In un saggio su Saul Bellow ("Rileggere Saul Bellow", in "Perché scrivere? Conversazioni e saggi di letteratura, 1960-2013”, Einaudi), Philip Roth commenta il romanzo "Herzog" del 1964, sottolineando come non ci sia quasi nessuna azione, o dramma, oltre a quello che avviene nel cervello del protagonista; in tal senso, potrebbe anche essere letto insieme a Monsieur Teste di Paul Valéry, il quale ha già prodotto parecchie associazioni a partire dal cervello, dalla testa e dal cranio (passando per Beckett, Cartesio, Piglia e Agamben, ad esempio). Roth fa così notare che, in "Herzog", il flusso di coscienza di Bellow non è correlato a quelli di Faulkner o di Virginia Woolf (o, quanto meno, non lo è esclusivamente): egli vede maggiore affinità con il "Diario di un pazzo" di Gogol': la principale strategia narrativa condivisa da Bellow e Gogol', scrive Roth, è la scrittura di lettere («Nel racconto di Gogol´, il pazzo entra in possesso di un fascio di lettere scritte da un cane appartenente alla giovane donna di cui si è senza speranza (e follemente) innamorato») così come per Kafka e Felice (attraverso Canetti), così come Sloterdijk e Heidegger (nelle "Regole per il Parco Umano". Nel romanzo di Bellow, scrive Roth, la differenza consiste nell'intensità dell'utilizzo che fa delle lettere, e nella folle libertà con cui il narratore ne seleziona i destinatari: la madre morte, l'amante vivente, la prima moglie, il presidente Eisenhower, il capo della polizia di Chicago, Nietzsche, Heidegger («Caro Doktor Professor […], vorrei sapere che cosa intende con l’espressione “caduta nel quotidiano”. Quando ha avuto luogo questa caduta? Dove stavamo noi quand’è avvenuta?»).
E infine - salvando, in un certo senso, il magistrato Daniel Paul Schreber da Freud, da Lacan e da Deleuze - una lettera a Dio stesso («Quanto ha faticato la mia mente per trovare un senso coerente! Non sono stato troppo bravo. Ma ho desiderato compiere la Tua inconoscibile volontà, prendendo sia essa che Te, senza simboli. Ogni cosa al massimo grado di significanza. Particolarmente se mi spogliava di me»). Sempre commentando "Herzog" di Saul Bellow, Roth scrive: «Questo libro dalle mille delizie non offre delizia più grande di queste lettere, e nessuna chiave più adatta a schiudere l’eccezionale intelligenza di Herzog e a penetrare nelle viscere del caos che ricopre le rovine della sua vita. Le lettere sono la dimostrazione della sua intensità; forniscono il palcoscenico per il suo teatro intellettuale, la solitaria recita in cui è meno probabile che Herzog si ritrovi a fare la parte del buffone.». L'insistenza - tanto di Bellow quanto di Roth (il primo, nel racconto; il secondo, nel commento) - sul tema della lettera, porta a pensare a una conferenza tenuta da Agamben nel 1984, "La cosa stessa", il cui testo è dedicato a Jacques Derrida e alla memoria di Giorgio Pasquali.
In questo saggio, Agamben parla della Lettera VII di Platone, definendolo come «un testo la cui importanza per la storia della filosofia occidentale è ancora ben lontana dall'essere stata adeguatamente valutata.» E a partire da questa lettera (e anche intorno a tutta l'epistolo-grafia platonica) a essere chiamata in causa è tutta la storia della filosofia e, in un certo qual modo, quella del pensiero stesso, se non addirittura la storia della possibilità del pensiero: dopo gli attacchi di Meiners, Karsten e Ast, scrive Agamben, le lettere di Platone «sono state, a poco a poco, espulse dalla storiografia filosofica». Ma nel XX secolo, tuttavia, la tendenza inizia a invertirsi - continua Agamben - e questo sebbene la precedente disconnessione - la resistenza alle lettere in generale - continua a essere evidente, rendendo sempre più difficile il lavoro intorno a queste stesse lettere. Ciò che si è perso, scrive Agamben, è stato «il rapporto vivo tra il testo e la tradizione filosofica successiva, in modo tale che, ad esempio, la VII Lettera, con il suo denso excursus filosofico, ora si presentava come se fosse un blocco montuoso arduo e isolato, alla cui penetrazione si opponevano ostacoli quasi insormontabili». La lettera, del resto, conclude Agamben, trae parte della sua forza proprio dal fatto di essere la testimonianza di un fallimento che ha avuto luogo sul palcoscenico di un teatro intellettuale: «Platone, già vecchio – 75enne – evocava per gli amici di Dione i suoi incontri con Dioniso, insieme alla fallita avventura dei suoi tentativi politici siciliani».
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