venerdì 4 dicembre 2020

Sveglia!!

Inutile essere vivi, se si deve lavorare
- Editoriale del n°3 di Jaggernaut, "Aboliamo il lavoro!" -
di Clément Homs

«Il bisogno di lasciar diventare eloquente il dolore è condizione di ogni verità.» (Theodor W. Adorno, "Dialettica negativa")
«Se il lavoro è salute, la mia allora datela ad un malato!» (Antoine Chuquet - 1905-1982 -)

No, il lavoro non è affatto una necessità naturale, eterna, che esisterà sempre; ma è una forma sociale negativa e distruttiva dell'attività umana, ed il cui avvento coincide con il capitalismo, a prescindere da ogni contenuto concreto di tutte le attività umane eterogenee, in modo da poterle meglio ridurre alla forma, vuota di contenuto, di quello che finisce per essere solo un dispendio astratto di energia umana: il lavoro astratto.
No, il lavoro vivente che produce merci non ha sostanzialmente niente a che fare con il metabolismo con la natura (e da quando in qua, il fine del capitalismo sarebbe la soddisfazione dei bisogni?!); il lavoro vivente non è altro che l'espressione «vivente» del lavoro morto - il denaro - diventato un fine in sé. Il lavoro vivente, in un loop, in un ciclo infinito, con sé stesso è il movimento tautologico della riproduzione e il riflettersi su sé stesso del denaro, il quale diventa capitale solo sotto questa forma, come trasformazione di un dato quantitativo di lavoro morto e astratto (il valore) in un altro quantum ancora più grande di lavoro morto e astratto (il plusvalore). Il lavoro vivente è la manifestazione concreta, in carne ed ossa, dell'universalità astratta del lavoro.
No, nelle società non moderne gli esseri umani non operano sulla «natura» al fine di soddisfare dei bisogni positivi come quello di nutrirsi o di vestirsi, bensì per suggellare delle relazioni di «alleanza» con delle divinità immaginarie che poi pongono all'origine delle loro stesse relazioni sociali.
No, il lavoro concreto, in quelli che sono i suoi gesti e la sua abilità non è l'attività che trasforma la «materia» dovunque e sempre, in maniera innocente e neutrale, per conferirle un'altra forma; ma esso è piuttosto lo specifico modo materiale in cui il lavoro astratto, materializzandosi nel tuo corpo, nelle tue parole, nelle tue «abilità» e nei tuoi gesti, mette in atto il suo controllo e il suo dominio sulla «materia» naturale o sociale. Di primo acchito, il lavoro concreto non è altro che altro che il precipitato sensibile-empirico di un processo di astrazione che lo trascende.
No, il lavoro nel processo di produzione non «vale» per quello che sembra essere, vale a dire, non è un processo concreto di fabbricazione di mobili, di medicinali, vaschette di pollo alla diavola, bigodini per capelli, giocattoli Mattel o Playmobil, ecc.; ma esso vale come dispendio di forza lavoro astratta in generale, come «gelatina di lavoro astratto» (Marx) che dev'essere ottimizzata per mezzo di una miglior gestione, al fine di poter essere rappresentata sotto forma di più soldi. Le merci che ritagliano dalla natura umana i «bisogni» che ad esse corrispondono, sono sempre e solamente la confezione regalo, banale e temporaneo, sotto cui si manifesta la metamorfosi del denaro.
No, non è il lavoro ad essere alienato, ma è il lavoro ad essere l'alienazione in sé.
No, tu non lavori per te stesso, tu lavori per produrre delle merci - beni o servizi - in modo da ottenere così uno stipendio che ti permette di acquistare delle merci che nel frattempo altri avranno fabbricato, e ciò avviene proprio a partire dal fatto che tu sei già, sempre e in ogni momento, il supporto concreto e vivente, sfruttato e intercambiabile del movimento automatico del denaro, vale a dire che sei la relazione decisiva.
No, non l'utilità, non il valore d'uso di questa marca di frigorifero, di questo pc portatile, di questa confezione di birre, di questo libro che tieni fra le mani, essa non è una determinazione ontologica trans-storica piantata nel biancore immacolato della sua forma sociale apparentemente neutra; ma essa è la maniera sempre specifica di come l'astrazione reale del valore si impadronisce delle cose - che in sé non sono astratte - per farne delle merci.
No, non il prodotto concreto, sensibile, quello che è il corpo stesso di una merce non è un bene neutro ed innocente che avrebbe potuto esistere nella notte dei tempi; ma è l'espressione concreta e transitoria dell'astrazione del denaro.
No, non si tratta del sapore di questo zucchero di barbabietola al neonicotinoide, o di questo pomodoro geneticamente modificato, di questo prosciutto al nitrito di potassio, di questi sonagli sintetici per neonati, di quella bistecca di manzo gonfia di anabolizzanti, di quella bevanda gassata satura di zuccheri, non si tratta di quel neutro sensibile, innocente e naturale, ma della sensibilità astratta già modificata interiormente per poter essere così il «supporto» del più redditizio movimento automatico di denaro che ci possa essere.
No, non è la durata della vita di questa «macchina per il pane», di questa sedia di plastica, di questo schermo televisivo che non vogliamo più guardare, non è la durata del naturale degrado dei materiali, bensì quello della loro obsolescenza programmata al fine di abbreviare il ciclo di incarnazione del denaro nella prossima inondazione di merci lanciate sul mercato.
No, non è solo il fatto che quella non è una pipa, ma è una cosa sociale piena di sottigliezze metafisiche, è lavoro astratto.
No, non si tratta di vacche, che nel loro universo concentrazionario fatto di stalle e di cibo artificiale non vedono più i treni passare, ma si tratta di soldi che su zampe imbottite di farina di soia aspettano solo di crescere.
No, questa non è una fetta di prosciutto, ma è il movimento automatico del denaro che si è concretamente incarnato, in maniera cieca e terrificante, in un animale vivo che sente, vive, si adatta, agisce.
No, questo non è un missile della Nexter, ma è denaro che è stato investito in un contenuto produttivo per poi trasformarsi in ancora più soldi per mezzo di corpi di bambini sventrati, di abitanti terrorizzati e le rovine fumanti di Damasco, Aleppo o Sanaa.
No, questo non è un pero che produce pere, è un albero capitalisticamente trasformato che produce denaro proprio come il pero una volta produceva delle pere.
No, non è il valore d'uso a definire un superamento dell'economia politica; il valore d'uso rimane sempre solamente l'orizzonte aberrante del valore di mercato.
No, tu non sei un essere dotato di bisogni. No, non sei destinato a soddisfarli. No, tu non sei una forza lavoro.

Una stagione all'inferno ... del lavoro
Innalzamento dell'età pensionabile, leggi sul lavoro a ripetizione, uberizzazione del lavoro, disagio sul lavoro e sensazione di una perdita di senso dei mestieri, «lavori stronzate» denunciati pubblicamente, sviluppo massiccio di disturbi muscolo-schelettrici, esplosione di patologie da sovraccarico di lavoro quali il burn-out o la morte improvvisa (karôshi) di dirigenti o impiegati dovuta ad arresto cardiaco o ad ictus, moltiplicazione dei suicidi sul posto di lavoro, molestie morale e sessuali, diatribe contro l'open space, il tele-lavoro nelle condizioni del Covid-19, dibattito sulla possibilità di un reddito universale, denuncia del «fardello mentale» sopportato dalle donne o della ripartizione del «lavoro domestico», ecc. Mai, come in questi ultimi anni, le proteste e le lamentele a proposito del lavoro si sono sentite così fortemente, e mai il lavoro è stato così radicato nelle nostre abitudini, tanto da non farci nemmeno intravvedere come potremmo vivere senza di esso. Tuttavia, il modo in cui, nella crisi, la relazione di capitale tratta quella sua componente che è il lavoro, di per sé crea a priori delle condizioni favorevoli alla critica del lavoro. Eppure, due o tre miliardi di «lavoratori senza lavoro», questi individui non redditizi gettati parzialmente o completamente fuori dal modo di produzione e di vita capitalistica, non hanno costituito una forza rivoluzionaria in grado di abolire la relazione di capitale ed il suo feticcio lavoro. Se esiste per davvero un crescente malcontento a fronte della mancanza di lavoro, a causa delle forme e delle condizioni lavorative, oppure della sua remunerazione, in quella che è la forma di vita capitalistica rimasta intatta, il lavoro riguarda tutti e occupa il dibattito solo nei suoi termini di modalità settoriale, di sistemazione ed accomodamento personale. o di sopravvivenza intesa secondo quelli che ne sono i margini e gli interstizi. Al di fuori del lavoro e delle sue costrizioni, esistiamo davvero? Visto dall'interno, dal ventre della forma della vita sociale moderna, non è forse il lavoro inerente alla condizione umana? La forma di vita sociale capitalistica - nella quale gli individui esistono rapportandosi gli uni agli altri solo attraverso il lavoro e le sue forme di rappresentazione, il valore, il denaro e le merci che essi producono e consumano - costituisce una «gabbia d'acciaio» (Max Weber) che impedisce di identificare a causa matrice delle sofferenze sociali contemporanee. Questo modo, in larga misura inconsapevole, di convivere socialmente, costituisce una trappola che non solo intrappola sia il nostro corpo che il nostro spirito, ma che si richiude anche sulla coscienza critica stessa, persino quando essa è oppositiva e rivoluzionaria. Qui, l'anticapitalismo tronco si installa sul trono della coscienza critica. Nessun'altra realtà moderna è rimasta altrettanto nascosta al pensiero illuminato di quanto lo è stato il pensiero illuminato di una società che paradossalmente continua ad essere definita razionale e consapevole di sé. Il lavoro, in quanto tale, rimane nell'angolo morto delle lotte sociali, e continua a farsi attendere un movimento sociale di abolizione di quelle forme di vita sociale organizzate intorno al lavoro e alle sue rappresentazioni.
Finora, ogni genere di sinistra non ha mai nemmeno pensato di poter derogare alla regola secondo la quale non si devono comprendere quali sono le fondamenta della vita moderna. Nei limiti di quella che è una forma di vita sociale che non è mai stata messa in discussione, l'ambizione di «Cambiare la vita» doveva logicamente trasformarsi nella formula enunciata da Léon Blum: «Gestire lealmente il capitalismo». Ed ecco che così, i due movimenti delle «forze di sinistra» che dovevano opporsi, rispettivamente, sia alla prima contraddizione immanente del capitalismo (quella tra capitale e lavoro) che alla seconda (quella tra capitale e «natura»), non potevano fare altro che cercare di erigere le mura di questa prigionia: creare un capitalismo dal volto umano. Oggi, in quest'inizio di 21° secolo, la crisi delle fondamenta del capitalismo coincide anche con la crisi di questo anticapitalismo tronco. La sinistra non ha ancora attraversato il Rubicone di un cambiamento radicale della rappresentazione di ciò che è il «capitalismo», e di conseguenza un nuovo progetto emancipatore. Non ha ancora tranciato di netto il nodo gordiano che costituisce la totalità sociale capitalistica. Continua a muovere le sue gambe, ad innalzare barricate e a megafonare solo per meglio deificare il lavoro e le sue rappresentazioni, per affermarne il suo carattere che viene presupposto come insuperabile. Il lavoro, il denaro e una vita passata a comprare e vendere delle merci, a vendersi come merce sul mercato del lavoro, continuano a venire sempre percepiti come l'aria che si respira o come l'acqua che beviamo, o il volo degli uccelli che percorrono il cielo : questa forma di coesione sociale, in cui viene realizzata la produzione delle nostre vite individuali, è sempre esistita ed esisterà sempre, fino alla notte dei tempi! A che pro strappare il velo del Sancta Sanctorum di una modernità produttrice di merci se essa non è altro che la natura umana in quanto tale? Dappertutto, il malcontento viene frenato dal muro di vetro delle definizioni che circonda il lavoro, il denaro, il valore e le merci, la loro leggenda e la loro naturalizzazione, e che va di pari passo con le definizioni dell'economia e degli aspetti economici in quanto tali.
Il significato comune del termine «lavoro» che viene spontaneamente accettato, lo designa come se si trattasse di qualsivoglia forma di azione dell'uomo sulla natura, accompagnata ai risultati di questa azione. L'universalità che viene attribuita a questa funzione, lo associa strettamente alla natura, e rientra quasi nell'ordine del biologico. Il lavoro, secondo la sua definizione, sarebbe l'insieme delle attività umane relative alla produzione di beni materiali, o alla sussistenza. Niente di meno... Tutt'al più, il lavoro viene denunciato solo sotto la sua forma di «lavoro forzato». A partire dal 18° secolo, questa forma di lavoro viene criticata nel nome del «lavoro libero»; ed è a partire da questo, che lo scorso 22 settembre, la Camera americana dei Rappresentanti ha approvato un progetto di legge per vietare che vengano importati negli Stati Uniti  la maggior parte dei prodotti provenienti dalla regione cinese di Xinjiang, e questo al fine di bloccare l'importazione di tutto ciò che viene prodotto dagli Uiguri [*1]. Tuttavia, alla falsità borghese continua a sfuggire che quei 380 «campi» - che secondo la propaganda ufficiale sarebbero dei «centri di formazione professionale» - non sono nient'altro che un ritardo rispetto a quello che il passato capitalista ha fatto con le «workhouse» e i «campi di lavoro» dei paesi della Libertà e della Democrazia.
Il lavoro, tuttavia, negli ultimi vent'anni ha perduto la sua aura, quantomeno in certi discorsi militanti e intellettuali. Sua Maestà viene ormai apertamente denigrata, vilipesa, evitata e perfino detestata. I giovani continuano sempre a porsi le medesime domande sul proprio futuro di lavoratori (più o meno) redditizi. Cosa che rivela che quella che è una critica del semplice contenuto, delle condizioni e della forma concreta che è stata assunta da questo o da quel lavoro - ciò che noi definiremmo come una critica fenomenologica del lavoro - e che per tutta la modernità non ha mai smesso di esistere. Si tratta di un'analisi critica empirica, storica, etica e morale di quelli che sono degli oggetti specifici, percepiti empiricamente, e che viene svolta a partire dal principio secondo cui il lavoro come tale, in quanto forma sociale assunta dall'agire, non è problematico. Ma nel criticare unicamente le sole condizioni concrete, una simile analisi rimane legata mani e piedi al modo di pensare positivista. Solo alcuni fenomeni particolari relativi al lavoro possono essere oggetto di critica, ma non può mai esserlo il «lavoro» come tale, nella sua esistenza in quanto forma sociale e nel suo ruolo indotto dalla sua duplice natura, astratta e concreta. Si fa riferimento solo ad un determinato «agire» che avviene nel contesto di categorie nascoste, che non vengono considerate, e quindi non sono criticate. Come sottolineato da  Alastair Hemmens, «è stato versato un bel po' di inchiostro per criticare e descrivere la fenomenologia o la sociologia del lavoro: la divisione del lavoro, le sue condizioni, la sua remunerazione, chi lo svolge, il perché viene svolto, in senso immediato, il modo in cui viene organizzato, come si è evoluto, le sue tecnologie, la sua ingiustizia, come ci si sente mentre lo si fa, il modo in cui i produttori sono alienati a causa dell'espropriazione dei loro prodotti e della propria attività, ecc.» [*2]. La critica del solo regime giuridico del lavoro salariato, in nome del lavoro libero, autonomo, indipendente o autogestito, o perfino nel nome del «controllo operaio», fa parte di questa critica tronca del lavoro, che rimane cieca di fronte al fatto che il lavoro salariato non è altro che una delle particolari forme fenomenologiche che è stata assunta dal lavoro. In una simile prospettiva, contando gli anni che sono passati dalla loro nascita, sia la critica fenomenologica del lavoro che la denuncia della «turbina» sono entrambe, quanto memo, altrettanto vecchie. A quanto pare solo un po', ma non troppo, visto che a certe condizioni il lavoro continua a piacerci.
Ogni ristrutturazione dell'apparato produttivo, che nasce sotto la spinta dell'esigenza di un nuovo aumento della produttività, ha portato a questo genere di critica fenomenologica di ciascun contenuto di ogni nuova forma che è stata assunta dal lavoro. Se si pensa agli Stati Uniti, alla critica del lavoro salariato fatta dai piccoli proprietari e dai piccoli produttori di merci all'inizio del 19° secolo, della quale Christopher Lasch, pur senza un vero e proprio concetto di «capitalismo» [*3], ha potuto fare l'apologia; oppure ai luddisti, che in Inghilterra e in Spagna, all'inizio del 19° secolo si opponevano all'introduzione delle macchine; o alla critica della catena di montaggio fordista, tanto in "Tempi moderni" di Charlie Chaplin quanto sul terreno delle lotte sociali, ecc. Oggi, l'uberizzazione del lavoro, vale a dire, questa forma non salariata, quasi proto-industriale, del lavoratore 2.0 sta suscitando altrettanto critiche e interrogativi. Non dimeno sta succedendo con le lotte riguardo i lavori di pulizia nell'industria alberghiera francese. Per dirla più in generale, a partire dall'inizio degli anni '80, per mezzo del concetto di produzione «just-in-time», il principio del flusso produttivo - attraverso la «produzione snella» - si è esteso a tutto l'insieme della produzione di beni e servizi sul mercato, ed è stato accompagnato da un nuovo regime di mobilitazione dei lavoratori salariati. Questo «modello neo-fordista», noto anche con il nome di «taylorismo flessibile», ha creato nel dominio della soggettivazione un «uomo nuovo», resosi necessario a questa ristrutturazione avvenuta sul lato concreto del lavoro.
Oramai, il capitalismo ha bisogno di dipendenti capaci di iniziativa, di assumersi delle responsabilità, senza che fondamentalmente non ci siano più «qualifiche» come ai tempi del fordismo, bensì delle «competenze», vale a dire essere in grado di affrontare in maniera permanente le oggettive situazioni impreviste del capitalismo di crisi [*4] e dei suoi mercati mondiali. Un «nuovo spirito del capitalismo» ha aperto uno scenario palese per la responsabilizzazione dei dipendenti e il potenziamento della loro autonomia, che viene testimoniato, a partire dagli anni '90 da quello che è il linguaggio stesso dell'impresa, la quale non parla più di semplici dipendenti, bensì di «collaboratori». A quanto pare, non si vogliono più dei semplici «esecutori» ma dei lavoratori « "proattivi", dinamici e produttivi » - nell'ultimo decennio, questo è stato un elemento linguistico di rilievo - vale a dire che la ristrutturazione post-fordista dell'apparato produttivo ha implicato, come osserva Norbert Trenkle, che «le funzioni di comando del capitale sono state in parte integrate all'interno delle differenti attività lavorative, e che in questo modo la contraddizione tra lavoro e capitale è stata trasferita direttamente all'interno degli individui» [*5]. Alla fine, questo presupposto consiste nel fare interiorizzare immediatamente ai dipendenti - nella forma di un'ingiunzione permanente alla malleabilità - quella struttura coercitiva e oggettiva dei requisiti che oggi la valorizzazione del valore richiede al suo «materiale umano». Il capitalismo di crisi crea un salariato di crisi a sua immagine, ridotto concretamente ad essere, sotto la propria responsabilità personale ed iniziativa, nient'altro che il docile ed auto-sottomesso portatore dell'auto-movimento del denaro.
Tuttavia, allo stesso tempo, simultaneamente, questo «nuovo spirito del capitalismo» e la sua congiuntura di crisi strutturale producono un «uomo nuovo», attraversato da esigenze contraddittorie nello svolgere questo stesso lavoro. Qui possiamo seguire, modificandole un po', le tesi del sociologo Jean-Pierre Durand [*6]. Da un lato, questa autonomia, questa responsabilizzazione del dipendente, questa realizzazione di sé a partire dall'iniziativa, quest'attuazione di un ethos, di un atteggiamento proattivo e di una «competenza» sono sempre comunque circoscritte e limitate in un quadro organizzativo - la gestione snella - che controlla e inquadra questa autonomia, soprattutto attraverso il modo in cui vengono assicurati i risultati qualitativi e quantitativi del lavoro dei salariati a partire dalle App di reporting, di valutazione, di questionario individualizzato, di programmi pieni di bug per gestire il tele-lavoro, ecc. In questo senso, la funzione di comando del capitale su questo lavoro «responsabilizzato» attiene solo al controllo e alla verifica di questa responsabilizzazione del dipendente. Ci si assicura che il «collaboratore» sia effettivamente in grado di garantire - attraverso un'autodisciplina del corpo e dello spirito che è solo il rovescio di questo transfert apparente di responsabilità - di sottomettersi alle esigenze della valorizzazione del valore, e in particolare alla costrizione alla produttività imposta dal quadro competitivo. E se necessario, se c'è bisogno delle sue mascelle d'acciaio, sarà il top management a stringere la vite. I salariati del fordismo flessibile, devono ormai eseguire nei proprio confronti, verso sé stessi, la funzione senza soggetto e sovraindividuale dell'auto-movimento del denaro (la valorizzazione). Essi devono diventare i «soggetti» immediati del «soggetto automatico» (Marx); le cui figure archetipiche sono quelle dell'auto-imprenditore o del lavoratore-Uber.
Idealmente, non dovrebbero diventare nient'altro che degli «oggetti» del processo di valorizzazione, vale a dire che devono, in quanto lavoratori, interiorizzare nel profondo della loro psiche i vincoli e gli obblighi. Devono diventare un tutt'uno con il «dominio senza soggetto» (Robert Kurz) che si abbatte su di loro. L'imprenditore di sé stesso che non è altro che «lo sfruttatore di sé stesso», costituisce qui la logica del valore pienamente realizzata nel suo materiale umano: l’antropomorfosi stessa del capitale. Ma qui l'uomo nuove che percepisce un salario, sottolinea Jean-Pierre Durand, è «dissociato, diviso tra l'espressione di sé stesso o tra, da un lato, la realizzazione di sé, e dall'altro lato l'inquadramento della sua attività in un'organizzazione eteronoma» [*7]. In lui si mescola e si combina il desiderio di agire, o di fare, eccitato dalle proprie iniziative e dalla sua nuova responsabilizzazione, «mentre allo stesso tempo si trova costantemente bloccato, per tutte queste cose, da un'organizzazione e da una gerarchia che lo paralizzano, ma alle quali egli consacra tutto il suo attaccamento» [*8]. E qui bisogna superare Durand ed il suo marxismo tradizionale: il suo desiderio di autonomia e di diventare pienamente il soggetto del proprio lavoro, viene «bloccato» dal suo status di oggetto immediato del processo di valorizzazione, che è diventato nel momento in cui esegue su di sé, senza alcuna altra mediazione se non quella della sua «propria» volontà, le esigenze coercitive e sacrificali.
Su questo piano, la critica fenomenologica del lavoro si ristruttura: il passaggio dagli anni '90 ai 2000 - segnato dal dibattito sulla «sofferenza del lavoro» che va a sostituire quello sulla «fine del lavoro» - avviene fondamentalmente a partire da questa rottura avvenuta nel lavoratore del fordismo flessibile. Le nuove patologie del lavoro vanno di pari passo con le nuove forme di distruzione che gli individui infliggono a sé stessi e agli altri - suicidi sul lavoro, omicidi di massa, ecc. Allo stesso tempo, questa «sofferenza sul lavoro» corrisponde anche al processo di individualizzazione postmoderna e alla sue identità flessibili, in cui ci viene permesso di lamentarci di questo o di quel contenuto assunto dal lavoro; e ciò anche perché ci viene richiesto per tutta la nostra vita di passare continuamente da un lavoro all'altro, alla stessa velocità con cui avviene il processo di rinnovamento delle merci, il loro dispiegarsi sul territorio e i processi mutevoli della loro produzione e di quella dei nuovi gingilli che vengono immessi sul mercato.
Ancora una volta, non si tratta del lavoro in quanto tale, ma piuttosto del contenuto e delle condizioni di lavoro che in questa lamentela vengono messe sotto accusa. Testimoni, nelle librerie e nelle sale cinematografiche,  della ristrutturazione di questa critica fenomenologica del lavoro sono libri come "Bonjour Paresse" di Corinne Maier [in italiano "Buongiorno pigrizia. Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile" Bompiani], il documentario "Attention danger travail" di Pierre Carles, il fumetto "Le travail m’a tué" di Arnaud Delalande, Grégory Mardon e Hubert Prolongeau, ed il successo dei libro di David Graeber, "Bullshit Jobs", e di quello di Julien Brygo e Olivier Cyran, "Boulots de merdes !" il cui sotto-titolo: "Du cireur au tradeur, enquête sur l’utilité et la nuisance sociales des métiers". ["Dal lustrascarpe al commesso, inchiesta sull'utilità e la nocività sociale dei mestieri"] esprime un anticapitalismo tronco. Questa sofferenza sul lavoro, viene motivata anche in nome di una rivalutazione del lavoro, e dei gesti e del sapere dei mestieri. Si pensi al libro di Matthew B. Crawford, "L’éloge du carburateur", un saggio sul senso e sul valore del lavoro, o al documentario di Jean-Robert Vialet, "La mise à mort du travail", del 2009, che ha suscitato un certo numero di quesiti. Ad essere in questione è soprattutto del malessere legato al lavoro e della «perdita di senso del lavoro» (che si può trovare anche nei testi del sociologo Richard Sennett), vale a dire che si tratta, in una forma o nell'altra, dell'ideologia nostalgica di un «lavoro ben fatto» e dei «gesti reali del mestiere».

Dammi un pizzicotto! Borghesia e movimento operaio sulla stessa barca della critica svolta dal punto di vista del lavoro
Ma il lavoro non si trova al centro delle lamentele solo per i suoi contenuti e per le sue mutevoli condizioni nel corso della traiettoria della produzione capitalista. In un modo apparentemente paradossale, per l'individuo moderno, l'oggetto stesso della lamentela viene a costituire una visione del mondo ed un legame soggettivo talmente pregnante che esso costituisce anche la prospettiva a partire dalla quale si muovono lamentele e critiche. Il lavoro continua a trovarsi sempre al centro di una critica e di tutta una serie di recriminazioni che vengono fatte da quello che è il punto di vista stesso del lavoro [*9]. Questa critica, che è alla ricerca dell'«emancipazione del lavoro», è una critica che viene svolta da un punto di vista quasi naturale; vale a dire, dal punto di vista di un'ontologia. «Abbiamo a che fare con una critica» - nota Moishe Postone - «di qualcosa che è artificiale e che viene fatta in nome della "vera" natura della società» [*10]. E il suo carattere è positivo, prosegue Postone: «il suo punto di vista è quello della struttura già esistente del lavoro, e della classe che lavora. L'emancipazione si realizza nel momento in cui la struttura del lavoro già esistente smette di essere intralciata dalle relazioni capitalistiche [che vengono ridotte ai meri rapporti di distribuzione] e smette di essere utilizzata per soddisfare degli interessi particolaristici, allorché viene sottomessa an consapevole controllo svolto nell'interesse di tutti» [*11]. I complessi meccanismi di identificazione con il lavoro ( e questo fin dall'infanzia, nella forma di ingiunzioni socio-parentali del tipo «Che lavoro vorrai fare quando sarai grande?») e la visione del mondo sociale che naturalizza il lavoro, si sono radicati nella «seconda natura» delle relazioni sociali capitalistiche, dove ciascuno si relaziona oggettivamente agli altri attraverso il lavoro, e deve quindi, per (soprav)vivere, pensarsi in maniera permanente, soggettivamente, come un soggetto che presta questo lavoro in una forma o nell'altra. L'individuo esiste solo attraverso ciò che egli vende o compra a partire dal proprio lavoro. Questo soggetto che pensa sé stesso e comprende il mondo dal punto di vista del lavoro, non è tuttavia solo ciò che esso sarà in un'ottica anticapitalista. Più in generale, esso rappresenta il caso del soggetto moderno, a prescindere da quale sia la classe sociale cui appartiene.
La prima critica borghese dell'aristocrazia terriera e dei vagabondi gettati in mezzo alla strada dalla decomposizione dei rapporti feudali, viene perciò svolta dal punto di vista del lavoro. Come ha sottolineato lo storico degli Annales, Lucien Febvre, a partire almeno dalla fine del 16° secolo, «l'operosa borghesia di quei tempi, non solo si levò, nel nome del suo lavoro, contro l'ozio monastico, ma anche contro l'ozio nobiliare» [*12]. In questa critica, il lavoro costituisce il criterio del valore sociale. Da Antoine de Montchrestien a John Locke, la borghesia iper-illuminata del 17° e 18° secolo critica, dal punto di vista dei gruppi «realmente» produttivi, gli aristocratici scarsamente illuminati o le altre forme pre-moderne, definendoli «improduttivi», «parassiti» ed «oziosi». Nel mentre che, «la formazione di vasti gruppi di miserabili», Bronislaw Geremek, «inadatti al lavoro industriale, fa parte del costo sociale della nascita del capitalismo». La borghesia si fa braccio armato di una «repressione che colpisce il vagabondo, il fannullone, lo scroccone, in nome dell'etica del lavoro, ai fini delle esigenze del mercato della manodopera» [*13]. Qui, l'implementazione del lavoro come forma di vita sociale moderna si manifesta come un'intolleranza repressiva in cui la società moderna, uscendo dalla sua pelle feudale, si separa dagli «inutili al mondo» ed «inutili alla cosa pubblica», «inutili pesi della terra», da tutti quei pezzenti che nel nome di argomentazioni economiche, poliziesche e moralizzatrici sono stati fatti oggetto di «leggi sanguinose» (Marx), in quello che è stato un processo di «reclusione dei poveri» (B. Geremek). Cacciati, frustati, marchiati e condannati, in una combinazione di carità e di repressione, in Inghilterra vengono reclusi nelle Bridewell, case di lavoro in cui vengono rinchiusi i disoccupati del 16° secolo. Saranno il «costo sociale» dell'accumulazione iniziale di capitale. Gli «inutili al mondo», «non solo vengono respinti dal corpo sociale ma appaiono perfino essere spogliati della loro natura umana» [*14], quantomeno di quella parte che forma corpo e spirito con il lavoro.
Questa critica borghese svolta dal punto di vista del lavoro, appare assai evidente in tutti quei movimenti d'indipendenza che hanno contrassegnato le ribellioni al tempo della prima colonizzazione, così come avviene già nella «Grande rivoluzione» francese. Le motivazioni dei libellisti e dei ribelli americani, durante la guerra d'indipendenza americano, ne sono un esempio caratteristico. Thomas Jefferson, John Adams, James Otis e Samuel Adams, i padri della rivoluzione americana, esprimono una critica del feudalesimo europeo ed un'opposizione alla regalità britannica - «il re e i suoi parassiti», li definisce Thomas Paine [*15] – che viene svolta dal punto di vista del soggetto moderno del lavoro. «Per i nostri rivoluzionari americani», commenta Elise Marienstras, «la libertà consiste, allorché gli uomini la desiderano, nel correggere gli effetti del caso, nel lasciare una terra per sceglierne un'altra e, punto cruciale della dimostrazione, acquisire dei beni e farli fruttare. Jefferson, non ammette limiti a quelli che sono i diritti dei coloni a possedere senza problemi. [...] James Otis aveva [...] sottolineato la differenza tra la proprietà che proverrebbe da un privilegio (quello dei documenti) e quella dei singoli coloni che l'hanno acquisita "grazie all'intraprendenza ed al lavoro". Analogamente, Samuel Adams distingueva tra la proprietà che deriva da un dono, e che egli giudica illegittima. e la proprietà acquisita attraverso il lavoro. [...] In Europa, spiega ancora Samuel Adams, la società è dominata da una casta il cui status e la ricchezza non sono basati sul merito degli individui, mentre gli americani possono contare solo sul loro talento ed il loro lavoro» [*16].
Due mondi si scontrano, perciò, nel momento in cui si afferma l'idea che «è una legge di natura inalterabile, che un uomo debba avere il libero uso e la disposizione esclusiva, senza alcun limite, dei frutti del suo onesto lavoro» (Samuel Adams) [*17]. Questa attività sociale generica e nuova, si trova alla base dei valori borghesi perfino per quel che riguarda l'educazione e l'istruzione. In Francia, sotto la III Repubblica, i bambini venivano educati istruendoli, circa il valore del lavoro, attraverso il celebre "Le Tour de la France par deux enfants": «Volete guadagnarvi la fiducia di chi non vi conosce? Lavora. Coloro che lavorano vengono sempre stimati» [*18]. E sempre in quello stesso libro: «Che ogni abitante e ogni provincia della Francia lavorino, secondo quelle che sono le loro forze, per la prosperità della patria» [*19]. «Quanto dolore ci risparmieremmo l'un l'altro, se riuscissimo ad andare sempre d'accordo e lavorassimo insieme» [*20]. L'autore, G. Bruno ammette apertamente che é questo il fine della sua opera: «abbiamo voluto far vedere ai bambini la patria sotto i suoi aspetti più nobili, e mostrare loro quanto essa sia meravigliosa grazie all'onore, al lavoro, al rispetto religioso del dovere e della giustizia».
A partire dall'inizio del 19° secolo, la classe operaia si è formata per mezzo di un «processo attivo, attuato sia attraverso degli attori che grazie a delle condizioni» (Edward P. Thompson [*21]), tanto nella sfera della circolazione - dove i «proprietari di forza lavoro» ora vendono ai «proprietari di denaro» la loro «singolare merce» (Marx) - così come nella sfera della produzione, vivendo l'esperienza dello sfruttamento e quella di non essere altro che delle «maschere di carattere» della relazione di capitale. Come aveva fatto un secolo prima la classe borghese, ecco che a sua volta anche la classe operaia si identificava in maniera cosciente con il lavoro, e cominciava a vedere il luogo di lavoro come una potenziale arena per la propria emancipazione. La sua coscienza critica, conflittuale e quasi rivoluzionaria, aveva preso possesso - installandovisi - del punto di vista del lavoro, cercando di scacciarne il vecchio occupante, e offrendo all'utopia del posto di lavoro una promettente carriera nelle sue diverse forse dell'associazionismo, del mutualismo, del collettivismo, del controllo operaio, dell'autogestione, ecc.
Questo processo di interiorizzazione del lavoro, sotto forma di un'autodisciplina di identificazione, faceva la sua apparizione in Francia negli anni '30 del 1800; e si potrebbe pensare che in Inghilterra abbia corrisposto al periodo che Joshua Clover chiama «la transizione dalla sommossa allo sciopero», tra il 1790 ed il 1842 [*22]. La parola operaio da quel momento in poi diventa quindi la «voce di un'intelligenza che è quella di un nuovo concetto: il lavoro» [*23]. Una parola che esige il riconoscimento del suo posto all'interno della nuova forma di vita sociale  condizionata e determinata dal «nuovo concetto»: «ciò che reclamiamo non sono dei favori, dichiarano gli operai delle sartorie ben prima di Proudhon, sono i nostri diritti e nient'altro che i nostri diritti» [*24]. Questo «diritto al lavoro» che compare in Francia nel 1848, e poi questo diritto del lavoro, rimarranno il presupposto comune al movimento operaio nelle sue frange maggioritarie. Questo processo arriva a conclusione probabilmente negli anni '50 dell'800. Jean-Pierre Drevet, un meccanico parigino di quell'epoca, parla a proposito degli operai di mestiere che si stanno proletarizzando, e del fatto che si trovano già combattuti tra l'amore per il proprio mestiere e l'odio per lo sfruttamento. Ed è questo stato d'animo - scrive - che spinge gli operai a «rivoltarsi contro quel lavoro che potrebbero amare» [*25]. Questa critica, paradossale dal punto di vista del lavoro, attraverserà tutto il movimento operaio e rivoluzionario, compresi settori interi dell'anarchismo. E così ecco che un Mikail Bakunin, come tanti altri, poteva concordare in parte con il suo nemico borghese proclamando che «il giorno in cui il lavoro fatto coi muscoli e con i nervi, sia manuale che intellettuale insieme, verrà considerato come il più grande onore degli uomini, come un segno della loro virilità ed umanità, la società sarà salva, ma quel giorno non arriverà  fino a che durerà il regno della disuguaglianza, fino a che non verrà abolito il diritto all'eredità» [*26]. Ancora una volta, quanto indicato da Postone si verifica, e viene criticato un capitalismo che viene percepito come «artificiale» - la disuguaglianza, il diritto di eredità, ma potrebbe essere benissimo il mercato o la proprietà privata - e lo si fa «in nome della "vera" natura della società»; vale a dire, a partire da una comprensione trans-storica del lavoro. Come sottolineato da Kurz, tutto quanto viene incessantemente ridotto a quelli che sono dei semplici rapporti di distribuzione  che ripartiscono i risultati di un processo del lavoro ontologico percepito come meramente tecnico. Se questo collettivismo bakuniniano - per quanto federalista, e che alla fine difende un «salario collettivista» ed è immerso nell'economicismo - si oppone al collettivismo autoritario, per il quale la produzione verrebbe poi diretta dallo Stato; esso non di meno condivideva l'idea-  che era stata scolpita nel marmo, nel corso del congresso di Saint-Imier dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori  anti-autoritaria - secondo la quale bisognerà decisamente «fondare sul lavoro la società organizzata» [*27].
Conosciamo anche quali erano, nel 1875, le prime frasi del Programma del Partito operaio tedesco detto "di Gotha": «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà» [*28]. Su questo punto, anarchici, marxisti e borghesi condividevano la medesima Religione del lavoro. Un simile punto di vista del lavoro che andrà a costituire la principale ideologia radicata nella lotta di classe, non dev'essere critica perché induce ad una propaganda per la lotta sociale, ma in quanto rimane intrappolato, in maniera anacronistica, all'interno dell'ontologia del lavoro, della forma del valore e della relazione della dissociazione-valore relativo al genere; dal momento che, come avviene per i borghesi, il lavoro verrà identificato nella virilità del «maschio», ma questa volta a partire dalle caratteristiche provenienti dalle mani callose e dal petto unto di grasso. Qui, il realismo socialista condivide con l'estetica borghese la stessa glorificazione della produzione e dei produttori, e alla fine quella Torre Eiffel e della tecnologia [*29]. Nonostante tutte le loro differenze, osserva Michael Seidman nel suo "Operai contro il lavoro", «la teoria della modernizzazione ed il marxismo (comprese le sue varianti anarchiche) condividono una visione analoga della sottomissione operaia al lavoro. In effetti, si può dire che la teoria della modernizzazione non fatto altro che limitarsi ad allargare il consenso intorno al lavoro - in gran parte deprivato di qualsivoglia critica - consolidato da marxisti ed anarchici a partire dal 19° secolo» [*30]. Questo punto di vista feticista, è qualcosa che riguarda tutta la società del 19° e del 20° secolo, e non solo la destra, la quale, come si sa, farà del lavoro uno dei suoi valori essenziali. La sua critica degli «oziosi», dei «beneficiari dell'assistenza sociale», verrà sempre espressa dal punto di vista del lavoro. Perfino il razzismo biologico può prendere le armi, già nell'Ottocento, in nome del lavoro della nazione e della «razza superiore», quando si tratterà di odiare quegli immigrati italiani «venuti a rubare il lavoro», e quando altri in quegli ultimi decenni del secolo verranno accusati di venire in Europa per «vivere dei sussidi di disoccupazione» o, detto in altre parole, per vivere come dei «parassiti» alla spalle della comunità nazionale del lavoro. E infatti è proprio a partire dal punto di vista del lavoro che la categoria di «razza» - tutto un insieme di stereotipi negativi - viene proiettata su delle popolazioni, al fine di escluderle dal lavoro e dalla sua comunità. Nella storia del capitalismo, questo punto di vista del lavoro può essere quindi tanto escludente quanto includente. In una prima fase di ascesa del capitalismo, o durante le fasi di crescita economica, il lavoro costituiva il vettore principale di integrazione nel sistema produttivo delle merci, si trattava di includere tutti quanti coloro che erano in grado di lavorare, e il padronato cercava anche questa manodopera straniera a basso costo. Questo punto di vista del lavoro e il punto di vista inclusivo del 17° secolo e coincide con la reclusione dei poveri nelle "workhouse" messa in atto dallo Stato sviluppista inglese, e nel 19° secolo diviene dappertutto il crogiolo della forma nazione capitalista durante la modernizzazione in ritardo, quando si tratta di recuperare il ritardo economico nei confronti della nazioni locomotive che si trovano alla testa del capitalismo. In una seconda fase, il lavoro diventava piuttosto un privilegio riservato a coloro che si trovavano già dal lato buono della barricata. Adesso bisognava impedire loro di venire a lavorare. Questo punto di vista del lavoro a partire da un prisma escludente, è una delle basi dell'ascesa della xenofobia (compresa quella specificamente operaia) e del razzismo biologico della fine del 19° secolo [*31]. In genere, il passaggio da un punto di vista inclusivo a quello esclusivo accompagna il movimento della crisi e dell'espansione dell'accumulazione di capitale.

In un'epoca in cui le lotte sociali non erano sempre favorevoli al lavoro
Non sempre, in seno al movimento operaio e all'anarchismo, le lotte sociali e la lotta di classe hanno assunto la forma di questo «movimento per il lavoro» di cui parla il Manifesto conto il lavoro. Il periodo dell'accumulazione primitiva, tra il 15° ed il 18° secolo, che vede nascere il modo capitalistico di produzione e di vita - l'Economia - viene riassunto da Arthur Rimbaud per mezzo di questa formula che sembra fatta su misura: «I bianchi sbarcano. Il cannone! Dobbiamo sottometterci al battesimo, vestirci, lavorare» [*32] (Kurz non si sarebbe espresso diversamente nel momento in cui identificava il ruolo svolto dalla rivoluzione delle armi da fuoco nella nascita della moderna socializzazione attraverso il lavoro). L'insieme degli elementi facenti parte dell'accumulazione iniziale, in particolare il fatto di mettere al lavoro le popolazioni, l'espropriazione, la generalizzazione della proprietà esclusiva, l'internamento ed il sequestro dei poveri e dei mendicanti, la caccia alle streghe, la repressione delle donne ed il loro confinamento alla sfera privata e al focolaio, la pressione fiscale esercitata sui contadini da parte degli Stati che già cominciano ad assumere alcune funzioni di «capitalista collettivo ideale» caratteristiche degli Stati moderni, ecc., a quel tempo vennero «incisi negli annali dell'umanità con caratteri di sangue e fuoco» (Marx).
La monetarizzazione dei rapporti sociali e la progressiva costituzione della forma di sintesi sociale attraverso il lavoro astratto, implicano una ristrutturazione delle forme di protesta nelle popolazioni agrarie premoderne. In un periodo di transizione al capitalismo, di fronte al nuovo quadro di relazioni sociali in cui la ricchezza sensibile materiale diventa portatrice di ricchezza astratta capitalista (il valore), le rivolte marginali aumentano, ma non si trovano ancora codificate nelle forme sociali capitaliste, in quella che è la loro forma specifica di interesse e la loro lotta immanente, la lotta di classe. Nel corso di questa transizione al capitalismo, numerose lotte si dimostrano ostili nei confronti del nuovo principio del lavoro, che nelle campagne assume forme diverse, come l'individualismo agrario nelle campagne, come la proprietà esclusiva che erige muro e recinsioni, il progressivo divieto di accesso alle foreste  da parte di chi se ne vuole riservare l'uso esclusivo, ecc. Questa storia della resistenza mondiale all'emergere radicale dell'Economia, rimane ancora in gran parte da scrivere.
In opposizione alle correnti storiografiche, in special modo quelle marxiste, che diffondevano una visione spasmodica ed esasperata della storia popolare, Edward P. Thompson ha trascorso la sua vita a mostrare che le azioni popolari designate nelle fonti giudiziarie attraverso i termini «sommosse», «disordini», «tumulti», «crimini» o «emozioni», non possono essere ridotte a delle reazioni istintive provocate dalla fame e dall'atavismo dei «primitivi della rivolta», come li definisce in maniera condiscendente Eric Hobsbawm. Per Thompson , la rivolta rurale è stata anche il veicolo di una politica latente, di una cultura e di una morale ordinaria che era frutto del buon senso degli indigenti. Per tutto questo periodo, si critica e si reagisce all'implementazione delle relazioni sociali capitalistiche - per esempio, alla forma dell'appropriazione esclusiva delle terre - non dal punto di vista del lavoro, il quale non ha ancora contaminato la vita, ma dal punto di vista della morale e delle tradizioni e delle consuetudini premoderne. In gioco c'è la difesa, non dei rapporti premoderni feudali-agrari in quanto tali, ma piuttosto quella dei diritti collettivi consuetudinario e dei beni comuni, contro una definizione più esclusiva della proprietà che apre la strada all'individualismo possessivo caratteristico del modo di soggettivazione capitalistico. Qui non si protesta dal punto di vista del lavoro, e neppure dal punto di vista del mondo feudale-agrario, «gli uomini e le donne della folla erano animati dalla convinzione che stessero difendendo dei diritti o delle usanze tradizionali», scrive Thompson [*33]. Questi sono dei comunizzatori (dei communiers), degli utenti dell'esercizio collettivo dei diritti d'uso premoderni, e non dei lavoratori che si battono contro le prime forme di capitalismo. Questo punto di vista consuetudinario della protesta, è ciò che Edward P. Thompson ha teorizzato come facente parte dell'«economia morale della folla». Sarà questo tipo di rivolta - che si presenta sotto un aspetto rovesciato rispetto alla situazione della lotta di classe dal 19° secolo in poi - ad essere dominante per tutto il 17° ed il 18° secolo tra le classi popolari, soprattutto contadine, che non si identificano ancora nel lavoro, diversamente da come fanno in Inghilterra le élite borghesi e l'oligarchia whig che li combattono.
L'assenza di una critica svolta dal punto di vista del lavoro ed il disinteresse per il lavoro, si possono trovare in alcuni movimenti popolari ed operai, in particolare nel 19° secolo in quelle zone «arretrate» della modernizzazione capitalistica. Si pensi alla Spagna, com'è stato mostrato dai Giménologues [*34], dove si può osservare una costante tensione - che non è mai stata veramente chiarita nel movimento anarchico spagnolo - tra una critica fatta dal punto di vista del lavoro ed una critica che non vuole rinunciare ad un certo modo di vivere secondo cui il tempo non si riduceva a creare denaro. Questa tensione si manifesta nel nascente movimento operaio, intorno alla fondamentale controversia relativa alla questione della distribuzione dei beni che verrebbero prodotti in una futura società post-capitalista: a ciascuno secondo il suo lavoro o a ciascuno secondo i suoi bisogni? In Spagna, a partire dagli anni '80, questa tensione assume le forme dell'opposizione tra i collettivi di ispirazione bakuniniana legati alle idee sull'organizzazione sociale di James Guillame (1876), da una parte, ed il comunismo anarchico (la prima forma di comunalismo libertario che venne adotta dalla CNT nel 1919) ispirato dalle tesi di Kropotkin espresse nel 1982 ne "La conquista del pane", dall'altra. Durante i decenni successivi, questo conflitto in seno alla CNT si trasforma nell'opposizione tra la tendenza più sindacalista rappresentata da Diego Abad de Santillán, che a partire dal 1932 integra sempre più i valori del lavoro, della fabbrica, del produttivismo e dell'industrializzazione capitalista, e la tendenza scaturita dal comunismo anarchico, e difesa in particolare da Federico Urales, il comunismo libertario. Questo va a costituire un comunalismo rurale fondato sulle lotte di quartiere e promuove l'organizzazione dell'insieme delle attività a partire dal luogo dove si vive. Come nota Floréal M. Romero, ricordando come Murray Bookchin sia parte di questa eredità, i comitati di quartiere, «federati tra di loto, con una cultura ricca di legami diretti ed emotivi, decideranno quali sono le loro attività in fabbrica, nell'agricoltura e nelle altre aree economiche e sociale, andando così a costituire la comune libera» [*35]. Come osserva il congresso della CNT nel maggio del 1936, alla vigilia della guerra di Spagna, che tenta di elaborare una sintesi, questi «due modi di interpretare il senso della vita e le forme dell'economia post-rivoluzionaria» si sono scontrati all'interno dell'organizzazione [*36]. Durante la guerra civile spagnola, diversamente da come farà la prima tendenza, la quale si comprometterà in gran parte (si veda per questo: Seidman e les Giménologues), la tendenza del comunalismo libertario, in Aragona, sarà all'origine di un'esperienza rivoluzionaria inedita nel 20° secolo, organizzando per quasi 400.000 abitanti, una provincia, senza Stato, sviluppando diverse centinaia di di collettività agricole, le strutture di base della prima tappa del comunismo libertario.
Alcuni gruppi, autori e avanguardie artistiche all'interno del movimento operaio o ai suoi margini. daranno anch'essi prova di ostilità nei confronti del lavoro. Max Stirner percepì il momento del passaggio al capitalismo nella prima metà del 19° secolo e sarà probabilmente il primo autore ad indentificare l'effetto specchio che si può individuare tra la critica borghese ed il movimento operaio. I fratelli nemici considereranno il lavoro come il valore supremo, un'attività naturalizzata che viene presunta come trans-storica. «Se il comunista vede in te l’uomo, il fratello, questo non è che il lato domenicale della sua dottrina; il suo lato "feriale" non ti considera assolutamente come un uomo, ma come un lavoratore umano o un uomo lavoratore. [...] Se tu sei "ozioso", [...] [il comunista] cercherà in ogni modo di purificare quest'uomo ozioso dal suo ozio e fargli credere che il lavoro è "il destino e la vocazione" dell'uomo», sottolinea Stirner [*37]. In una polemica con Feurbach, Stirner scriverà anche: «Il lavoro, che viene considerato un compito dell'esistenza, una vocazione dell'uomo [...]. Da questo deriva l'illusione che bisogna guadagnarsi il pane, che ci si debba vergognare di averlo senza che si faccia niente per ottenerlo: è questo l'orgoglio del merito. In sé, il lavoro non ha alcun valore e non onora affatto l'uomo, non più di quanto lo disonori una vita da lazzarone. [...] Ma il lavoro che viene considerato come se fosse un "onore dell'uomo", come se fosse la "vocazione" per essi ad aver reso possibile l'economia nazionale, è sempre quello stesso lavoro a dominare ancora nel santo socialismo» [*38]. Quando, dopo gli eventi del 1848 in Francia, una parte del movimento operaio si mise a chiedere un «diritto al lavoro», questo «diritto» non ottenne mai il consenso. «Il diritto al lavoro, è il diritto di rimanere sempre uno schiavo salariato. [...] Il diritto al lavoro è tutt'al più un prigionia industriale» scriveva anche Pëtr Kropotkin nel 1892 [*39]. Paul Lafargue, il genero di Marx, di ritorno dalla Spagna premoderna, dove aveva constatato tra la popolazione una ripugnanza per il lavoro, afferma nel suo famoso "Il diritto all'ozio" che una «strana follia possiede le classi lavoratrici delle nazioni dove regna la civiltà capitalista. [...] Questa follia è l'amore per il lavoro». Nelle frange marginali del movimento operaio classico, in aperta opposizione a tutto questo, sono pochi, rari, coloro i quali hanno rifiutato il «punto di vista del lavoro» e la sovra-identificazione con esso. Ne è testimone anche lo scrittore francese anarchico Georges Darien:
« Inoltre, i poveri credono anche che il lavoro nobiliti, renda liberi. La nobiltà di un minatore in fondo al suo pozzo, di un garzone vicino al forno, o di un zappatore in una trincea, li riempie di ammirazione, li seduce. Si è così tante volte ripetuto loro che lo strumento di lavoro è sacro che la cosa alla fine li ha convinti. Il più bel gesto dell'uomo coincide con l'atto di sollevare un fardello, di agitare un attrezzo, pensano. "Io lavoro", dichiarano, con doloroso e deplorevole orgoglio. A quanto pare, la qualità di bestia da soma, ai loro occhi, si avvicina all'ideale umano. Non si dovrebbe andare a dire loro che il lavoro né nobilita né rende liberi, per niente; oppure che l'essere umano che si definisce Lavoratore facendo così limita, solo facendolo, quelle che sono le sue facoltà e le sue aspirazioni di uomo; né che, per punire i ladri ed altri malfattori e costringerli a tornare in sé li si condanna al lavoro, ne si fa degli operai. Se lo dici, rifiutano di crederci. Sono convinti soprattutto di una cosa, cara ai loro cuori: che il lavoro, così com'è, è assolutamente necessario. La maggior parte del lavoro attuale è del tutto inutile. [...] L'unica ragion d'essere del lavoro, del lavoro animale, è perciò quella di ridurlo fino a che non venga più o meno completamente soppresso. Rifiutando di comprendere una cosa come questa, talmente semplice, si ostinano a credere alla necessità del lavoro in quelle che sono le sue condizioni attuali, e all'utilità della sua glorificazione, i poveri fanno il gioco dei loro tiranni, e in tal modo perpetuano la loro stessa schiavitù. [...] Il capitale non è altro che la somma di tutti i crimini che i poveri lasciano che vengano commessi contro di loro. Questo capitale, è il protezionismo, il privilegio e il monopolio, l'imbroglio finanziario, la schiavitù militare, la tassa omicida, soprattutto la superstizione mora e religiosa. Il povero, è la somma di tutte le sue vigliaccherie. In sintesi, il capitale che temete è semplicemente il credito che la vostra stupida pazienza dà a chi a vi dice di avere un capitale, che non ha mai avuto» [*40].
Intorno al proprio giornale, De Mocker, tra il 1923 e il 1928, un gruppo libertario di giovano olandesi sviluppò delle posizioni simili [*41]: «Il lavoro è il più grande oltraggio e la più grande umiliazione che l'umanità abbia mai perpetrato contro sé stessa»; «Il capitalismo esiste grazie al lavoro dei lavoratori, ecco perché noi non vogliamo essere dei lavoratori e e perché  intendiamo sabotare il lavoro».«Rendiamo i giovani coscienti del fatto che il capitalismo esiste a causa del loro lavoro e che perciò devono rifiutargli la propria forza lavoro»; «Quando avremmo smesso di lavorare, alla fine per noi comincerà la vita. [...] Quando l'uomo diverrà consapevole della vita, non lavorerà mai più». Nel 1924, il gruppo Mocker pubblica un breve ma suggestivo testo di Hermann J. Schuurman, in diretta opposizione all'assolutismo del lavoro del movimento operaio, il quale fin dall'inizio del 19° secolo aveva deciso di seguire la borghesia nel ridefinire l'addomesticamento dell'individuo, in quanto materiale umano della valorizzazione, e farne un «diritto» ed un futuro principio positivo della società post-capitalista. Il lavoro non è affatto un «diritto», scriveva Schuurman, «Il lavoro è un crimine». Nel suo libro, "Ne travaillez jamais. La critique du travail en France de Charles Fourier à Guy Debord", Alastair Hemmens ha tracciato la lunga storia degli autori di lingua francese che hanno contribuito ad un critica (essenzialmente fenomenologica) del lavoro. Si pensi alla «guerra al lavoro» dei surrealisti, alle parole di Paul Eluard contro «l'ordine facile e ripugnante del lavoro», ai situazionisti, al nascere, negli anni '70,  con Jean-Marie Vincent, di una critica categoriale del lavoro: una critica che non fosse solo di questo o di quel contenuto o di quella forma assunta dal lavoro, ma del lavoro in quanto tale, del lavoro in quanto forma sociale [*42]. Si pensi anche, dall'altra parte del Reno, alla diffidenza che la logica produttivistica suscita in alcuni autori della Scuola di Francoforte. Adorno poteva scrivere così che «Come le persone prive di inibizioni non sono per nulla le più amabili, e neppure le più libere, la società liberata dalle catene potrebbe comprendere che anche le forze produttive non costituiscono l'ultimo substrato dell'uomo, ma una figura particolare dell'uomo, storicamente adeguata alla produzione di merci. Forse la vera società proverà disgusto dell'espansione e lascerà liberamente inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un folle assillo, alla conquista delle stelle.» [*43].
Negli anni 1980-1990, il potere euristico del concetto di lavoro astratto incominciava a venire tematizzato dal teorico Robert Kurz, in Germania, dallo storico nordamericano Moishe Postone, negli Stati Uniti, e dal filosofo Jean-Marie Vincent, in Francia. La fondamentale distinzione tra una critica del lavoro puramente fenomenologica, e pertanto «affermativa», ed una critica categoriale negativa diventa a questo punto assolutamente essenziale. A differenza della critica fenomenologica del lavoro, la critica categoriale del lavoro «basa la sua analisi delle espressioni fenomenologiche del lavoro in seno al capitalismo, su una critica della categoria in sé» [*44]. L'abbandono di una critica svolta dal punto di vista del lavoro, a favore di una critica categoriale del lavoro - di cui testimonia l'apparizione, nel 1999, del Manifesto contro il Lavoro, del gruppo Krisis - poneva una domanda pratico-soggettiva: possono gli individui parlare di ciò che sono nella totalità sociale capitalista-patriarcale, vale a dire, possono parlare dei lavoratori, dei cittadini, dei consumatori, degli amministrati, degli «uomini» e delle «donne» che vengono assegnati/e a degli specifici ruoli sociali? Poiché, per andare oltre la semplice redistribuzione del valore, dei luoghi, dei generi e delle lotte che rimangono tutte iscritte nella logica del capitalismo-patriarcato, bisogna che tutto ciò venga messo in gioco nelle lotte, che venga messa in discussione la forma di vita sociale che costituiamo, le condizioni della riproduzione sociale, quindi della nostra stessa riproduzione in quanto lavoratori e consumatori, in quanto cittadini e contribuenti, in quanto «donne» ed «uomini» assegnati a dei ruoli sociali determinati dalla logica del valore e della dissociazione, ecc. Il capitalismo-patriarcato, quello che noi chiamiamo patriarcato produttore di merci (e che potremmo chiamare altrettanto Modernità o Economia), non è qualcosa di esterno rispetto a noi, ma si tratta di noi. La rivoluzione, per l'appunto, la si fa attaccando ciò che ci rende ciò che siamo. Tutte le forme di azione, anche le più radicali, tutte le strategie prive di reale contenuto rivoluzionario, si scontrano con questo limite. La rivoluzione si fa attaccando, attraverso noi stessi, la forma di vita sociale e la forma soggetto che noi costituiamo e che noi interiorizziamo, opponendoci a coloro - qualsiasi siano le classi, i generi, i luoghi, ecc. che essi occupano - che vogliono comunque aggrapparsi ad essi e conservarli ad ogni costo. Questo rapporto sociale di valore-dissociazione verrà distrutto solo con l'avvio di altre relazioni sociali.

Oltre l'ontologia del lavoro: Prolegomeni per un cantiere teorico, storiografico e antropologico permanente
Sotto molti aspetti, questa critica categoriale e negativa del lavoro ha avuto inizio in seno ai movimenti della critica del valore e della critica della dissociazione-valore. La pubblicazione di "Ne travaillez jamais. La critique du travail en France de Charles Fourier à Guy Debord", di Alastair Hemmens nel 2019, e poi quest'anno la riedizione de "Il Manifesto contro il Lavoro": riteniamo che queste cose debbano essere accompagnate da un numero intero della rivista Jaggernaut dedicato a tutto questo.
Senza cercare di presentare qui la totalità dei testi di questo numero della rivista, sottolineiamo che viene pubblicato un testo importante ed incisivo di Robert Kurz su «Postmarxismo e feticcio del lavoro. Sulla contraddizione storica nella teoria marxiana», apparso nel 1995 sulla rivista Krisis, e che mette in discussione tutta l'intera storia della modernizzazione di questi ultimi cento anni insieme al ruolo svolto da tutti i marxismi che si sono legati all'ontologizzazione della produzione e del lavoro. Su un numero successivo della rivista, torneremo ulteriormente sulla controversia tra i gruppi tedeschi di Krisis e Exit!, e più in generale sul tema della nuova critica marxiana dell'economia politica. Affrontando la differenza tra il concetto postoniano di «lavoro astratto» - così come viene illustrato nell'opera principale di Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale" - ed il concetto kurziano di «lavoro astratto» elaborato ne "La sostanza del capitale" di Robert Kurz. Alcuni elementi di questa divergenza si possono trovare nel testo firmato in questo numero da Norbert Trenkle del gruppo Krisis, «Socialità non sociale. La contraddizione tra individuo e società come questione centrale di una teoria sociale critica» che si ricollega al concetto postoniano. Nei capitoli 5 e 15 de "La sostanza del capitale", Kurz espone alcuni elementi di una critica del concetto postoniano di lavoro e risponde alla accuse di «naturalismo» riguardanti il suo concetto di lavoro. Altri pezzi di questa discussione, verranno pubblicati nei prossimi numeri.
Al di là di questa questione fondamentale per qualsiasi rinnovamento della critica dell'economia politica, il lavoro costituisce probabilmente il più contraddittorio di tutti i concetti marxisti. Robert Kurz, ne "La sostanza del capitale", ha mostrato come Marx avesse mantenuto un ragionamento aporetico circa il lavoro, quando ha insistito sul fatto che con l'astrazione «lavoro» avremmo continuato ad avere a che fare con una concezione «assai antica» e «valida per tutte le forme di società», spiegando però al tempo stesso che si tratterebbe di una categoria «altrettanto moderna quanto lo sono le relazioni che verrebbero generate da questa semplice astrazione» [*45]. «Questo ragionamento aporetico» - ha sottolineato Kurz - «può essere superato solo definendo la categoria "lavoro" come astrazione reale - e simultaneamente come strettamente storica, moderna, capitalistica - e abbandonando completamente l'ontologia del lavoro» [*46].
Il primo degli articoli del sociologo portoghese Nuno Machado che viene presentato in questo numero della rivista - «L'aporia del concetto di lavoro in Marx: un'analisi cronologica» -, sviluppa questa critica in maniera efficace e metodica assumendo come oggetto l'evoluzione del concetto marxiano di lavoro. In particolare, l'autore mostra che nei suoi primi lavoro, in alcune pagine Marx definisce il lavoro in maniera negativa, come una forma di attività inevitabilmente alienata e propria della modernità capitalistica. Questa posizione comincia a cambiare nei Manoscritti del 1857-1858, i cosiddetti «Grundrisse», opera in cui il lavoro viene colto in maniera ambigua, piuttosto che come categoria ontologica-trans-storica. Infine, nel 1859, a partire dal suo "Contributo alla critica dell'economia politica", Marx adotta una duplice concezione del lavoro: lavoro concreto e lavoro astratto; ma in questo contesto, viene riconosciuto solamente il carattere storico del lavoro astratto, mentre il lavoro concreto è assimilato alla forma materiale di (ri)produzione di tutte le società umane. Il fine di Machado è quello di trascendere queste aporie inerenti all'opera di Marx e proporre una comprensione coerente del lavoro in quanto forma di attività storicamente specifica del solo capitalismo.
Dopo un periodo di femminismo decostruttivista, in questi ultimi ultimi anni, dopo la crisi della fine degli anni '90, a dominare il discorso femminista sono stati gli approcci marxisti-materialisti. Da allora in poi, più il «collasso della modernizzazione» (Robert Kurz) è diventato evidente, più ora il pendolo minaccia di oscillare in direzione di un marxismo volgare, sottolinea Roswitha Scholz. Ciò risulta ancora più evidente nel recente manifesto  di Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser recentemente pubblicato, «Femminismo per il 99%» [*47]. Questo manifesto "femminista" va criticato soprattutto per il fatto che il rapporto asimmetrico tra i sessi, ma anche il razzismo, l'omofobia ecc., vengono ancora una volta tutti trasformati in contraddizioni secondarie, come avveniva in passato per i concetti marxisti tradizionali ed il «femminismo della lotta di classe». Ma è anche soprattutto caratterizzato da una ontologizzazione del lavoro e della produzione, in altri termini, da un concetto positivo del lavoro astratto di cui l'insieme delle componenti del marxismo tradizionale si è fatto sempre più carico. Questa ontologizzazione (Silvia Federici, Mariarosa Dalla Costa, ecc.) e il femminismo materialista (Christine Delphy, ecc.) che sotto molti aspetti si sovrappongono e costituiscono un femminismo di recupero. Con il marxismo, questi femminismi condividono l'insieme dei suoi presupposti, primo tra tutti il fatto di considerare il «lavoro» come essenza generica per eccellenza, in modo da potere così retroproiettare le moderne categorie borghesi, quali l'«economico», l'«economia», la «produzione», il «modo di produzione» ecc, su tutto quanto l'insieme costituito sia dalle società del passato che dalle società altre rispetto al capitalismo. Inoltre, si caratterizzano anche a partire dalla loro incapacità di cogliere ciò che è stato assegnato nella modernità al «femminile» e alle «donne», se non come un derivato di tutto quel che avviene nella sfera maschile del lavoro astratto (la sfera dell'economia imprenditoriale). Nell'elaborazione di un tale concetto, non ci si rende mai conto di quale sia il funzionamento reale della totalità capitalista-patriarcale frantumata, la quale in realtà fagocita in maniera specifica e significativa da quelle che sono «cose private», inferiori e perciò invisibili al di fuori del lavoro, tutto quanto un insieme di attività, di sentimenti, di disposizioni, ecc. che sono state assegnate al «femminile» e alle donne; e ciò perché queste ultime non hanno l'indicibile qualità di produrre denaro a partire dal denaro. Lungi dal riuscire a cogliere nel concetto il «dissociato» femminile in questa specificità, quale viene sostenuta da Roswitha Scholz [*48], vale a dire evitando ogni tipo di semplice derivazione dalla relazione di capitale, si tratta, per il femminismo di recupero, di cogliere il rapporto asimmetrico tra i generi a partire dall'estensione enfatica della concettualità positiva marxista, così come essa si trova ad essere utilizzata per cogliere la sfera maschile del lavoro astratto.
Pertanto, questo femminismo produce un concetto assai specifico (e problematico) del connubio esistente tra patriarcato e capitalismo. Il «femminile» dissociato, e soprattutto l'attività domestica assegnata alle donne nella modernità del mercato, viene sussunto sotto il concetto ontologico-trans-storico del «lavoro». Paradossalmente, un tale femminismo  porta a reificare queste attività dissociate, dal momento che tutte queste attività che sono state assegnate alla «femminilità» - e che a volte, in maniera problematica, vengono addirittura intese come se si trattasse della «produzione della vita» - vengono costrette da questo femminismo di recupero a concepire sé stesse attraverso le categorie patriarcali preposte alla produzione di merci (la stessa cosa vale anche per quel che riguarda la categoria del «lavoro fantasma» in Ivan Illich).
Sono stati questi i limiti del «dibattito sul lavoro domestico» svoltosi negli anni '70, e che  - per mezzo di un'inflazione del concetto di lavoro non ben delimitato teoricamente, e dei suoi accenti a volte apertamente «pro-lavoro» - era stato un tentativo di assegnare un contesto androcentrico alle problematiche di genere. Le attività assegnate alle donne, sono state quindi concepite come «lavoro riproduttivo», o «lavoro domestico» sul modello del «lavoro produttivo» socialmente valorizzato del marxismo tradizionale androcentrico, e per estensione sono state incluse in quelle forme sociali e categorie in uso nella sfera del lavoro astratto assegnato al maschio. Tutto quanto questo dibattito, continuava a tornare incessantemente al medesimo punto di partenza sottolineato da Heidi Hartmann: «marxismo e femminismo erano una sola unica cosa, e quella cosa era i marxismo». Sul piano politico, le attività domestiche assegnate alla donna sono state sistematicamente innalzate allo stesso livello del lavoro, al fine di dimostrare il loro valore (economico e morale) e motivare un'ideologia di legittimazione che permettesse di rivendicare la distribuzione di un «valore» per quella attività dissociate assegnate alle donne: cosa che a partire dagli anni '70, per esempio, prenderà la forma della rivendicazione per ottenere il «salario casalingo» (lo troviamo in Silvia Federici, Louise Toupin, ecc.). Tutta questa sovrapposizione marxista tradizionale sul femminismo dissociato, comporterà gli stessi limiti del marxismo, e condurrà ad affermare positivamente il lavoro. Basandosi su una comprensione trans-storica del lavoro, per questo femminismo il lavoro costituisce il punto di vista a partire dal quale viene finalmente intrapresa la critica del patriarcato.
L'articolo di Álvaro Briales, pubblicato in questo numero, sottolinea il potenziale di dialogo che potrebbe essere espressa dalla corrente della critica della dissociazione-valore - ed in particolare dalle tesi di Roswitha Scholz - riguardo a ciò che alcune femministe chiamano «la contraddizione tra il capitale e la vita». Questo testo solleva delle questioni e presenta alcuni limiti, soprattutto quello di rimanere all'interno del perimetro dell'anti-economismo di Karl Polanyi, il quale presuppone sempre l'esistenza di una «sostanza economica» in maniera ontologica-trans-storica. Inoltre, l'ontologia relazionale di Donna Haraway e della «rete della vita» (che ritroviamo anche in Jason W. Moore) non viene di certo messa sufficientemente in discussione dall'autore. Malgrado questi limiti, Briales riassume in parte le caratteristiche fondamentali della relazione tra marxismo e femminismo, e in particolare il loro uso problematico del concetto di lavoro, soprattutto quella che è la confusione tra lavoro in quanto attività e lavoro come rapporto sociale. Mostra come la critica della dissociazione-valore entri in conflitto con alcuni approcci femministi che hanno rivendicato l'ampliamento del concetto di lavoro nella prospettiva del riconoscimento sociale delle attività più femminilizzate. Si tratta di un dibattito che verrà portato avanti sotto le più diverse angolature, ancora più critiche, nei prossimi numeri della rivista.
Negli ultimi anni, la critica categoriale del capitalismo ha investito anche la questione legata alla critica della retroproiezione delle categorie moderne, in particolare nel libro di Robert Kurz, "Denaro senza valore". Come da lui sostenuto, è alquanto dubbio che noi si possa parlare - riferendoci alle società non moderne del passato, o a quelle di altri luoghi nel presente - di «rapporti di produzione» o di «riproduzione» nel senso di categorie determinanti e suscettibili di essere isolate concettualmente. A partire dal fatto abbastanza ovvio che gli individui abbiano sempre dovuto produrre il loro nutrimento, non ne consegue automaticamente che un tale stato di cose sia per essi decisivo, e possa contenere nella sua propria logica una definizione della loro società, del suo funzionamento ed insieme a tutto questo anche la chiave di ogni altro e qualsiasi momento della vita. «È una leggenda moderna» - egli osserva - «presuppore che la produzione, o, nel senso moderno, il "lavoro", nel suo insieme abbia riempito la vita a partire fin dai primi giorni dell'umanità. Sarebbe stato solo più tardi che il suo fardello si riducesse, in seguito ai tanti sforzi, con lo "sviluppo delle forze produttive", e che solamente la gloriosa modernità del capitale, grazie alla tecnica e alla scienza, avrebbe prodotto su larga scala il potenziale di un "tempo libero". Per quanto riguarda il presunto disagio della vita premoderna, Marx ha seguito solo a metà questa leggenda; allo stesso tempo egli dice che il feticcio del capitale trasforma in "orario di lavoro" l'intera vita umana, e lo fa ad un livello sempre più elevato» [*49]. In realtà, il semplice fatto che nelle società non moderne esista una produzione di beni alimentari, sul carattere specifico della società in questione non ci racconta nulla che possa essere spiegato in base alle forme della relazione che tali società avevano con la natura, e che le persone avevano tra di loro. Se tutta la pre-modernità, compreso il periodo del paleolitico, non conosceva affatto i «rapporti di produzione», nel senso stretto di una logica separata che subordina ed assimila a sé tutti gli altri elementi, ancor meno possiamo parlare di corrispondenti «rapporti economici». Sì vero che la parola oikonomia proviene dall'antichità greca, e all'epoca significava qualcosa di completamente diverso dal fine in sé dell'accrescimento del denaro in ancora più denaro, e parlava di regole e «ricette» concrete per l'organizzazione della famiglia, la manutenzione della casa e l'educazione dei bambini. Ma la definizione di oikonomia che verrà data da Aristotele è errata in un altro senso, poiché, nella sua polemica con Senofonte, la distinzione che fa tra l'oikonomia basata sulla soddisfazione dei bisogni e la moltiplicazione premoderna del denaro, la Crematistica (che nelle sue determinazioni, non è per niente identica al capitalismo), finisce per corrispondere ad una visione artificiale ed erronea della società e di quelli che erano all'epoca i rapporti di parentela. È una mistificazione moderna pensare che, appoggiandosi alle definizioni aristoteliche e senofontiane dell'oikonomia, l'etimologia e le definizioni greche possano offrire alla categoria dell'economico un carattere ontologico-trans-storico [*50]. Nel corso della Storia, osserva Reinhart Koselleck, «le parole che durano non costituiscono un'indicazione sufficiente della stabilità della realtà» [*51]. Per i Greci, tra le altre cose, si trattava di sapere come si potavano gli ulivi, come si trattavano gli schiavi, determinare quale sarebbe stato il momento migliore dell'anno per intraprendere un viaggio in mare, ecc. Questo immaginifico assortimento di riflessioni e consigli non può essere denominato come un «pensiero economico», anche persino se siamo tentati di farlo mentre inforchiamo gli occhiali appannati dell'economicismo moderno, e nonostante che le loro proprie «questioni di soldi» si presentano in dei contesti sociali assolutamente estranei alla nostra comprensione e alle nostre determinazioni moderne. E ciò vale per tutte le società non moderne sia del passato che altrove.
La de-ontologizzazione delle categorie economiche moderne legate alla sola formazione sociale capitalistica implica, se seguiamo Kosseleck, che si deve «cogliere la durata, il cambiamento e la novità dei significati delle parole, prima di utilizzarle come indicatori di contenuti non espressi» [*52]. La storia del linguaggio, così come la storia dei concetti - nel corso di quelli che sono i loro passaggi modificati attraverso differenti epoche e differenti formazioni sociali, e i diversi momenti dei rapporti sociali che ciascuna volta li costituiscono in maniera specifica - esigono che ci sia una critica quando si traspongono nel passato delle espressioni, delle parole e dei concetti che vengono usati attualmente nella modernità, attuando allo stesso tempo «la critica di una storia di quelle idee che vengono considerate come se fossero delle entità costanti, ma che vengono espresse sotto forme storiche differenti, senza che cambino mai radicalmente» [*53].
Nella critica delle fonti, le parole, come i concetti, devono essere sempre apprezzati nei loro specifici campi di esperienza del periodo socio-storico in questione, e ciò va fatto «specificando la funzione politica e sociale dei concetti, ed il loro uso particolare che ne viene fatto da parte dei diversi strati sociali, in breve, facendo sì che l'analisi sincronica affronti anche la situazione globale e temporale» [*54].
Per quanto riguarda il «lavoro» e le altre categorie economiche moderne, Robert Kurz fa giustamente notare che «un buon numero di società storiche, comprese quelle che vengono definite "grandi civiltà", come per esempio l'antico Egitto, non dispongono di una categoria che comprenda astrattamente tutte le forme di attività. E perfino in quelle società dove sembra si possa reperire un simile nome generico (ma nessuna vera e propria astrazione reale) questo nome di fatto copre un campo assai ristretto di attività e non designa mai un'universalità sociale della "attività in generale". E quando, in relazione a queste società, la lettura moderna persiste nell'utilizzare il termine "lavoro", essa si rende colpevole di un malaugurato anacronismo e, in senso stretto, di un errore di traduzione (e ciò vale anche per altre categorie specificamente moderne che si accompagnano con il rapporto feticistico basato sulla valorizzazione del valore: la politica, lo Stato, ecc.» [*55]. Kurz prosegue asserendo che «se l'astrazione "lavoro" come concetto che si applica alla società moderna ha effettivamente origine nell'area linguistica indoeuropea, essa ha dovuto essere in un dato momento comunque ridefinita, poiché in tutte le lingue di quest'area linguistica, "lavoro" designava invariabilmente l'attività specifica degli schiavi, dei subordinati, delle persone sotto tutela, ecc.; e quindi non si tratta di un termine generico che sussume nel pensiero, all'occorrenza, i diversi settori di attività, ma di un'astrazione intesa come emarginazione nella società di alcune classi di uomini [...], in altre parole, per l'appunto, non si tratta di universalità sociale, o di una categoria di sintesi sociale come nell'era moderna» [*56].
A partire dagli anni '70, ci sono stati molti antropologhi, teorici e storici che hanno cominciato a mettere in discussione l'ontologizzazione e l'utilizzo delle moderne categorie economiche per comprendere le società non capitalistiche. Questo dibattito, il cui scopo era quello di liberare l'antropologia e la storia dai loro riferimenti all'economia politica (ma anche alla filosofia politica ed alle sue categorie trans-storiche), è tutt'altro che terminato. Era già cominciato a metà del 20° secolo, con Karl Polanyi, il padre dell'antropologia economica sostanzialista, il cui proposito era stato quello di criticare l'«inversione di prospettiva», che proiettava sulle società passate, o di altrove, i fenomeni economici contemporanei. «Dobbiamo liberarci dell'idea radicata secondo cui l'economia è un campo di applicazione dell'esperienza della quale gli esseri umani sono stati necessariamente sempre consapevoli», sosteneva Polanyi, in barba agli economisti, tanto borghesi quanto marxisti. «Se vogliamo fare uso di una metafora, originariamente i fatti economici si trovavano inclusi in delle situazioni che di per sé stesse non avevano natura economica, così come i fini ed i mezzi non erano essenzialmente materiali. La cristallizzazione del concetto di economia è avvenuto nel  tempo e nella storia» [*57].
Tuttavia, i limiti dell'anti-economia polanyana sono percettibili già in questa citazione e ne testimoniano tutta la sua ambiguità. A partire da questo, Kurz ha sottolineato come sia proprio questa forza di gravità dell'ideologia borghese dell'illuminismo a spiegare il fatto che Polanyi qui continui ancora a parlare di «fatti economici» in maniera trans-storica. Tali limiti, cominciarono ad essere evidenziati a partire dagli anni '70 e '80 da Louis Dumont nella sua prefazione a "La Grande Trasformazione", da Jean Baudrillard, Gérald Berthoud, Michael Singleton e Serge Latouche, oppure ancora dal sociologo del lavoro vicino alla Scuola di Regolamentazione, Michel Freyssenet (1941-2020), recentemente scomparso, in un suo importante testo, "Invenzione, centralità e fine del lavoro" [*58].
Progressivamente, è la prospettiva polanyana ed essere stata riconosciuta come un primo momento di questo allontanamento, per quanto ambiguo, dalla retroproiezione delle moderne categorie capitalistiche dell'economia politica. Un tale allontanamento potrebbe anche «durare poco», a sentire le parole di Dumont. Polanyi aveva effettivamente messo di brutto in discussione l'economia borghese formalista ed il problema della sua retrospezione, tuttavia la sostanza economica in quanto - questa volta - sostanza ontologico-trans-storica continuava a passare di contrabbando. «Dovrebbe essere ovvio», sbotta Louis Dumont, «che nella realtà esteriore non esiste niente di simile all'economia fino al momento in cui non costruiamo un tale oggetto». Dumont pensava che Polanyi fosse ad un livello inferiore rispetto a Marcel Mauss, il quale era già arrivato ad osservare che «sono le nostre società occidentali ad avere, molto recentemente, reso l'uomo un "animale economico". Ma noi non siamo ancora diventati tutti degli esseri di tal genere. [...] L'Homo oeconomicus non si trova alle nostre spalle, ma davanti a noi» [*59]. E «Uno spettro ossessiona l'immaginario rivoluzionario: è il fantasma della produzione», lo osservava nel 1973 Baudrillard ne "Lo Specchio della Produzione" [Le Miroir de la production ou l’illusion critique du matérialisme historique]. «Questo fantasma» - proseguiva - «alimenta ovunque uno sfrenato romanticismo della produttività. Il pensiero critico relativo al modo di produzione, non tocca il principio della produzione. Tutti i concetti espressi descrivono unicamente la genealogia, dialettica e storica, di quelli che sono i contenuti della produzione, e lasciano intatta la produzione come forma. Ed è proprio questa forma che riappare, idealizzata, dietro la critica del modo di produzione» [*60].
Nel dopoguerra, ci sono stati degli antropologhi e degli storici, per lo più provenienti dal marxismo tradizionale - come Maurice Godelier, Marshall Sahlins, Daniel Becquemont, Pierre Bonte, Philippe Descola, Alain Guerreau, ecc. -, che sono partiti avendo generalmente in testa la griglia del materialismo storico riguardo al terreno antropologico o storiografico, e che ne sono tornati completamente trasformati. «Che sia stato io stesso, oppure Claude Meillassoux poco importa», ricorda Maurice Godelier, «si parte tutti dal concetto di infrastruttura e di sovrastruttura... ma io conoscevo i testi meglio di altri, avendo letto tutto Il Capitale e quasi tutto Marx, controllando le traduzioni..., ne ero comunque quanto meno imbevuto, e si cercava tutti di vedere, come nel materialismo dialettico, se esistono delle relazioni di corrispondenza strutturale tra un sistema di produzione ed un sistema di riproduzione umana che viene chiamato sistema di parentela. Siamo partiti, io e gli altri, ciascuno per conto proprio, e non ne abbiamo trovato nessuno. È molto più complicato di quanto potesse immaginare Marx»[*61]. Questa stessa esperienza è stata ripetuta da Marshall Sahlins, il quale alla fine sosterrà, a partire dal 1968, che «il lavoro non è affatto una vera categoria dell'economia tribale» [*62]. Tra i Maenge della Nuova Bretagna, l'antropologo Michel Panoff ha osservato anche che «non esiste alcun concetto "lavoro" in quanto tale, e non esiste nemmeno una parola distinta che serva ad isolare le "attività produttive" da quelli che sono gli altri comportamenti umani. Non ci si deve aspettare di scoprire né una celebrazione né un disprezzo del lavoro»[*63].
«L'approccio antropologico non ci permette [...] di eludere una domanda che - come nota una specialista di mondi amerindi, quale Marie-Noëlle Chamoux - più di qualunque altra domanda può essere carica di conseguenze teoriche e pratiche: si può dire che il lavoro esiste anche quando non viene né pensato né vissuto come tale? » [*64]. E tali parole fanno eco anche a quelle provenienti dal grande storico del Medioevo Jacques Le Goff: «Io credo anche nell'importanza di doversi affidare ad una filologia dell'epoca. Laddove non esiste il termine, la parola, io penso che non esiste nemmeno la cosa che quella parola dovrebbe designare, rappresentare. [...] Bartolomé Clavero lo dimostra in maniera brillante per l'economia. Ed io ritengo che lo si possa fare con profitto anche per il lavoro [...]. Oppure non possiamo sfuggire all'incapacità di riconoscere gli uomini del passato? Siamo condannati all'anacronismo e alle prigioni [...] del presente e del contemporaneo? Non dovremmo riflettere seriamente sull'anacronismo che deriva [...] da una soggiacente ideologia della storia?» [*65].
Il materialismo storico stava perdendo molto terreno perfino nel pensiero critico di quell'epoca. Nel 1973, Jean Baudrillard notava che «a questo punto, è il concetto di produzione a cadere sotto una critica radicale», proseguendo in questo suo nuovo attacco, cercando di portare la critica oltre il disimpegno tronco dell'economia politica moderna, avviato dalla scuola polanyana - e della quale Sahlins era rimasto ancora, provvisoriamente, il difensore, riferendosi all'età della pietra come all'era dell'abbondanza, con il suo concetto sbilenco di «modo di produzione domestico». Nel 1976, in "Cultura e utilità" [Bompiani], Sahlins elaborerà una critica assai più fondamentale, sia del materialismo borghese, ecologico sia di quello marxista. A proposito di questo libro, Philippe Descola ha affermato di voler «trarne insegnamento», fino ad ogni sua «conseguenza logica» [*66], cosa che determinerà la scrittura del suo "Oltre natura e cultura" [Seid 2014]: un libro che parteciperà anch'esso al dibattito per la de-ontologizzazione delle categorie moderne del "lavoro", della "produzione", del "modo di produzione", ecc., e che va ad unirsi alla critica categoriale del capitalismo avviata dalle correnti della critica del valore e della critica della dissociazione-valore. C'è un passaggio del libro di Descola che merita di essere citato:
« La posizione di Marx è indicativa di una tendenza più generale del pensiero moderno che privilegia la produzione come elemento determinante delle condizioni materiali della vita sociale, come il modo principale che permette agli esseri umani di trasformare la natura e, così facendo, di trasformare sé stesso. A prescindere dal fatto che si sia o meno marxisti, infatti, è diventata moneta corrente l'idea secondo cui la storia dell'umanità sia innanzitutto basata sul dinamismo che è stato introdotto dal susseguirsi dei modi di produrre valore d'uso e valore di scambio a partire dai materiali forniti dall'ambiente. Tuttavia, appare legittimo domandarsi se una tale preminenza accordata al processo di oggettivazione produttiva sia generalizzabile a tutte le società. Certamente, si è "prodotto" in ogni luogo e in tutte le epoche: dappertutto gli esseri umani hanno intenzionalmente modificato o plasmato delle sostanze al fine di procurarsi dei mezzi di sostentamento, esercitando in tal modo la loro capacità di comportarsi come degli agenti che impongono una forma, ed una finalità specifica ad una materia da loro indipendente. Si può dire perciò che dovunque si apprenda questo genere di azione svolta secondo il modello della relazione con il mondo chiamata "produzione", essa è così paradigmatica e familiare per chi come noi è abituato ad usarla per qualificare delle operazioni eterogenee svolte in contesti assai diversi? [...] In quanto modo di concepire un'azione sul mondo e rapporto specifico di creazione tra soggetto e oggetto, la produzione non ha quindi niente di universale. È forse per questo motivo che gli antropologhi sono imprudenti quando cedono alla facilità di interpretare, usando il linguaggio familiare della produzione, i fenomeni assai diversi attraverso i quali una realtà, materiale o meno, arriva a costituirsi. Parlare di "produzione" [...] al di fuori del contesto occidentale [...] nella migliore delle ipotesi, e nella maggior parte dei casi, è un abuso di linguaggio che ci spinge a fare dei parallelismi fuorvianti » [*67].
Da citare anche il libro degli antropologhi francesi Daniel Becquemont e Pierre Bonte, "Mythologies du travail. Travail nommé": « In realtà, gli essere umani, nella maggior parte delle società, non agiscono sulla "natura" al fine di soddisfare dei bisogni positivi come nutrirsi o vestirsi, ma per suggellare delle relazioni di alleanza con delle forze cosmiche; il cibo, la soddisfazione dei bisogni, non sono altro che dei segni, delle "conseguenze" benefiche che testimoniano come queste relazioni di alleanza inscrivano, tanto nelle rappresentazioni quanto nella realtà sociale, le società all'interno di un certo ordine dell'universo. Non si potrebbe perciò parlare di "lavoro" in queste società senza proiettare in maniera maldestra quella che è la nostra propria categoria del lavoro anche sul loro stesso funzionamento. [...] In nessun caso le attività produttive vengono vissute, e tanto meno concepite, come una lotta dell'uomo contro la natura per trasformarla, ma come un rapporto contrattuale che comprende anche i morti e parecchie figure mitiche [...]. Nel Medioevo cristiano, le attività produttive venivano concepite come la conseguenza, se non la condanna, o perfino un felice risarcimento del peccato originale, della Caduta dell'uomo cacciato dal Paradiso e condannato alla “punizione” e alla morte. Ciò che noi oggi chiamiamo “prodotto del lavoro” - o, prendendo una scorciatoia concettuale propria della nostra società, semplicemente “lavoro” - è stato concepito come se fosse il frutto della “bontà naturale” della Divinità nei confronti della sua creatura. Ed è nel quadro di una visione cosmologica del mondo - dove viene dato maggior spazio al “soprannaturale” piuttosto che al “naturale”, all'azione degli dei piuttosto che all'azione degli uomini -, basata su un sistema generalizzato di corrispondenze analogiche, che si inscrivono le attività umane, siano esse riproduttive, produttive o, più generalmente, sociali. Affermare che esiste un concetto universale di “lavoro”, comune a tutte le società umane o meno [...], non ci consente di comprendere le condizioni reali in cui viene svolto un tale “lavoro”; in nessuna di esse. “L'azione dell'uomo sulla natura”, detto nel linguaggio della nostra società, è un'espressione che non dice niente circa le qualità particolari, in base alle quali una tale azione viene organizzata e rappresentata nella diversità delle società umane. Ci proponiamo qui di mostrare come questo concetto di “lavoro”, nella sua forma di attività che regola le relazioni tra l' “uomo” e la “natura”, sia una figura prodotta dal movimento delle idee occidentali. [...] Facendo riferimento alla “decostruzione”, termine mutuato dal postmodernismo ambientale, si potrebbe parlare di una costruzione, nella nostra società, del concetto di lavoro. »[*68]
Gli storici si sono interrogati sotto molti punti di vista sul problema della retroproiezione delle categorie moderne. Si pensi ad esempio a Jean-Pierre Vernant, Moses I. Finley, Alain Guerreau o a Jérôme Baschet. Lo storico medievalista Robert Fossier, nel suo "Le travail au Moyen Âge" parte da una relativizzazione del suo oggetto, osservando che gli individui moderni, se non sono disoccupati, « sono tutti dei "lavoratori": la loro funzione è quella di produrre o un oggetto o un bambino, dal momento che se l'uomo "lavora" col sudore della fronte, la donna è "in travaglio" quando sta per partorire. La cosa ci appare talmente naturale che, dopo aver edificato tutto un Diritto del Lavoro, oggi siamo convinti che ogni uomo abbia il diritto di lavorare. Ma nei secoli del Medioevo la vedevano in maniera opposta. L'ozio è "santo"; costituisce la "parte migliore", come dice Gesù rispondendo a Marta che si sente disturbata dall'inattività di Maria. Quanto al "lavoro", la parola neppure esiste: il Tripalium, noto fin dall'Antichità, è uno strumento a tre gambe che serve per posizionare il cavallo mentre viene ferrato, e che diventa poi una sorta di cavalletto di tortura, e il suo spostamento semantico (rivelatore) - durante il 12° secolo - quando assume il significato di "lavoro", evidentemente faticoso e doloroso, trionfa solamente nel 16° secolo. Se lo uso, lo farò quindi solo per pura convenienza stilistica, come del resto fanno tutti» [*69]. Anche Le Goff prenderà parte a questa critica della retroproiezione delle categorie economiche borghesi della modernità per dimostrare che nel mondo agrario cristiano pre-moderno dell'Europa occidentale (e quindi a maggior ragione nei periodi precedenti) non esisteva alcuna sfera distinta, o addirittura dominante, dell’«economia», né un pensiero corrispondente. Nel suo libro "Lo sterco del diavolo. Il denaro nel medioevo" [Laterza], lo storico va anche oltre: «L'assenza di un concetto medievale di denaro va messa in relazione con la mancanza non solo di un ambito economico specifico, ma anche di vere teorie economiche - gli storici che attribuiscono un pensiero economico ai teologi scolastici o agli ordini mendicanti, in particolare ai francescani, commettono un anacronismo.» [*70] Le Goff riprende le parole dell'antropologo spagnolo Bartolomé Clavero, il quale afferma inequivocabilmente che nel Medioevo: «l'economia non esiste» [*71].
La confusione tra la «produzione alimentare» - o, in senso generale, la «riproduzione» - e l'«economia» in senso moderno, è un tipico anacronismo che mette radici proprio a partire dalla razionalità dell'illuminismo capitalista. In questo numero della rivista, presentiamo un secondo articolo di Nuno Machado, «"L'invenzione del lavoro". Storicità di un concetto in André Gorz, Dominique Méda, Françoise Gollain e Serge Latouche», che mostra come questi autori abbiano affrontato la questione posta dalla svolta rispetto alla specificazione storica delle categorie e delle attività moderne. Dopo la pubblicazione di "Addio al proletariato" di André Gorz, nel 1980, l'autore mostra che la comprensione del lavoro, considerata storicamente come un'attività specifica della modernità capitalista, è uno dei pilastri dell'edificazione teorica costruita da Gorz. Il lavoro è intimamente legato alla comparsa di una sfera economica «svincolata» da tutto il resto della società. In questo articolo, Machado cerca di caratterizzare in dettaglio l'evoluzione del concetto di lavoro nelle principali opere di Gorz. Poi passa a confrontare questa concezione riguardo la storicità del lavoro con le idee di tre autori di lingua francese:  Dominique Méda, Françoise Gollain e Serge Latouche. In particolare, svolge un'indagine analitica delle somiglianze e delle differenze esistenti tra questi autori. Infine, sottolinea come sia pertinente, per comprendere le ragioni addotte al fine di spiegare lo sviluppo storico del lavoro, il comune contesto embrionale della «rivoluzione militare» delle armi da fuoco, avvenuta nel 16° secolo, che ha inaugurato l'era moderna nel mondo occidentale.
Questo numero della rivista costituisce solo un primo passo nell'approfondimento teorico, psicologico, storico e antropologico di questo dibattito sul carattere storico del lavoro, del valore, della merce, del denaro e del patriarcato, specifico della forma del valore (un libro di prossima pubblicazione si occuperà più specificamente dello Stato e della sfera politica moderna). La traduzione e la pubblicazione nei prossimi anni del libro di Kurz, "Denaro senza valore", fornirà un ulteriore pezzo fondamentale di questo edificio, intanto che abbiamo affrontato le questioni storiografiche e concettuali, rinnovandole da cima a fondo. Di certo, nei prossimi numeri della rivista estenderemo questa discussione, affrontando la questione della storia del capitalismo-patriarcato e della sua nascita, il ruolo dl denaro, l'emergere storico della relazione di dissociazione sessuale, l'inclusione -  o meno - del feticismo delle merci nella storia dei feticismi che si sono succeduti nella storia delle società umane; cosa che ci porterà a dialogare, come era stato annunciato fin dal primo numero della rivista, con l'antropologia culturale, con la storiografia contemporanea, con la storia delle donne e con quella dei concetti.

- Clément Homs per il comitato di redazione di Jaggernaut - Pubblicato il 10/11/2020 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -

 

NOTE:

[*1] - Più di un milione di persone, soprattutto musulmani, sono state internate in 380 «campi». La Cina sostiene che si tratti di «centri di formazione professionale» per aiutare la popolazione a trovare un'occupazione e riuscire così ad allontanarli dall'estremismo religioso.
[*2] - Alastair Hemmens, Ne travaillez jamais. La critique du travail en France de Charles Fourier à Guy Debord, Albi, Crise & Critique, 2019, p. 28.
[*3] - Christoper Lasch - "Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica". Neri Pozza 2016.
[*4] - Sulla teoria e l'analisi della crisi, a tal proposito si veda: Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, "La Grande dévalorisation. Pourquoi la spéculation et la dette de l’État ne sont pas les causes de la crise", Fécamp, Post-éditions, 2014; «Crises, champagne et bain de sang», Jaggernaut. Crise et critique de la société capitaliste-patriarcale, Albi, Crise & Critique, 2020 ; Sandrine Aumercier, Clément Homs, Anselm Jappe et Gabriel Zacarias, "De virus illustribus. Crise du coronavirus et épuisement structurel du capitalisme", Albi, Crise & Critique, 2020.
[*5] - Norbert Trenkle: "Lotta senza classe: perché nel processo di crisi capitalista non risorge il proletariato?": https://francosenia.blogspot.com/2016/01/la-morte-del-soggetto.html
[*6] - Jean-Pierre Durand, La fabrique de l’homme nouveau. Travailler, consommer et se taire ?, Lormont, Bord de l’eau, 2017. Non rifiutiamo affatto questo genere di ricerca empirica caratterizzata dal prisma di una critica fenomenologica affermativa. Tuttavia, è sempre necessario sottolinearne i limiti, e ci riserviamo il diritto di inserire in un diverso quadro concettuale - quello di una critica categorica e negativa del capitalismo - ciò che viene prodotto da dei ricercatori sicuramente onesti ma la cui prospettiva rimane alquanto limitata.
[*7] - Ivi, p.11
[*8] - Ivi.
[*9] - Una critica svolta dal punto di vista del lavoro si oppone ad una critica categorica del lavoro. La prima, secondo Postone, «si basa su una comprensione trans-storica del lavoro, presuppone una tensione strutturale tra gli aspetti della vita sociale propri del capitalismo (ad esempio, il mercato e la proprietà privata) e la sfera sociale costituita dal lavoro. Il lavoro costituisce la base di questa critica del capitalismo, il punto di vista a partire dal quale la critica viene intrapresa», in Moishe Postone, "Time, Work and Social Dominance".
[*10] - Moishe Postone, "Time, Work and Social Dominance".
[*11] - Ivi, p.105.
[*12] - Lucien Febvre, «Lavoro", in "Lavoro e storia. Scritti e lezioni (1909-1948)", Roma, Donzelli, 2020.
[*13] - Bronislaw Geremek, "Mendicanti e miserabili nell'Europa moderna 1350-1600". Laterza, 1989.
[*14] - Ivi, p.114
[*15] - Citato da Elise Marienstras, "Nous, le peuple. Les origines du nationalisme américain", Gallimard, 2004, p. 204-225.
[*16] - Ivi, p.204-205.
[*17] - Ivi, p.205.
[*18] - Augustine Fouillée (G.Bruno), "Le Tour de la France par deux enfants : «Devoir et patrie»" (1877), Paris, Eugène Belin, 1889, p. 37. Si ringrazia Alastair Hemmens per il riferimento.
[*19] -  Ivi, p.53.
[*20] - Ivi, p.76.
[*21] - Edward P. Thompson  "Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra". Il Saggiatore
[*22] - Joshua Clover, "L’Émeute prime. La nouvelle ère des émeutes", Paris, Entremonde, 2018, p. 33. Qui, non discutiamo i limiti di questo lavoro.
[*23] - Jacques Rancière, La Parole ouvrière, 1830-1851, Paris, La Fabrique, 2007, p. 9.
[*24] - Segnalato da  J. Rancière, ivi, p. 11.
[*25] - Citato da Mathieu Léonard, "L’Émancipation des travailleurs. Une histoire de la Première internationale", Paris, La Fabrique, 2011, p. 43.
[*26] - Ivi, p.165.
[*27] - Estratto dalle Risoluzioni del Congresso dell'Internazionale anti-autoritaria di Saint-Imie, 15 e 16 settembre 1872, citato da Myrtille (Giménologue), "Les Chemins du communisme libertaire en Espagne, Volume I, Et l’anarchisme devint espagnol, 1868-1910", Paris, Éditions Divergences, 2017, p. 39.
[*28] - Karl Marx, Critica del Programma di Gotha.
[*29] - Naturalmente, non va dimenticata la misoginia dei proudhoniani, che proibivano alle donne di lavorare e ritenevano che il loro posto fosse in casa, posizione che per un breve momento venne convalidata anche negli inizi della Prima Internazionale; si veda su questo il già citato Mathieu Léonard, "L’Émancipation des travailleurs", op. cit., p. 76.
[*30] - Michael Seidman, "Ouvriers contre le travail. Barcelone et Paris pendant les fronts populaires", Paris, Senonevero, 2010, p. 16.
[*31] - Si veda, per esempio, circa il concetto di «populismo produttivo», l'articolo di Mark Loeffler, «Populistes et parasites. Sur la logique des populismes productifs », su Jaggernaut. Crise et critique du capitalisme-patriarcat, no 1, Albi, Crise & Critique, 2019. Sul concetto di «xenofobia operaia» a partire dal punto di vista del lavoro, si veda Laurent Dornel, "La France hostile. Socio-histoire de la xénophobie (1870-1914)", préface de Gérard Noiriel, Paris, Hachette, 2004 ; e Gérard Noiriel, "Immigration, antisémitisme et racisme en France (XIXe-XXe siècle). Discours publics, humiliations privées", Paris, Hachette, 2014 (2007).
[*32] - Arthur Rimbaud, « Mauvais sang », Une saison en enfer, avril-août 1873.
[*33] - Edward P. Thompson, "L'economia morale delle classi popolari inglesi del secolo XVIII" et. al. 2009, citato da Philippe Minard dans E. P. Thompson, "Whigs e cacciatori. Potenti e ribelli nell'Inghilterra del XVIII secolo". Ponte alle Grazie.
[*34] - Myrtille (Giménologue), « Annexe III. Si fuese el trabajo tan bueno, se le hubieran guardado los ricos para si mismo », dans Les Chemins du communisme libertaire en Espagne, 1868-1937, (Nouveaux) enseignements de la révolution espagnole, Troisième volume, Paris, Éditions Divergences, 2019, p. 159-162.
[*35] - Floréal M. Romero, Agir ici et maintenant. Penser l’écologie sociale de Murray Bookchin, Rennes, Éditions du commun, 2019, p. 84.
[*36] - Citato da Myrtille (Giménologue), Les Chemins du communisme libertaire en Espagne, 1868-1937. Et l’anarchisme devint espagnol 1868-1910, Premier volume, Paris, Éditions Divergences, 2017, p. 16-17.
[*37] - Max Stirner, L’Unique et sa propriété et autres écrits, Paris, L’Âge d’Homme, 1972, p. 180.
[*38] - Ivi.
[*39] - Pëtr A. Kropotkin, "La conquista del pane". Edizioni clandestine. 2018
[*40] - Georges Darien, extraits de La Belle France (1900).
[*41] - Per un'analisi del gruppo De Mocker: https://francosenia.blogspot.com/2016/08/il-lavoro-e-un-crimine.html
[*42] - Alcuni lettori potrebbero confondere tra la critica categorica e negativa del lavoro, elaborata soprattutto da Kurz e dalla Wertkritik, e la «critica del lavoro», sempre fenomenologica e ontologizzante immaginata da degli autori della corrente cosiddetta universalista in seno alla teoria della comunizzazione; come Bruno Astarian. In realtà, come ha dimostrato Christian Charrier in "La Matérielle. Fin de la théorie du prolétariat" (Entremonde, 2018) - oppure, Roland Simon, nella sua critica rivolta a questa corrente universalista (« Pour en finir avec la critique du travail ») -, Astarian nel suo "Le travail et son dépassement", o in "Aux origines de l’anti-travail", pensa ancora al «lavoro in quanto tale» a partire da un'astrazione che lo riporta alla semplice ontologizzazione borghese o marxista tradizionale. In quanto «processo di autoproduzione dell'uomo» (citato da Charrier, p.62) esso costituisce «questa socializzazione del rapporto con la natura che avviene sulla base del lavoro» (Le Travail et son dépassement, Senonevero, 2001, p. 85). «Il tuo concetto di "lavoro in quanto tale"», nota Charrier, «è quindi sintetico a priori, come direbbe Kant, precedente ad ogni esperienza, e non sintetico o analitico a posteriori, come tu sembri voler dire; di contro, teoricamente, viene di fatto costruito a posteriori sulla contraddizione esistente tra la pura soggettività e l'oggettività in sé, vale a dire, su un'altra astrazione. Poi, secondo una buona logica speculativa, vai a dedurre tutte le determinazioni del lavoro, a partire dal suo concetto» (Charrier, op. cit., p. 60-61). Gilles Dauvé e La Banquise, in "Sous le travail, l’activité" (L’Asymétrie, 2016 ; 1986), nel riprodurre quelli che sono i presupposti del marxismo tradizionale, per quel che riguarda la rappresentazione del capitalismo, continuano anche loro a portare in giro per la storia un concetto trans-storico-ontologico del lavoro, malgrado pretendano di specificarlo come «azione per sopravvivere», «produzione delle condizioni di vita materiale» (alias «azione umana»), salvando così alla fine, traendolo dal pensiero borghese, il concetto sostanziale di lavoro. Questa posizione, vicina a quella di Baptiste Mylondo, che in questo numero viene criticato nell'articolo di Ivan Recio, rimane nei limiti di quella che è una semplice trasposizione polanyana sul «sostantivismo economico», vale a dire,nei limiti di un preteso radicamento di una «sostanza economica» trans-storica nella vita sociale pre-moderna. Da allora in poi, per Dauvé, il lavoro è semplicemente l'«azione per sopravvivere», ma «separata dal "sociale" in cui si vive» (ivi, p.10).  Scrive che «il lavoro è la forma assunta dalla produzione delle condizioni di vita materiale quando l'attività per produrle è stata staccata dal resto delle attività» (Dauvé, De la crise à la communisation, Entremonde, 2017, p. 59-60). Si vuole tornare ad accogliere il lavoro in una vita sociale più ricca.
[*43] - Theodor W. Adorno, "Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa". Einaudi.
[*44] - Alastair Hemmens, Ne travaillez jamais, op. cit., p. 26-27.
[*45] - Karl Marx - Gründrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica - PGreco
[*46]Robert Kurz, La Substance du capital, Paris, L’Échappée, 2019, p. 49.
[*47] - Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, "Il femminismo per il 99 %. Un manifesto". Laterza
[*48] - Roswitha Scholz, "Le Sexe du capitalisme. « Masculinité » et « féminité » comme piliers du patriarcat producteur de marchandises", Albi, Crise & Critique, 2019 ; Taylisi Leite, "Crítica ao feminismo liberal : valor-clivagem e marxismo feminista", editora Contracorrente, 2020.
[*49] - Robert Kurz, Geld ohne Wert. Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin, Horlemann, 2012, p. 86.
[*50] - Si fa qui riferimento al testo «Sull'invenzione greca della parola "economia" in Senofonte.  Critica di un inganno etimologico moderno» di Clément Homs che si può leggere su https://francosenia.blogspot.com/2016/09/definizioni-e-significato.html
[*51] - Reinhardt Koselleck, « Storia. La formazione del concetto moderno », 2009 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna.
[*52] - Ivi, p.137.
[*53] - Ivi, p.135.
[*54] - Ivi.
[*55] - Robert Kurz, La Substance du capital, op. cit., p. 49-50, corsivo aggiunto.
[*56]
- Ivi, p.50.
[*57] - Karl Polanyi avec Conrad M. Arensberg et Harry W. Pearson, « La place de l’économie dans les sociétés », dans Essais de Karl Polanyi, Paris, Seuil, 2008 (1957), p. 51-52.
[*58] - Michel Freyssenet, «Invention, centralité et fin du travail», su: https://francosenia.blogspot.com/2019/08/dopo-il-lavoro.html
[*59] - Marcel Mauss - Saggio sul Dono - Einaudi 2002.
[*60] - Jean Baudrillard - Lo specchio della produzione. Critica dell'industria del desiderio. Mimesis 2020.
[*61] - Entretien avec Maurice Godelierhttps://www.youtube.com/watch?v=7kLeByVoMBw
[*62] - Marshall Sahlins, Tribesmen, Englewood Cliffs (New Jersey), Prentice-Hall, Fondations of Moderne Anthropology Series, 1968, p. 80.
[*63]Michel Panoff, « Énergie et vertu : le travail et ses représentations en Nouvelle-Bretagne », dans L’Homme, 1977, p. 11 su:    https://www.persee.fr/doc/hom_0439-4216_1977_num_17_2_367748
[*64] - Marie-Noëlle Chamoux, « Sociétés avec et sans concept de travail », Sociologie du Travail, vol. 36, Paris, 2001, p. 69. Disponible su:  https://www.persee.fr/doc/sotra_0038-0296_1994_hos_36_1_2149
[*65] - Prefazione di Jacques Le Goff a Bartolomé Clavero, La Grâce du don. Anthropologie catholique de l'économie moderne, Albin Michel, 1996, p. XVI, sottolineatura aggiunta.
[*66] - Philippe Descola, L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, Paris, Éditions Quae, 2011, p. 41.
[*67] - Philippe Descola, Oltre natura e cultura, Seid.
[*68] - Daniel Becquemont et Pierre Bonte, Mythologies du travail. Le travail nommé, Paris, L’Harmattan, 2004, p. 8.
[*69] - Robert Fossier, Le travail au Moyen Âge, Paris, Hachette, 2000 (1990), p. 10.
[*70] - Jacques Le Goff, "Lo sterco del diavolo. Il denaro nel medioevo" [Laterza].
[*71] - Ivi.





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