martedì 26 febbraio 2019

Propaganda

Ebreo americano, figlio di rifugiati europei scampati alla Seconda guerra mondiale, Jason Stanley parte da uno spunto autobiografico per porsi una domanda cruciale: perché la logica del «Noi contro Loro», alla base di tutti gli autoritarismi, è diventata non soltanto il segno distintivo della politica dei fascismi europei degli anni Trenta, ma anche un concetto così seducente nelle democrazie liberali in ogni parte del mondo?
Pensare agli Stati Uniti di Donald Trump è immediato, ma non è l’unico caso. Stanley, conscio del rischio delle generalizzazioni, ma convinto che il tempo in cui viviamo le renda necessarie, sceglie l’etichetta «fascismo» per identificare le diverse forme di ultranazionalismo, incarnate in un leader autoritario, diffuse in varie parti del pianeta, e ne identifica i tratti distintivi, ricorrenti, dalla strumentalizzazione di un passato mitico all’uso spregiudicato della propaganda, dalla criminalizzazione delle minoranze al culto del patriarcato e della virilità.
Se la prospettiva del suo lavoro è storica, analitica, l’intenzione è militante: un alert sull’America di Donald Trump (e non solo), tanto più appassionato quanto più radicato nella biografia di un intellettuale che ha sperimentato sulla propria pelle le insidie, i pericoli e gli esiti tragici che ogni forma di fascismo porta con sé. Riconoscerne i segnali, le strategie, le trappole mentali, dice Stanley, è un primo fondamentale passo per arginarne gli effetti più disastrosi.

(dal risvolto di copertina di: "Noi contro loro. Come funziona il fascismo", di Jason Stanley. Solferino)

I nipotini di Lindbergh: razzisti, sovranisti, nazionalisti
Luciano Canfora

Nel 2018 Jason Stanley, figlio di genitori fuggiti dal Terzo Reich, ha pubblicato un libro importante che, per una scelta quanto mai tempestiva, viene ora diffuso in lingua italiana: How Fascism WorksCome opera il fascismo»), nell’edizione italiana Noi contro loro. Come funziona il fascismo (Solferino). Non è frutto del caso se, nella primavera scorsa (quando si erano appena palesate le macerie del nostro sistema politico conseguenti alle elezioni del 4 marzo), La nave di Teseo aveva ripubblicato lo scritto di Umberto Eco Il fascismo eterno (apparso dapprima nel 1997), che sviluppava concetti analoghi. Si tratta di libri salutari. Liquidano il sussiegoso cinguettio degli stenterelli (per dirla col Carducci) i quali sogliono increspare la fronte ogni volta che qualcuno dice l’ovvio; che cioè la pulsione fascistica non si è mai estinta e che, nel mondo attuale, è daccapo all’offensiva: dall’esaltatore dei propri genitali (Donald Trump) all’ostentatore di divise paramilitari (Matteo Salvini).
In realtà, mentre lo scolasticismo donferrantesco ci spiega che il fascismo non è né sostanza né accidente (e dunque non esiste), la situazione è sempre più seria. Diamo un’idea sommaria delle considerazioni da cui prende avvio il libro di Stanley. Parte dal trasvolatore atlantico Charles Lindbergh che capeggiò — già prima della Seconda guerra mondiale — un comitato intitolato America First, schierato a favore della Germania nazista, assunta come modello positivo. Il credo di Lindbergh fu così espresso: «È ora di ricostruire i nostri baluardi bianchi! Questa alleanza con razze straniere segnerà la nostra morte. È giunto il momento di preservare la nostra identità prima di essere inghiottiti da uno sconfinato mare straniero!». Tra le «razze» che minacciavano — nella fantasia malata di quest’uomo — l’eredità genetica degli americani «bianchi» venivano elencati i «mongoli», i «persiani», e ovviamente i «neri». «Nel 2016 — prosegue Stanley — Donald Trump diede nuovo slancio all’espressione America First, e fin dalla prima settimana successiva al suo insediamento irrigidì le norme sull’ingresso negli Stati Uniti». Non va dimenticato che Ku Klux Klan e nazisti americani sono stati tra i sostenitori di Trump alle elezioni. In Italia, i manifesti elettorali del piccolo movimento denominato Fratelli d’Italia recavano, sin dall’inizio del 2018, analogo precetto: «Prima gli italiani!». Dopo di che, la mutazione viscerale avvenuta nel nostro Paese — la trasformazione, cioè, della Lega padanocentrica in Movimento sociale italiano di massa — ha visto prontamente la neo-Lega far proprio quello slogan postmissino: «Prima gli italiani!». Concetto pedestre — in verità —, che stava a fondamento anche della «Difesa della razza» mussoliniana.
Sulla rivista recante quel titolo, nata con le leggi razziali del 1938, campeggiava, in copertina, una spada (un ridicolo gladio romaneggiante) che separava un bianco iperapollineo da «ceffi» neri, gialli e nasuti «semiti».

Raffinato come sempre, Trump ha urlato, in un comizio pronunciato nei pressi dell’edificando «muro» verso il Messico, che i latinos «sono animali». Quanto al «muro» — che comunque è già da tempo in costruzione —, si potrebbe ipotizzare, stante anche l’enormità del fenomeno, che, a imitazione del kennediano «Io sono un berlinese!», un Emmanuel Macron, capo della maggiore potenza facente parte dell’Ue, si rechi al confine Usa-Messico e dica: «Io sono un messicano!» (o anche «un peruviano»…). Ma ovviamente non lo farà. Scatta il senso di sudditanza che paralizza la semi-Europa raccolta sotto la sigla Ue di fronte al megafascismo statunitense. «Un fascismo americano sarebbe “democratico”» prevedeva l’esule Bertolt Brecht nel suo Diario al principio del 1942. Non sappiamo se si riferisse anche alle leggi Jim Crow che — ricorda Stanley in questo suo notevole libro — «tra le altre cose, ostacolavano il diritto di voto dei neri negli Stati del Sud». Ma il fenomeno non è solo italo-trumpiano. Il partito tedesco Alternative für Deutschland pensa e predica le stesse cose e così l’incombente Front National francese, mentre i clericofascisti polacchi e i fascistoidi ungheresi hanno già messo in pratica questo credo vecchio-nuovo («eterno» diceva Eco con espressione intenzionalmente estrema). «Eterno», perché fa appello al peggio dell’Es, all’egoismo animale, il cui correttivo, di faticosa attuazione, è l’acculturazione, cioè la fuoriuscita dallo stato istintuale-animale.

Non sono constatazioni suscitate dall’esperienza odierna: Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich, scritto tra il 1930 e il 1933, aveva delineato lucidamente i fenomeni principali che Stanley descrive. (Reich, fuggito dal Terzo Reich come i genitori di Stanley, morì in un carcere statunitense nel 1957). «Tutti gli americani — scrive Stanley — dovrebbero essere preoccupati del fatto che, in veste sia di candidato sia di presidente, Donald Trump ha pubblicamente ed esplicitamente insultato specifici gruppi di immigrati». «Le politiche fasciste — osserva — puntano a disumanizzare le minoranze». Infatti, «il sintomo più palese delle politiche fasciste è la divisione, il separare la popolazione tra noi e loro». Stanley, a questo punto, in un breve inciso del suo ragionamento, pone sullo stesso piano la contrapposizione di razza e quella di classe (affermata, al suo sorgere, dal comunismo).
È un paragone che fu prospettato anche dallo studioso tedesco Ernst Nolte, e che però prescinde dalla lontananza abissale tra le due concezioni, nonché dal fatto ben noto che sin dal suo sorgere (conferenza di Baku del 1920) il Comintern fece della lotta di liberazione dei popoli coloniali e dell’antirazzismo la sua bandiera. (La definizione dell’antisemitismo come «cannibalismo» è di Stalin). La polarità noi/loro diventa omicida (potenzialmente omicida), soprattutto quando si basa su fenomeni di tipo animale come la cosiddetta razza (un cui sinonimo «colto» è la «identità»). Bene Stanley individua i fattori scatenanti della pulsione fascistica, in primis «il vittimismo tra coloro che appartengono al gruppo dominante»: «Ci tolgono il lavoro! Ci molestano le donne! Mangiano senza lavorare!». E, alla fine, qualcuno li brucia: dalla Calabria alla Germania del Nord. «Noi siamo lavoratori onesti e abbiamo guadagnato un posto nella società con la fatica e grazie ai nostri meriti. Loro sono pigri, vivono alle spalle di noi virtuosi sfruttando la generosità del welfare o l’aiuto di istituzioni corrotte come i sindacati. Noi facciamo, loro prendono». Questa è la propaganda che anche in Italia è ormai salita sugli scranni più alti del governo nazionale. Umberto Eco, nel suo saggio del 1997, delineò le fattezze di quello che chiamò «UrFascismo», cioè fascismo primigenio e primordiale. «L’Ur-Fascismo — scrisse Eco — scaturisce dalla frustrazione individuale e sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica»; inoltre — osservò — «a coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso Paese». Libri come questi, di Stanley e di Eco, ben vengano: aiutano a diradare le ritornanti tenebre, foriere, come si sa, di mostri.

- Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere del 23 febbraio 2019 -

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