mercoledì 22 novembre 2023

La storia della “pacchia” !!

L'idea di un governo che paghi i suoi cittadini per tenerli fuori dalla povertà – ora nota come reddito di base – non è certo nuova. Spesso datato fin dall'antica Roma, il concetto moderno di reddito di base è emerso alla fine del diciannovesimo secolo. Eppure, essendo una delle proposte più controverse di oggi, attira sostenitori da tutto lo spettro politico. In questo lavoro illuminante, Anton Jäger e Daniel Zamora Vargas tracciano il reddito di base dalla sua ascesa nei dibattiti politici americani e britannici - dopo periodi di tumulto economico - fino al suo rapporto moderno con le figure tecno-populiste della Silicon Valley.
Raccontano in che modo l'idea sia nata per la prima volta negli Stati Uniti e in Europa, come alternativa al mercato favorevole allo stato sociale del dopoguerra, e come l'interesse per questa misura da parte della politica sia cresciuto sulla scia della crisi del credito del 2008 e del crollo del COVID-19. In maniera ed esauriente, "Welfare for Markets" racconta la storia di come un'idea marginale concepita nei seminari di economia, sia diventata globale, rivelandosi come il cambiamento più significativo nella cultura politica dalla fine della Guerra Fredda.

(dal risvolto di copertina di: ANTON JÄGER, DANIEL ZAMORA VARGAS, "Welfare for Markets. A Global History of Basic Income". UNIVERSITY OF CHICAGO PRESS Pagine 246, $ 32,50)

Il reddito di base è neoliberista: uccide il welfare
- di Giovanni Bernardini -

Un’idea semplice: lo Stato trasferisce su base regolare e senza condizioni a ciascun cittadino una somma di denaro sufficiente a mantenersi al di sopra della soglia di povertà. La proposta di un «reddito universale di base» (Universal Basic Income, Ubi) guadagna da tempo consensi negli ambienti più disparati. Per di più, le recenti misure legate all’emergenza sanitaria, come il trasferimento deciso dall’amministrazione Trump di 1.200 dollari a ogni individuo sotto i 75 mila dollari di reddito, sono state interpretate da molti proponenti dell’Ubi come l’anticipo di una sua attuazione integrale. Se le obiezioni più comuni riguardano la fattibilità finanziaria, è anche lecito riflettere su quale modello di società implichi la riduzione del rapporto tra Stato e cittadini a un mero trasferimento di denaro. Su questo aspetto si concentra Welfare for Markets (University of Chicago Press) di Anton Jäger e Daniel Zamora Vargas. Attraverso una meticolosa disamina di testi e discorsi, il volume illustra come il «reddito universale di base» si sia affermato nell’alveo delle dottrine neoliberiste e trovi senso in relazione a esse, poiché implicherebbe il ridimensionamento del welfare tradizionale e degli apparati pubblici preposti al suo funzionamento, nonché l’abbandono dell’obiettivo tendenziale dell’uguaglianza di opportunità tra i cittadini. Il libro offre anche una raffinata «anti-mitologia» dell’idea di Ubi, la cui origine è ricondotta dai suoi proponenti all’età delle Rivoluzioni (francese e statunitense). Jäger e Zamora Vargas, al contrario, dimostrano come all’epoca l’idea si legasse a una volontà redistributiva e di democratizzazione della vita economica che le più recenti formulazioni, da Milton Friedman in poi, hanno accantonato. Ne abbiamo discusso con i due autori.

Domanda: Il libro mette in luce come i risultati di lotte secolari per «sottrarre intere aree della vita sociale alla tirannia del mercato» (come la sanità e l’istruzione) siano erosi dal paradigma dell’ Ubi: compensare la perdita di protezione e partecipazione pubblica con «denaro gratis». La recente sovrapposizione delle crisi economica e sanitaria potrebbe invertire questa tendenza?

DANIEL ZAMORA VARGAS: « Si tratta di più di una semplice compensazione: lo Stato si affida sempre più al denaro contante in materia di welfare. In parte a causa di un declino delle sue capacità, siamo lentamente passati da uno Stato sviluppista e dirigista a uno meno attivo e più incline ai trasferimenti diretti. In altre parole: erogare denaro contante piuttosto che dirigere gli investimenti, creare posti di lavoro pubblici e ampliare i servizi alla cittadinanza. Il fascino del denaro contante, però, è più profondo e nel libro cerchiamo di dimostrare come derivi anche da un cambiamento nel modo di concepire la libertà. La sua interpretazione classica prevedeva un maggiore controllo popolare sull’economia e l’uso del potere statale per migliorare il benessere collettivo: in sostanza, l’aumento della nostra capacità di autogoverno. Con la svolta pro-mercato degli anni Ottanta, essere liberi significa esserlo nel mercato, piuttosto che dal mercato. Sebbene le crisi recenti abbiano mostrato chiaramente come nessuna aggregazione delle nostre scelte individuali di consumo sarà mai in grado di fornirci case di cura modernizzate o investimenti necessari a una transizione ecologica, non è ancora chiaro se si tratti o meno di un’inversione di tendenza. La politica industriale, ad esempio, è tornata in auge, ma soltanto in settori molto strategici. »

ANTON JÄGER: « La storia dell’Ubi non riflette solo la crisi di un determinato welfare, ma della politica. Lo Stato sociale non è stato creato solo da politici o tecnocrati, ma anche da partiti di massa, sindacati e altre organizzazioni civili. Questi organismi sono stati fondamentali nel consentire agli individui di tradurre le loro preferenze in bisogni collettivi. Negli ultimi trent’anni, però, essi hanno subito un declino terminale. In mancanza di istituzioni politiche adeguate a deliberare e decidere sui nostri bisogni comuni, gli appelli individuali al denaro manterranno il loro fascino. Dubito quindi che uno stato di emergenza sia sufficiente a invertire tale tendenza. »

Domanda: Pur con le dovute distinzioni, la proposta di un reddito di base universale riscuote consensi trasversali. Sembra che lo riteniate un sintomo della depoliticizzazione del dibattito pubblico.

ANTON JÄGER: « Non si comprende l’ascesa della proposta Ubi senza considerare il più ampio fenomeno di disorganizzazione che ha investito il mercato del lavoro e la società civile a partire dagli anni Settanta. Non si tratta solo di un calo della forza sindacale, ma anche del declino massiccio degli iscritti ai partiti e dell’ascesa di nuovi attori: da un lato, tecnocrati con soluzioni apparentemente neutrali a complessi conflitti di interessi; dall’altro, populisti che evocano una volontà virtuale del popolo al di fuori delle istituzioni esistenti. Come ha spiegato il politologo britannico Chris Bickerton, tecnocrati e populisti possono essere in violento disaccordo sulle fonti di legittimità politica, ma condividono l’ostilità per politiche che dovrebbero mediare tra gruppi, classi e interessi. Questa complementarità diventa ancora più chiara quando entrambi si fanno promotori del trasferimento di denaro: i primi con l’idea che in questo modo le banche centrali possano risolvere la questione sociale; i secondi nella convinzione che le sovvenzioni permettano in qualche modo l’emancipazione del cittadino e mettano fuorigioco intermediari pericolosi. »

Domanda: L’adesione di molte forze di sinistra al progetto di un reddito universale di base segna il loro distacco dal tradizionale paradigma fondato sulla centralità del lavoro e sull’obiettivo della lotta alle diseguaglianze. Su quali basi dovrebbe svilupparsi una nuova progettualità politica di sinistra?

DANIEL ZAMORA VARGAS: « L’ascesa del reddito di base è stata anche prodotta dalla depoliticizzazione della sfera produttiva. Non è una sorpresa che già Karl Marx si opponesse con forza all’idea di un "socialismo basato principalmente sulla distribuzione". Dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, i socialisti hanno progressivamente rinunciato all’ambizione di controllare la produzione, per concentrare la loro azione esclusivamente sulla componente del lavoro. Non si trattava ovviamente di una mera questione tecnica. Ciò che intendiamo quando chiediamo una migliore ridistribuzione del reddito è essenzialmente una società con consumatori più uguali. L’idea le di autogoverno al centro del progetto socialista è stato progressivamente spostato: invece di permetterci di dire la nostra su cosa e come vogliamo produrre, discutiamo su come dividere la torta esistente. Ma le crisi odierne rendono più urgente che mai una politicizzazione della sfera produttiva: decidere collettivamente il tipo di lavoro che vogliamo e consentire una maggiore democrazia sul posto di lavoro. In questo senso, l’attuale attenzione alla riduzione della povertà ha indebolito la nostra idea di sviluppo, promuovendo una visione del benessere in cui il miglioramento individuale è scollegato dalla trasformazione della divisione del lavoro. »

Domanda: Nel libro riconoscete che i sistemi di welfare si sono fondati a lungo sulla centralità dell’uomo lavoratore, così come i sistemi di sostegno in caso di difficoltà hanno obbligato spesso i richiedenti a una gravosa produzione di documentazione o ad accertamenti talvolta umilianti. Non credete che un reddito universale di base comporterebbe una maggiore libertà per chi lo riceve, oltre a una maggiore responsabilizzazione?

DANIEL ZAMORA VARGAS: « La mancanza di condizionalità è attraente, ma ha anche dei limiti. Perché se si dà a tutti, non si può dare abbastanza a chi ha davvero bisogno. In un certo senso, un reddito di base realistico non è sufficiente e un reddito veramente emancipatorio è economicamente insostenibile. Nelle condizioni attuali, l’unica versione di reddito di base che potrebbe vedere la luce sarebbe inevitabilmente quella che aumenta la «uberizzazione» del mercato del lavoro: essa contribuirebbe ad abbassare i salari e moltiplicare i lavori scadenti. Nel complesso, inoltre, buona parte delle politiche sociali del dopoguerra non era condizionata a verifiche. Esse si fondavano sulla garanzia a tutti, al di fuori del mercato, dell’accesso all’assistenza sanitaria, a un lavoro decente, a un alloggio a prezzi accessibili, a trasporti economici, all’istruzione. Questo significava diminuire il bisogno di denaro piuttosto che garantire un reddito di base. Se è quindi doveroso ridurre una burocrazia assistenziale invasiva e umiliante, non dobbiamo nemmeno dimenticare che nell’era di Donald Trump, delle guerre, del riscaldamento globale e dell’inflazione, non saranno le rivendicazioni di contante a garantirci un ritorno alla normalità. »

ANTON JÄGER: « Il libro non contesta l’idea che i trasferimenti di denaro contante possano avere un effetto benefico in casi di stress economico o per ridurre la povertà. La nostra domanda è un’altra: come siamo arrivati a considerare i trasferimenti di denaro come lo strumento principale per combattere i problemi in questione, quando le generazioni precedenti avevano un profondo senso dei suoi limiti e hanno costruito i loro sistemi di welfare che andavano in direzione opposta? Certamente in Paesi come gli Stati Uniti, che hanno sempre avuto uno Stato sociale relativamente poco sviluppato e deboli organizzazioni dei lavoratori, i trasferimenti di denaro saranno la soluzione consensuale per affrontare le crisi economiche. Un Paese in disaccordo su tutto può almeno concordare sul bisogno di denaro degli individui — anche se un giorno i datori di lavoro potrebbero volere che i dipendenti tornino a lavorare e quindi interrompano gli assegni in questione. Ma quale orizzonte emancipatorio ci poniamo se accettiamo questo assunto come l’alfa e l’omega della politica sociale? »

Domanda: In Italia il reddito di cittadinanza, misura di «contrasto alla povertà» finalizzata al «reinserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale», è stato fortemente voluto dal Movimento Cinque Stelle, giudicato il partito populista per antonomasia. La proposta ha creato dissidi all’interno della sinistra, riscuotendo nel complesso più favore che opposizione. Al contrario, la coalizione delle destre ha fatto della sua abolizione una bandiera, salvo ripiegare su misure una tantum di contrasto alla povertà caratterizzate da limiti e condizionalità. Ritenete che si tratti di uno scenario esclusivamente italiano?

DANIEL ZAMORA VARGAS: « Naturalmente si tratta di una tendenza che va ben oltre l’Italia. Negli ultimi quarant’anni si è verificata una profonda trasformazione del modo di pensare la politica sociale. Il mercato è diventato lo strumento centrale per allocare gli investimenti nelle nostre società, ed è stato accantonato qualsiasi tipo di deliberazione democratica sull’economia. Anziché discutere dei settori in cui investire o del tipo di posti di lavoro da creare, il dibattito si concentra ora su cifre e condizioni. La sinistra vuole aumentare i sussidi ai poveri, mentre la destra si concentra sui tagli fiscali per i ricchi, ma entrambe espandono la spesa pubblica sotto forma di trasferimenti di denaro o di sovvenzioni alle imprese. In altre parole, mentre i keynesiani classici avrebbero affrontato il problema della disoccupazione attraverso programmi di lavoro pubblico, i keynesiani contemporanei si sono concentrati sulla promozione dei consumi individuali e degli investimenti privati. In questo nuovo quadro, sinistra e destra finiscono per differenziarsi per il tipo di trasferimenti che intendono fare, piuttosto che per il tipo di intervento che lo Stato dovrebbe operare nell’economia. »

- Intervista di Giovanni Bernardini, apparsa su La Lettura del 23/7/2023 -

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