giovedì 9 novembre 2023

Le cose cambiano…

Sullo sfondo degli attentati dell'11 settembre 2001, e delle guerre in Afghanistan e Iraq, questo testo del 2006 di Moishe Postone (1942-2018) esamina quali cambiamenti politici e storici ci sono stati nell'antimperialismo dopo la Guerra Fredda, a partire dai quali propone di «ripristinare e riformulare un internazionalismo che faccia a meno di ogni dualismo». Originariamente, il testo è apparso, in tedesco, in "Klassen und Kämpfe" (Unrast Verlag, 2006).

L'internazionalismo e l'antimperialismo oggi
- di Moishe Postone - 2006 -

L'attacco dell'11 settembre 2001, e le guerre guidate dagli Stati Uniti contro l'Afghanistan e l'Iraq hanno improvvisamente reso visibili dei mondi interi, mostrando dei cambiamenti strutturali storici che si erano sviluppati per decenni sotto la superficie; quanto meno per la maggior parte delle persone che vivevano negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale. Per quanto complesse siano state le discrepanze storiche rivelate da queste esplosioni distruttive, la maggior parte delle risposte sono state inadeguate. I cambiamenti storici ai quali mi riferisco operano a livelli diversi, ma sono tuttavia comunque interconnessi tra di loro. La fase in cui ci troviamo ancora oggi - che credo sia iniziata all'inizio degli anni '70 -  ha portato a dei profondi cambiamenti strutturali nell'ordine mondiale. Di modo che questo si è evoluto, passando da un modello "fordista-keynesiano", centrato sullo Stato, a un modello globale neoliberista. Tutti questi cambiamenti che si sono stati nella vita sociale, economica, politica e culturale hanno raggiunto la stessa ampiezza che aveva avuto il passaggio, avvenuto nel XX secolo, dal capitalismo liberale alle forme burocratiche di interventismo statale. Sono questi modelli storici globali, a mostrare come la portata della contingenza e la capacità d'azione siano, in linea di principio, limitate. Tali modelli, in ultima analisi, si trovano a mio avviso radicati nelle dinamiche stesse del capitale. Negli ultimi trent'anni, è stata una di queste dinamiche ad aver portato a dei cambiamenti fondamentali, tanto nei paesi capitalisti occidentali, quanto in quelli comunisti dove hanno portato al crollo dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo. Uno dei risultati di questo processo è stata la fine della Guerra Fredda. A caratterizzare il mondo post-Guerra Fredda, sono stati due di questi sviluppi: da un lato, il rafforzamento del dominio astratto del capitale globale; e la creazione di una nuova struttura di potere internazionale, dall'altro lato. Questa nuova situazione storica ha creato delle nuove possibilità,  insieme a dei nuovi pericoli e nuove forme di erronee interpretazioni, le quali hanno dato luogo a fraintendimenti politico-economici. Così facendo, hanno aperto la possibilità per il riemergere di un internazionalismo, il quale dovrebbe essere critico nel senso globale e universale del termine; nel senso di una critica internazionale dell'epoca capitalista in grado di riferirsi alla possibilità storica di una vita che superi il capitalismo. Un simile internazionalismo, dovrebbe essere rigorosamente separato da tutte quelle che sono delle forme intrinsecamente dualistiche di "internazionalismo" che hanno caratterizzato il lungo periodo della Guerra Fredda. Già nazionalista nella sua forma, invertiva le categorie di tempo e spazio. Così la critica di una "parte", ecco che serviva a legittimare l'altra, anziché considerare i due "campi" come le parti di un tutto più grande, e quindi farne l'oggetto di una critica storica. Tuttavia, finora, l'inizio del XXI secolo non è caratterizzato dall'emergere di un internazionalismo in grado di riflettere criticamente sulla fine della Guerra Fredda. Al contrario, quelle che vengono riprese sono le vecchie forme di internazionalismo legate a quest'ultima.

Questo saggio intende offrire una riflessione critica sulla rinascita di queste forme dualistiche di internazionalismo. Ed è proprio a causa di queste forme che molti movimenti anti-egemonici hanno finito per ritrovarsi in un vicolo cieco. La cosa si è espressa in quelle che, negli Stati Uniti e in Europa, sono state le reazioni di molti attori di sinistra agli attentati suicidi dell'11 settembre 2001 al World Trade Center, e nella direzione che ha preso la protesta di massa contro la guerra in Iraq. La natura devastante e sconvolgente della guerra e, più in generale, la posizione assunta dall'amministrazione Bush, non deve oscurare il fatto che, in entrambi i casi, i progressisti si sono trovati di fronte a una situazione che avrebbero dovuto comprendere come se fosse un dilemma: come un conflitto tra una potenza mondiale imperialista aggressiva, da un lato, e un movimento anti-globalizzazione profondamente reazionario, Al-Qaeda, o un brutale regime fascista, quello di Saddam Hussein, dall'altro lato. Eppure, tuttavia, ci sono stati ben pochi tentativi di problematizzare un simile dilemma e analizzare questa costellazione in modo tale da riuscire a formulare una critica emancipatoria; cosa che nel mondo di oggi sembra essere diventata estremamente difficile. Per poterlo fare, sarebbe stato necessario sviluppare un internazionalismo che rompesse con il dualismo della Guerra Fredda: un dualismo che troppo spesso legittimava come "antimperialisti" quegli Stati che non erano affatto più emancipatori dei quei numerosi regimi autoritari e repressivi sostenuti dal governo degli Stati Uniti. Tuttavia, al posto di una rottura con una simile concezione, ciò cui assistiamo è il ritorno di quelli che sono dei modelli e degli atteggiamenti politici inadeguati e anacronistici; un'assurda ripetizione storica che dissimula i cambiamenti storici fondamentali che abbiamo descritto sopra. E questo vale tanto per i sostenitori quanto per gli oppositori della politica degli Stati Uniti. Chi vive negli Stati Uniti, conosce fin troppo bene l'affermazione secondo cui l'America è il paradiso della libertà e della democrazia. Criticare, o addirittura opporsi agli Stati Uniti, non può quindi che significare il rifiuto dei suoi valori culturali e politici positivi. Chiunque abbia familiarità con la politica estera degli Stati Uniti e con i gruppi e i regimi che gli Stati Uniti sostengono nel sud-est asiatico, nell'America centrale e meridionale, in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo, sa quanto sia parziale e fuorviante una tale interpretazione, soprattutto laddove si tiene conto non solo del sostegno diretto degli Stati Uniti a regimi repressivi e corrotti, ma anche della loro politica economica e ambientale globale. Ma per quanto distorto possa essere il manicheismo filo-americano, tutto ciò non giustifica minimamente, in alcun modo, la posizione opposta che si è ampiamente diffusa e che è essenzialmente il suo riflesso negativo: un manicheismo anti-americano che vede la politica degli Stati Uniti come la causa principale di tutti i problemi del mondo, e che proietta le proprie concezioni critiche sugli avversari dell'America. Alla base di questo neo-anti-imperialismo si trova una comprensione feticizzata dello sviluppo globale, vale a dire, una comprensione che concretizza quelli che sono dei processi storici astratti, che vengono così tradotti in dei concetti di azione politica. Il dominio globale astratto del capitale [*1] viene feticizzato come il dominio degli Stati Uniti, o (in alcune sue varianti) degli Stati Uniti e di Israele. A dire il vero, il devastante carattere imperialista dell'amministrazione Bush ha contribuito a questa equiparazione. Ma l'ironia risiede nel fatto che a ben guardare, per molti versi, costituisce la ricomparsa di una visione del mondo nella quale la Gran Bretagna e gli ebrei occupavano, un centinaio di anni fa, la posizione di soggetti che ora viene attribuita agli Stati Uniti e a Israele. L'infelice somiglianza tra una critica  attuale - che si vuole di  sinistra - e quella che era invece una vecchia critica della destra, nei confronti dell'egemonia, dimostra fino a che punto entrambe le critiche condividano una comprensione feticizzata del mondo. La cosa suscita il timore che una comprensione del genere potrebbe avere delle conseguenze estremamente negative impedendo così la formazione di un'appropriata politica anti-egemonica; la quale invece è ora necessaria. Questo risorgere del manicheismo si contrappone alle altre forme di quello che è invece un movimento critico rispetto alla globalizzazione, quale ad esempio quello contro le sweat-shop [la fabbrica sfruttatrice] [*2], che si era sviluppato durante il decennio precedente; e che si concentra sulle miserabili condizioni di vita e di lavoro di quella che è una nuova classe operaia globale, criticando tutti i quadri politici ed economici, nonché le organizzazioni politiche che sostengono tali condizioni. Una critica del genere non può essere usata come ideologia di legittimazione per gli Stati e per dei raggruppamenti quasi-statali. Al contrario, il neo-anti-imperialismo rappresenta invece una forma di opposizione che può servire - ed è servita - come ideologia legittimante. Oltretutto, la recente recrudescenza antimperialista si è accompagnata a una nuova profonda confusione riguardo la violenza politica, che a suo tempo aveva già afflitto la Nuova Sinistra [*3].

Vorrei ora approfondire qui questo punto, esaminando brevemente il modo in cui molti liberali e progressisti hanno reagito all'attacco dell'11 settembre. Molti hanno sostenuto che questo atto, per quanto orribile, dovrebbe essere inteso come una reazione alla politica degli Stati Uniti, in particolare riguardo quella in Medio Oriente. Mentre è indubbiamente giusto comprendere in maniera politica la violenza terroristica (e non come se si trattasse semplicemente di un atto irrazionale), tuttavia, la comprensione della politica della violenza, espressa in queste affermazioni, è del tutto inadeguata. Infatti, la violenza viene vista come se fosse una reazione degli umiliati e degli oppressi, e non come un'azione. Benché la violenza in sé non viene necessariamente rivendicata, difficilmente quella che è la politica della violenza in questione viene messa in discussione. Al contrario, essa viene spiegata come se fosse semplicemente una reazione, e quindi viene, almeno in parte, implicitamente giustificata. In uno schema del genere, nel mondo c'è rimasto un unico attore: gli Stati Uniti. Questo ragionamento si focalizza sulla sofferenza di coloro che commettono questi atti, senza interessarsi al quadro politico nel quale questa sofferenza si esprime. Secondo una tale griglia di lettura, questi atti vengono visti in quanto, e come una deplorevole espressione di violenza. Un tale ragionamento non mette in discussione la visione del mondo che motiva questa violenza, né analizza in maniera critica il genere di politica che viene espresso a partire dalla violenza contro i civili. Simili modelli argomentativi, difficilmente possono essere definiti politici, ma tendono piuttosto all'apologetica. Essi non ci permettono di capire i calcoli politico-strategici e ignorano il problema dell'ideologia.Ad esempio, è un grave errore interpretare in maniera riduttiva la sofferenza percepita che sottende un movimento come al-Qaeda, allorché viene visto come una reazione immediata alle politiche americane e israeliane, come molti nella sinistra americana hanno fatto dopo l'11 settembre. In tal modo, quelli che sono altri aspetti del nuovo jihadismo, vengono in gran parte ignorati. Quando, ad esempio, Osama bin Laden si riferisce alle sconfitte subite dai musulmani 80 anni fa, non si riferisce alla creazione di Israele, bensì all'abolizione del califfato, e quindi alla mancata unificazione del mondo musulmano da parte di Kemal Atatürk nel 1924; quindi a un evento storico che risale a molto prima che gli Stati Uniti giocassero un loro ruolo in Medio Oriente, e assai prima della creazione di Israele. È interessante notare come la visione espressa da Osama bin Laden non sia locale, quanto, piuttosto, globale. Questa visione globale è una caratteristica sorprendente del nuovo jihadismo, e lo è sotto due aspetti: da un lato, per quel che riguarda le varie lotte che sostiene, e che vengono così fuse tutte in una sola lotta; e dall'altro, per quanto riguarda l'ideologia che anima il jihadismo, nel quale l'antisemitismo gioca un ruolo importante nel suo carattere globale. Quando si affrontano le questioni relative alla globalizzazione e all'anti-globalizzazione, diventa essenziale sollevare il tema dell'antisemitismo, anche se questo può dare luogo a dei malintesi, a causa dell'utilizzo diffuso da parte dei governi israeliani dell'accusa di antisemitismo, nella forma di ideologia legittimante volta a screditare qualsiasi critica seria alla politica israeliana. Naturalmente, è di certo possibile formulare una critica fondamentale della politica israeliana che non sia antisemita, e critiche simili sono state fatte. Tuttavia, le analisi critiche non dovrebbero ignorare l'esistenza attuale di un antisemitismo diffuso e virulento nel mondo arabo-musulmano. Inoltre, come cercherò di dimostrare, l'antisemitismo è un problema assolutamente cruciale per la sinistra. Dopo l'11 settembre, è diventato chiaro fino a che punto, nel mondo arabo siano presenti sentimenti e motivazioni antisemite. Ciò si esprime nell'accettazione ampiamente condivisa della tesi secondo cui solo gli ebrei avrebbero potuto organizzare gli attacchi al World Trade Center, o nella diffusione capillare dei Protocolli dei Savi di Sion; il famoso falso zarista che pretendeva di rivelare la cospirazione ebraica mondiale, diffuso nella prima metà del XX secolo dai nazisti e da Henry Ford. Questo sviluppo va preso sul serio. Non dev'essere visto come se fosse solo l'espressione esagerata di una reazione, altrimenti comprensibile, a quella che è la politica israeliana e/o americana, né andrebbe ignorata per paura che focalizzarsi sull'antisemitismo non serva altro che a sostenere l'occupazione israeliana del territorio palestinese. Tuttavia, per riuscire a comprenderne il significato politico è necessario comprendere il moderno antisemitismo. Questa forma di discorso essenzializzante, differisce dalle altre forme essenzializzanti, come il razzismo, per il suo orientamento populista, che pretende di essere anti-egemonico, e critico nei confronti della globalizzazione. Mentre il pensiero razzista attribuisce all'Altro un potenziale fisico o sessuale concreto, l'antisemitismo moderno attribuisce agli ebrei un enorme potere astratto, universale, globale e intangibile. Alla base e al cuore dell'antisemitismo moderno troviamo l'idea di una cospirazione ebraica globale estremamente potente. Ho già spiegato altrove che la moderna visione antisemita del mondo vede e concepisce il dominio astratto del capitale – il quale sottopone i soggetti a dei dettami provenienti da dei poteri misteriosi e impenetrabili – come dominio esercitato dall'ebraismo internazionale [*4]. In questo modo, di conseguenza, l'antisemitismo può apparire come anti-egemonico, ed è questo il motivo per cui, cento anni fa, August Bebel lo chiamò «socialismo degli imbecilli». Alla luce degli ulteriori sviluppi che ci sono stati, avrebbe potuto essere definito come «l'anti-imperialismo degli imbecilli». In quanto forma feticizzata di coscienza contrappositiva, l'antisemitismo si dimostra particolarmente pericoloso, dal momento che esso sembra essere anti-egemonico e può essere visto come se fosse un'espressione della resistenza opposta dalla gente comune contro una forma intangibile di dominio globale.

Propongo di comprendere quella che è la nuova ondata di antisemitismo nel mondo arabo, come una forma feticizzata e fondamentalmente reazionaria di anticapitalismo. Considerare l'ascesa dell'antisemitismo come se fosse solamente una mera reazione nei confronti degli Stati Uniti e di Israele è un grave errore. Una simile riduzione in chiave empirica, può essere considerata paragonabile a quella che spiegava l'antisemitismo nazista come una mera reazione al Trattato di Versailles. Indubbiamente, le politiche americane e israeliane hanno contribuito alla nuova ondata di antisemitismo, ma è l'ideologia ad attribuire a questi paesi una posizione di Soggetto, il quale va ben oltre quello che è il ruolo empirico di queste nazioni. Tali posizioni di Soggetto devono essere considerate e comprese anche alla luce delle trasformazioni storiche fondamentali verificatesi a partire dai primi anni '70, e che sono legate alla transizione globale dal fordismo al post-fordismo. Un aspetto rilevante di questa transizione, riguarda la crescente importanza assunta dalle relazioni e dai flussi economici sovranazionali, insieme a una crescente incapacità delle strutture statali nazionali di gestire con successo i processi economici. Ciò ha portato al declino dello stato sociale keynesiano e al crollo dei Partiti-Stato burocratici nell'Est. Questo movimento è stato caratterizzato da una crescente differenziazione verticale tra ricchi e poveri; sia tra paesi che tra paesi e regioni. Il declino del fordismo ha segnato la fine della fase di sviluppo nazionale guidato dallo Stato; sia nel modello comunista e socialdemocratico, sia nel modello di sviluppo dirigista guidato dallo Stato, nel Terzo Mondo. Non solo è avvenuto che molti Stati si sono trovati in enormi difficoltà, ma sono anche sorti dei problemi teorici per coloro che avevano concepito lo Stato come fosse un agente di cambiamento positivo e di sviluppo. Le conseguenze del collasso della sintesi fordista degli anni '50, sono state differenti nelle diverse parti del mondo. Il successo relativo ottenuto dai paesi asiatici, che stanno cavalcando l'onda della globalizzazione post-fordista, è ben noto, così come lo è il catastrofico declino dell'Africa sub-sahariana. D'altra parte, al contrario, il precipitoso degrado e regresso del mondo arabo - recentemente rivelato dall'Arab Human Development Report del 2002 - rimane assai meno noto [*5]. Secondo quest'ultimo rapporto, negli ultimi 20 anni, il reddito pro capite nel mondo arabo è sceso a un livello solo leggermente superiore a quello dell'Africa sub-sahariana. A tal proposito, io penso che il quadro generale del declino relativo dei paesi arabi vada ricercato nella fondamentale riorganizzazione storica avvenuta negli ultimi tre decenni. Le strutture statali autoritarie, associate al nazionalismo arabo del dopoguerra, qualunque sia stata la ragione, si sono dimostrate incapaci di adattarsi ai cambiamenti globali. Si potrebbe persino dire che questi cambiamenti hanno indebolito e minato il nazionalismo arabo ancor di più di quanto abbia contribuito la sconfitta militare per mano di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Simili processi storici astratti, possono sembrare misteriosi rispetto alla realtà della vita quotidiana. Gli attori sociali presenti sul posto, non possono influenzarli, e quindi si sentono impotenti. I movimenti sociali e politici progressisti che si oppongono allo status quo in Medio Oriente, sono sempre stati deboli oppure, come nel caso dell'Iraq o del Sudan, sono stati repressi violentemente. In Medio Oriente, il declino del nazionalismo arabo e dei regimi – per la più parte – monarchici, che avevano in entrambi i casi soppresso l'opposizione progressista, hanno creato un vuoto (caratterizzare come "progressisti" all'interno del quadro di riferimento della Guerra Fredda, i regimi autoritari in Medio Oriente - essendoci quanto meno l'assenza di un'analisi critica pertinente di tali regimi - ha aggravato ulteriormente l'oppressione esercitata in quelle regioni da questi regimi contro i movimenti progressisti). E questo vuoto è stato riempito dai movimenti islamisti, i quali pretendono di spiegare il declino, apparentemente misterioso del mondo arabofono e musulmano, che ha generato un tangibile senso di disillusione e di disperazione politica. Questa lettura ideologica e reazionaria della crisi di un'intera regione, è rafforzata dal fatto che per decenni i regimi arabi hanno utilizzato la lotta palestinese per l'autodeterminazione, come un parafulmine per deviare la rabbia e il malcontento dilaganti tra la propria popolazione (ancora una volta, al fine di evitare inutili fraintendimenti: vedere che è in atto una funzionalizzazione della lotta palestinese, non significa screditarla di per sé). In ogni caso, con il declino del mondo arabo, la tendenza ad attribuire le sofferenze delle masse arabe e, in misura sempre più crescente, delle classi medie istruite, all'azione di potenze straniere malevoli, è notevolmente aumentata. Il quadro ideologico mobilitato per riuscire a spiegare questa involuzione, è stato formulato da pensatori come l'ideologo egiziano dei Fratelli Musulmani, Said Qutb, il quale rifiutava la modernità capitalista vedendola come una cospirazione degli ebrei (Sigmund Freud, Karl Marx ed Émile Durkheim) volta a distruggere le società «sane» e «autentiche». Secondo la sua visione antisemita del mondo, Israele non è altro che la testa di ponte di una potente e nefasta cospirazione globale. Questo genere di ideologia, negli anni '30 e '40, è stata sostenuta e incoraggiata dalla propaganda nazista in Medio Oriente. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, essa è stata poi fortemente rilanciata dall'ideologia sovietica della Guerra Fredda, che ha arricchito la critica di Israele con motivazioni antisemite, e ha contribuito alla diffusione di una variante dell'antisionismo, caratterizzata dall'odio unilaterale, oltre che dal leitmotiv antisemita di una dominazione globale di natura cospirativa, diffusasi con forza, nel corso degli ultimi tre decenni, in Medio Oriente e in alcune aree della sinistra, soprattutto in Europa.

Ad ogni modo, in Medio Oriente negli ultimi decenni, l'importanza e la dimensione di una visione antisemita del mondo sono aumentate notevolmente. A mio avviso, questo processo dovrebbe essere compreso in termini di diffusione di un'ideologia presumibilmente anti-egemonica in contrapposizione alle tendenze negative e distruttive messe in atto da forze storiche apparentemente misteriose. Detto in altri termini, propongo che la diffusione dell'antisemitismo, e delle relative forme antisemite di islamismo come quelle presenti nella Fratellanza Musulmana egiziana e nella sua branca palestinese, Hamas, venga compresa come diffusione di un'ideologia anticapitalista feticizzata, la quale pretende di dare un senso a un mondo che viene percepito come minaccioso. Benché questa ideologia sia stata alimentata e aggravata da Israele o dalla politica israeliana, la sua causa va tuttavia ricercata nel declino relativo del mondo arabo, visto sullo sfondo di quella che è stata una profonda transizione strutturale, dal fordismo al capitalismo globale neoliberista. Il risultato, è un movimento populista anti-egemonico profondamente reazionario e pericoloso, soprattutto per quanto attiene a ogni e qualsiasi speranza di politica progressista in Medio Oriente. Tuttavia, anziché analizzare questa forma di resistenza reazionaria con il fine di sostenere delle forme di resistenza più progressiste, la sinistra occidentale l'ha invece ignorata, oppure l'ha razionalizzata, vedendola come se fossa solamente una reazione, deplorevole ma comprensibile, alla politica di Israele e degli Stati Uniti. Questa rappresentazione del rifiuto di vedere, è analoga alla tendenza che porta a concepire l'astratto (il dominio del capitale) in termini di concreto (l'egemonia statunitense). Ritengo che questa tendenza è espressione di una profonda e fondamentale impotenza, sia concettuale che politica. E vorrei sviluppare questo punto, partendo da una riflessione sulle mobilitazioni che ci sono state in molte parti del mondo, contro la guerra degli Stati Uniti in Iraq. A prima vista, le attuali mobilitazioni contro la guerra sembrano essere una rinascita di quello che fu il grande movimento contro la guerra degli anni Sessanta. Ma, secondo la mia tesi, le differenze queste due realtà sono fondamentali. Esaminarle, ci aiuta a comprendere l'attuale impasse della sinistra. I movimenti contro la guerra degli anni '60, erano spesso animati da persone per cui l'opposizione alla guerra degli Stati Uniti in Vietnam non era dissociabile da una lotta più ampia per un cambiamento politico e sociale progressista. La stessa  cosa valeva anche per quei movimenti che si opponevano alla politica degli Stati Uniti nei confronti del regime cubano, del governo socialista in Cile, dei sandinisti in Nicaragua e dell'ANC in Sud Africa. In tutti questi casi, gli Stati Uniti venivano visti in quanto forza conservatrice che si opponeva a quei cambiamenti in atto. L'impegno americano contro i movimenti di liberazione nazionale, veniva criticato con una simile veemenza proprio perché tali mobilitazioni erano percepite come fondamentalmente positive. Ovviamente, esistevano delle enormi differenze tra le diverse posizioni che comunque difendevano i movimenti di liberazione nazionale in quanto forze progressiste per il cambiamento. Da un lato, alcuni guardavano a questi movimenti con favore, perché li vedevano come la punta di diamante dell'espansione del "campo socialista", e pertanto questa lotta era per loro un modo i prendere parte alla Guerra Fredda. Dall'altra parte, però, questi movimenti apparivano importanti nella misura in cui le mobilitazioni di liberazione indigena minavano invece proprio il bipolarismo della Guerra Fredda, e il loro rapporto positivo con l'Unione Sovietica veniva visto come contingente, vale a dire, come reazione all'atteggiamento ostile degli Stati Uniti. Nonostante queste differenze, in un contesto globale, le due posizioni condividevano comunque una valutazione positiva di tutti questi movimenti di liberazione nazionale. Ora, a prescindere da come venga oggi interpretato questo riferimento positivo, i movimenti contro la guerra della precedente generazione precedente sono stati caratterizzati dal fatto che, per molti, l'opposizione alla politica americana era l'espressione di una più ampia lotta finalizzata a un cambiamento progressista. Anche se, a prima vista, le attuali mobilitazioni di massa contro la guerra sembrano seguire la medesima logica, uno sguardo più attento rivela però che da un punto di vista politico sono assai diverse. La loro opposizione agli Stati Uniti non è basata su un'alternativa più progressista. E, al contrario, il regime Baath in Iraq – un regime molto più repressivo e brutale dei regimi cileno e argentino degli anni '70 e '80, per esempio – non può in alcun modo essere considerato progressista, e nemmeno potenzialmente progressista. Certo, solo alcuni pochi gruppi settari come ANSWER [*6] (i quali però, purtroppo, esercitano una certa influenza sul movimento contro la guerra nel suo insieme) si riferiscono positivamente al regime di Saddam Hussein. Eppure, malgrado ciò, questo regime non è mai stato oggetto di ulteriori analisi, o di critiche da parte della sinistra. Al contrario, nel formulare quali sono le posizioni contro la guerra, il suo carattere regressivo è stato largamente ignorato. Dal momento che non rappresentano un movimento progressista per il cambiamento, le attuali mobilitazioni contro la guerra non hanno più lo stesso significato politico del precedente movimento contro la guerra. Di modo che così, tutto il discorso sul cambiamento politico è stato lasciato alla destra politica.Questo non significa che i sostenitori di un cambiamento emancipatorio avrebbero dovuto sostenere l'amministrazione Bush e la sua guerra. Ma vuol dire che le attuali mobilitazioni di massa non hanno né espresso né contribuito a ciò che sarebbe stato necessario in questo contesto: un movimento che si opponga alla guerra americana, e che allo stesso tempo sostenga la necessità di un cambiamento fondamentale in Iraq, e in Medio Oriente più in generale. Uno degli aspetti ironici della situazione attuale, è che adottando una posizione antimperialista feticizzata, in cui l'opposizione agli Stati Uniti non ha più il sostegno di un cambiamento progressista, vediamo che così i liberali e i progressisti hanno permesso alla destra neoconservatrice americana di appropriarsi, se non di monopolizzare, quello che era tradizionalmente il linguaggio della sinistra: il linguaggio della democrazia e della liberazione. E' ovvio che il regime di Bush non porterà mai in Medio Oriente quel cambiamento democratico che propone nella sua retorica. Ma constatare che ad aver affrontato questo problema sia stata solo l'amministrazione Bush, evidenzia l'abbandono di questo tema da parte della sinistra. Mentre per la generazione precedente, opporsi alla politica americana implicava ancora che si sostenessero esplicitamente quelle lotte di liberazione che venivano considerate progressiste, oggi, invece, opporsi alla politica degli Stati Uniti viene ritenuto come se fosse di per sé anti-egemonico. Paradossalmente, questo è uno sfortunato patrimonio ereditato dalla Guerra Fredda e dalla visione dualistica del mondo che l'accompagna. La categoria spaziale del "Campo", ha sostituito le categorie temporali delle possibilità storiche e dell'emancipazione, in quanto negazione storicamente determinata del capitalismo. Questo ha portato, non solo a un rifiuto dell'idea del socialismo visto come superamento storico del capitalismo, ma anche a uno squilibrio nella comprensione degli sviluppi internazionali. Definendo il "campo progressista" attraverso un quadro spaziale e in gran parte dualistico, il contenuto del termine "progressista", a livello internazionale, è diventato sempre più arbitrario, trasformandosi a seconda dell'equilibrio di potere globale. La guerra fredda sembra aver cancellato dalla memoria il fatto che l'opposizione a un potere imperiale, non era necessariamente progressista, e che esisteva anche l'antimperialismo fascista. Tale distinzione è svanita durante la Guerra Fredda; e non da ultimo perché l'Unione Sovietica ha stretto alleanze con regimi autoritari, in particolare in Medio Oriente, come i regimi Baath in Siria e Iraq, i quali avevano ben poco in comune con i movimenti socialisti e comunisti. Al contrario, uno dei loro obiettivi era quello di liquidare la sinistra nei loro paesi. Successivamente, l'antiamericanismo è diventato un codice progressista in sé, per quanto, accanto a quelle progressiste, ci sono sempre state forme di antiamericanismo profondamente reazionarie.

Perché, a sinistra così tante persone – anche quelle che non avevano alcun legame positivo con l'Unione Sovietica – adottarono questa visione dualistica della Guerra Fredda, e ne mantennero il suo quadro categoriale anche dopo che era finita? Vorrei affrontare questo problema indirettamente, facendolo per mezzo, e attraverso il tema, della violenza politica. Come ho detto prima, i critici dell'ondata di nazionalismo che dopo l'11 settembre si è impadronita degli Stati Uniti hanno sempre sottolineato quale fosse la dimensione della rabbia contro gli Stati Uniti, specialmente nei paesi arabi e musulmani. Tuttavia, per lo più, questa posizione generale serve a eludere un'analisi della natura della politica che si è espressa nell'attacco dell'11 settembre. E' significativo che un attacco del genere non sia stato compiuto due o tre decenni prima da quei gruppi che avevano tutte le ragioni per essere arrabbiati con gli Stati Uniti, come i comunisti vietnamiti, o come la sinistra cilena. E' importante comprendere l'assenza di un simile attacco, vedendolo non come una coincidenza, ma come l'espressione di un principio politico. Per questi gruppi, un attacco che prende di mira principalmente i civili, è sempre rimasto fuori dal loro orizzonte politico. Inoltre, la categoria di "collera" non spiega sufficientemente la violenza dell'11 settembre, in quanto le forme di violenza vanno comprese politicamente, non apologeticamente. Un esempio: a metà degli anni '80, sul comitato centrale dell'African National Congress (ANC) venne esercitata pressione politica interna  per lanciare una campagna di terrore contro i civili bianchi sudafricani. Dietro tali richieste c'era tanto un bisogno di vendetta quanto l'idea che i sudafricani bianchi avrebbero accettato l'abolizione dell'apartheid solo se avessero sofferto tanto quanto soffrivano i sudafricani neri. Il Comitato Centrale dell'ANC, tuttavia, si rifiutò di sostenere una simile richiesta, e questo non solo per ragioni tattiche, strategiche o pragmatiche (ad esempio, per quali sarebbero state le conseguenze di una simile violenza sulla società e sul governo post-apartheid), ma anche per ragioni politiche, di principio. L'argomento era quello secondo cui i movimenti di emancipazione, non hanno mai fatto della popolazione civile il loro obiettivo principale. Esiste una differenza fondamentale tra i movimenti che non prendono di mira una popolazione civile a caso (come il Viet Minh, i Viet Cong e l'ANC) e quelli che invece lo fanno (come l'IRA, Al-Qaeda o Hamas). Non si tratta di una differenza meramente tattica, ma altamente politica; poiché la forma della violenza e la forma della politica sono in relazione tra loro. Ciò significa che la natura della società e della politica future, sarà diversa a seconda che nella loro pratica politica i movimenti sociali militanti distinguano o meno tra obiettivi civili e militari. Se non lo fanno, allora vuol dire che tendono a enfatizzare l'identità. E questo li rende radicalmente nazionalisti, nel senso più ampio del termine, in quanto lavorano con una distinzione amico/nemico che essenzializza una popolazione civile, vedendola come un nemico, e quindi rende impossibile ogni possibilità di una futura coesistenza. È questo il motivo per cui i programmi di tali movimenti offrono poche analisi socio-economiche volte a trasformare le strutture sociali (da non confondere con le istituzioni sociali che questi movimenti in parte mettono a disposizione). In questi casi, la dialettica novecentesca della guerra e della rivoluzione, si trasforma in una subordinazione della "rivoluzione" alla guerra. Ciò che mi interessa qui, tuttavia, ha meno a che fare con simili movimenti. quanto piuttosto con gli attuali movimenti di opposizione nelle metropoli, e con le loro evidenti difficoltà nel distinguere tra queste due diverse forme di "resistenza". L'attacco dell'11 settembre rimette fondamentalmente in discussione le idee sulla violenza e sulla resistenza prevalenti in una parte della Nuova Sinistra tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, proprio così come avvenne prima con l'invasione sovietica di Praga nell'agosto 1968, e alla fine con il modo in cui il crollo degli stati comunisti europei nel 1989-1991 ha sfidato il leninismo visto come discorso egemonico, e ha segnato la fine di una fase storica iniziata nel 1917. Se guardiamo indietro, alla fine degli anni '60 e all'inizio degli anni '70, riusciamo a individuare un importante cambiamento avvenuto nell'orientamento politico, quando la Nuova Sinistra dell'epoca, da un movimento flessibile che sosteneva la resistenza non violenta e la trasformazione sociale, si è trasformata in un movimento militante frammentato. Alcuni di questi gruppi dissidenti hanno cominciato a fare l'apologia della lotta armata, e persino a praticare essi stessi la violenza. È stato in questo contesto, che crebbe il sostegno a gruppi come l'IRA (Irish Repblican Army) e il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), i quali avevano ben poco a che fare con i movimenti comunisti e socialisti che avevano caratterizzato la sinistra fino ad allora. Sempre più e sempre più spesso, si è propagata nelle metropoli, sostenuta a livello internazionale, una forma di violenza che era fondamentalmente diversa da quella che in genere era stata egemonica all'interno della sinistra per gran parte del XX secolo. La violenza venne allora concettualizzata in un modo che ha molte cose in comune con il concetto di violenza che Georges Sorel aveva espresso all'inizio del XX secolo. Nel suo "Riflessioni sulla violenza", Sorel presentava la violenza come un atto purificatore di auto-costituzione, diretto contro la decadenza della società borghese [*7]. Una simile concezione della violenza come atto redentore di rigenerazione - come espressione politica del regno della volontà pura - è stato, com'è noto, di fondamentale importanza anche per la concezione fascista e nazista dell'uomo nuovo e dell'ordine.

Dopo la seconda guerra mondiale, alcuni esponenti della sinistra si sono appropriati di questo insieme di posizioni, in alcuni casi con l'intermediazione dell'esistenzialismo. Soprattutto alla fine degli anni '50 e '60, quando la critica sociale si è concentrata sempre più sulle forme tecnocratiche e burocratiche del dominio, e l'Unione Sovietica ha cominciato a essere percepita sempre più come una componente rilevante della cultura dominante della ragione strumentale. In un simile contesto, la violenza è stata ritenuta come una forza non reificata e purificatrice, identificabile con i colonizzati, che faceva irruzione dall'esterno in modo da attaccare così le fondamenta dell'ordine esistente. Hannah Arendt ha sviluppato una critica illuminante di queste idee sulla violenza; così come essa si trova nelle opere di Sorel, di Vilfredo Pareto e di Frantz Fanon. Secondo Arendt, questi pensatori glorificano la violenza fine a sé stessa. Motivati da un odio nei confronti della società borghese molto più profondo di quello nutrito dalla sinistra convenzionale - per la quale la violenza poteva rappresentare un mezzo di lotta per una società giusta - Sorel, Pareto e Fanon ritenevano la violenza come emancipatrice in sé, la vedevano come una rottura radicale con le regole morali corrotte della società esistente. A partire da Arendt, esaminerò brevemente quel che è stato, alla fine degli anni '60, il ritorno della glorificazione soreliana della violenza. La fine degli anni '60 è stato un momento storico decisivo, durante il quale il presente e il suo ordine sociale sono stati messi fondamentalmente in discussione nella loro apparente inevitabilità. In retrospettiva, si è trattato di un periodo in cui il capitalismo fordista centrato sullo stato e sul suo equivalente - l'economia pianificata del "socialismo realmente esistente" - hanno raggiunto i loro limiti storici. I tentativi di superare questi limiti, si sono rivelati del tutto infruttuosi, anche a livello teorico. La dissoluzione della sintesi fordista, ha nutrito delle speranze utopiche. Simultaneamente, il bersaglio del malcontento sociale, politico e culturale è diventato inafferrabile, pervasivo e onnipresente in maniera insopportabile. La necessità del cambiamento diventava sempre più pressante, ma il modo in cui doveva essere realizzato non era per nulla chiaro. Gli studenti e i giovani di quel tempo, più che contro lo sfruttamento, si ribellavano contro la burocratizzazione e contro ciò che vedevano come alienazione. Ai loro occhi, il movimento operaio classico non solo non era capace di rispondere alle domande urgenti di molti giovani radicali, ma appariva anche – allo stesso modo dei "regimi socialisti realmente esistenti" – profondamente coinvolto in tutto ciò contro cui gli studenti e i giovani si stavano ribellando. Di fronte a questa nuova situazione storica, a questa terra incognita politica, molti movimenti di opposizione si sono rivolti a dei concetti familiari e hanno preso di mira forme concrete di dominio, come la violenza militare o il dominio burocratico e politico dello stato di polizia. Questa focalizzazione ha portato a una concezione opposizionale della politica, la quale è in sé stessa concreta, e spesso particolarista (cioè nazionalista). In tal senso, si possono citare le forme concrete di anti-imperialismo, oppure la crescente attenzione, da parte di alcuni attori di sinistra, sulle forme concrete di oppressione nell'Est comunista negli anni '70. Per quanto diverse, o opposte potessero sembrare all'epoca queste correnti politiche, esse ignoravano la natura del dominio astratto del capitale, e questo avviene proprio in un momento in cui il regime del capitale stava per diventare meno statalista e, in tal senso, ancora più astratto. L'orientamento in direzione di una forma soreliana di violenza ha costituito un momento di questa svolta verso il concreto. La violenza, o meglio l'idea di violenza, era intesa come l'espressione di una volontà politica, come la forza di un'azione storica che avrebbe potuto opporsi alle strutture burocratiche e all'alienazione. E in contrapposizione all'alienazione e alla rigidità burocratica, la violenza veniva vista come qualcosa di creativo, e le azioni violente erano considerate rivoluzionarie. Malgrado l'esistenza di questo nesso tra violenza e volontà politica, condivido l'osservazione di Arendt secondo cui, alla fine degli anni '60, la nuova glorificazione della violenza era radicata in una profonda frustrazione a causa di quanto, nella modernità, era limitate le possibilità di azione. Arendt ha analizzato questo aspetto, nel 1970, nel suo libro "Sulla violenza" [*8]. Detto in altre parole, la violenza è stata l'espressione di una sostanziale disperazione relativa alla reale efficacia della volontà politica. In una situazione storica di crescente impotenza, la violenza esprimeva, da un lato, la rabbia dovuta all'impotenza, mentre dall'altro serviva a reprimere il senso di impotenza. Da strumento di cambiamento, la violenza è diventata un atto di auto-costituzione dell'outsider, del diverso, dell'altro. Mettendo al centro del discorso, la rigidità burocratica del mondo fordista, la violenza riecheggiava e si riferiva alla distruzione di questo mondo da parte delle dinamiche del capitale. La prospettiva di un cambiamento fondamentale veniva così respinta, ed era sostituita dall'ambigua nozione di resistenza; quanto meno negli Stati Uniti. Tuttavia, il concetto di resistenza non dice molto sulla natura di ciò a cui si resiste, o sulla politica che accompagna una tale resistenza; e pertanto circa la natura di alcune forme di critica, di opposizione, di ribellione e di "rivoluzione". Assai spesso, il concetto di resistenza esprime una visione dualistica del mondo, la quale tende a reificare tanto il sistema di dominio quanto l'idea di azione. Raramente si basa su un'analisi ragionata e approfondita di quali sono le possibilità di un cambiamento fondamentale. In questo senso, manca di riflessività, è un concetto non dialettico che non è in grado di prendere coscienza delle proprie condizioni di possibilità. In altre parole, gli è impossibile cogliere una realtà dinamica della quale essa stessa fa parte; il che ha come conseguenza di rimuovere quelle che sono delle importanti differenziazioni politiche tra le diverse forme di violenza.

Ovviamente, ciò che ho definito come un ritorno al concreto, come reazione al dominio astratto, è una forma di reificazione, e può assumere forme differenti. Due di queste forme di reificazione, emerse con notevole forza negli ultimi 150 anni, hanno riguardato l'assimilazione del capitale globale, prima all'egemonia britannica, e poi a quella americana e, inoltre, la sua personificazione negli ebrei. Questo movimento verso il concreto, associato a una visione del mondo fortemente segnata dal dualismo della Guerra Fredda, ha generato un quadro di riferimento ideale, nel quale agiscono anche tutte quelle che sono le attuali mobilitazioni contro la guerra. In un simile quadro, l'opposizione al potere globale non rimanda, nemmeno in maniera implicita, a un auspicabile cambiamento emancipatore; e ancor meno lo fa rispetto al Medio Oriente. Così, in ultima analisi, una tale comprensione reificata si traduce in un tacito sostegno a quei movimenti e a quei regimi che hanno molto più in comune con quelle che erano le precedenti forme di ribellione reazionaria, piuttosto che con qualsiasi cosa che possa essere descritta come progressista. Ma questa forma di reificazione, ha anche contribuito a un grave fraintendimento sulla natura del nuovo ordine mondiale. Certo, il capitalismo globale neoliberista è stato promosso dai diversi regimi statunitensi che si sono succeduti. Ciononostante, sarebbe tuttavia un grave errore, sia dal punto di vista politico che teorico, assimilare completamente agli Stati Uniti quello che è l'attuale ordine mondiale neoliberista. Alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX, c'è stato un numero crescente di stati-nazione, guidati dalla Germania, che hanno sfidato la posizione egemonica della Gran Bretagna, e insieme a essa l'ordine mondiale liberale. Tutte queste rivalità, culminate nelle due guerre mondiali, un tempo venivano chiamate rivalità imperialiste. E forse oggi stiamo assistendo all'inizio del ritorno di un'era di rivalità imperialista, a un livello nuovo e assai più ampio. Tuttavia, dopo il 1989, gran parte del dibattito pubblico è stato sempre più caratterizzato da un'errata interpretazione del mondo post-Guerra Fredda, vedendolo come se fosse unipolare, con una sola vera potenza: gli Stati Uniti. Ironia vuole che invece, proprio molte persone coinvolte nell'apparato statale statunitense non vedono il mondo in questi termini, ma piuttosto ritengono l'Unione Europea, così come molti paesi asiatici come se fossero contro-egemoni, e quindi dei potenziali rivali degli Stati Uniti. Una simile comprensione, potrebbe servire ad aiutare a spiegare alcuni degli aspetti dell'attuale politica degli Stati Uniti. Nel quadro di questa emergente competizione internazionale, per esempio, è il controllo del Golfo Persico che riveste un'importanza strategica ancora maggiore. E non è solo questione di possedere petrolio, quanto piuttosto di controllare le principali fonti di petrolio per l'Europa, da un lato, e per la Cina e il Giappone, dall'altro. Per decenni, i pilastri del potere americano nel Golfo sono stati l'Iran dello Scià e l'Arabia Saudita. Uno di questi pilastri è crollato nel 1979, mentre l'altro si è rivelato come un alleato assai ambiguo. Ciò è avvenuto in un momento in cui gli Stati Uniti stavano affrontando una crescente concorrenza economica da parte dei rivali; alcuni dei quali erano degli alleati i quali, contro l'Unione Sovietica, non avevano più alcun bisogno dell'ombrello protettivo dell'esercito statunitense. In altre parole, quel che sto sostenendo è che l'attuale guerra in Iraq è stata effettivamente una guerra preventiva; ma lo è stata in un senso assai diverso da quello che viene spesso suggerito quando si affronta il discorso sulla guerra in Iraq. Non si trattava di una guerra preventiva contro il regime iracheno del Ba'ath, bensì di una guerra preventiva volta a riprendere il controllo delle risorse del Golfo Persico; ma questa volta contro quelle che sono le potenze emergenti che gli Stati Uniti vedono come i loro futuri rivali.

Nello scenario emergente delle rivalità imperialiste, gli Stati Uniti sono ben lungi dall'essere l'unico attore. Proprio come un secolo fa la Germania imperiale tentò di sfidare l'Impero britannico, costruendo la ferrovia Berlino-Baghdad, oggi, nel cuore dell'Unione Europea, il condominio franco-tedesco ha recentemente iniziato a competere con il dominio degli Stati Uniti nel Golfo, legando sempre più strettamente l'Iraq baathista all'Europa. E' assai significativo che a partire dal 2000 in poi, l'Iraq di Saddam Hussein sia stato il primo paese a pagare la vendita del suo petrolio non più in dollari, ma in euro. Questa sostituzione, ovviamente, ha minacciato la posizione del dollaro come valuta globale. La questione non è quella di sapere se il blocco europeo rappresenti una sfida progressista o una sfida regressiva agli Stati Uniti. Piuttosto, al contrario, questa azione (e la reazione americana) può essere legittimamente intesa come il preludio di una rivalità intra-capitalista su scala globale. A prescindere dalle critiche che possono essere mosse all'attuale amministrazione americana – ed essa è criticabile sotto molti aspetti – la sinistra dovrebbe piuttosto stare molto attenta nel momento in cui si oppone a una potenza imperialista, al fine di non diventare inconsapevolmente la promotrice di altre potenze imperialiste rivali. Alla vigilia della prima guerra mondiale, lo Stato Maggiore tedesco ritenne che fosse decisivo muovere guerra contemporaneamente contro Francia, Inghilterra e Russia. E proprio perché quest'ultima era la potenza europea più reazionaria e autocratica, ecco che la guerra avrebbe potuto essere presentata come una lotta della cultura mitteleuropea contro la bieca barbarie russa; cosa che avrebbe dovuto garantire l'appoggio dei socialdemocratici alla guerra. Questa strategia politica ha funzionato, e ha portato l'intera Europa, e in particolare la Germania, al disastro. Oggi siamo ben lontani da una situazione prebellica simile a quella del 1914. Ciononostante, la sinistra non dovrebbe però commettere lo stesso errore, nel sostenere, anche indirettamente, una contro-egemonia in ascesa, per difendere la civiltà dalla minaccia di un potere reazionario. Per quanto difficile possa essere, comprendere e opporsi al capitalismo globale, è essenziale ricostruire e riformulare un internazionalismo che faccia a meno dei dualismi. Attenendoci all'immagine dualistica reificata della Guerra Fredda (ben dopo la caduta dell'Unione Sovietica), rischiamo di impegnarci in una politica che - dal punto di vista dell'emancipazione umana - sarebbe quantomeno discutibile.

- Moishe Postone - Pubblicato originariamente in Klassen und Kämpfe, Unrast Verlag, 2006.

NOTE:

[*1] Cfr. Moishe Postone, Marx, par-delà le marxisme. Repenser une théorie critique du capitalisme au XXIe siècle, Albi, Crise & Critique, 2023 ; Moishe Postone, Temps, travail et domination sociale. Une réinterprétation de la théorie critique de Marx, Paris, Mille et une nuits, 2009 ; Moishe Postone, Critique du fétiche-capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche, Paris, PUF, 2013 (NdÉ).

[*2] - La nozione di "sweat-shop" si riferisce a quei siti di produzione caratterizzati da bassi salari, cattive condizioni di lavoro, e spesso lavoro minorile. Il "movimento anti-sfruttamento" si riferisce a quelle campagne volte a migliorare le condizioni dei lavoratori in queste officine. Alla fine del XX secolo, con l'avvento della globalizzazione, si formarono dei movimenti per protestare contro lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi poveri da parte delle aziende con sede nei paesi ricchi. Le aziende hanno la possibilità di spostare la produzione in un altro paese quando le leggi diventano troppo restrittive. Man mano che le multinazionali si sono globalizzate, molti movimenti anti-sfruttamento hanno iniziato a vedere un nuovo internazionalismo dei lavoratori come una delle uniche soluzioni praticabili; tuttavia, ciò richiede forti movimenti sindacali, risorse sufficienti e un impegno a mobilitare tutti i lavoratori, comprese le donne, cosa che può essere difficile da fare a livello internazionale, come è stato in America.

[*3] - Il termine "Nuova Sinistra" si riferisce a un gruppo di movimenti di sinistra e di estrema sinistra in diversi paesi, principalmente durante gli anni '60 e '70. Le critiche mosse dalla Nuova Sinistra sono critiche sociali, economiche, ma anche filosofiche e psicologiche. Ciò è basato in gran parte sulla critica dei movimenti di sinistra "tradizionali" del passato, la cui analisi si concentra soprattutto sul lavoro, e quindi sulle lotte dei lavoratori (del movimento operaio, della militanza dei sindacati e dei partiti di sinistra). I nuovi movimenti di sinistra, pur attingendo a piene mani dalle analisi del passato (principalmente analisi marxiste o marxiane, ma anche libertarie), adottano una nuova e più ampia definizione di attivismo politico e critica sociale. In tal modo, molti circoli politici dell'epoca articolarono una critica violenta dei valori sociali allora dominanti, e in particolare di tutta l'autorità e del lavoro (come i situazionisti). La Nuova Sinistra in Nord America e negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in Francia viene associata anche al movimento hippie, all'agitazione studentesca nei campus universitari (maggio 1968), ed è legata a una ridefinizione della protesta, e quindi dell'oppressione: non più solo "di classe", ma la quale viene ormai percepita da questi movimenti anche come di genere, contro l'oppressione in materia di sessualità e talvolta di già anche contro le dannose conseguenze ecologiche del capitalismo.

[*4] - Cfr. Moishe Postone, « Antisémitisme et national-socialisme », dans Critique du fétiche-capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche, Paris, PUF, 2013 ; Moishe Postone « L’Holocauste et la trajectoire du XXe siècle » à paraître dans le recueil collectif Le Péril antisémite. Antisémitisme structurel dans la modernité capitaliste, Albi, Crise & Critique, 2025 ; Moishe Postone, « Les dualismes de la modernité capitaliste. Réflexions sur l’histoire, l’Holocauste et l’antisémitisme », dans Le Péril antisémite ; Moishe Postone, « L’histoire juive comme histoire générale : à propos d’Eichmann à Jérusalem d’Hannah Arendt » dans Le Péril antisémite.

[*5] - UNDP, Arab Human Development Report 2002, disponibile su < https://hdr.undp.org/ >.

[*6] - Act Now to Stop War and End Racism (ANSWER), noto anche come International A.N.S.W.E.R. e ANSWER Coalition, è una coalizione di protesta con sede negli Stati Uniti che raccoglie molte organizzazioni contro la guerra e per i diritti civili. Formatasi all'indomani degli attacchi dell'11 settembre, ANSWER ha contribuito a organizzare molte delle più grandi proteste contro la guerra negli Stati Uniti, comprese le manifestazioni di centinaia di migliaia di persone contro la guerra in Iraq. Le attività del gruppo coprono anche una varietà di altre questioni, che vanno dal dibattito israelo-palestinese ai diritti degli immigrati e alla sicurezza sociale. ANSWER ha affrontato critiche da parte di altri gruppi pacifisti a causa delle sue affiliazioni, delle sue tattiche durante le proteste e del suo approccio settario al lavoro collettivo contro la guerra. È stato anche criticato per le sue politiche antisioniste.

[*7] - Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza, Rizzoli. Bur Classici, 1996.

[*8] - Hannah Arendt, Dalla menzogna alla violenza, Parigi, Calmann-Lévy, 1972 (ripubblicato da Le Livre de poche, 2020).

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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