lunedì 14 aprile 2025

È andata male…

Ode a Jim l’Everyman che volle farsi Lord
- di Michele Mari -

«È uno di noi», «era uno di noi»: Conrad lo ripete più volte, a partire dalla proemiale Nota dell’autore: e anche se nella sua visione l’appartenenza e l’identificazione si giustificano con il fatto che Jim [il protagonista del romanzo Lord Jim di Joseph Conrad, Ndr] non solo e` un bianco, non solo un occidentale, ma un inglese degnamente educato, l’afflato ne fa comunque un’allegoria dell’uomo, un «everyman» (che come tale non ha e non deve avere un cognome). Come Adamo, Jim nasce puro e innocente: fin dalla primissima descrizione viene connotato nel segno del candore: «Era di eleganza immacolata; dalle scarpe al cappello era attillato in un bianco candido»; la sua innocenza e` tutt’uno con la sua ingenuità (che per via di testardaggine rasenta in alcuni momenti l’ottusità, come nel Michael Kohlhaas di Kleist). Su questa ingenuità riposa un senso di incolumità che e` forse quanto più somigli in lui a una hybris: «Sentiva di non doversi più preoccupare di nulla che potesse accadergli fino alla fine dei suoi giorni», e non per mancanza di immaginazione, ma al contrario per un suo eccesso, suscitato dai racconti orali e scritti di avventure marinare: «Dimentico di se´, conduceva già in mente sua la vita di mare intravista nei romanzetti. Si vedeva salvare le persone da navi che affondavano, abbattere pennoni durante un uragano, nuotare fra la schiuma con un salvagente […], esempio costante di dedizione al dovere, indomito come l’eroe di un libro».

  In realtà, e nel sottolinearlo Conrad e` spietato, il destino di Jim e` già scritto, cosi` come la delusione e` fisiologicamente insita nell’illusione. Questo destino è tutto alle spalle di Jim, e` l’atto fondativo della sua vita: un peccato veniale che, ingigantito dalla sua coscienza e dal suo masochismo, lo inseguirà per tutta la vita, costringendolo ogni volta a spostarsi per centinaia di miglia, a cambiare attività e a rinunciare a quel po’ di quiete che era riuscito a procurarsi. Scottato dal connubio con gli uomini, Jim vuole uscire dall’umanità, rendersi anonimo e invisibile, e da questo punto di vista il suo primo tormentatore e` proprio Marlow, che pur stimandolo e cercando di aiutarlo con ogni mezzo lo insegue a propria volta riportandolo all’episodio fatale. La curiosità di Marlow e` effettivamente «malsana», come egli stesso sembra ammettere («se volete, potete chiamarla una malsana curiosità»), ma ciò che più conta e` che anche il lettore viene trascinato in questa temperie voyeuristica. Jim un po’ c’è e un po’ non c’è; un po’ parla direttamente, un po’ parla attraverso il racconto di Marlow, un po’ e` l’oggetto delle congetture di Marlow o dei commenti della gente; è sfuggente, indecifrabile, magnetico, ma il sospetto e` che possa essere anche un mero contenitore del pensiero di Marlow, che incessantemente lo interpreta come potrebbe fare un cartomante o un ventriloquo. Il «fatto», allora. Il fatto dura appena ventisette minuti, durante i quali Jim e` preda di una strana passività (cui pero`, orgogliosamente, non vorrà appellarsi). Nell’ultimo di questi ventisette minuti, il salto fatale che crea il suo destino (tale episodio, scrive Conrad nella citata Nota, «era inoltre un evento che in un personaggio semplice e sensibile poteva a buon titolo dar colore al “sentimento dell’esistenza”»), ma per circa cento pagine il lettore non ne viene informato, perché il romanzo procede per programmatiche dilazioni, con un lento avvitamento dall’esterno all’interno, verso il suo nucleo di senso. Dopo l’agnizione, la parte centrale del romanzo e` dedicata alle conseguenze quasi meccaniche del disonore e della vergogna, che Jim potrebbe obliare e al contrario enfatizza retroattivamente; nella terza parte si celebra invece il riscatto, cosi` luminoso da sembrare esemplato, a sua volta, sulle gesta eroiche e romantiche che tanto avevano acceso l’immaginazione del protagonista, ma ascendere a tanta altezza si rivelerà funzionale alla catastrofe delle ultimissime pagine, dominate dal diabolus ex machina Brown e caratterizzate dal passaggio di Marlow dal racconto orale al racconto scritto. Rinato nel protettivo esilio di Patusan, Jim è assurto a leggenda vivente, e infatti non ha più passato, non e` più Jim: e` Tuan Jim, che circondato dalla stima e dalla fiducia degli abitanti di questo Nuovo Mondo «sembrava finalmente vicinissimo a dominare il suo destino». Ancora una volta l’illusione tradirà, ma se la vocazione di Jim e` immolarsi come l’agnello sacrificale (atteggiamento già chiaro nelle scene processuali dei primi capitoli), il coronamento paradossalmente trionfale del proprio destino e` nella morte: «Nemmeno nelle sue visioni giovanili più violente avrebbe potuto immaginare la seducente forma di un successo cosi` straordinario! Potrebbe infatti benissimo essere che, nell’attimo breve di quel suo ultimo sguardo fiero e impavido, avesse scorto il volto di quell’opportunità che, come una sposa orientale, velata era sopraggiunta al suo fianco».

   Lord Jim appartiene a quella ristretta lista di libri che colpiscono, oltre che per la loro bellezza, per la loro grandezza. Ed e` grande non perché sia il libro più complesso e ambizioso di Conrad, ma perché e` un libro disperato con la pretesa di essere moralmente esemplare, perché e` un libro impietoso animato da una straordinaria pietà, perché pur costituendo una gigantesca requisitoria contro le illusioni non si rassegna a perderle, perché come un giocoliere Conrad lo ha tenuto in equilibrio sull’unico punto in cui viltà ed eroismo si intersecano; finalmente, perché come i libri possenti e di profondo respiro ammette in se´ il saggio e la biografia, il documento e l’avventura, tutti omogenei e continui a quest’ultima. Al pari di quasi tutti i protagonisti dei libri di Conrad, Jim e` un reietto devastato dal senso di colpa: ma, diversamente da tutti, ha nei confronti della colpa un rapporto conflittuale e contraddittorio. Morbosamente egli rivive in continuazione quel famoso salto dal Patna [la nave di cui era primo ufficiale e che abbandonò temendo che affondasse, Ndr] e fobicamente lo fugge, cambiando lavoro e scomparendo ogni volta che la sua persona e` messa in relazione a quell’incidente; teme che il passato lo raggiunga e fa di tutto per restarvi ancorato; e in questo dibattimento non osa nemmeno immaginare un riscatto, al quale, pure, tutte le sue fibre tendono ciecamente. Cosi` quando incontrerà il riscatto non lo riconoscerà: sarà diventato il leggendario Tuan Jim, e ancora si permetterà l’indolenza e il fatalismo di Jim, ciò che lo condurrà all’ultima rovina (perché la contrapposizione non e` fra Lord Jim e Tuan Jim, ma fra Jim e Lord-Tuan Jim, fra il giovane titubante che trema e il grand’uomo cresciuto sopra e contro e nonostante e per quella debolezza). Segno di tanta irresoluzione e` il continuo variare e intersecarsi dei piani narrativi e dei punti di vista, dato che la narrazione e` per lunghi tratti demandata a quel Conrad personaggio che e` Marlow, e dato che lo stesso Marlow incarna differenti stati di conoscenza dei fatti (perlopiù la sua funzione e` quella di congetturare e spargere dubbi, avvolgendo il racconto nelle spire di un criticismo ancora più morboso del carattere di Jim).

   E` stato scritto più volte che Conrad scaricava le proprie pulsioni suicide infierendo sui propri personaggi, tutti traditori di qualcosa come lui avrebbe tradito la Polonia per l’Inghilterra. In questo caso pero` Jim e` già «morto», e fin dall’inizio e per sempre un ex uomo di mare: tutto il romanzo si svolge infatti lontano dal mare, che pure, per la centralità dell’episodio del Patna, sembra essere lo sfondo costante. Ogni cosa detta di Jim e su Jim, così, ha il crisma del commento: un punto solo, quel salto! decide di una vita, consegnandola al tormento e all’elucubrazione. Eppure, grazie a un amore dell’avventura esotica più forte di quanto l’autore ammettesse, la seconda parte del romanzo e` anche una parte epica: c’è uno scenario salgariano, c’è un popolo in lotta, un regno, un amico indigeno ucciso dal bieco aggressore. Senonché l’errore, vissuto per coazione come colpa, trasforma immediatamente l’epica in tragedia, anzi in sacra rappresentazione: Tuan Jim si immola come Cristo, cioè come una figura assolutamente non romanzesca. In quella morte trova la pubblicità e il riconoscimento che nel suo cuore di ragazzo erano l’inseparabile corteo della gloria: ma a regalarglieli non è la gloria, è ancora una volta l’onta, come se egli non potesse liberarsi della sua colpa se non celebrandola come una divinità. Assumono allora un più cupo significato le parole di Marlow che aprono il capitolo XVI: «Si stava avvicinando il tempo in cui l’avrei visto amato, creduto, ammirato, in quella leggenda colma di vigore e coraggio che si andò creando attorno al suo nome come se avesse stoffa da eroe». Come se: un’ipotetica che solo il volto tormentato di Peter O’Toole poteva esprimere.

- Michele Mari - Pubblicato su Robinson del 23/6/2024 -

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