mercoledì 3 settembre 2025

Sull'antisemitismo di sinistra!!

Da segnalare che il famoso libro di Danny Trom,  "La promesse et l’obstacle. La gauche radicale et le problème juif" (2007) - a lungo esaurito e disponibile solo a prezzi astronomici sul mercato dell'usato - è stato ora ristampato e si è reso nuovamente disponibile, su ordinazione, presso le vostre librerie e sulle piattaforme online.

«Di solito, gli antisionisti radicali vengono accusati di essere antisemiti e, quando sono ebrei, viene detto loro che fanno così perché sono vittime del fumoso "odio di sé". L'interesse principale del libro di Danny Trom, è quello di spostare la discussione su un terreno ben più complesso: certi buchi che si sono aperti nei muri delle teorie rivoluzionarie, a seguito del fallimento di tutte le rivoluzioni sociali del XX secolo; e i goffi, persino disastrosi, tentativi di porre a essi rimedio. Secondo Trom, invece, la "sinistra radicale" ha semplicemente cambiato il proprio paradigma, adottando un quadro di pensiero vittimistico e utilizzando nuovi concetti, tra cui quello di "escluso" (aggiungerei quello di "senza-... "), rinunciando così a qualsiasi filosofia della storia e a qualsiasi interpretazione scientifica della realtà sociale. È stato questo cambiamento relativo al modello di pensiero che - secondo Trom - ora spinge la "sinistra radicale" a percorrere con fervore la strada, disseminata di insidie, dell'antisionismo, finendo poi talvolta per impantanarsi in certe strade secondarie antisemite o negazioniste. Queste ipotesi meritano di essere, come minimo, anche se ciò significa doverle confutare.»

(dalla recensione di Yves Coleman su "Ni Patrie, ni frontierés")

«Dopo un lungo periodo di eclissi, da circa dieci anni la sinistra radicale è tornata sulla scena pubblica francese. A lungo impantanata in una profonda crisi teorica, oggi sta costruendo un dispositivo in grado di fondare, su nuove basi, una critica radicale e stimolare così un entusiasmo militante che possa sostenerla. Questo libro esplora le operazioni teoriche attraverso le quali la sinistra radicale sta portando a termine questo compito. Nel farlo, esso distingue due modi - paralleli e contraddittori - di superare la crisi della critica: la prima strada, è intrapresa da una sinistra radicale “sociale”, la quale ridefinisce una nuova questione sociale attorno alla figura della vittima sofferente; mentre vediamo che la seconda via è intrapresa da una sinistra radicale definita “politica”, che vuole tracciare una linea di fronte, insieme a quelli che sono i luoghi di una soggettivizzazione sovversiva ad essa adeguata. Ed è su questi percorsi di quella che appare come una critica radicale rigenerata, che ciascuna di esse incontra un ostacolo che deve essere superato. Entrambe le critiche radicali, da parte loro, cercano di circoscrivere tale ostacolo, aggredendolo nei termini determinati dal percorso che hanno scelto. E nel farlo, lo nominano. Arrivando a identificare, in modo approssimativo, ciò che ogni volta ostacola il rilancio della critica, e formulano pertanto un “problema ebraico”. Assolutamente incompatibili tra loro, le due sinistre radicali sembrano tuttavia convergere su un simile punto di intersezione. Qui, le sempiterne accuse di antisemitismo appaiono incapaci di cogliere ciò che è in gioco. Questo perché la critica radicale non pregiudica, né sbaglia: facendo ruotare sé stessa intorno a un'umanità sofferente, o dando la caccia a un agente responsabile della depoliticizzazione, la "critica radicale" fa emergere gli ebrei ponendoli al centro del suo dispositivo teorico in fase di costruzione. Così facendo, la promessa della sinistra radicale francese, pertanto si attualizza sempre più in quanto minaccia rivolta agli ebrei. È questo il fatto di cui questo testo vuole restituire la logica.»

(dalla quarta di copertina di: "La promesse et l’obstacle. La gauche radicale et le problème juif", di Danny Trom)

fonte@Palim Psao

martedì 2 settembre 2025

La Svolta verso il Concreto…

Storia e impotenza politica
- Mobilitazione di massa e forme contemporanee di anticapitalismo [*1] -
di Moishe Postone

   È ben noto come i primi anni '70 abbiano inaugurato un'epoca di massicce trasformazioni strutturali dell'ordine mondiale, spesso descritte come transizione dal fordismo al post-fordismo (o, più precisamente, dal fordismo al post-fordismo e al capitalismo neoliberista globalizzato). Una tale trasformazione della vita sociale, economica e culturale - che ha portato allo smantellamento dell'ordine incentrato sullo Stato, così com'era caratteristico della metà del XX° secolo - è stata tanto radicale quanto lo era stata la precedente transizione dal capitalismo liberale del XIX° secolo alle forme burocratiche del XX°, segnate dall'interventismo statale. Questi processi hanno portato a dei profondi cambiamenti, non solo nei paesi capitalistici occidentali, ma anche nei paesi comunisti, e hanno inoltre portato al crollo dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo, nonché a trasformazioni radicali in Cina. Di conseguenza, sono stati molti coloro che hanno giudicato tali cambiamenti come la fine del marxismo e, più in generale, la fine della validità teorica della teoria critica di Marx. Eppure, questi stessi processi di trasformazione storica hanno, simultaneamente, riaffermato l'importanza cruciale che avevano le dinamiche storiche e i cambiamenti strutturali su larga scala. Questa problematica, che sta al cuore della teoria critica di Marx, è precisamente ciò che sfuggiva alle principali dottrine formulate subito dopo la fine del fordismo: quelle di Michel Foucault, di Jacques Derrida e di Jürgen Habermas. Le recenti trasformazioni, hanno finito per farle sembrare come delle  teorie retrospettive, che avevano incentrato la loro critica sull'epoca fordista, ma che ora non erano più adeguate all'attuale mondo post-fordista. Mettere in luce il problema delle dinamiche e delle trasformazioni storiche, ci consente di guardare da una diversa angolazione alcune importanti questioni. In questo saggio, affronterò innanzitutto quelli che sono oggi i problemi generali dell'internazionalismo e della mobilitazione politica, mettendoli in relazione con i massicci cambiamenti storici degli ultimi trent'anni. Ma prima dirò una parola su alcune altre importanti questioni, che, se considerate sullo sfondo delle recenti trasformazioni storiche mondiali, assumono un significato particolare: vale a dire, la questione del rapporto tra democrazia e capitalismo, e quindi della possibilità della sua negazione storica; più in generale, il rapporto tra contingenza storica (e quindi politica) e necessità, insieme alla questione della natura storica del comunismo sovietico.

   Le trasformazioni strutturali degli ultimi decenni hanno implicato il rovesciamento di prospettiva su quella che sembrava essere solo una logica di rafforzamento del ruolo centrale dello Stato. E pertanto mettono in discussione le concezioni lineari dell'evoluzione storica, sia marxista che weberiana. Tuttavia, alcuni importanti aspetti storici relativi al "lungo XX secolo" [*2] - quali l'ascesa del fordismo, avvenuta sulle rovine del capitalismo liberale del secolo precedente o, più vicina a noi, la fine della sintesi fordista - ci inducono a credere che, sotto il capitalismo, ci possa effettivamente essere un modello generale di evoluzione storica. Questo implica, a sua volta, che il campo della contingenza storica si trova a venir ristretto da questa forma di vita sociale. Le determinanti politiche, come la distinzione tra governi conservatori e socialdemocratici, da sé sole, non sono in grado di spiegare perché, ad esempio, tutti i regimi occidentali, indipendentemente da quale partito sia al potere, dagli anni '50 ai primi anni '70, abbiano ampliato e approfondito le prerogative dello stato sociale, per poi smantellare le sue strutture e i suoi programmi nei decenni successivi. Naturalmente, ci sono delle differenze tra le politiche perseguite da tutti questi governi, ma si tratta di differenze di grado, e non di natura. Sarei pertanto dell'opinione che questi ampi motivi storici trovino in ultima analisi la loro origine nelle dinamiche del capitale, e che essi siano stati in gran parte dimenticati, tanto nelle analisi sulla democrazia quanto nei dibattiti sui rispettivi meriti del coordinamento sociale, avvenuto attraverso la pianificazione o attraverso i mercati. Questi motivi storici implicano un certo grado di costrizione, di necessità storica. Tuttavia, i nostri sforzi per affrontare teoricamente questo tipo di necessità non devono portare alla sua reificazione. Uno dei contributi importanti di Marx, è stato proprio quello di basare questa necessità - cioè questi ampi motivi dell'evoluzione del capitalismo - in maniera storicamente specifica, su delle forme definite di pratica sociale, espresse con l'aiuto di categorie come le merci e il capitale. Nel fare ciò, Marx ha colto questi motivi vedendoli come espressioni di forme storicamente specifiche di eteronomia, le quali restringono il campo delle decisioni politiche e, perciò, quello della democrazia. Dalla sua analisi emerge che il superamento del capitalismo non implica semplicemente il superamento dei freni alla politica democratica, e che derivano dallo sfruttamento e dalla disuguaglianza insiti nel sistema; ma implica anche il superamento di un certo numero di determinati vincoli strutturali che frenano l'azione, estendendo così la sfera della contingenza storica e, correlativamente, anche l'orizzonte della politica. Nella misura in cui scegliamo di appellarci alla categoria sociale critica della "indeterminatezza", ciò dovrebbe essere inteso come un obiettivo dell'azione politica e sociale, anziché come caratteristica ontologica della vita sociale. (È a partire da quest'ultimo punto di vista, che il pensiero post-strutturalista tende a presentarcelo, cosa che può essere vista come se fosse la risposta reificata a una comprensione reificata della necessità storica). Le posizioni che ontologizzano l'indeterminatezza storica, sottolineano il legame tra libertà e contingenza. Tuttavia, esse ignorano i vincoli che il capitale esercita sulla contingenza in quanto forma strutturante della vita sociale, e sono pertanto inadeguate come teorie critiche del tempo presente. Nel quadro che propongo, possiamo rivendicare la nozione di indeterminatezza storica, come ciò che diventa possibile nel momento in cui eliminiamo i vincoli esercitati dal capitale. Il termine "socialdemocrazia", si riferirebbe perciò agli sforzi per porre rimedio alle disuguaglianze, senza però andare oltre il quadro della necessità strutturalmente imposta dal capitale. Sebbene indeterminata, una forma di vita sociale post-capitalista potrebbe emergere solo sotto forma di una possibilità storicamente determinata, generata dalle tensioni interne del capitale, e non sotto forma di un "salto della tigre" [*3], che porta fuori dalla storia.

   Una seconda questione, di carattere generale, sollevata dalle recenti trasformazioni storiche è quella dell'Unione Sovietica e del comunismo; quella del "socialismo reale". Con il senno di poi, ci si potrebbe chiedere se l'ascesa e la caduta dell'URSS non siano state intrinsecamente legate all'ascesa e alla caduta di quel capitalismo centrato sullo Stato. Le trasformazioni storiche degli ultimi decenni ci portano a vedere nell'Unione Sovietica un elemento che ha il suo pieno posto in quella che costituisce una più ampia configurazione storica della formazione sociale capitalistica; per quanto forte possa essere stata l'ostilità tra l'URSS e i paesi capitalisti occidentali. Tale questione, appare strettamente legata a quella degli internazionalismi e di una politica anti-egemonica, che è il tema di questo saggio. Il crollo dell'Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda, hanno reso possibile la riattivazione di un internazionalismo che ha formulato una critica globale. Questo internazionalismo avrebbe però ben poco a che fare con le forme di "internazionalismo" che erano caratteristiche dell'interminabile Guerra Fredda, le quali erano essenzialmente dualistiche e, nella loro forma, nazionalistiche. La loro critica si concentrava solo su uno dei due "campi", e di conseguenza serviva all'ideologia che legittimava l'altro, anziché considerare i due "campi" come i due elementi di un insieme più ampio da criticare. Secondo questo quadro, c'era solo una potenza imperialista, che minacciava il mondo dopo il 1945: vale a dire, il paese leader del "campo" opposto. Questo vale anche per i sostenitori della Cina dopo il divorzio sino-sovietico, con la differenza che stavolta il "campo" dall'altra parte era, ai loro occhi, composto da due potenze entrambe imperialiste: gli Stati Uniti e l'URSS. Nondimeno, la loro critica all'imperialismo era anch'essa dualistica; era la critica di uno dei due campi, formulata dal punto di vista dell'altro. Tuttavia, il primo decennio del XXI° secolo non è stato segnato dal forte emergere di una forma di internazionalismo post-Guerra Fredda. Invece, abbiamo assistito alla rinascita di forme più antiche, post-forme di "internazionalismo" assai simili alla Guerra Fredda, ma svuotate del loro contenuto. Questo saggio presenta alcune riflessioni molto preliminari su questo risorgente "internazionalismo" dualista, inteso come espressione di un'impasse in cui molti movimenti anti-egemonici si sono smarriti. Inoltre, sarà l'occasione per gettare una luce critica sulle diverse forme di violenza politica. L'impasse a cui mi riferisco, è recentemente apparsa in maniera spettacolare attraverso tutta una serie di reazioni a sinistra - negli Stati Uniti come in Europa - dopo l'attacco suicida al World Trade Center dell'11 settembre 2001; ma anche attraverso il carattere delle mobilitazioni di massa contro la guerra in Iraq. Il disastro di questa guerra, e dell'amministrazione Bush più in generale, non dovrebbe oscurare il fatto che, in entrambi i casi, i progressisti si sono trovati di fronte a quello che avrebbe dovuto essere considerato un dilemma: il conflitto tra una superpotenza imperiale aggressiva e un movimento contro-globalista profondamente reazionario, in un caso, e un brutale regime fascista, nell'altro. Eppure è stato fatto ben poco sforzo, in entrambi i casi, per problematizzare questo dilemma, o per tentare di analizzare questa configurazione con la possibilità di formulare ciò che sembrava essere diventato così incredibilmente difficile da concepire nel mondo di oggi: una critica con uno scopo emancipatore. Per fare questo, sarebbe stato necessario sviluppare una forma di internazionalismo che rompesse con i dualismi del quadro della Guerra Fredda, che purtroppo troppo spesso legittimava (qualificando la loro lotta come "antimperialista") degli Stati le cui strutture e politiche non erano più emancipatrici di quelle di molti regimi repressivi e autoritari sostenuti dal governo americano. Invece di rompere con tali dualismi, tuttavia, molti oppositori della politica statunitense si sono appellati esattamente agli stessi inadeguati e anacronistici atteggiamenti politici, e agli stessi quadri concettuali "antimperialisti". Al centro di questo neo-anti-imperialismo si trova una comprensione feticizzata dell'evoluzione storica globale – vale a dire, una comprensione concretistica dei processi storici astratti in termini di politica e di azione. A livello globale, il dominio astratto e dinamico del capitale è stato feticizzato come quello degli Stati Uniti o, secondo un'altra variante, come quello degli Stati Uniti e di Israele. Va da sé che il carattere disastroso, imperiale e imperioso dell'amministrazione Bush ha contribuito enormemente a questa fusione. Ironia della sorte, tuttavia, questa visione del mondo è per molti aspetti la stessa di un secolo prima, tranne per il fatto che la posizione dei sudditi degli Stati Uniti e di Israele era ora occupata dalla Gran Bretagna e dagli ebrei. Per quanto controintuitivo possa essere questo riavvicinamento – tra una critica anti-egemonica contemporanea che pretende di essere di sinistra, e quella che all'epoca era invece una critica anti-egemonica della destra – esso mette tuttavia in luce i punti di contatto tra quelle che sono due concezioni feticizzate del mondo, e ci mostra così che tali interpretazioni hanno conseguenze molto negative per la costituzione di un'adeguata politica anti-egemonica oggi. Questo rinascita del manicheismo – in netto contrasto con altre forme di anti-globalismo; come il movimento anti-sfruttamento degli anni '90 – è stato accompagnato da un ritorno di profonda confusione tra e a proposito della violenza politica che, a suo tempo, ha fatto molto male alla Nuova Sinistra. Il risultato è una forma di opposizione che mette in luce alcune delle difficoltà, incontrate in epoca post-fordista, da quei movimenti anti-egemonici visti nel loro sforzo di formulare una critica adeguata. Questa forma dualistica di opposizione anti-egemonica, non è adeguata al mondo contemporaneo e, in alcuni casi, può persino servire come ideologia per legittimare quelle che un secolo fa sarebbero state chiamate rivalità imperialiste.

   Torniamo prima, per un momento, a quanti, liberali e progressisti, [*4] hanno reagito all'attacco dell'11 settembre. La spiegazione più frequentemente avanzata è stata quella secondo cui questo atto, per quanto atroce, andasse inteso come una risposta alle attività politiche americane, in particolare in Medio Oriente [*5]. Mentre questa violenza terroristica dovrebbe essere intesa come politica (e non semplicemente come un atto irrazionale), la concezione della violenza politica che sta alla base di questi atti è tuttavia del tutto inadeguata. Questa violenza viene qui intesa come se fosse una reazione da parte degli insultati, degli abusati, degli oppressi, e non come un'azione. Sebbene la violenza in sé non sia necessariamente approvata, gli obiettivi politici della forma specifica di violenza utilizzata sono raramente messi in discussione. Al contrario, la violenza viene spiegata (a volte anche implicitamente giustificata) in termini di risposta. Secondo questo schema, esiste un solo attore nel mondo: gli Stati Uniti. Questo genere di ragionamento si concentra sulle lamentele di coloro che commettono tali atti, ma non si inserisce nella griglia dei significati all'interno della quale tali lamentele vengono espresse. Gli atti che scaturiscono da questi significati sono presi semplicemente come se fossero manifestazioni di rabbia, per quanto deplorevoli possano essere [*6]. Non c'è alcuna preoccupazione per la comprensione del mondo che ha motivato una simile violenza, né tantomeno c'è alcuna analisi critica di quel tipo di pensiero politico che si riflette nella violenza deliberatamente diretta contro la popolazione civile. Pertanto, tale ragionamento diventa implicitamente apologetico, invece che politico; vengono fatti ben pochi sforzi per cercare di capire i calcoli strategici in gioco – non tanto quelli degli attentatori suicidi quanto quelli degli uomini che li hanno manovrati – e vengono ignorate le questioni ideologiche. In particolare, appare come un grave errore interpretare in modo ristretto le rimostranze che sono alla base di un movimento come al-Qaedavale a dire, in termini di reazione diretta alle politiche americane e israeliane. Ciò equivale a ignorare troppe altre dimensioni del nuovo jihadismo. Quando, ad esempio, Osama bin Laden parla dell'affronto inflitto ai musulmani 80 anni fa, non si riferisce alla creazione di Israele, ma all'abolizione del califfato da parte di Atatürk (e, quindi, parla della cosiddetta unità del mondo musulmano) nel 1924 – molto prima che gli Stati Uniti mettessero piede in Medio Oriente e che Israele vi si stabilisse. Va notato che la visione che egli esprime è più globale che locale, il che è una delle caratteristiche salienti del nuovo jihadismo, sia che si pensi alle lotte che sostiene (e che trasforma in manifestazioni della stessa e unica lotta) sia all'ideologia che lo anima. E un aspetto importante del carattere globale di questa ideologia, è stato l'antisemitismo. Prendere in considerazione l'antisemitismo, diventa di cruciale importanza quando si affrontano questioni di globalizzazione e anti-globalismo, anche se c'è il rischio di fraintendimenti, poiché i regimi israeliani hanno ampiamente usato l'accusa di antisemitismo, visto come ideologia legittimante, per screditare qualsiasi seria critica alle politiche di Israele. E' naturalmente possibile formulare una critica radicale di queste politiche che non sia antisemita, e, in effetti, sono state fatte molte critiche che soddisfano a questo criterio. D'altra parte, le critiche a Israele non dovrebbero nasconderci il fatto che oggi,  nel mondo arabo-musulmano, esiste un antisemitismo diffuso e virulento. Come cercherò di dimostrare, per la sinistra, l'antisemitismo pone un problema molto specifico. Le conseguenze dell'11 settembre, hanno rivelato fino a che punto i temi antisemiti fossero diventati comuni nel mondo arabo. (Non mi interesserà qui il risorgere dell'antisemitismo in Europa, né l'implicita negazione dell'Olocausto che lo accompagna). Questa ideologia si esprime, ad esempio, attraverso la convinzione, diffusa in Medio Oriente, che solo gli ebrei avrebbero potuto organizzare l'attacco al World Trade Center; ma anche attraverso l'ampia diffusione nel mondo arabo dei Protocolli dei Savi di Sion: il prodotto abietto dello zarismo, diffuso ai quattro angoli del mondo dai nazisti e da Henry Ford durante la prima metà del XX° secolo, il quale pretende di rivelare quale sia la cospirazione ebraica per governare il mondo. La crescente popolarità, sia in termini di intensità che di diffusione, di questo tipo di pensiero cospirazionista globale, ha recentemente trovato spettacolare conferma attraverso - da un lato - la serie televisiva egiziana "Un cavaliere senza cavallo", la quale utilizza i Protocolli come se fossero una fonte storica. E dall'altro, la menzogna medievale che si è diffusa nei media arabi: gli ebrei uccidono bambini non ebrei per usare il loro sangue a fini rituali.

   Questo sviluppo andrebbe preso sul serio. Non dovrebbe essere visto come la manifestazione un po' esagerata di quella che in fondo sarebbe solo una reazione comprensibile alle politiche israeliane e americane, né tantomeno dovrebbe essere messo tra parentesi, nel timore basato su un ragionamento dualistico, secondo cui dargli troppa pubblicità finirebbe per portare solo a un prolungamento dell'occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza. Per coglierne il pieno significato politico, tuttavia, si rende necessaria una comprensione dell'antisemitismo moderno. Da un lato, l'antisemitismo moderno è una forma di discorso essenzializzante che - come tutti gli altri discorsi del genere -  apprende i fenomeni sociali e storici in termini biologici o culturalistici. Ma dall'altro lato, l'antisemitismo si distingue dalle altre forme essenzializzanti - come la maggior parte delle forme di razzismo - per il suo carattere populista e apparentemente anti-egemonico e anti-globalista. Mentre di solito la maggior parte delle forme di pensiero razziale, attribuiscono all'Altro un potere corporeo e sessuale assai concreto, l'antisemitismo moderno invece attribuisce agli ebrei un enorme potere astratto, universale, globale e sfuggente. Al centro dell'antisemitismo moderno, troviamo l'idea degli ebrei visti come una cospirazione segreta internazionale, immensamente potente. Altrove, ho sviluppato l'idea secondo cui il punto di vista antisemita moderno intenda il dominio astratto del capitale – il quale sottomette gli uomini a delle forze misteriose che essi non possono percepire – in termini di dominio da parte dell'"ebraismo internazionale". L'antisemitismo, allo stesso tempo, può tuttavia sembrare anti-egemonico. Ecco perché, cento anni fa, il leader socialdemocratico tedesco August Bebel lo definì il socialismo degli imbecilli. In vista del suo successivo sviluppo, potrebbe anche essere descritto come l'anti-imperialismo degli sciocchi.In quanto forma feticizzata di coscienza della protesta, è tanto più formidabile poiché esso si presenta come l'espressione anti-egemonica di un movimento composto da gente comune che lotta contro una forma di dominio globale e sfuggente. Vorrei cominciare ad analizzare la recente ondata di antisemitismo moderno nel mondo arabo, come se essa fosse una forma feticizzata, e profondamente reazionaria, di anticapitalismo. Considerare questa ondata di antisemitismo, solo come una risposta agli Stati Uniti e a Israele costituisce un grave malinteso. Una simile riduzione all'empirico, finirebbe per spiegare l'antisemitismo nazista semplicemente come una reazione al Trattato di Versailles. Mentre le politiche americane e israeliane hanno indubbiamente contribuito all'ascesa di questa nuova ondata di antisemitismo, gli Stati Uniti e Israele occupano posizioni ideologiche che vanno ben oltre quelli che sono i loro effettivi ruoli empirici. Queste posizioni, devono essere comprese anche alla luce delle massicce trasformazioni storiche che hanno avuto luogo a partire dai primi anni '70, vale a dire, nella transizione dal fordismo al post-fordismo. Un aspetto importante di questa transizione è stata l'ascesa di reti e flussi economici sovranazionali (in contrapposizione a quelli internazionali), che si è accompagnata a un declino in termini di effettiva sovranità nazionale; una crescente incapacità delle strutture statali nazionali (comprese quelle delle metropoli) di gestire i processi economici. Questo ha portato allo smantellamento dello stato sociale keynesiano, in Occidente, e alla caduta degli stati burocratici a partito unico in Oriente. In quel contesto, ci sono stati crescenti divari tra ricchi e poveri, all'interno di ogni paese, così come tra paesi e regioni del mondo. La fine del fordismo ha significato la fine di una fase di sviluppo su base nazionale, e guidata dallo Stato; e questo tanto sulla base del modello comunista, quanto del modello socialdemocratico, o del modello di sviluppo del Terzo Mondo. Ciò ha posto enormi problemi a molti paesi, e ha creato difficoltà concettuali insolubili a tutti coloro che vedevano lo Stato come un agente di cambiamento e di sviluppo positivo. Il crollo della sintesi fordista, a metà del XX° secolo, ha avuto effetti differenziali, variabili da una regione all'altra.

   Com'è noto, il Sud-Est asiatico ha cavalcato l'onda della globalizzazione post-fordista con relativo successo, ed è altrettanto noto anche il catastrofico declino dell'Africa sub-sahariana. D'altra parte, molto meno è stato detto sul precipitoso declino del mondo arabo, rivelato in modo spettacolare dal rapporto delle Nazioni Unite, del 2002, sullo sviluppo del mondo arabo: il reddito pro capite negli ultimi vent'anni si è contratto a un livello solo leggermente superiore a quello dell'Africa sub-sahariana. Anche in Arabia Saudita, ad esempio, il PIL pro capite è sceso dai 24.000 dollari della fine degli anni '70 ai 7.000 dollari dell'inizio di questo secolo. Le ragioni di questo calo sono complesse. Direi che una delle condizioni quadro che spiegano il relativo declino del mondo arabo-musulmano, è stata la radicale ristrutturazione storica già menzionata. Per una ragione o per l'altra, le strutture statali autoritarie associate al nazionalismo arabo fordista del dopoguerra, si sono dimostrate incapaci di adattarsi a queste trasformazioni globali. E potrebbero anche aver indebolito e minato il nazionalismo arabo, ancor più della sconfitta militare del 1967 per mano di Israele. Questo tipo di processi storici astratti, se visti "sul terreno", possono sembrare misteriosi, al di là dell'influenza degli attori locali, e possono generare sentimenti di impotenza. Allo stesso tempo, per tutta una serie di ragioni, i movimenti sociali e politici progressisti che si oppongono allo status quo in Medio Oriente sono stati molto più deboli del previsto, quando addirittura non sono stati sradicati con la violenza, come in Iraq o in Sudan. (A peggiorare le cose, i regimi autoritari laici, sopprimendo questi movimenti, delle due l'una: o si consideravano progressisti nella prospettiva ideologica dominante della Guerra Fredda o, nella migliore delle ipotesi, non erano soggetti a un'analisi critica approfondita da parte della sinistra). Il fallimento, sia del regime nazionalista che di quello arabo "tradizionale", ha provocato un vuoto politico, che ha soppresso in entrambi le opposizioni progressiste. Questo vuoto è stato riempito dai movimenti islamisti, i quali pretendono di spiegare quel declino apparentemente misterioso che le persone nel mondo arabo-musulmano hanno vissuto, e che ha generato un palpabile senso di disillusione e una grande disperazione politica. Un fattore che ha contribuito alla diffusione di questa interpretazione ideologica e reazionaria della crisi di un'intera regione è stato quello relativo al modo in cui, per decenni, la lotta palestinese per l'autodeterminazione è stata usata dai regimi arabi come un'esca per deviare la rabbia e il malcontento delle loro popolazioni. (Ancora una volta, per evitare inutili malintesi, dire che le lotte dei palestinesi sono state strumentalizzate non è screditare). Tuttavia, la tendenza ad attribuire la miseria delle masse arabe (e, sempre più, delle classi medie istruite) a forze malvagie esterne, è stata considerevolmente rafforzata dal recente declino economico del mondo arabo. Il quadro ideologico, già disponibile per comprendere questo declino, era stato formulato da pensatori come Sayyid Qutb, l'ideologo dei Fratelli Musulmani egiziani, che rifiutava la modernità capitalista, vedendola come una manovra degli ebrei (Freud, Marx, Durkheim) finalizzata a  minare le società "sane". Nella sua immaginazione antisemita, Israele finiva per essere semplicemente la testa di ponte di una potente e perniciosa cospirazione globale. Questo tipo di ideologia, è stata sostenuta e incoraggiata dalla propaganda nazista in Medio Oriente, negli anni '30 e '40. Dopo la guerra del 1967, essa ha ricevuto il potente rafforzamento proveniente dall'ideologia sovietica della Guerra Fredda, che ha introdotto motivi antisemiti nella sua critica a Israele, e ha contribuito a diffondere una forma di antisionismo fortemente intrisa di temi antisemiti - fatti di odio specifico e di cospirazione globale - temi che negli ultimi trent'anni si sono poi diffusi ampiamente in tutto il Medio Oriente, e all'interno di alcune correnti di sinistra; specialmente in Europa.

   Tuttavia, questo peso enormemente aumentato e l'estensione del punto di vista antisemita in Medio Oriente negli ultimi decenni, a mio avviso, dovrebbe anche essere visto come la diffusione di una presunta ideologia anti-egemonica di fronte agli effetti negativi e dirompenti di forze storiche apparentemente misteriose. In altre parole, suggerisco che la diffusione dell'antisemitismo e, correlativamente, di forme antisemite di islamismo (come il movimento egiziano dei Fratelli Musulmani e il suo affiliato palestinese, Hamas) dovrebbe essere intesa come la diffusione di un'ideologia anticapitalista feticizzata che pretende di decifrare un mondo percepito come minaccioso. E' del tutto possibile che Israele e le politiche israeliane abbiano gettato benzina sul fuoco e esacerbato questa ideologia, ma la spiegazione principale del suo impatto risiede nel relativo declino del mondo arabo sullo sfondo delle massicce trasformazioni strutturali che accompagnano la transizione dal fordismo al capitalismo globale neoliberista. Il risultato è un movimento populista anti-egemonico che si sta dimostrando profondamente reazionario e pericoloso, se non altro per qualsiasi speranza di politiche progressiste nel mondo arabo-musulmano. Tuttavia, piuttosto che analizzare questa forma reazionaria di resistenza in un modo che avrebbe aiutato a promuovere forme di resistenza più progressiste, molti esponenti della sinistra occidentale l'hanno ignorata, o l'hanno razionalizzata nei termini di una reazione sfortunata ma comprensibile al trattamento di Gaza e della Cisgiordania da parte di Israele. Questa posizione politica fondamentalmente acritica, si riferisce, a mio parere, a un'identificazione feticistica degli Stati Uniti con il capitale mondiale. Questa fusione ha portato a molteplici conseguenze. Uno di questi è il fatto che altre potenze, come l'Unione Europea, non vengono considerate, criticamente, come potenze co-egemoni/concorrenti, in crescita all'interno di un ordine mondiale capitalista dinamico, che attraverso la loro ascesa contribuiscono a ridefinire i contorni dell'odierno potere globale. Al contrario, il ruolo dell'Europa, per esempio, viene messo in attesa, oppure  l'Europa viene implicitamente vista come se fosse un'oasi di pace, di comprensione e di giustizia sociale. Un simile equivoco, è in linea con la tendenza a comprendere l'Astratto (il Dominio del Capitale) in termini concreti (l'egemonia americana); una tendenza questa che, a mio avviso, è l'espressione di un disagio profondo e fondamentale, tanto concettuale quanto politico. Mi si consenta di sviluppare questo punto, riflettendo sulle enormi folle che si sono mobilitate, in tutto il mondo, per protestare contro la guerra in Iraq. A prima vista, queste mobilitazioni sembrano ripetere quelle dei grandi movimenti pacifisti degli anni '60. Però, io direi che ci sono differenze fondamentali tra i due. Soffermarsi su queste differenze può forse far luce sull'attuale impasse della sinistra. Per molti attivisti dei movimenti pacifisti degli anni '60, l'opposizione alla guerra guidata dagli Stati Uniti in Vietnam era intrinsecamente legata a una più ampia lotta per il progresso politico e sociale. A quanto pare, questo è stato anche il caso dei movimenti contro le politiche degli Stati Uniti nei confronti del regime cubano, del governo socialista cileno, dei sandinisti in Nicaragua e dell'ANC in Sud Africa. Ogni volta, gli Stati Uniti sono stati visti come una potenza conservatrice contraria a tali cambiamenti. Le azioni del governo americano contro i movimenti di liberazione nazionale, sono stati tanto più fortemente criticate a partire dal fatto che quei movimenti sono stati visti positivamente. Va notato che, tra coloro che consideravano i movimenti di liberazione nazionale come delle forze progressiste, c'erano importanti differenze.

   C'era un'importante differenza tra coloro che sostenevano questi movimenti perché li vedevano in prima linea nell'espansione del "campo socialista" - e quindi parte della Guerra Fredda - e coloro per i quali invece questi movimenti erano importanti in quanto movimenti di liberazione indigeni che minavano il bipolarismo della Guerra Fredda, ma che il cui rapporto positivo con l'URSS era contingente, era una funzione dell'ostilità americana. Tuttavia, nonostante le loro differenze, i due punti di vista avevano in comune quell'apprezzamento positivo con cui gratificavano, nel contesto globale, questi movimenti di liberazione. Qualunque sia il modo in cui si giudica oggi questa valutazione positiva, ciò che all'epoca caratterizzò i movimenti per la pace della generazione passata, fu che, per molti, l'opposizione alla politica americana era l'espressione di una lotta più generale per il progresso sociale. Le recenti mobilitazioni di massa contro la guerra potrebbero sembrare, a prima vista, dello stesso ordine. Ma, a ben guardare, ci rendiamo conto che in realtà esse sono molto diverse, politicamente. La loro opposizione agli Stati Uniti non avveniva in nome della scelta di una società più giusta. Al contrario, il regime baathista in Iraq – un regime il cui carattere tirannico e brutale superava di gran lunga quelli, ad esempio, delle sanguinose giunte cilene e argentine degli anni '70 e '80 – non poteva in alcun modo essere considerato progressista, nemmeno potenzialmente. Solo alcuni gruppi settari come ANSWER [*7] (che, purtroppo, ha esercitato una certa influenza sul movimento per la pace in generale) si sono spinti fino a sostenere esplicitamente il regime di Saddam Hussein. D'altra parte, questo regime non era, e non è ancora, oggetto di analisi politiche e di critiche approfondite da parte della sinistra. Invece, le argomentazioni pacifiste sono state formulate in un modo tale da ignorare in gran parte gli aspetti negativi del regime iracheno. Ma questo significa che queste recenti mobilitazioni pacifiste non hanno più il significato politico che avevano i precedenti movimenti pacifisti, dal momento che esse non esprimono più alcun tipo di aspirazione al progresso sociale. In realtà, va detto che tutto il discorso sul cambiamento è stato affidato alla destra. Qui, non voglio in alcun modo suggerire che i sostenitori del progresso sociale avrebbero dovuto sostenere l'amministrazione Bush e la sua guerra. Ma le mobilitazioni di massa non hanno né rappresentato, né contribuito a costituire ciò che credo il contesto richiedesse: un movimento di opposizione alla guerra americana che era, allo stesso tempo, un movimento per un cambiamento radicale in Iraq e, più in generale, in Medio Oriente. Negli Stati Uniti, l'educazione politica del pubblico si riduceva generalmente a qualche slogan semplicistico. A questo proposito, è significativo che, per quanto ne so, nessuna delle manifestazioni di massa contro la guerra ha accolto nelle proprie fila i rappresentanti della sinistra irachena in esilio, i quali avrebbero potuto apportare uno sguardo più sfumato e critico sul Medio Oriente. E direi che questo rappresenta, da parte della sinistra occidentale, un fallimento politico rivelatore. Una delle ironie relative alla situazione attuale è che, adottando un punto di vista "anti-imperialista" feticizzato - in cui l'opposizione negli Stati Uniti non è più sostenuta da una lotta per il progresso sociale - i liberali e i progressisti hanno permesso all'ala neoconservatrice dell'amministrazione Bush di appropriarsi, se non di monopolizzare, il discorso tradizionale della sinistra, quello della democrazia e dell'emancipazione. Naturalmente, ci sono tutte le ragioni per credere che, sebbene il regime di Bush abbia parlato di democratizzazione del Medio Oriente, la sua azione non contribuirà realmente a tale scopo. Ciononostante, il fatto che solo l'amministrazione Bush abbia sollevato la questione evidenzia chiaramente il fatto che la sinistra non l'ha fatto.

   Laddove, una generazione fa, l'opposizione alla politica americana implicava un sostegno consapevole alle lotte di liberazione ritenute progressiste, oggi l'opposizione alla politica americana viene, di per sé, considerata anti-egemonica. Paradossalmente, questo va visto in parte come l'eredità avvelenata della Guerra Fredda e della sua visione dualistica del mondo. La categoria spaziale di "campo"-  figura di una versione globalizzata del Grande Gioco - ha sostituito le categorie temporali di possibilità storica e di emancipazione, viste come determinata negazione storica determinata. Ciò non solo ha contribuito a offuscare un'idea di socialismo che va al di là del capitalismo, in quanto fenomeno storico, ma serve anche a distorcere la comprensione degli sviluppi internazionali. Nella misura in cui il campo progressista viene da un quadro spaziale, ed essenzialmente dualistico, ecco che allora il contenuto stesso del termine "progressista" potrebbe, a livello internazionale, diventare sempre più contingente e funzionale all'equilibrio globale del potere. Ciò che la Guerra Fredda sembra aver cancellato dalla memoria, ad esempio, è il fatto che l'opposizione a una potenza imperialista non costituisce necessariamente una posizione progressista: abbiamo visto anche degli "anti-imperialismi" di carattere fascista. La distinzione tra le due cose iniziò a sfumare durante la Guerra Fredda, in parte perché l'URSS si alleò con certi regimi autoritari, specialmente in Medio Oriente, che avevano assai poco in comune coi movimenti socialisti e comunisti; essi erano soprattutto affini al fascismo, piuttosto che al comunismo, e inoltre cercavano di liquidare quella che era loro sinistra stessa. Ecco che così, di conseguenza, l'antiamericanismo è stato etichettato come progressista in sé e per sé, anche se ha sempre assunto forme tanto progressiste quanto  profondamente reazionarie. Com'è possibile che ci siano così tante persone di sinistra – ivi compresi anche coloro che non avevano particolarmente a cuore l'Unione Sovietica – che abbiano adottato il quadro ideologico dualistico della Guerra Fredda, e ne conservino tuttora il guscio vuoto? Come hanno fatto tutte queste persone, attaccate all'idea del progresso sociale, a rimanere bloccate in un vicolo cieco concettuale, dove a loro sembra che le azioni degli Stati Uniti siano l'unica questione politica su scala globale, e che la natura degli altri regimi non abbia alcuna importanza? Vorrei affrontare qui anche questo problema in modo indiretto, facendo una deviazione sulla questione della violenza politica. Come ho già detto, spesso gli analisti che hanno mantenuto una distanza critica dall'immensa ondata di rabbia e nazionalismo che ha travolto gli Stati Uniti dopo l'11 settembre, hanno sottolineato che c'era un'immensa furia diretta contro gli Stati Uniti, specialmente nei paesi arabi e musulmani. Ma questa posizione generale, di solito era solo un modo per evitare di analizzare il tipo di pensiero politico espresso dall'attacco dell'11 settembre. È significativo che un simile attacco non sia stato perpetrato due o tre decenni prima, da quei gruppi che avevano tutte le ragioni per odiare gli Stati Uniti; per esempio, i comunisti vietnamiti, o la sinistra cilena. Cerchiamo di capire che, all'epoca, l'assenza di un attacco di questo tipo non fu affatto una coincidenza; la cosa va vista come un principio politico al lavoro. In effetti, l'idea di un attacco diretto principalmente contro i civili, non faceva parte dell'immaginario politico di quei gruppi. Non basta la categoria della "rabbia" per capire le violenze dell'11 settembre. Bisogna che tutte le forme di violenza vengano intese da un punto di vista politico, e non apologetico. Per fare un esempio: a metà degli anni '80, in Sudafrica, il Comitato Centrale dell'African National Congress si trovava sotto pressione politica interna, a causa di una campagna terroristica contro i civili bianchi. Tale campagna esprimeva un desiderio di vendetta, ma anche l'idea che i sudafricani bianchi avrebbero accettato di smantellare l'apartheid solo il giorno in cui avessero sofferto tanto quanto avevano sofferto i sudafricani neri. Il comitato centrale dell'ANC si rifiutò di accogliere quella richiesta non solo per ragioni tattiche, strategiche e pragmatiche (temendo gli effetti di simili violenze sulla società civile post-apartheid e sul regime), ma anche per dei motivi politici. Si sosteneva che un movimento di emancipazione non assumeva come obiettivo primario le popolazioni civili.

   Vorrei chiarire come ci sia una differenza fondamentale tra quei movimenti che non prendono di mira civili scelti a caso (il Vietminh, i Viet Cong, l'ANC) e quelli che invece lo fanno (l'IRA, Al-Qaeda, Hamas). La differenza non è semplicemente tattica, ma è profondamente politica; esiste una relazione tra la forma della violenza e la forma della politica. Intendo dire che il tipo di società futura e di regime politico, implicitamente espressi dalla prassi politica dei movimenti sociali militanti che distinguono tra obiettivi militari e civili, differisce da quelli impliciti nella prassi dei movimenti che non fanno una simile distinzione. Questi ultimi tendono piuttosto a porre l'accento sulle questioni identitarie. Nel senso più ampio, essi sono radicalmente dei nazionalisti, che operano sulla base di una dicotomia amico/nemico la quale essenzializza le popolazioni civili vedendole come nemici, e che così blocca ogni possibilità di coesistenza futura. È questo è il motivo per cui i programmi politici proposti da tali movimenti hanno ben poco da dire in termini di un'analisi socio-economica che sia volta a trasformare le strutture sociali (strutture che non vanno confuse con quei servizi sociali che tali movimenti possono eventualmente anche fornire). Sotto la guerra, la dialettica tra guerra e rivoluzione, così come si è sviluppata nel XX° secolo, si trasforma in una sussunzione di "rivoluzione". Tuttavia, a interessarci qui, non sono tanto questi movimenti, quanto piuttosto i movimenti di opposizione nelle metropoli contemporanee, e la questione del perché apparentemente tali movimenti abbiano avuto così tante difficoltà a distinguere tra queste due forme così tanto diverse di "resistenza". L'attacco dell'11 settembre 2001, mette in discussione tutta una serie di concezioni relative alla violenza e alla resistenza, che si sono poi diffuse in alcuni segmenti della Nuova Sinistra alla fine degli anni '60 e all'inizio degli anni '70, e questo in modo altrettanto radicale di quanto lo fu l'invasione sovietica della Cecoslovacchia nell'agosto 1968 e, infine, il crollo degli Stati comunisti europei tra il 1989 e il 1991, i quali misero in discussione il leninismo in quanto discorso egemonico, e segnarono così la fine di un percorso che era iniziato nel 1917. Intorno al 1970, possiamo osservare un importante cambiamento politico: vediamo che quella che era allora la Nuova Sinistra si era evoluta, da ampio movimento di resistenza nonviolenta e di progresso sociale a movimento militante frammentato. Alcuni di questi frammenti, cominciarono a glorificare la lotta armata, e persino a perpetrare degli atti violenti. Di conseguenza, crebbe il sostegno ai gruppi come la Provisional IRA (Provisional Irish Republican Army) o il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), sebbene questi gruppi avessero ben poco a che fare coi movimenti comunisti e socialisti che fino ad allora avevano fondato l'identità della sinistra. Sempre più spesso si cominciò a sostenere all'interno e a livello internazionale una forma di violenza radicalmente diversa da quella che era stata prevalente nella sinistra per quasi tutto il XX° secolo. Da allora in poi, il modo in cui la violenza veniva concettualizzata, ha cominciato ad avere molto in comune con la nozione di violenza sostenuta da Georges Sorel all'inizio del XX° secolo. Nelle sue "Riflessioni sulla violenza" [*8], egli presenta la violenza come se fosse un atto purificatore di auto-costituzione diretto contro la decadenza della società borghese.

   Una simile concezione della violenza come un atto redentore di rigenerazione, come espressione politica delle esigenze di una pura volontà, si trovava naturalmente anche al centro delle nozioni fasciste e naziste dell'uomo nuovo e dell'ordine nuovo. Dopo la seconda guerra mondiale, una parte della sinistra ha adottato questo paradigma, a volte attraverso l'esistenzialismo. Questo è stato particolarmente vero a partire dalla fine degli anni '50, e per tutto il decennio successivo, allorché la critica sociale si è sempre più concentrata su delle forme di dominio tecnocratiche e burocratiche, mentre l'Unione Sovietica veniva sempre più percepita come parte di una cultura dominante di razionalità strumentale. È in questo contesto che la violenza ora veniva vista come una forza eruttiva esterna, non reificata, purificatrice, adesso identificata con i colonizzati, e che attaccava le fondamenta stesse dell'ordine esistente. Ironicamente, questa posizione "radicale", questa idea di violenza creativa, purificatrice e rivoluzionaria, esprime e afferma una caratteristica centrale del capitalismo: la sua propensione a rivoluzionare costantemente il mondo attraverso ondate di distruzione che poi permettono la creazione e la continuazione dell'espansione. (Così come fa la nozione liberale dell'attore razionale, dove le nozioni esistenzialistiche e anarchiche dell'auto-costituzione della personalità attraverso la violenza implicano una proiezione sull'individuo di tutto ciò che caratterizza le corporazioni nel sistema capitalista.) Hannah Arendt, ci ha fornito una critica eloquente di quel tipo di concezioni della violenza che si trovano nelle opere di Georges Sorel, di Vilfredo Pareto e di Frantz Fanon [*9]. Secondo Arendt, questi pensatori glorificano la violenza per il gusto della violenza. Spinti da un odio nei confronti della società borghese che è assai più profondo di quello della sinistra tradizionale, per la quale la violenza poteva essere solo un mezzo, nella lotta per una società giusta; Sorel, Pareto e Fanon invece vedevano la violenza come se fosse intrinsecamente emancipatrice in sé, come una rottura radicale con gli standard morali della società. Con il senno di poi, possiamo vedere che il tipo di violenza esistenzialista che sostenevano, se può aver portato a una rottura con la società borghese, non lo ha fatto, tuttavia, con il capitalismo. Infatti, durante le fasi di transizione, da una configurazione storica del capitalismo all'altra, vediamo che è sempre esso che sembra tornare alla ribalta. Seguendo da vicino la Arendt, accennerò brevemente alla rinascita, alla fine degli anni '60, delle glorificazioni della violenza alla Georges Sorel. La fine degli anni '60 è stato un momento chiave della storia, uno di quei momenti in cui la necessità del presente, dell'ordine sociale esistente, è stata radicalmente messa in discussione. Con il senno di poi, possiamo osservare il momento in cui, il capitalismo fordista centrato sullo Stato e la sua controparte "socialista realmente esistente", si sono scontrati con i propri limiti storici. Gli sforzi per superare queste limitazioni, tuttavia, si sono rivelati singolarmente inutili, anche concettualmente. Nella misura in cui la sintesi fordista cominciava a sfaldarsi, nascevano speranze utopiche. Allo stesso tempo, il bersaglio del malcontento sociale, politico e culturale diventava, in maniera esasperante, sempre più sfuggente e diffuso. La pressione per il cambiamento c'era, ma la strada da percorrere era assai poco chiara. A quel tempo, gli studenti e i giovani non erano tanto contro lo sfruttamento, quanto piuttosto contro la burocrazia e contro l'alienazione. Non solo i movimenti operai classici sembravano incapaci di affrontare le questioni più scottanti agli occhi di molti giovani radicali, ma questi movimenti – come i regimi del "socialismo realmente esistente" – sembravano trovarsi immersi fino al collo in ciò contro cui i giovani si stavano ribellando. Di fronte a questa situazione storica senza precedenti, a questa terra incognita politica, molti movimenti di protesta hanno fatto una svolta verso dei concetti familiari, concentrandosi su alcune manifestazioni concrete di dominio, come la violenza militare, o il dominio politico degli Stati di polizia burocratici. Questo cambiamento ha portato a una concezione dell'opposizione in politica che era essa stessa concreta e spesso particolarista (ad esempio, il nazionalismo). Queste concezioni si ritrovavano sia nelle forme concretiste di anti-imperialismo, sia nella crescente insistenza di alcuni sul dominio concreto nei paesi comunisti. Per quanto diverse, persino contraddittorie, queste risposte politiche potessero apparire all'epoca, avevano in comune il fatto di chiudere un occhio sulla natura del dominio astratto del capitale, e lo facevano nel preciso momento in cui il regime del capitale stava diventando meno centrato sullo Stato e, in un certo senso, ancora più astratto.

   La svolta verso la violenza soreliana è stato un momento di questa svolta verso il concreto. La violenza, o l'idea di violenza, veniva vista come l'espressione di una volontà politica, di una capacità storica di agire, la quale si contrapponeva alle strutture della burocratizzazione e dell'alienazione. Di fronte all'alienazione e alla stasi burocratica, la violenza era vista come creativa, e l'azione violenta, in sé, era ora vista come rivoluzionaria. Nonostante l'associazione della violenza con la volontà politica, tuttavia, direi, con Arendt, che questa nuova glorificazione della violenza, dalla fine degli anni '60 in poi, è stata il risultato di un grave fallimento della capacità di agire nel mondo moderno. In altre parole, essa esprimeva una disperazione di fondo a proposito della reale efficacia della volontà politica, della capacità di agire politicamente. In una situazione storica di accresciuta angoscia, la violenza ha espresso la rabbia dell'impotenza, e allo stesso tempo ha contribuito a reprimere questo suo sentimento di impotenza. È diventato un atto di auto-costituzione in quanto outsider, in quanto Altro, piuttosto che come uno strumento di trasformazione. Tuttavia, concentrandosi sulla stasi burocratica del mondo fordista, essa ha aggiunto la sua pietra alla distruzione di questo mondo che veniva attuato da parte della dinamica del capitale. L'idea di una trasformazione radicale venne così messa da parte, e sostituita dalla nozione più ambigua di Resistenza. Tuttavia, però, la nozione di resistenza dice ben poco sulla natura di ciò a cui si resiste, o sulle strategie che si mettono in atto; in altri termini, sul carattere delle forme determinate di critica, di contestazione, di ribellione e di "rivoluzione". Spesso,la nozione di resistenza esprime una visione profondamente dualistica del mondo, che tende a reificare sia il sistema di dominio sia l'idea della capacità di agire. Raramente essa si basa su un'analisi riflessiva delle possibilità di cambiamento radicale. sia che esse siano aperte o che vengano chiuse da un ordine dinamico eteronomo. In questo senso, manca di riflessività. Si tratta di una categoria non dialettica, che non apprende le proprie condizioni di possibilità, vale a dire, che non riesce a comprendere il contesto storico dinamico cui appartiene. Inoltre, offusca delle importanti distinzioni tra delle forme di violenza che sono politicamente molto diverse. Quello che ho caratterizzato come una svolta verso il concreto, a fronte del dominio astratto, è, naturalmente, una forma di reificazione. Essa può assumere molte forme. Due sono emerse con notevole forza negli ultimi 150 anni: la fusione dell'egemonia britannica (e poi americana) con l'egemonia del capitale mondiale, e la personificazione di quest'ultima da parte degli ebrei. Questa svolta verso il concreto, unita a una visione del mondo fortemente influenzata dai dualismi della Guerra Fredda (anche tra coloro che a sinistra criticavano l'Unione Sovietica), ha contribuito a costituire il quadro di comprensione in cui si inscrivono oggi le mobilitazioni di massa contro la guerra; un quadro in cui l'opposizione alla superpotenza non indica nemmeno implicitamente il desiderio di una trasformazione emancipatrice. in Medio Oriente, ancora meno che altrove. Una simile comprensione reificata si traduce così in un tacito sostegno a dei movimenti e a dei regimi che hanno ben più in comune con le vecchie forme di ribellione reazionaria – persino fascista – di quanto ne abbiano con qualsiasi cosa che potremmo chiamare progressista. Ho descritto quello che  appare come un vicolo cieco della sinistra contemporanea, che ho cercato di mettere in relazione con una forma di pensiero e di sensibilità reificata che esprime la disintegrazione della sintesi fordista tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70.

   Questa impasse, a mio avviso, costituisce il segno di una complessa crisi della sinistra, legata alla consapevolezza che la classe operaia industriale non era, e non sarebbe mai diventata, un soggetto rivoluzionario. Allo stesso tempo, questa crisi era legata alla fine dell'ordine incentrato sullo Stato. Il potere dello Stato come agente di cambiamento sociale e democratico, veniva minato, e l'ordine mondiale si stava spostando da una configurazione internazionale a una sovranazionale. Vorrei sottolineare brevemente un ulteriore aspetto della reificazione che accompagna l'impasse della sinistra di fronte al crollo del fordismo. I governi statunitensi che si sono succeduti hanno, naturalmente, promosso un capitalismo neoliberista globalizzato. Confondere completamente l'ordine mondiale neoliberista con gli Stati Uniti, sarebbe tuttavia un errore colossale, sia politicamente che teoricamente. Alla fine del XIX° e all'inizio del XX°, il ruolo egemonico svolto dalla Gran Bretagna e l'ordine mondiale liberale vennero messi in discussione da parte del crescente potere di un certo numero di Stati-nazione, primo fra tutti la Germania. Queste rivalità, che culminarono in due guerre mondiali, sono state generalmente descritte come delle rivalità imperialiste. Oggi, potremmo essere testimoni dell'inizio di una nuova era di rivalità imperialiste, a un livello nuovo e più ampio. Ad esempio, sembra che ci siano aree di tensione permanente tra le potenze atlantiste e un'Europa continentale organizzata attorno a un condominio franco-tedesco. La guerra in Iraq può, in parte, essere vista come una prima salva che apre le ostilità. Proprio come un secolo fa i tedeschi cercavano di sfidare l'impero britannico costruendo la linea ferroviaria Berlino-Baghdad, oggi, più vicino a noi, il regime baathista iracheno era sulla buona strada per diventare il protetto della coppia franco-tedesca. Molto significativamente, nel 2000, l'Iraq di Saddam Hussein è stato il primo paese a sostituire il dollaro con l'euro, nelle transazioni petrolifere. Questa sostituzione equivaleva, ovviamente, a contestare la posizione del dollaro come valuta mondiale. Il problema non è se l'area dell'euro rappresenti un progresso o una regressione rispetto agli Stati Uniti. Piuttosto, sta nel fatto che questa iniziativa, e la reazione americana che ne è seguita, possono essere visti come i primi segni di rivalità intra-capitalista su scala globale. In questo momento,"l'Europa" sta cambiando il suo significato. Ora viene costruito come se fosse una possibile contro-egemonia contro gli Stati Uniti. Il tentativo degli Stati Uniti di riprendere il controllo del Golfo Persico e del suo petrolio dovrebbe essere inteso come "preventivo", ma in un senso diverso da quello che - sia gli ideologi dell'amministrazione Bush che i loro oppositori - hanno dato a questo termine. L'iniziativa americana è, a mio avviso, un attacco preventivo contro il possibile emergere dell'Europa, o della Cina (o di qualsiasi altra potenza), in quanto superpotenza rivale, sia militarmente che economicamente: in altre parole, come rivale imperiale. Questo ritorno delle rivalità imperialiste esige che ci si rivolga nuovamente a forme di internazionalismo non dualiste. Per quanto discutibile possa essere l'attuale amministrazione americana – ed è profondamente discutibile su molti punti – la sinistra dovrebbe stare particolarmente attenta a non fungere involontariamente da uomo di paglia al servizio di una potenza rivale che aspira all'egemonia. Alla vigilia della prima guerra mondiale, lo Stato Maggiore tedesco considerò importante per la Germania che la guerra fosse condotta contro la Russia, così come contro la Francia e la Gran Bretagna. Essendo la Russia la potenza europea più reazionaria e autocratica, questa guerra potrebbe quindi essere presentata come la guerra della cultura dell'Europa centrale contro l'oscura barbarie della Russia, il che giustificherebbe l'appoggio dei socialdemocratici alla guerra. Questa strategia politica è stata coronata da successo e ha portato al disastro per l'Europa in generale e per la Germania in particolare. Siamo molto lontani da una situazione di vigilanza simile a quella del 1914. Tuttavia, la sinistra dovrebbe stare attenta a non commettere lo stesso errore sostenendo, nella sua volontà di difendere la civiltà contro la minaccia posta da un potere reazionario, anche implicitamente, l'ascesa dei contro-egemoni. Per quanto complesso sia il compito di afferrare e affrontare il capitale globalizzato, è di cruciale importanza ripristinare e riformulare l'internazionalismo su scala globale. Conservare, in una forma reificata, l'immaginario politico dualistico della Guerra Fredda, corre il rischio di mettere in atto una forma di politica che, dal punto di vista dell'emancipazione umana, sarebbe, nel migliore dei casi, discutibile, indipendentemente dal numero di persone che potrebbe eccitare.

- Moishe Postone - 24 aprile 2017 – su  

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

NOTE:

[1] Ed.: "Storia e impotenza: mobilitazione di massa e forme contemporanee di anticapitalismo", pubblicato in Public Culture, vol. 18, n. 1, 2006.

[2] Nota dell'editore: un'allusione al "lungo diciannovesimo secolo" definito da Eric Hobsbawm.

[3] Nota dell'editore: Allusione a Walter Benjamin, "Sul concetto di storia" (1940), in Œuvres III, trad. M. de Gandillac, P. Rusch e R. Rochlitz, Gallimard, 2000, p. 439.

[4] Nota dell'editore: Liberal, negli Stati Uniti, si riferisce alla "sinistra" socialdemocratica.

[5] I seguenti articoli sono buoni esempi: Naomi Klein, "Game Over", Nation, 1 ottobre 2001; Robert Fisk, "Terrore in America", Nation, 1 ottobre 2001; Noam Chomsky, "Una reazione rapida", Counterpunch, 12 settembre 2001; Howard Zinn, "La violenza non funziona", Progressive, 14 settembre 2001.

[6] L'assenza di un'analisi critica approfondita di movimenti come al-Qaeda o Hamas, o di regimi come quelli del Baath in Iraq o in Siria, suggerisce che il discorso del "chi semina vento miete tempesta" contiene, di fatto, la proiezione, sugli attori del Medio Oriente, della contestazione e della critica occidentale alle politiche americane. La sofferenza e la miseria di questi attori sono prese sul serio, ma il loro pensiero politico e le loro ideologie sono spazzati sotto il tappeto.

[7] Nota dell'editore: acronimo di Act Now to Stop War and End Racism, una nebulosa di organizzazioni pacifiste e per i diritti civili formatasi negli Stati Uniti dopo l'11 settembre.

[8] Nota dell'editore: Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza, Parigi, Seuil, 1990 (1a edizione 1908).

[9] Nota dell'editore: Cfr. Hannah Arendt, Dalla menzogna alla violenza. Essais de politique contemporaine, trad. G. Durand, Parigi, Calmann-Lévy, 1972 (1970).

domenica 31 agosto 2025

Interlocutori e non…

La schiacciante responsabilità di Hamas per la catastrofe palestinese
- Jean-Pierre Filiu  -

Il nazionalismo palestinese, ha sempre sofferto di uno schiacciante rapporto di forza a favore del movimento sionista, prima,  e dello Stato di Israele, dopo. È tuttavia assai discutibile voler eludere la responsabilità di alcuni leader palestinesi in quei due disastri storici che sono stati la Nakba - la "catastrofe" del 1948 -  con l'esodo di oltre la metà della popolazione araba della Palestina, e la catastrofe in corso, in una Striscia di Gaza già devastata. In entrambi i casi, i movimenti palestinesi - in aperta lotta contro altre fazioni palestinesi - hanno anteposto i propri interessi di parte alla causa nazionale che pretendevano di difendere. In entrambi i casi, hanno commesso, più che un crimine, un errore strategico: Haj Amin Al-Husseini associandosi al nazismo nel 1941, e Hamas perpetrando il massacro del 7 ottobre 2023. Nel 1917 il Regno Unito si impegnava a sostenere «la creazione, in Palestina, di una patria nazionale per il popolo ebraico», e tre anni dopo riceveva dalla Società delle Nazioni un mandato su questo territorio, fino ad allora ottomano. La popolazione araba, maggioritaria al 90%, si opponeva categoricamente a quella che percepiva come una spoliazione. Le autorità britanniche aggirarono questo ostacolo creando, nel 1921, la carica di «gran muftì di Gerusalemme», che venne assegnata a Haj Amin Al-Husseini.

Rilanci massimalisti
Riuscirono così a dividere il nazionalismo palestinese, riducendolo dapprima alla sua dimensione islamica, e poi mettendo i sostenitori di Husseini contro quelli di Nashashibi, loro tradizionali rivali. Furono queste manovre a favorire la repressione della rivolta araba del 1936-1939. Husseini, esiliato nel 1937, quattro anni dopo si mise al servizio di Adolf Hitler, proprio mentre la popolazione palestinese sosteneva in maggioranza le democrazie, contro l'Asse. Tuttavia, quello che si impone nuovamente, nel 1945, alla guida del nazionalismo palestinese, è un Husseini vendicativo che, con le sue esagerazioni massimaliste, eclissa i suoi concorrenti. Non solo offuscò con il suo discredito personale la causa del suo stesso popolo, ma nel 1947 rifiutò il piano di spartizione della Palestina tra uno Stato ebraico e uno arabo, precipitando così la popolazione palestinese in un conflitto disastroso. È illuminante il parallelo con gli islamisti della Striscia di Gaza, che a partire dal 1967 l'esercito di occupazione israeliano favorisce, a scapito dei nazionalisti dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Furono questi stessi islamisti che, passando da un estremo all'altro nel 1987, fondarono Hamas, dedito alla distruzione di Israele, mentre invece l'OLP si impegnava a riconoscere Israele, riaprendo così la strada alla “soluzione dei due Stati”. Lo scisma inter-palestinese culmina così con la rottura del 2007, tra Hamas, padrone di Gaza, e l'Autorità Palestinese (AP), che gestisce parte della Cisgiordania per conto dell'OLP.

Salvare Hamas, piuttosto che Gaza
Benyamin Netanyahu - primo ministro dal 2009 al 2021, e poi dal 2022 - fa di tutto per approfondire il divario tra l'interno della Striscia di Gaza, assediata da tutte le parti, e la Cisgiordania, che viene così consegnata alla colonizzazione. Ma il 7 ottobre 2023 Hamas infligge a Israele quello che è il giorno più sanguinoso della sua storia. Attuando questa serie di massacri, gli islamisti sperano di riuscire a soppiantare l'OLP pacifista all'interno del nazionalismo palestinese. Sono consapevoli del fatto che le rappresaglie israeliane saranno terribili, e si sono preparati proteggendo il loro apparato, ma senza alcun riguardo per la popolazione lasciata senza alcuna difesa.
Ecco perché l'offensiva israeliana si trasforma assai rapidamente nella distruzione di Gaza, piuttosto che di Hamas, che ai fini del suo dominio islamista, approfitta persino della liquidazione, nella società palestinese, dei contro-poteri universitari, culturali e associativi. Quanto a Netanyahu, egli fa il gioco di Hamas, tanto più che esclude qualsiasi ripristino dell'Autorità Palestinese a Gaza, proprio per impedire il rilancio della "soluzione dei due Stati".

Questo rifiuto di una prospettiva politica, rende così Hamas l'unico interlocutore palestinese di Israele per quel che riguarda Gaza, anche se nell'ambito di colloqui indiretti sotto l'egida del Qatar, sostenuto dagli Stati Uniti e dall'Egitto. In tal modo, il movimento islamista rimane al centro della scena palestinese, e questo malgrado l'eliminazione della maggior parte dei suoi leader politici e militari, sostituiti però da dei responsabili che sono ancora più intransigenti. Il fatto che i negoziati ignorino il futuro di Gaza, per concentrarsi sugli scambi tra gli ostaggi israeliani e i detenuti palestinesi, accentua ulteriormente questo vantaggio degli estremisti di Hamas. Nel mese di maggio, uno dei loro portavoce, esiliato in Qatar, ha espresso senza mezzi termini la loro inquietante indifferenza per le sofferenze dei loro compatrioti: «I grembi delle nostre donne daranno alla luce molti più figli di quelli che sono morti da martiri». Una dichiarazione così provocatoria, che ha suscitato, nella Striscia di Gaza, tutta una serie di spontanee manifestazioni di protesta contro Hamas, le quali però sono state rapidamente soffocate proprio dal proseguimento dei bombardamenti israeliani. Quando le truppe israeliane, a Beirut, nell'estate del 1982, assediarono l'OLP, il suo leader, Yasser Arafat, accettò di venire evacuato insieme a migliaia di combattenti, in modo così da abbreviare le sofferenze dei civili. Al contrario, Hamas, a quasi due anni dall'inizio del conflitto in corso, continua a far prevalere i propri interessi di partito su quelli di una popolazione sempre più in difficoltà. Non c'è dubbio che il verdetto della storia contro gli islamisti palestinesi, sarà inappellabile. Per ora, tuttavia, sono le donne, gli uomini e i bambini di Gaza a morire.

- Jean-Pierre Filiu - Pubblicato su Le Monde del 31/8/2025 -

giovedì 28 agosto 2025

Discutendo…

Seminario 2025: Postcolonialismo – Decolonialismo – Nuova Crisi - Imperialismo
Data: 17.-19. Ottobre 2025

Attualmente, il postcolonialismo e il decolonialismo sono delle questioni importanti. Mentre il postcolonialismo è stato egemonico dagli anni '80 in poi, a partire dagli anni 2010 si è parlato sempre più di decolonialismo.
Le differenze tra i due termini, non sempre sono così chiare. Detto in parole povere, il postcolonialismo riguarda la problematizzazione, in un contesto universitario, delle strutture di potere coloniale e la decostruzione delle identità culturali.
Mentre, al contrario, il decolonialismo si presenta sotto forma di movimenti anti-accademici e sociali, al di fuori dell'università, che stanno venendo alla ribalta, sebbene con giustificazioni accademiche.
Di solito, quelle che vengono tralasciate sono le critiche ai subalterni. Di conseguenza, Neil Larsen scrive: "Ovviamente, Il postcoloniale non si presta molto bene alla...formazione di slogan".
E intitolando il suo testo come "Il gergo reazionario della decolonialità", mantiene così come sfondo la critica di Adorno al "gergo dell’autenticità" (Jacobin, 29.12.2023) .
Quest' anno, il seminario di Exit! riguarda principalmente l'esame delle teorie postcoloniali e decoloniali, viste sullo sfondo dell'odierna crisi sociale globale. Alla fine del seminario, a partire dallo sviluppo oggettivo della crisi, verrà chiarita la differenza tra quello che oggi è un nuovo imperialismo di crisi, e l'imperialismo "classico" del passato; qualcosa di cui le prospettive postcoloniali e decoloniali non hanno ancora cominciato a prendere appieno in considerazione. Manca loro una concezione della totalità sociale (mondiale), che dovrebbe invece dare spazio anche a una prospettiva ideologica riguardo al mondo della vita, e non essere riferita solamente a quella politico-economica; che è invece ciò di cui si occupano in particolare gli approcci decoloniali. Al di là degli essenzialismi, dovrebbe essere necessario includere -  last but not least - degli approcci in termini di critica della dissociazione-valore, visti nel contesto di una prospettiva di totalità che si trova ora a essere giustamente frammentata, per quanto riguarda il suo contenuto, e non nella sua apparente esistenza immediata.

Venerdì 19.00 – 21.30
- L'abolizione dell'uomo bianco (Robert Kurz) -

Già nel suo saggio del 1993, "L'abolizione dell'uomo bianco", Robert Kurz ha affrontato il tema del colonialismo e dell'anticolonialismo. In quel testo, secondo la sua tesi, egli vedeva la minoranza degli uomini bianchi come gli esecutori della logica e della razionalità delle merci. Sullo sfondo della critica del valore e della scissione-valore, Kurz perviene alla seguente conclusione: «Le forze produttive, spinte dal sistema di mercato stesso, intervengono in maniera così profonda in quella che è la struttura interna dei bisogni umani, e nella natura esterna del suolo, dell'aria, dell'acqua, della flora e della fauna al punto che questi contenuti sensibili non possono più essere ulteriormente soppressi e/o violati. Ma questo significa anche che il precedente movimento di emancipazione dei lavoratori salariati, e degli ex popoli coloniali, ha raggiunto i propri limiti. E anche questi non potranno andare lontano, se continueranno ad adottare il modello sociale dell'uomo bianco... Quelle stesse forze produttive che hanno prodotto la crisi ecologica, e la crisi delle relazioni di genere, sotto forma del sistema di mercato, stanno ora generando quella che appare come una disoccupazione di massa globale. Si tratta infatti delle stesse forze produttive che hanno generato il mercato mondiale totalizzato, intrappolando globalmente l'umanità. Così, oggi, il vecchio nazionalismo liberatorio del movimento anticolonialista gira a vuoto. Le guerre di genere, le catastrofi sociali ed ecologiche, il fondamentalismo pseudo-religioso e le guerre civili etniche ci mostrano il modo in cui il mondo occidentalizzato deraglia. Le forme sociali occidentali, plasmate nell'Età delle Scoperte, non sono sufficientemente avanzate per poter incorporare quello che è quel Mondo Unico di cui esse sono il loro stesso prodotto... In tal senso, la fine effettiva della colonizzazione esterna e interna si trova ancora davanti a noi e, se vista come obiettivo per il XXI secolo, può essere riassunta in una breve formula: "Soppressione e conservazione dell'uomo bianco.» Il saggio, in versione sintetica, verrà presentato da Roswitha Scholz.

Sabato 10.00 – 12.30
- Dopo il postcolonialismo è prima della decolonizzazione (Justin Monday) -

Ultimamente, si è cominciato di nuovo a decolonizzare. Non ancora totalmente, ma assai presto, non appena il precariato accademico avrà trasferito, dai seminari di letteratura ai libri di testo, la «grammatica della decolonialità» di Walter Mignolo. Il postcolonialismo, che nelle pagine culturali viene ancora considerato come l'ultima moda, sembra essere stato più che altro un malinteso. Il fatto che «l'abolizione delle amministrazioni coloniali equivalesse a una decolonizzazione del mondo», avrebbe dovuto essere «uno dei miti più potenti del XX secolo». Ma tutto questo ha piuttosto portato al «mito di un mondo “postcoloniale”». Quanto meno è questo, ciò che afferma Ramón Grosfoguel, che, insieme a Mignolo è un altro dei grandi nomi del genere. Tuttavia, il grido della scena postcoloniale, che avrebbe potuto facilmente interpretare questa assurdità a-storica come se fosse un attacco identitario, non si è levato. Esso, al contrario, viene considerato come se si trattasse di un buon complemento di tutto ciò che si è scritto negli ultimi anni. Dopo tutto, sono essi stessi che non hanno alcuna idea del perché l'ordine gerarchico e le istituzioni del capitale mondiale, chiaramente colpite dalla crisi, debbano ora essere chiamate postcoloniali. Dopotutto, le pietre miliari di questo sconvolgimento storico mondiale - come l'indipendenza dell'India e del Pakistan dall'Inghilterra - risalgono ormai già a più di 75 anni fa; e tutto questo non è stato davvero privo di eventi. Potrebbe quindi essere il momento di un nuovo concetto che definisca la costituzione politica del capitale mondiale in modo tale che la condizione delle ex colonie venga così ricondotta alle attuali forme sociali. Tuttavia, non sembrerebbe che lo spettro postcoloniale possa raggiungere un tale obiettivo. Per questo motivo, la conferenza affronterà, attraverso un'analisi critica dell'ideologia, la questione di come si è costituita la teoria postcoloniale, che andrebbe presa assai più sul serio, rispetto alla neolingua decoloniale, e del perché ora essa si trovi in difficoltà.

Sabato: 15.30 – 18.00
- Senza la nozione di una totalità sociale (globale) nella crisi, non c'è liberazione.  Sul "Contro-discorso della modernità" di Enrique Dussel, come filosofia ed etica della liberazione (Herbert Böttcher) -

Nato in Argentina nel 1934,  nel contesto latinoamericano, lo storico, filosofo e teologo argentino-messicano Enrique Dussel è un teorico influente. Ciò è dovuto al fatto che il suo pensiero è multidisciplinare ed è plasmato dalla visione dell'America Latina che viene vista come un luogo alla periferia economica, politica e culturale; un luogo che si trova al di fuori del campo visivo dei centri ma che è molto dominato da essi. Nella prospettiva di un luogo così originale, Dussel ha progettato la sua "Filosofia della Liberazione". Attualmente, nel contesto della discussione che verte intorno a una visione postcoloniale-decoloniale del capitalismo e della modernità influenzata dall'Europa, si fa sempre riferimento alla "Filosofia della liberazione" di Dussel. La sua prospettiva pratica ed etica appare attraente. La conferenza si concentrerà sul ricorso, che fa Dussel, alle culture indigene dell'America Latina, e alle tradizioni di pensiero radicate nella filosofia europea (da Cartesio a Levinás, dall'Io all'Altro, e alla sua esteriorità). A partire dalla una riflessione sui loro contesti politico-economici e culturali, egli sviluppa il suo "contro-discorso sulla modernità", il quale prende forma come una "filosofia della liberazione", che a sua volta Dussel delinea come "etica della liberazione", sulla scia di Levinás. Nella presentazione, diventerà chiaro come, malgrado il peso che egli attribuisce alla contestualizzazione politico-economica della propria riflessione, egli rimane bloccato in quelle che sono le categorie marxiste tradizionali (lavoro contro capitale, governanti contro oppressi, ecc.). Egli accusa l'inziale"Teoria Critica" di aver rotto con queste norme, e averne ignorato il suo concetto di totalità sociale. Di conseguenza, Dussel non è in grado di sviluppare un concetto di totalità sociale (globale), e certamente non può riflettere su quello che è il suo carattere di crisi. Piuttosto, va a cercare rifugio in un'etica dell'esteriorità, la quale appare eticamente orientata verso l'altro anziché verso sé stessi, finendo così in una trasformazione sociale che viene propagandata come democratizzazione. Tutto ciò può piacere agli attivisti accademici e ai polemisti, ma non è in grado di rompere, in maniera emancipatrice, con quelle relazioni che, nella crisi, stanno collassando, e che tuttavia continuando a essere ancora caoticamente "dominanti".

Sabato 19.00: Assemblea generale

Domenica 10.00 – 12.30
- Che cos'è l'imperialismo di crisi? E in che modo esso differisce dall'imperialismo classico delle epoche precedenti? (Tomasz Konicz) -

L'imperialismo di crisi, è la persecuzione del dominio statale - realizzato per via economica, politica o militare - nell'epoca della contrazione del processo di valorizzazione del capitale. Gli apparati statali dei centri del sistema mondiale, stanno lottando per il dominio nel contesto di una crisi sistemica alimentata da dei continui progressi nella produttività; cosa che, da un lato, produce vere e proprie regioni di terra bruciata, economicamente ed ecologicamente, soprattutto nella periferia, mentre, dall'altro lato, rende impossibile l'emergere di un nuovo regime di accumulazione, nel quale il lavoro salariato dovrebbe essere valorizzato in massa nella produzione di merci. Questo processo di crisi, si trova a essere accompagnato da un debito che sta crescendo più velocemente di quanto faccia la produzione economica mondiale e, come dimostrano le crisi dei rifugiati degli ultimi anni, sta così portando alla nascita di un'umanità economicamente superflua. Tutto ciò mostra anche quale sia la differenza fondamentale rispetto all'imperialismo delle epoche precedenti,dal momento che quello avveniva in una fase storica dell'espansione del capitale – a partire dall'Europa nel XVI secolo – la quale era guidata proprio dallo sfruttamento omicida di massa del lavoro e delle risorse. Nella presentazione, questa tesi verrà spiegata in maniera più dettagliata.

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Ostello della gioventù Mainz, Otto-Brunfels-Schneise 4, 55130 Mainz
In treno: dalla stazione ferroviaria principale, prendere le linee di autobus 62 e 63 in direzione Weisenau-Laubenheim, fermata "Am Viktorstift/Jugendherberge".
In auto: dalla circonvallazione A60 Magonza-Darmstadt, uscita Weisenau/Großberg in direzione del centro città/Volkspark.

Costi di partecipazione a persona con alloggio e pasti: i posti disponibili sono 19
da venerdì a domenica: camera a 2 letti, doccia/WC: (12 posti), 90 € a persona; zamera a 1 letto, doccia/WC: (7 posti) 110 € a persona.
Partecipazione solo al seminario, costo della conferenza: 20 €. Partecipazione al solo seminario, incl. pensione completa: 40 €.
Fatecelo sapere di conseguenza! Si prega di non versare le quote di partecipazione in anticipo, ma di portarle in contanti.
Se non si desidera pernottare nella casa, ma si desidera consumare lì determinati pasti, si prega di indicare quali (colazione, pranzo, caffè pomeridiano, cena) al momento della registrazione.
I partecipanti che non desiderano pernottare nell'ostello della gioventù sono pregati di organizzare autonomamente un pernottamento esterno.
La direzione dell'ostello della gioventù ci ha messo a disposizione l'Hotel Stiftswingert (Am Stiftswingert 4; Tel. 06131-982640) e l'Hotel Ibis (direttamente presso la Südbahnhof; Holzhofstr. 2, tel. 06131-2470);
la Conference House si trova a pochi passi da entrambi.
Se non puoi permetterti la quota di partecipazione, non devi perdere il seminario: in questo caso, ti preghiamo di contattarci al momento dell'iscrizione per ottenere uno sconto!

Registrazione: si prega di indicare al momento della registrazione se si desidera mangiare cibo vegetariano.
Iscrizione via e-mail a: seminar@exit-online.org

martedì 26 agosto 2025

Nessuna Lacrima per la Nazione !!

La Fine dell'Economia Nazionale
- di Robert Kurz -

Che, alla fine del ventesimo secolo, il cosiddetto capitalismo speculativo della simulazione si trovasse nel bel mezzo di un rapido processo di decomposizione e di dissoluzione categorica, era già chiaro sotto molti aspetti. Non solo  il contesto sociale si era dissolto in un'atomizzazione  mai vista prima, e non solo c’erano intere parti del mondo che stavano già sperimentando un collasso della civiltà per mezzo di grandi crolli economici; ma stava vacillando anche la nazione borghese, categoria essenziale della socializzazione capitalistica. Se la nazione era stata inventata solo nel corso della storia della modernizzazione capitalistica, ecco che ora, alla fine di questa storia, essa esplodeva anche al proprio interno: e anche sotto questo aspetto, l'economia fuori controllo del capitalismo in crisi, faceva saltare in aria la "bella macchina", e distruggeva il suo stesso sistema di riferimento. È chiaro che, naturalmente, non c'è alcun bisogno di versare lacrime per la nazione. Fin dall'inizio, essa è sempre stata un costrutto macchiatosi del sangue della competizione capitalistica, della repressione sociale, e dell'esclusione in tutti i sensi. Questa forma distorta di un falso "noi", è sempre servita a disorientare e ad addomesticare i movimenti sociali, al fine di legare a essa le vittime della "bella macchina", per mezzo di una lealtà irrazionale. Tuttavia, il ritrarsi dello Stato, vale a dire, il decomporsi della nazione in un cieco "processo naturale" di capitalismo in crisi, non porta alla libertà sociale, ma piuttosto agli orrori della desocializzazione. Al posto del distruttivo "noi" nazionale, non emerge alcuna nuova forma sociale, ma quel che vediamo è solo il regime di terrore economico dell'economia imprenditoriale e delle sue conseguenze. La nazione non scompare, così semplicemente; se non altro perché non esiste nessuna struttura più sviluppata che ne prenda il posto. Nella sua assenza di struttura, la società si mostra selvaggia. La nazione non viene superata positivamente, grazie a una coscienza sociale della società mondiale, la quale in gran misura esplode a fronte a di enormi shock che avvengono a tutti i livelli sociali, come se si trattasse della rottura di una diga, di una grande frana o di un terremoto. Pertanto, la cosiddetta "globalizzazione" - una parola chiave degli anni '90 - descrive effettivamente quello che è un processo reale, a livello del suo manifestarsi. Si tratta, tuttavia, di un concetto falso nel momento in cui si vuole designare, con essa, un mero cambiamento strutturale del capitalismo "eterno"; quando invece, in realtà, la crisi categorica della nazione distrugge la struttura della modernizzazione. Dato che il capitalismo non può vivere senza che ci sia quella coerenza nazionale - che ora invece sta venendo dissolta dalla "mano invisibile" - ecco che le diverse spiegazioni ingenue dei [suoi] sostenitori non possono fare altro che riconoscere quello che sarebbe un nuovo progresso borghese in un mondo apparentemente "senza limiti": «In passato, si studiava la "economia nazionale". L'oggetto di tale studio era un sistema economico regolato da valute, imposte e politiche nazionali isolate, le cui reazioni ai cambiamenti provenienti dal mondo esterno venivano studiate e interpretate.  L'epoca della "economia nazionale" è giunta al termine. Gli economisti nazionali sono diventati economisti mondiali. […] Il globalismo è il risultato necessario di un'economia di mercato, o di una società capitalistica. L'economia di mercato non si lascia intrappolare entro i confini nazionali, ma si diffonde. Essa attrae le industrie e le valute nazionali, e le respinge per mezzo delle nuove forme di manifestazioni economiche. È pertanto inevitabile che le aziende tedesche e i loro concorrenti in altri paesi diventino attori globali, fondendosi tra loro e assumendo una nuova identità sovranazionale. […] Così, se Daimler, BMW, Deutsche Bank, e quasi tutte le grandi aziende tedesche cercano sedi al di fuori dei confini tedeschi, e se, al contrario, le società straniere rafforzano le loro basi in Germania, mentre le valute nazionali vengono sostituite da un sistema monetario posizionato a un livello superiore, ecco che allora questo cosmopolitismo dell'economia diventa il risultato, prevedibile e desiderabile, di un paradigma produttivo superiore di quella che è la politica economica, e che, da sola, «si rende garante del progresso dell'umanità» (Mundorf, 1999).

Questo argomento, fenomenologicamente limitato, che qui viene presentato con intento apologetico, lo si incontra anche, a sua volta, in tutti coloro che sono i superficiali "allarmisti" e critici della globalizzazione, i quali non vogliono riconoscere nemmeno alcuna crisi categoriale, ma intendono solo leggere nei fondi di caffè dei "mercati" chi saranno i nuovi arrivati, e chi i perdenti, nel "futuro del capitalismo" (Thurow, 1996b). In entrambi i casi, l'essenza della globalizzazione non viene nemmeno vista, a causa della mancanza di conoscenze teoriche sulla crisi. In effetti, il "paradigma altamente produttivo" della Terza Rivoluzione Industriale porta al "cosmopolitismo dell'economia"; ma lo fa solo per l'economia, o per dirla più precisamente: per una certa parte dell'economia, la quale però rappresenta una forma di decadimento del tutto. La trasformazione in atto, non è il prolungamento di una tendenza secolare, ma costituisce una rottura strutturale. Non si tratta affatto di una semplice espansione del commercio internazionale sul mercato mondiale, né di un semplice aumento quantitativo dell'esportazione di capitali tra le diverse economie nazionali, quanto piuttosto della dissoluzione di queste stesse economie nazionali. In altre parole: il centro economico di questo costrutto moderno - la "nazione" - viene a essere devastato dalla crisi del capitalismo. Con la ritirata degli Stati, o (in parallelo) con la virtualizzazione capitalistica finanziaria dell'economia, la globalizzazione appare come, da un lato, un prodotto immediato della Terza Rivoluzione Industriale e della sua "razionalizzazione delle persone"; dall'altra parte, però, i tre successivi processi di ritrattazione statale, di virtualizzazione e di globalizzazione hanno delle ripercussioni e si scontrano tra loro, anche se, sotto questo aspetto, l'economia reale costituisce solo un'appendice delle dinamiche speculative globalizzate. Che cosa differenziava il precedente spazio di riferimento dell'economia nazionale, dal mercato mondiale? Fondamentalmente, la forma dell'economia nazionale consisteva in un sistema di filtri, come se fosse, in una certa misura, una sorta di "strato di ozono" politico-economico che proteggeva doppiamente ogni spazio nazionale; sia verso l'interno che verso l'esterno: verso l'interno, c'era il filtro dalle "radiazioni pesanti" della competizione economica interna e della razionalità economica delle imprese a un livello compatibile con il sistema; verso l'esterno, il filtro dalle "radiazioni pesanti" di un mercato mondiale essenzialmente non regolamentato. Tali filtri erano, ovviamente e in primo luogo, i sistemi fiscali nazionali, giuridici e sociali, la moneta nazionale, e molti altri meccanismi di regolamentazione, i quali, come gli aggregati infrastrutturali, venivano tutti garantiti dallo Stato nazionale. La globalizzazione non è stata altro che una conseguenza logica del processo di disoccupazione strutturale di massa, e di deregolamentazione statale, scatenato dalla Terza Rivoluzione Industriale. È stato un vero e proprio processo di escalation. La razionalizzazione e l'automazione portano a una nuova qualità della disoccupazione strutturale di massa e, insieme a essa, a una riduzione del potere d'acquisto e delle entrate statali. Lo Stato, da parte sua, reagisce a questo con delle restrizioni sociali, che riducono ulteriormente il potere d'acquisto. Le aziende, a loro volta, reagiscono a questo inaridimento del mercato interno per mezzo della loro "fuga in avanti" nel mercato mondiale. E poiché fanno tutti la stessa cosa, avviene, naturalmente, una competizione fatta di annientamento reciproco, accompagnata da una concentrazione globale del capitale. Lo Stato reagisce, da parte sua, con una sorta di panico della deregolamentazione, al fine di mantenere il capitale all'interno della "localizzazione" nazionale; cosa che, al contrario, porta le aziende a mettere uno Stato contro l'altro, perseguendo una strategia globale di diversificazione in quella che è la corsa alla riduzione dei costi. Allo stesso tempo, questo "decomporsi" degli elementi dell'economia imprenditoriale al di fuori dei confini nazionali e continentali, viene reso possibile - e tecnologicamente guidato -  da quella stessa rivoluzione microelettronica, la quale, a sua volta, automatizza il processo produttivo e "razionalizza" la forza lavoro umana. Già alla fine degli anni '80, l'ex capo della Volkswagen Carl H. Hahn sottolineava questo sviluppo: «Per i sottoprocessi di produzione, sono possibili diverse sedi. E così la realizzazione, a loro volta, di una serie di vantaggi per i paesi specifici – come salari bassi, sindacati cooperativi, una minore densità di regolamentazione o l'esenzione fiscale – che possono essere combinati con dei vantaggi per delle aziende specifiche. Nel corso del progresso tecnico, i processi di produzione della maggior parte dei beni sono diventati sempre più frammentati, il che ha reso possibile una più ampia internazionalizzazione della produzione. Ciò è stato facilitato dal fatto che le moderne tecniche di comunicazione hanno sostanzialmente ridotto il flusso di informazioni all'interno delle società transnazionali. La produzione estera delle grandi imprese industriali del mondo deve rappresentare un terzo di tutto il commercio mondiale» (Hahn, 1989).

Secondo le informazioni provenienti dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, otto anni dopo, nel 1987, i due terzi del commercio mondiale consistevano già in transazioni di questo tipo. La medesima società poteva suddividere le proprie attività a livello globale: la sede ufficiale dell'azienda può essere a Francoforte e l'attività finanziaria può essere a Londra, mentre il contabilità operativa viene svolta da un team di elaboratori elettronici di dati a basso costo in India e i prodotti preliminari possono essere realizzati da dei "dipendenti a contratto temporaneo" e a basso costo in Ungheria; invece le indagini (a causa delle basse imposte) verranno effettuate negli Stati Uniti, e i profitti contabilizzati in "paradisi fiscali" come l'Irlanda, ecc. In parte, si può trattare anche di società di capitali, e in parte di fornitori indipendenti dei relativi "servizi" nell'ambito del cosiddetto outsourcing. Prima dell'era della tecnologia microelettronica, un simile sfruttamento dei differenziali di costo su scala mondiale, il quale rimane in uno stato "liquido" permanente, sarebbe stato del tutto impossibile. Ciò dimostra che in realtà una parte ampia e crescente del mercato mondiale non consiste più in uno scambio tra economie nazionali coerenti, ma costituisce piuttosto parte di una divisione delle funzioni interne delle corporazioni, le quali agiscono su un piano immediatamente globale. Queste imprese o, meglio, questi agglomerati di imprese non agiscono più "a livello internazionale", e non sono più strutturate come delle "multinazionali", ma appartengono a una dimensione "transnazionale" finora sconosciuta. L'economia delle imprese, che fino ad ora era incorporata nello spazio di regolamentazione dell'economia nazionale, ora lo rompe agendo immediatamente sul terreno del mercato mondiale, libero da regolamenti, che sta appena oltre l'economia nazionale (trans-nazionale). Questo processo non è altro che la conseguenza di una radicalizzazione micro-economica: il punto di vista macroeconomico non viene semplicemente liquidato all'interno del campo dell'economia nazionale, ma a essere liquidato è proprio questo settore stesso. E mentre la distruzione dei meccanismi di filtraggio dell'economia nazionale sortisce l'effetto di aumentare ulteriormente la disoccupazione di massa, e innesca l'estinzione di massa delle imprese, vediamo che invece i giganti trans-nazionali si uniscono, per la battaglia in un mercato mondiale senza filtri, nel quale la razionalità imprenditoriale, ormai divenuta sfrenata, si apre la strada. L'economia delle imprese è ormai "degradata"; è lo stesso spazio economico che ora si trova al di fuori, o "oltre" la civiltà borghese e le sue istituzioni, laddove la vita comincia a fuggire. È proprio su questa nuova qualità della globalizzazione, rispetto ai precedenti sviluppi del mercato mondiale, che a partire dall'Ottocento si sono sempre basati gli spazi coerenti dell'economia nazionale. Al di sopra di questo livello della globalizzazione del business industriale, si trova un secondo livello della globalizzazione della finanza capitalistica, ed è quello che è effettivamente in carica. È stato così facendo, che la virtualizzazione dell'accumulazione del capitale, a causa della mancanza di sostanza di lavoro aggiuntivo, ha completamente ribaltato, su scala mondiale il rapporto tra flusso di merci e flusso della finanza: il movimento della finanza globale non è più l'espressione dei rispettivi flussi di beni e di servizi, ma, al contrario, è il flusso di beni reali (e, all'inverso, il flusso di beni e servizi, quindi, della riproduzione materiale dell'umanità) che ora consistono in quella che è solo un'espressione - e persino un sottoprodotto - di una "accumulazione fantasma" autonoma di capitale monetario speculativo. Il fine in sé capitalistico, acquista qui la sua forma più pura, ma anche una forma di irrealtà, la quale sembra ora dominare la vita reale, fino a quando non sia ancora avvenuto il collasso nei centri occidentali. Il simulatore di accumulazione fantasma della speculazione sul capitale, non solo regola il flusso delle merci ai bisogni fantasma della merce stessa; ma esso è anche, logicamente, il centro della globalizzazione, perché, in senso lato, può essere, allo stesso modo della produzione effettiva di merci, immediatamente globale. Mentre, infatti, le merci e le strutture produttive rimangono delle cose tangibili del mondo macro, e quindi non possono essere davvero "senza luogo", ma devono rimanere nei luoghi, o muoversi attraverso essi; i flussi finanziari di moneta elettronica sono invece come le particelle subatomiche della fisica, i cui luoghi non possono essere determinabili con precisione. Con l'aiuto della tecnologia della comunicazione, una massa di denaro - tanto mostruosa quanto irreale - si muove alla velocità della luce e in "tempo reale", sfruttando, 24 ore su 24, i micro-vantaggi nell'insieme delle finanze mondiali. Nel senso comune, non si può parlare  di "investimenti". Ed è proprio qui che si rivela l'impotente dipendenza dell'economia reale da quelli che sono i "complessi finanziario-industriali" trans-nazionali, le cui imprese industriali trans-nazionali si sono formate a loro immagine. Naturalmente, le vecchie istituzioni economiche nazionali e, soprattutto, gli Stati nazionali non stanno semplicemente scomparendo dalla scena. Ma sono stati indeboliti tanto quanto lo sono stati  i sindacati o le associazioni dei datori di lavoro. In questo modo,  nella maggior parte degli stati del mondo, la "moneta" - l'unità monetaria di ogni economia nazionale - è completamente scomparsa, o è sprofondata diventando un insignificante "denaro dei poveri", mentre la connessione reale nell'economia globale, laddove ancora ha luogo, avviene attraverso una valuta estera con elementi di una funzione monetaria mondiale (dollaro, Marzo, yen, ecc.). Anche l'esperimento kamikaze della politica monetaria dell'Euro - in cui una moneta trans-nazionale artificiale viene collocata su un intero spazio nazional-economico del tutto eterogeneo, con dei diversi modelli di produttività, sistemi giuridici, ecc. -  non è altro che un fenomeno di dissoluzione dell'economia nazionale. Queste politiche monetarie "fuggenti in avanti", che avvengono nell'interesse degli attori globali europei, e che nella loro strategia di flessibilità globale, attraverso l'abolizione di varie aree monetarie all'interno dell'Unione Europea, risparmiano sui costi di transazione, si svolgono sulle spalle del resto delle economie "sub-globali", con le loro strutture regionali e con le loro relazioni di lavoro. Non solo la politica monetaria, ma anche - sotto tutti gli altri diversi aspetti - la politica, che per definizione è limitata al quadro nazionale-statale, non può che reagire solo in modo debole e ristretto alla modalità invariabilmente rozza della microeconomia transnazionale.

«I manager esprimono sempre più disprezzo per i loro governi eletti. Si sta diffondendo un nuovo atteggiamento. Gli autoproclamati "attori globali" del mercato mondiale guardano dall'alto in basso i capi di governo nazionali, sempre più indifesi e impotenti. La globalizzazione dell'economia rende le grandi imprese indipendenti dal mercato interno e dai governi locali. I manager spesso vedono la politica come un'azienda di servizi [...]. Secondo il Kiel Institute for the World Economy, sono gli Stati nazionali che devono attrarre a sé il capitale mobile. Per gli imprenditori - scrive la professoressa di Harvard Rosabeth Moss Kanter -  il mondo è solo "un'unica grande corsia di negozi commerciali". I rappresentanti di tutti i partiti sono irritati. Anche il primo ministro bavarese, Edmund Stroiber, ha criticato aspramente e apertamente i doppi standard dei manager, che "vogliono giocare a golf in Germania e investire all'estero". Alcuni manager esibiscono apertamente la propria nuova consapevolezza di potere. Gli esperti di bilancio del Bundestag sono stati sorpresi, ad esempio, da un gioviale capo della Daimler-Benz, Jürgen Schrempp, durante un tour alla fine di aprile. A cena si vantava che la sua azienda fino alla fine del secolo non avrebbe pagato un centesimo di tasse sul reddito: "Non otterrete nulla di più da noi". Imbarazzati, a loro volta, i deputati fissarono i piatti [...] Anche quando gli uomini d'affari invitano i ministri, questo non dà alcuna garanzia che verranno trattati bene. Ingenuamente, il ministro dell'Ambiente Angela Merkel era andata a una tavola rotonda dell'associazione dei grossisti e dei commercianti stranieri, e si è ritrovata in un'aula di tribunale. Al posto di clausole ecologiche sul mercato mondiale, il capo dell'associazione, Michael Fuchs, ha discusso con il ministro il problema dell'ubicazione. Se riuscisse a rimuovere il trucco del suo "protezionismo verde", il piano per il trattamento dei rifiuti dovrebbe essere dimenticato. "Non siamo mai stati pubblicamente sfiorati dall'economia", si è lamentato un assistente. "Non si umiliano gli ospiti". Ci vuole un po' di tempo per abituarsi allo stile grossolano [...] »(Der Spiegel 26, 1996). In questo schizzo della metà degli anni '90, possiamo ancora notare un certo disagio, e persino come una sorta di un certo tipo di "indignazione democratica", relativa all'autonomia del capitale transnazionale. Tale commozione è tanto inutile quanto inappropriata, poiché la democrazia non è altro che un episodio che, in linea di principio, ha danzato al ritmo del fischietto del “quarto potere” economico, così come, nella sua forma soggettiva, il cittadino era stato intrinsecamente creato in quanto soggetto economico capitalista e schiavo del sistema del mercato del lavoro. L'economia aziendale transnazionale del capitalismo in crisi. rende tutti questi fatti chiari a tutti, e tuttavia limita drasticamente i processi elettorali democratici, rendendoli quasi privi di significato. Pertanto, le “contese politiche” sono diventate deplorevolmente squallide e noiose, dal momento che la politica, in attesa di un’economia nazionale che “mendichi” di fronte all’economia aziendale transnazionale, non può più formulare alcuna alternativa, nemmeno nella forma precedentemente sfrondata dal sistema. Analogamente alla cosiddetta politica estera, la politica non ha più alcuna grande rilevanza, e la tensione sociale è passata dai mercati finanziari e dai loro attori al circo mediatico. Ogni tentativo di trasformare la funzione, e la sfera della politica, in qualcosa che vada oltre la struttura degli Stati-nazione, e concepisca i rispettivi organismi globali come se fossero un contrappeso all'economia economica transnazionale, è fallito miseramente. Il ruolo dell'ONU - che non rappresenta più la somma di tutti gli Stati-nazione del mondo - è diventato ancora più piccolo, e non più grande. Negli ultimi anni, nulla è stato più ridicolo della retorica di una critica sociale disarmata, da parte dell'intellighenzia verde-sinistra del '68, circa la cosiddetta "politica interna del mondo", o a proposito di una "democratizzazione" delle istituzioni economiche internazionali, come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Dopo che il governo "rosso-verde" ha assunto un progetto, quantomeno poco chiaro, di una "riforma ecologico-sociale della società industriale" – dall'energia atomica alla gestione dei rifiuti, passando per i requisiti legali di protezione ambientale – esso si è sciolto; non dopo una legislatura, o nel giro di pochi mesi, ma in poche settimane. Sotto il dettato dell'economia economica transnazionale, la corsa autodistruttiva della competizione statale e regionale delle "localizzazioni" (di ogni genere di dumping sociale, fiscale ed ecologico) accelera sempre più, di mese in mese. Una "politica mondiale interna" presuppone sempre - in tutte le sfere - uno "Stato mondiale"; e questa non è altro che una cattiva utopia, dal momento che gli Stati, per loro stessa essenza, così come le imprese capitalistiche, possono esistere solo al plurale. Uno “Stato senza frontiere” sarebbe una contraddizione in termini, così come lo sarebbe una “economia imprenditoriale a livello sociale generale”. Tuttavia, gli accordi bilaterali e multilaterali tra organismi concorrenti non possono mai produrre un quadro vincolante per tutti; vale a dire, una meta-istanza socialmente generale (ora: socialmente globale). Con la Terza Rivoluzione Industriale, la macroeconomia e la microeconomia diventano incompatibili tra di loro e collassano, e si comportano proprio come (nelle loro logiche conseguenze) si comportano l'economia e la politica aziendale. La politica, che dovrebbe rappresentare il tutto, e confrontarsi con la sfera dell'economia economica transnazionale, è degenerata fino a diventare un particolare soggetto di concorrenza; l'economia delle imprese, la quale rappresenta gli interessi particolari delle imprese, agisce ora a un livello superiore, sotto forma di "interesse generale" (in termini capitalistici, e non in vista dell'interesse economico-nazionale dello Stato-nazione). Questo paradossale capovolgimento, mostra chiaramente come non si tratti affatto di una nuova struttura con capacità di riprodursi, quanto piuttosto di una rottura della polarità strutturale tra mercato e Stato, tra economia e politica, tra microeconomia e macroeconomia, tra individuo e società, ecc., che rende così possibile il capitalismo nel suo insieme. Il soggetto borghese, di per sé schizofrenico - che in linea di principio si costituisce nella forma contraddittoria del "burgeois" (borghese) e del "citoyen" (cittadino) - non è più in grado di integrare definitivamente la sua identità contraddittoria di dottor Jekyll e di mister Hyde in una "persona totale" ragionevolmente vitale. L'individuo totalmente astratto, è "socialmente incapace", e il "borghese" transnazionale non è più mediato dal "citoyen" statale-nazionale. La "scissione di personalità" del rapporto capitalistico manifesta una nuova qualità, che non può trovare sbocco nelle forme capitalistiche. Il soggetto dell'economia imprenditoriale transnazionale, sempre più dissociato dalla sua cittadinanza, non rappresenta più alcun "progresso" capitalistico. Quest'ultima forma di “modernizzazione” è, simultaneamente, autodissoluzione e autodistruzione della modernità, e sotto molti aspetti è anche disumanizzazione, che si trova a essere arretrata anche rispetto alle società arcaiche, e pertanto agli stessi standard della propria civiltà. Di conseguenza, la globalizzazione non può essere rivendicata e appropriata da parte di una critica sociale anticapitalista che abbia una qualche “ idea di progresso”; essa costituisce la proprio la smentita di quel vecchio marxismo che assume, in termini generali, la concezione filosofica borghese dell’Illuminismo. Nella globalizzazione, il capitalismo non si eleva a nessun nuovo stadio di sviluppo, ma conduce una vita apparente oltre quelli che sono i limiti della propria vita; un po' come nel "Waldemar" della storia di Edgar Allan Poe, che ipnotizzato in punto di morte, e rimanendo tale per molto tempo sull'orlo tra la vita e la morte, fino a che, risvegliato dal sonno dell'ipnosi, si disintegrò istantaneamente in una massa informe di carne in putrefazione. Ad agire come attori nell'economia economica transnazionale, non sono più gli allegri e gioviali "cosmopoliti" , ma si tratta piuttosto dei fantasmi di un irreale sradicamento sociale, che corrisponde allo sradicamento del capitale monetario simulato elettronicamente.

«I membri di questa nuova classe di giocatori globali che, tra l'altro, comprende anche accademici del jet-set e un certo gruppo di atleti d'élite, oltre a esperti di media e artisti dell'intrattenimento, si concentrano principalmente su quelli che Marc Auge chiama i non-luoghi del sistema di comunicazione globale: aeroporti, catene alberghiere, aree VIP, supermercati duty-free e treni ad alta velocità. L'etnologo parla di sale di transito, dove loro, che da tempo hanno familiarità con le macchinette automatiche e le carte di credito, seguono i gesti del traffico silenzioso. Poiché un luogo è caratterizzato da identità, relazione e storia, uno spazio che è ovunque e da nessuna parte e che è caratterizzato dall'essere né relazionale né storico è definito come un non-luogo. Strutturalmente, un World-Traveller-Suit, come il minibar, la Pay-TV e il Manager-Magazin illustrati, non è diverso da un campo profughi secondo quelli che sono gli standard stabiliti dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. In entrambi i casi, si tratta di un domicilio temporaneo, che ci fa sentire soli, ma proprio come gli altri. Uno è solo lussuoso e l'altro abominevole» (Bude 1995). In un contesto simile non si può parlare di una "cultura mondiale"; poiché la cultura, anche quella capitalistica di massa, intesa come compenetrazione reciproca, come amalgama creativa e come creazione di nuove forme espressive, è sempre legata al luogo, alla relazione e alla storicità. Né lo spazio sociale è sganciato dall'economia delle imprese, globalizzata e illimitata. Gli spazi di transito senza luogo dell'economia imprenditoriale transnazionale, che si trova in rigoroso isolamento dal mondo realmente sociale, culturale e persino geografico, lo attraversano allo stesso modo in cui i paesaggi sono tagliati da autostrade, cavi in fibra ottica, gasdotti o tratti di treni ad alta velocità. Proprio come i vagabondi della miseria si trovano rigorosamente rinchiusi nei campi d'asilo, di deportazione o profughi, così i vagabondi di lusso dell'economia aziendale globalizzata vivono in luoghi altrettanto delimitati e in stanze quasi ermeticamente sigillate. Ma è proprio lì - laddove si trovano i blocchi tra la coerenza moribonda e dissolvente del mondo della riproduzione nazional-economica e statale-nazionale, tra le regioni orrendamente de-civilizzate del collasso e i non-luoghi dell'economia imprenditoriale globalizzata - che si trova un nuovo tipo di demarcazione che oggi è ancora più decisiva di quanto lo sia stata in tutte le precedenti frontiere politiche. Ad esempio, nel suo Manifesto del Futuro, l'esegeta postmoderno dello Zeitgeist e ricercatore di tendenze, Matthias Horx, il quale pretende di segnalare "l'uscita dalla cultura della lamentela", chiarisce il significato di "apertura cosmopolita":

«Qual è il quadro di riferimento del nostro concetto di uguaglianza? Il nostro confortevole benessere nazionale? O un pianeta dove c'è un denso flusso di merci, idee e traffici, dove c'è miseria (!), ma anche vitalità (!), creatività e voglia di ascendere? A un certo punto dobbiamo scegliere. Tra un modello di uguaglianza, che, nel migliore dei casi, equivale ad una "auto-provincializzazione" [...] e un modello aperto, più contraddittorio, ma anche più "onesto", solo su scala planetaria [...] Coloro che accettano la globalizzazione devono riconoscere che tutto questo aumenta la disuguaglianza nella società. Se lasciamo i poveri nel paese, essi possono anche diventare criminali ed esecrabili (!). O ci supererà [...] La nostra cultura e la nostra società possono impegnarsi in un'utopia (!), che va di pari passo con la perdita di sicurezza e con la minaccia di vecchie pretese e implicazioni? […] Una certa quantità di disuguaglianza "dinamica" è come un soffio di vento in una stanza soffocante, o un ruscello di acqua dolce in uno stagno stagnante» (Hox, 1999, 241). Qui la domanda verte su Quale forma di nuova demarcazione sia più disgustosa: lo sciovinismo assistenziale e il sinistro nazionalismo xenofobo della deportazione reazionaria della "maggioranza silenziosa" reazionaria? Oppure l'ideologia del terrore economico di questo "nuovo centro" dei vincitori della globalizzazione. Un afflusso rigorosamente dosato di poveri, provenienti dalle regioni devastate dal collasso dell'economia di mercato globale, dovrebbe essere permesso solo al fine di forzare l'accettazione sociale della "crescente disuguaglianza", ivi compresa la "miseria", vista  come una cosa ovvia; e per mettere le persone l'una contro l'altra, in quanto concorrenti della loro stessa esistenza. Ciò che viene sostenuto qui è la "parità di opportunità" dei combattimenti tra gladiatori. Ciò che viene gioiosamente celebrato è l'antica differenza tra il razzismo collettivo europeo-continentale e il razzismo individualista anglosassone nel contesto della globalizzazione. In entrambi i casi, sia l'assunto che il risultato continua a essere la dottrina malthusiana secondo cui, se misurata con dei criteri capitalistici, c'è sempre "troppa gente", e pertanto ci deve essere una selezione esistenziale, la quale corrisponde sempre a un cordone sociale insormontabile. Non tutti i filtri economico-nazionali o statali-nazionali sono stati rimossi, ma la pressione dell'economia imprenditoriale transnazionale deregolamentata continua ad aumentare. Le chiacchiere dei politici democratici a proposito della "mancanza di alternative" alle loro misure restrittive e antisociali, dimostrano solo che da tempo hanno finito con il loro latino, e che ora sono guidati da dei poteri che vanno oltre le istituzioni borghesi. Da un punto di vista superficiale e, in modo tradizionale, secondo categorie meramente sociologiche (piuttosto che critiche del sistema), sembra che lo Stato e la politica siano stati degradati a "camerieri del capitale" (Der Spiegel 26/1996). Ma questo non fa che confermare l'idea del vecchio marxismo, secondo cui lo Stato-nazione non sarebbe altro che il "comitato esecutivo della borghesia". Tuttavia, nel senso di una classe-soggetto socialmente coerente, questa "borghesia" non esiste più. Come soggetto economico capitalista formale, come "homo oeconomicus" e come "imprenditore della propria forza lavoro", visto secondo il concetto rigoroso di proprietario del capitale della totalità dei membri della società - ivi compresi i salariati - il "borghese" si è volatilizzato. Fino alla Terza Rivoluzione Industriale, si poteva ancora parlare dello Stato nazionale come del "capitalista totale ideale" (Marx), se non della totalità sociologica dei proprietari del capitale, almeno come l'istanza del sistema di produzione di merci che sintetizza formalmente tutti i soggetti formali dell'economia. Ma è proprio questa funzione sistemica che lo Stato nazionale perde, nella globalizzazione, come conseguenza della Terza Rivoluzione Industriale. Egli non può più essere il "capitalista totale ideale"! Naturalmente, questo sviluppo può essere descritto anche a livello sociologico: le élite funzionali sono ancora una volta divise, a tutti i livelli della riproduzione capitalistica, in una nuova e ulteriore dimensione.

Dal momento che le élite dell'economia economica transnazionale non possono, né sviluppare un interesse economico comune con il resto delle gestioni tradizionali incentrate sull'economia nazionale (nei vecchi termini della sociologia di classe: la "borghesia nazionale"), né sostenere un interesse politico-strategico comune con la "classe politica" nazionale-statale. Il momento "strategico" non solo è passato dalla politica ai mercati finanziari transnazionali, e a questo livello non produce più alcuna istanza di sintesi, ma coincide immediatamente con il calcolo microeconomico dell'economia imprenditoriale, che ormai opera al di là di tutte le vecchie istanze "di sintesi". Internamente, lo Stato-nazione cessa di essere - come organismo di regolamentazione - il "capitalista totale ideale"; allo stesso modo in cui cessa di essere il soggetto strategico all'esterno. "Interno" ed "esterno" smettono di essere chiaramente definibili, visto che il sistema di riferimento di queste relazioni è dissolto. Tutto questo, significa anche la fine del vecchio imperialismo nazionale, il quale aveva dato inizio al suo declino già nell'era della "Pax Americana" occidentale, dopo la seconda guerra mondiale; e questo nella misura in cui il carattere totalitario del capitalismo, nella fase finale della seconda rivoluzione industriale, era passato dalla politica all'economia, e con la lotta degli stati-nazione per il controllo delle "zone di influenza" si era ritirato. Invece, gli Stati Uniti, con il sostegno delle potenze secondarie occidentali, hanno assunto il ruolo di "poliziotto mondiale" in nome dei principi generali del capitalismo e (anche allora) di un mercato mondiale "libero". Nella Terza Rivoluzione Industriale, la globalizzazione rende ormai la lotta degli Stati-nazione per la "spartizione del mondo" come qualcosa di completamente anacronistico. Il "capitalista totale ideale" non solo è escluso in senso economico-sociale, in quanto istanza di aggregazione strategica di interessi, ma rappresenta quel campo di riferimento delle strategie imperiali, che in un mondo dominato dall'economia delle imprese transnazionali cessa di esistere. Nella sfera dissociata del "non luogo", il dominio territoriale non ha più alcun senso, qualunque sia la sua forma. Laddove gli interessi strategici orientati alla microeconomia possono esistere solo essendo "presenti" ovunque e in nessun luogo, anche il mondo territoriale cessa di essere un oggetto strategico, per diventare un mero luogo in cui si svolgono le scene. Naturalmente, in qualità di fornitori di servizi dell'economia economica transnazionale, gli Stati nazionali sono adatti solo condizionatamente e temporaneamente. Poiché in questo sviluppo, i due poli della socializzazione capitalistica in crisi crollano a tutti i livelli e dimensioni, e non possono più essere uniti in uno stesso denominatore, rendendo così obsoleta l'idea di un nuovo e duraturo ruolo ridotto dello Stato-nazione in quanto "nuovo stato-commerciale" (Rosecrance 1987) o in quanto "stato di competizione nazionale" (Hirsch 1995). Tale concettualizzazione continua ad essere inserita all'interno di un cambiamento strutturale del capitalismo, o di un processo di trasformazione che viene assunto come una nuova tappa nello sviluppo di una "modernizzazione eterna", mentre invece, di fatto, è stata a lungo una crisi categoriale della forma sociale capitalistica in quanto tale che segna la fine definitiva della "modernizzazione". In questo senso, l'economia transnazionale delle imprese non costituisce - né in senso sociologico né strutturale - una nuova istanza di potere economico che rappresenti un'altra epoca della storia capitalistica, o che subordini lo Stato-nazione solo in un altro modo. Piuttosto, la globalizzazione è la forma di una manifestazione della crisi stessa, e i "decisori", che fanno parte delle élite funzionali transnazionali dissociate e senza luogo, vengono essi stessi diretti. E' chiaro che lo sforzo dello Stato, per gestire la crisi nella competizione delle "localizzazioni" nazionali, si limita alle infrastrutture e alle altre condizioni strutturali, nel modo puntuale e "insulare", richiesto dal capitale globalizzato, mentre nelle parti desolate ed economicamente dissociate di ogni territorio, sono le stesse cose, dall'acqua alla polizia, quelle che subiscono un processo di abbandono. Gli spazi nazionali vengono scomposti in regioni (ancora) accoppiate e in regioni paria, dove le vecchie e le nuove disuguaglianze di sviluppo vengono a essere ulteriormente aggravate. È visibile anche lo sforzo da parte del "Leviatano democratico unito", sotto la direzione della "polizia mondiale" degli Stati Uniti, con azioni militari congiunte, fatte per contenere le guerre civili che scoppiano in tutte le regioni di collasso. Non si tratta più di "zone di influenza", nel vecchio stile, ma di una sorta di "imperialismo della sicurezza"; l'obiettivo non è la conquista, quanto piuttosto la "rassicurazione" che i circuiti dell'economia aziendale non vengano disturbati. Ma gli Stati-nazione sono sempre meno in grado di soddisfare tutte queste esigenze. Il capitale globalizzato, per il quale si suppone che servano, toglie dalle loro mani tutti i mezzi necessari, e lo fa con crescente ferocia, mentre allo stesso tempo i focolai di crisi si moltiplicano a passi da gigante. A ogni nuovo collasso finanziario, si avvicina la fine dell'economia monetaria, la quale, naturalmente, alla fine prenderà il sopravvento anche sullo spazio transnazionale senza luogo del capitale. E l'economia industriale globale, con le sue isole sparse di produttività, di certo non opera a un nuovo livello praticabile, ma il suo spazio di manovra si restringe a ogni impulso della globalizzazione. La concentrazione senza precedenti di capitali, che si è forgiata negli spazi transnazionali nel corso della "fuga in avanti" dell'economia delle imprese, preannuncia un cannibalismo economico nel mercato mondiale non regolamentato. I cosiddetti nuovi padroni del mondo, nella loro caccia alla diminuzione del potere d'acquisto e della redditività globale, possono solo divorarsi l'un l'altro, e quindi distruggere le "sovraccapacità" economiche reali, facendo sparire da questo mondo le ultime vestigia della "normalità" capitalista.

- Robert Kurz, dallo "Schwarzbuch Kapitalismus" [Il Libro nero del capitalismo], 1999 -