-capitalismo» e ben dentro la società dello spettacolo — e lo scrittore di Urbino si chiedeva angosciato come mai siamo giunti al punto che la sola «materia materiale» sia diventata il denaro, e come si sia annullata la profondità del mondo. Il racconto dei figli è stato prima un lavoro sulla memoria attraverso l’autobiografia, poi un racconto generazionale per ricostruire un immaginario dell’odierna classe lavoratrice, perché la nuova working class globale non è più quella fordista e delle lotte collettive del movimento operaio dei padri, piuttosto quella atomizzata della precarietà del mondo digitale, degli algoritmi, della logistica e dei rider raccontata nei film di Ken Loach. Anzi, proprio le sconfitte delle lotte operaie dei padri — come quella seguita alla marcia dei quarantamila quadri Fiat del 14 ottobre 1980 a Torino — hanno prodotto le vite precarie dei figli.

Figlia di una vestaglia blu (Fazi, 2006; Alegre, 2019) di Simona Baldanzi; La fabbrica del panico (Feltrinelli, 2013) di Stefano Valenti e Amianto di Alberto Prunetti (Alegre, 2014; Feltrinelli, 2023) sono stati l’inizio, come ha scritto quest’ultimo nella sua indagine Non è un pranzo di gala (minimum fax, 2022): «Siamo il rimosso che ritorna, la voce dei nostri vecchi che pensavate di aver messo a tacere una volta per tutte». Nel saggio Prunetti insiste molto sul «classismo strutturale del mondo delle lettere», e sui processi di precarizzazione e sfruttamento nell’industria culturale con «le stesse logiche del manifatturiero o della logistica»: partite Iva, minimi contrattuali, esternalizzazioni. Un altro punto nodale del saggio è la diversità degli scrittori working. Siamo sicuri di essere tutti uguali davanti alla pagina bianca? È solo una questione di immaginazione, di creatività? (Chi scrive è nato in una famiglia della classe media bassa dove nessuno leggeva libri e aveva fatto l’università, per sbarcare il lunario ha fatto molti mestieri, tra i quali il portalettere, e sa quali sacrifici immani ha dovuto sopportare per liberare il tempo di scrivere e non perdere la motivazione). A questo nucleo di testi aggiungerei Works (Einaudi Stile libero, 2016) di Vitaliano Trevisan; La straniera (La nave di Teseo, 2019) di Claudia Durastanti; Tuttofumo (Baldini+Castoldi, 2019) di Eugenio Raspi; e gli impeccabili reportage di Angelo Mastrandrea de L’ultimo miglio (Manni, 2021) sul mondo dell’e-commerce, di Amazon e della Città del libro di Stradella, Pavia, dove «si producono alienazione e sfruttamento non diversamente che in una miniera di carbone degli anni Cinquanta o in uno scantinato della delocalizzazione produttiva nell’Oriente estremo di casa nostra».

Amianto di Alberto Prunetti è l’epica e la biografia operaia di Renato, padre dello scrittore, tuta blu alla Solvay di giorno e cameriere al dancing Cardellino di sera, poi trasfertista «a Novara, Torino, Genova, La Spezia, Mestre, Terni, Taranto. Ovunque, sempre in periferia, senza mai vedere le cattedrali e le strade acciottolate dei centri storici». Luoghi dove «respirerà benzene, il piombo gli entrerà nelle ossa, il titanio gli intaserà i pori e una fibra d’amianto si infilerà nei suoi polmoni», scrive il figlio in un ibrido che mette insieme memoria intima, reportage e reperto storico, con una lingua ruvida, ritmica ed efficace, gergale alla Bianciardi, in quello che è un doppio romanzo di formazione ma anche un’autobiografia di classe e dell’Italia dove Prunetti racconta qual è stato il drammatico costo della vita per i tanti che come suo padre hanno costruito il miracolo del boom. Ma il maggiore pregio del libro è quello di saldare le storie e i destini delle generazioni, mettere in relazione la working class di ieri e quella frantumata di oggi: «Faccio un lavoro culturale e ho trentanove anni. Alla mia età mio padre operaio metalmeccanico sindacalizzato dalla Fiom si era già comprato la casa. Io, “lavoratore cognitivo precario”, arranco per pagare l’affitto», scrive. Una trilogia al presente, la sua, che comincia con questo libro e continua con 108 metri (Laterza, 2018), storia di un ragazzo italiano emigrato per lavoro a Bristol, e con Nel girone dei bestemmiatori (Laterza, 2020). Invece il nuovo romanzo del bernhardiano Stefano Valenti, Cronache della sesta estinzione (il Saggiatore, in libreria dal 22 settembre) racconta la storia di un uomo che ha perso il lavoro, senza più reddito, in attesa della liquidazione, che finisce a vivere in strada dentro un furgone acquistato con gli ultimi risparmi, parcheggiato sul viadotto della tangenziale. Il protagonista del romanzo è nato in una famiglia povera ed è stato «affittato» bambino a una famiglia borghese, ma è riuscito a studiare e laurearsi, ha fatto il traduttore e l’insegnante mentre negli ultimi anni è stato costretto ad accettare da un’agenzia interinale un lavoro da magazziniere della logistica. Adesso vaga in un mondo circostante dove immagina una catastrofe ambientale: «Il solfuro di dimetile (dall’odore di alga) invita gli uccelli marini a nutrirsi delle tonnellate di plastica scaricata in mare. I pesticidi versati nei fiumi indeboliscono i sensori olfattivi dei salmoni che non trovano la via verso i luoghi di nascita».

L’eroe di Valenti vive nella solitudine della società atomizzata dove ogni fallimento è una colpa personale, e si sconta con la vergogna e la paura di stare al mondo, e qui anche con un animistico desiderio di rinascita. Scritto per brevi frammenti linguisticamente elaborati ed epifanici, costato all’autore dieci anni di lavoro, qui vita e letteratura si incontrano, esperienza e finzione sperimentano una nuova rappresentazione del mondo.  Ma la letteratura working class torna anche con libri tradotti, come Alla linea (Bompiani, 2022) di Joseph Ponthus, straordinario romanzo in versi scritto da un operaio interinale, come quello altrettanto singolare di Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie, ripubblicato nel 2019 da Mondadori, o Cameriera di Sarah Gainsforth (in ebook nella collana Quanti Einaudi, 2022), e poi ancora il potente Metodo per diventare un altro (La nave di Teseo, 2023) di Édouard Louis, lucido e drammatico progetto metamorfico per sfuggire alla subalternità sociale e a una vita di povertà e duro lavoro, che segue Chi ha ucciso mio padre (Bompiani, 2019) e Il caso Eddy Bellegueule (Bompiani, 2014), e infine il bellissimo saggio narrativo di Cynthia Cruz Melanconia di classe (Atlantide, 2022). In questo libro la poetessa americana nata a Berlino alla sua vicenda personale alterna quella di musicisti e cineasti — Amy Winehouse e Barbara Loden tra gli altri — e racconta quella che definisce «la melanconia che nasce quando si abbandonano le proprie origini», lo strappo esistenziale di chi lascia la working class per entrare nel mondo borghese fra smarrimento identitario e coercizioni del pensiero neoliberista. È lo stesso dolore della perdita abilmente raccontato dal Nobel Annie Ernaux ne Il posto (L’Orma, 2014). A tutto questo si deve aggiungere il prezioso lavoro svolto da Alegre, casa editrice barricadiera che dà alle stampe libri di storie proletarie in una collana unica in Italia, Working class per l’appunto, dove pubblica libri come La porca miseria di Cash Carraway e Chav. Solidarietà coatta di D. Hunter, un classico come La strada di Wigan Pier di George Orwell, vibrante e partecipata inchiesta sul proletariato inglese dei distretti minerari degli anni Trenta del secolo scorso, e recupera Tuta blu di Tommaso Di Ciaula, uscito nel 1978 nei Franchi narratori Feltrinelli. Il libro di Di Ciaula è composto da blocchi narrativi compatti e cresce per accumulazione di memoria, dentro il ritmo meccanico di un ingranaggio, frammenti di vita lavorativa che incrociano descrizioni di paesaggio della campagna pugliese, gli interni cupi della fabbrica con le sue alienazioni e la nostalgia per la vita contadina, due mondi che confliggono in un momento di grande trasformazione e mutazione antropologica alla fine degli anni Settanta del Novecento, quando prende corpo il Paese consumistico. Quel consumismo che Di Ciaula intuisce nella sua duplice valenza distruttrice e oppressiva mentre descrive l’autostrada Bari-Taranto: «Se l’hanno costruita vuol dire che dobbiamo comprare più auto, più l’aria si ammorba, più i nostri compagni impazziscono alle catene di montaggio, più noi dobbiamo fare i salti mortali per mantenere le auto rendendoci più schiavi». Contestualmente, sullo sfondo dei suoi racconti e dei rabbiosi conflitti con i capireparto, le grandi speculazioni edilizie, il cemento che aggredisce costa ed entroterra di un Sud cresciuto disarmonicamente negli anni del «miracolo economico» e in quelli successivi. «La fabbrica si ingrandisce sempre di più, senza sosta. Sempre di più s’allontana la campagna», scrive dando notizia di questa metamorfosi.

Tra i nuovi poeti civili italiani che trattano i temi dell’alienazione e della fabbrica ci sono Fabio Franzin (’A fabrica ribandonàdha-La fabbrica abbandonata, Arcipelago Itaca, 2021); Nadia Agustoni (Lettere della fine, Vydia, 2015); il Matteo Rusconi di Trucioli (Aut Aut, 2021); il padovano Marco Carretta, classe 1984, Per far vivere altro cadiamo (Industria & Letteratura, 2023); e il nostro «Jacopone (da Todi) operaio» Luigi Di Ruscio, ormai diventato di culto e molto amato dai giovani poeti. L’irregolare degli irregolari apprezzato da Quasimodo sbarca in questi giorni negli Stati Uniti da Seagull Books, la casa editrice della Morante e di Fortini, con Selected Poems nella traduzione di Cristina Viti dalle Poesie scelte curate da Massimo Gezzi per Marcos y Marcos. Scrittore working class ante litteram, emigrato a Oslo negli anni Cinquanta, lavorò per oltre trent’anni come operaio metallurgico alla fabbrica di chiodi Christiania Spigerverk, rifiutato per decenni da tutte le più grandi case editrici italiane prima di approdare pochi mesi dopo la sua morte da Feltrinelli con le prose céliniane di Romanzi. La sua vita, che è stata anche quella di un migrante del dopoguerra, è un esempio struggente e unico di dedizione alla letteratura e fedeltà alla propria condizione di classe, quella di un figlio ribelle del proletariato marchigiano di Fermo spatriato tra i ghiacci scandinavi. Scriveva nelle ore rubate al lavoro, di ritorno dal turno di notte o prima dell’alba, quando partiva in bicicletta e attraversava al buio le strade ghiacciate per raggiungere la fabbrica alla periferia di Oslo. Perché — come dice Cynthia Cruz — «per definizione la working class deve lavorare, riposare e tornare a lavorare».

«La mia poesia non è un momento privilegiato, è tutto il mio scrivere che è il momento privilegiato. È un privilegio anche nel senso storico, senza la settimana corta, senza la paga oraria che mi fa comperare libri, non avrei potuto scrivere, come se dicessi che senza gli scioperi a oltranza che ha fatto la classe operaia norvegese negli anni Trenta non avrei potuto avere questo privilegio», disse in un colloquio con Giancarlo Majorino che chiude la raccolta Istruzioni per l’uso della repressione, la raccolta di versi uscita da Savelli nel 1980. «Senza l’avanzata della classe operaia occidentale non avrei potuto scrivere. Se fossi rimasto in Italia avrei potuto scrivere solo in galera, quando lavoravo in Italia non potevo scrivere, la settimana lavorativa era troppo lunga e spossante, ritornavo a casa solo per dormire». Scrisse della sua postura di poeta: «La presenza degli oppressi e stritolati è dietro le mie spalle e quando scrivo le scariche dell’Olivetti studio 46, macchina da scrivere rumorosissima, è come se partissero le scariche di un ammattito kalashnikov», quelle dell’ultimo che scriveva degli ultimi.

- Angelo Ferracuti - Pubblicato su La Lettura del 30/7/2023 -

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