lunedì 2 dicembre 2019

Un mondo di ferro? No, grazie!

La guerra di Troia, le guerre persiane e del Peloponneso, l’epopea di Alessandro Magno, l’epica lotta di Annibale contro Roma. Nessun greco e nessun romano avrebbe mai potuto concepire un mondo senza guerre. Più che un’utopia, l’avrebbe ritenuta un’assurdità. Ma allora che significato aveva la guerra per loro?
La storia del mondo antico è un succedersi di battaglie, scontri e duelli che hanno lasciato una traccia formidabile nel nostro immaginario. Ma cosa voleva dire per un greco e un romano indossare l’armatura e scendere sul campo di battaglia? Significava riconoscere che la guerra era parte della vita, non che fossero amanti della guerra. Così come era possibile finire catturati dai pirati durante un viaggio in mare per essere venduti come schiavi in qualche mercato dell’Egeo, o cadere vittima di un’epidemia o di una carestia, così era nell’ordine delle cose umane essere coinvolti in una guerra e morire in battaglia. Ma c’è di più: poteva aspirare a definirsi cittadino solo colui che, nella buona stagione, era pronto a marciare fuori dai confini per combattere contro il nemico. Un libro appassionante, che ci rende comprensibile la mentalità degli antichi trattandola con profondo rispetto. Nessun Greco, come nessun Romano, ha mai immaginato un mondo senza guerre. Più che un’utopia, l’avrebbe ritenuta un’assurdità. Non che i Greci e i Romani fossero amanti della guerra, ma la guerra era parte della vita. Così come era possibile finire catturati dai pirati durante un viaggio in mare per essere venduti come schiavi in qualche mercato dell’Egeo, o cadere vittima di un’epidemia o di una carestia, oppure, semplicemente, morire in giovane età per mille motivi, così era nell’ordine delle cose umane incappare in una guerra, morire in battaglia o restare invalidi e girare in cerca di un’improbabile guarigione. Solo chi si prendeva cura della difesa dai nemici esterni ed era pronto, nella buona stagione, a marciare fuori dai confini per combattere contro il nemico, poteva aspirare a definirsi cittadino. Un libro dalla scrittura piacevolissima e appassionante, che ci avvicina all’universo mentale degli antichi e ce li restituisce, nella loro diversità, con profondo rispetto.

(dal risvolto di copertina di:  Marco Bettalli, "Un mondo di ferro. La guerra nell'Antichità", Laterza.)

Pacifiste sull'Acropoli
- L’antichità giustifica la guerra, ma Aristofane dà voce a un’alternativa (femminile) -
di Luciano Canfora

Marco Bettalli, uno dei nostri più approfonditi conoscitori del fenomeno «guerra» nel mondo antico e specialmente greco, ha scritto un importante libro dall’efficace titolo Un mondo di ferro (Laterza) che non si propone un (impossibile) racconto analitico di infinite vicende ma pone al centro la questione più importante: il rapporto, sul piano dell’etica di massa, del cittadino con la guerra. Anni addietro un grande conoscitore del mondo greco, Kenneth James Dover, scrisse Greek Popular Morality (tradotto in italiano per Paideia nel 1983): questo nuovissimo libro di Bettalli affronta e svolge un aspetto fondamentale appunto della «morale popolare»: il rapporto con la guerra, la visione — largamente e profondamente accettata — della sua naturalità, inevitabilità, necessità e financo positività. Donde il titolo: Un mondo di ferro, brutale nella sua schietta ferocia.
L’autore segnala al lettore che il senso dell’intero libro è l’individuazione di una «etica fondata sulla guerra» come tratto determinante della morale degli antichi. E lo fa ponendo a conclusione dell’intero volume un breve e denso commento al tucidideo dialogo melio-ateniese: al dialogo (quasi certamente creato da Tucidide) che è stato da sempre l’inquietante e ambivalente «cruccio» degli interpreti dell’opera tucididea. Interpreti attratti dalla straordinaria capacità tucididea di argomentare efficacemente a sostegno di due posizioni opposte (quella degli invasori ateniesi e quella dei riluttanti Melî), e incerti se considerare il dialogo come la celebrazione, attraverso una serrata dialettica, della ineludibile durezza della politica di potenza (non va dimenticato che lo stesso Tucidide fa dire a Pericle «l’impero è tirannide»), ovvero come l’intuizione di una «Provvidenza» (Tyche ek tou theiou) portatrice di giustizia (come parve ad un importante storico cattolico quale Gaetano De Sanctis).
In verità, l’interpretazione suggerita da De Sanctis (Tucidide che intuisce il concetto quasi manzoniano di un «Dio che atterra e suscita») non regge. Resta il fatto dell’ambiguità (nel senso sofistico di verità sempre opinabile) dell’intero dialogo. Se però si considera che «il timore di fare la fine dei Melî» è l’incubo degli Ateniesi, ormai sconfitti e stretti nella morsa dell’assedio spartano «per terra e per mare» (così leggiamo in pagine delle Elleniche senofontee basate sul lascito tucidideo), si può ragionevolmente supporre che la stravagante invenzione tucididea di quel dialogo sia sorta «a caldo», a ridosso dell’attacco ateniese sviluppatosi mentre si è ancora in tempo di pace e a fronte di una spropositata punizione inflitta ai Melî per la loro defezione dalla Lega capeggiata da Atene. La durezza di quella repressione suscitò critiche nella stessa Atene (le Troiane di Euripide ne sono un sintomo): donde l’incubo di massa al momento della imminente capitolazione.
Giustamente lo studio di Bettalli ruota intorno alla dicotomia tra prospettiva collettiva e prospettiva individuale. Fermo restando, però, che, alla prospettiva collettiva maschile andrebbe contrapposta quella collettiva femminile, documentata da un testo capitale come la Lisistrata di Aristofane. Nello scontro oratorio durissimo tra Lisistrata, organizzatrice dello sciopero sessuale antibellicista e dell’occupazione a sorpresa dell’Acropoli e del tesoro di Atena, e il Probulo, magistrato straordinario, gli argomenti di Lisistrata non sono legati soltanto alla situazione contingente, ma costituiscono un atto d’accusa micidiale contro la guerra in quanto tale. E Lisistrata è l’eroina positiva, oltre che protagonista, della commedia, e in lei Aristofane si identifica pienamente. Ecco alcune delle parole di lei: «All’inizio della guerra, abbiamo sopportato per nostra moderazione, tutto quello che facevate voi uomini. Non ci lasciavate aprir bocca. (…) Stavo zitta e a casa. Ma poi venivamo a sapere di qualche altra vostra decisione ancora peggiore della precedente e chiedevamo: Come mai vi siete comportati così stupidamente?». Ma la risposta dei maschi era: «La guerra è affare da uomini!». «E allora — conclude la protagonista, cui Aristofane attribuisce la forza, l’eloquenza e il carisma di un grande leader politico — noi donne, una buona volta, abbiamo deciso tutte assieme di salvare la Grecia». E non manca, nelle parole di un’altra delle congiurate (Cleonice) il dileggio verso la figura stessa del maschio-guerriero «che metteva dentro l’elmo la polenta comprata da una vecchia», e di un altro «che, con lo scudo e la lancia, metteva paura a una venditrice di fichi».
Aristofane è un grande critico dei fondamenti stessi (sbagliati) della polis maschiocentrica — elemento costitutivo della democrazia di tipo ateniese —: di qui lo spazio che riserva ripetutamente al diritto, conculcato, delle donne a dirigere la città. Egli si fa portavoce di quel soggetto invisibile della città che sono, appunto, le donne; e ne testimonia in modo appassionato il rifiuto radicale della follia della guerra.

- Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere del 21/11/2019 -

Nessun commento: