lunedì 21 dicembre 2020

Salvarsi soccombendo

Fëdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell’introduzione, «il romanzo di una vita», «un’opera letteraria parallela all’opera, ma anche sorgente viva per l’opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l’arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all’interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti. Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell’essere umano. Le Lettere qui raccolte – ora interamente ritradotte, a comporre l’epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia – raccontano questa missione; tracciano le linee di un’autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d’ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.

(dal risvolto di copertina di:  Fëdor Dostoevskij, Lettere a cura di: Alice Farina ISBN 9788842828495 pagine: 1376 € 75,00. Il Saggiatore)

Breve guida letteraria ai nostri demoni
- dall'Idiota ai Fratelli Karamazov, l'umanità rinchiusa in una pagina -
di Michele Mari

L'insetto più famoso della letteratura è certamente lo scarafaggio della Metamorfosi kafkiana. Non molto prima di Kafka, tuttavia, il motivo entomologico era già stato modulato quasi ossessivamente da Dostoevskskij, che proprio per questo venne e viene riconosciuto come il più russo tra gli scrittori russi. Basti per noi il nome di Tommaso Landolfi, che nella sua storica antologia di Narratori russi (1948), soffermandosi sula proverbiale «masochismo russo» e sulla pletora di «personaggi o autori vivamente e compiacentemente interessati alla propria minorazione, al proprio tormento, e che con suprema soddisfazione si definiscono da sé stessi come pidocchi», individua appunto in Dostoevskij il campione di «questa categoria così intimamente russa» a partire dai Ricordi del sottosuolo: «ero io stesso», vi leggiamo, «in conseguenza della mia sconfinata vanità, a considerarmi spessissimo con una furiosa scontentezza che arrivava fino al disgusto»; «quanto più avevo coscienza del bene [...] tanto più affondavo nel mio fango». Il sottosuolo, da questo punto di vista. è il punto d'arrivo della caduta biblica («nel suo sordido e puzzolente sottosuolo, il nostro topo, offeso, bistrattato e sbeffeggiato, si immerge in una rabbia fredda, velenosa, e soprattutto eterna»); è però anche una tara ereditaria, qualcosa cui non si può sfuggire al punto che essa ci identifica («avevo il sottosuolo nell'anima»); e, finalmente, è la Russia.
Crogiolandosi nell'abiezione con un'oltranza e un raccapriccio che fanno sembrare ingenue e candide le confessioni di un masochista programmatico come Rousseau, il narratore può riscattarsi non nel pentimento o nel martirio, ma nella voluttà, «tanto che l'angoscia stessa, alla fine, si muta in una tal quale dolcezza vergognosa e maledetta e, in conclusione, in vera e propria voluttà». Naturalmente, però, questa stessa voluttà è a sua volta generatrice di colpa, dunque di una nuova abiezione e nuovo disgusto, al punto da modificare lo statuto stesso dei Ricordi: «non è più letteratura questa, ma una pena correzionale». L'unica soluzione, allora, è disumanizzarsi compiutamente, come riuscirà a un Gregor Samsa paradossalmente felice della sua nuova condizione; purtroppo, riconosce Dostoevskij, «non sono riuscito nemmeno a diventare un insetto». I Ricordi dal sottosuolo (che fin dal titolo stabiliscono un corto-circuito con le di poco precedenti Memore da una casa di morti) anticipano di oltre quindici anni I fratelli Karamazov, dove Dmitrij, il più karamazoviano fra i suoi fratelli, il più simile al padre per lussuria e violenza, confessa ad Aliosa: «io, fratello, sono proprio uno di questi insetti, e ciò fu detto apposta per me. E noi tutti Karamazov siamo così; anche in te, che sei un angelo, vive questo insetto e suscita nel tuo sangue delle tempeste [...]. Qui le sponde si congiungono, qui tutte le contraddizioni convivono». Patire la contraddizione, non poter essere né angelo né insetto ma soltanto struggersi nello slancio da questo a quello per poi ricadere, significa lottare in continuazione con l'angelo di Giacobbe. Tutta l'opera di Dostoevskij, così, può essere letta sotto la specie lombrosiana dell'atavismo, e ancor meglio sotto la teoria freudiana dell'inconscio e del rimosso. La stessa epilessia, il «male dei santi» che afflisse Dostoevskij per buona parte della sua vita e ha il suo trionfo letterario nel personaggio di Smerdjakov, è da questo punto di vista la verità nascosta, il tabù che tanta letteratura (Stevenson in primis) stava rivelando in quello stesso torno di tempo.
Il desiderio sessuale, la malattia, l'ossessione, la vendetta, finalmente, sono già il delitto, quello di Raskolnilov e forse quello di Smerdjakov: in altre parole sono la premessa per lottare con l'angelo e salvarsi soccombendo. La fortezza-prigione di Omsk, la casa dei morti, l'inferno, possono infatti essere il cielo: è sufficiente disperare. La stessa fede, in Dostoevskij, è terroristica e morbosa: «Io sono un figlio del secolo del dubbio e della miscredenza», ebbe a dichiarare, «e so che fino nella tomba continuerò ad arrovellarmi se Dio sia. Ma se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e che la verità non è in Cristo, ebbene io vorrei stare con Cristo piuttosto che con la verità». È lo stesso estremismo che sul piano etico e sociale fa muovere e parlare i protagonisti dei Demoni, benché ripudiati dall'autore per il loro mortale nichilismo (e, sospettiamo, per la loro carenza di eros, quello di cui i Karamazov sono fin troppo forniti). Si capisce facilmente perché uno scrittore tanto affascinato da personaggi scissi e contorti considerasse quasi impossibile costruire un romanzo attorno a un protagonista «assolutamente buono», e perché progettare L'idiota sia stata per lui la sfida più ardua. «Idiota evangelico», il principe Myskin, epilettico come Smerdjakov e come l'autore, è certamente buono, ma attraverso il personaggio di Nastas'ja Filippovna intreccia la propria vicenda e la propria anima con il suo doppio speculare, l'assassino Rogozin, tanto che alla fine il romanzo sembra illustrare l'amara sentenza che si leggerà nei Karamazov: «Ciascuno di fronte a tutti è per tutti e di tutto colpevole. E non solo a causa della colpa comune, ma ciascuno, individualmente». Come tutti i grandi scrittori, anche Dostoevskij scrive sempre lo stesso libro. Ventiquattro anni dopo Il sosia, Myskin ripete il percorso di Golijadkin, anticipando la tematizzazione della schizofrenia, dallo Studente di Praga al Gabinetto del dottor Caligari (e in lontananza il fantasma di Hoffman sorride). La stessa Chiesa è doppia e simulata: Dostoevskij ne era tanto convinto e tanto angosciato da inserire nei Karamazov il lungo racconto del Grande Inquisitore, che imprigiona e ripudia Cristo tornato fra gli uomini: «Allora senti: noi non siamo con te, ma con Lui, ecco il nostro segreto! Da un pezzo non siamo più con te, ma con Lui, ecco il nostro segreto! Da un pezzo non sono più con te ma con Lui: da ormai otto secoli». Non è l'unico momento in cui il diavolo compare nel romanzo (altre volte la sua presenza è solo sospettabile, come in tante pagine del Doktor Faustus di Thomas Mann), ma è significativo che a celebrarlo sia Ivan, lo scettico, il cinico, sì, ma pur sempre un Karamazov e dunque, per la sua quota, ulteriore proiezione dell'autore. Scrittore gigantesco, Dostoevskij  ricava da ogni sintomo un simbolo, dalla reclusione alla condanna a morte evitata per un soffio, dal sottosuolo alla malattia, e in ogni simbolo fa confliggere spettacolarmente il suo contrario («È venuto da me, Dio esiste. Ho pianto e non ricordo niente altro, Voi non potete immaginare la felicità che noi epilettici proviamo il secondo prima di avere una crisi. Non so quanto possa durare nella realtà, ma fra tutte le gioie che potrei avere nella vita non farei mai scambio con questa»). Ci resta il rimpianto del mancato seguito dei Karamazov, che Dostoevskij  era intenzionato a incentrare sul personaggio di Aljosa: lì, probabilmente, si sarebbe narrativamente inverata la massima del principe Myskin, quella per cui solo «la bellezza salverà il mondo».

- Michere Mari - Pubblicato su Robinson il 7/11/2020 -

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