venerdì 26 luglio 2019

Pseudonimi!

Servendosi di documenti e dichiarazioni, Carlo Zanda ricostruisce il tortuoso percorso che ha portato uno dei più influenti scrittori italiani del Novecento a scegliere la strada dell'anonimato per la pubblicazione di un'opera in cui credeva molto e che desiderava firmare con il proprio nome. Un mistero che ad oggi non è mai stato risolto. C'è un avvenimento nella vita di Primo Levi, quando per pubblicare un libro a cui teneva molto, il terzo, dovette rinunciare al suo nome in copertina e procurarsene un altro di facciata, che non è mai riuscito a conquistare l'interesse dei biografi e che forse, invece, merita un po' più di considerazione, perché costituisce un crocevia esistenziale nella sua avventura umana. Non sappiamo in base a quali strategie personali Levi ritenne più giusto sostenere in pubblico di essere lui il responsabile dello «sbaglio», così lui stesso lo definiva, fatto con le "Storie naturali" decidendo di firmarle con un nome fasullo. Lo fece però contro ogni evidenza, in contrasto con la logica dei suoi interessi, dal momento che desiderava firmarlo, e smentendo l'evidenza di documenti scritti e le nitide testimonianze degli amici.  Nelle biografie di Primo Levi manca un capitolo, il capitolo dello pseudonimo. Era l’estate del 1966 e Levi, dopo i successi di Se questo è un uomo e La tregua, si trovò all’improvviso di fronte alla necessità di inventarsi un nome fasullo per poter pubblicare il suo terzo libro, giudicato troppo leggero. Glielo chiedeva il suo editore. Alla fine Levi accettò e scelse di firmare Storie naturali con il nome che campeggiava sull’insegna di un elettrauto di corso Giulio Cesare, a Torino. In “Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila“ Carlo Zanda racconta questo capitolo mancante, restituendo il giusto rilievo a uno snodo esistenziale cruciale, e non soltanto per ciò che comporta la rinuncia alla propria identità per qualsiasi uomo. Vediamo allora Levi recarsi ogni mattina al lavoro di chimico, rintanarsi la notte nello studio per evadere dal tran tran quotidiano, muoversi come un marziano in un mondo, l’editoria, che lo considera un intruso. In questa vicenda convergono alcuni dei motivi più significativi della biografia umana e letteraria dell’autore de I sommersi e i salvati: il bisogno di non restare chiuso nel ruolo di testimone della Shoah; il conseguente progetto coltivato con tenacia di diventare uno scrittore vero, riconosciuto come tale, capace di inventare storie e personaggi; infine, l’applicazione della dottrina appresa ad Auschwitz, che diventerà la sua regola di vita da individuo libero, per cui «il primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga». Sullo sfondo, l’ombra dei ripetuti rifiuti (affettivi, razziali, sentimentali…) subìti sin da ragazzo da chi del nome era stato privato ad Auschwitz, come indelebilmente testimoniava il numero tatuato sull’avambraccio sinistro.

(dal risvolto di copertina di "Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila", di Carlo Zanda - Neri Pozza)

Quando l’Einaudi chiese a Primo Levi di cambiare nome
di Simonetta Fiori

Il signor Malabaila bussò alla porta di Primo Levi una mattina d’estate del 1966, il primo agosto. Ad annunciarlo fu una lettera firmata dal direttore commerciale dello Struzzo. Tutto era già pronto in tipografia, le Storie naturali praticamente in stampa, ma all’ultimo momento tra gli einaudiani era circolato un dubbio. O meglio una “perplessità”, per dirla con lo stile felpato di Roberto Cerati: sarà opportuno che il Testimone, il Sopravvissuto, il Guru di Auschwitz metta la sua faccia anche su storielle fantascientifiche che niente hanno a che vedere con la sacralità della Shoah? Non sarebbe meglio, «più simpatico» dice Cerati, più «simpatico e utile» nascondersi dietro uno pseudonimo così da evitare confusioni anche nella strategia di vendita? Non sappiamo quante volte Levi abbia riletto quella missiva. Sappiamo solo che ne fu profondamente rattristato. E sappiamo anche che su questa storia sarebbe calato un inspiegabile silenzio. Un capitolo cruciale della sua avventura esistenziale che è stato ignorato dai biografi, anche i più meticolosi. Solo tre righe su Malabaila, niente di più. Come se l’imposizione di un nom de plume fosse un costume editoriale insignificante, un atto rituale passato senza lasciare alcun segno nel fragile impasto umano di Levi. Come se non si trattasse di una rinnovata richiesta di annullarsi, farsi da parte, nascondersi, dopo una vita costantemente minacciata dalla cancellazione di sé. A rompere il velo di reticenze provvede ora un bel libro di Carlo Zanda, giornalista di lungo corso ed autore di sofisticati libri su vicende letterarie apparentemente laterali. In "Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila" (Neri Pozza) viene fatta un'operazione mai tentata prima: raccontare la storia dal punto di vista dello scrittore. Che cosa ha rappresentato il sacrificio della sua vera identità ad opera di quello che all'epoca era il santuario della cultura italiana? Prima crudelmente scippato della sua identità ad Auschwitz, il suo vero nome strappato da un numero tatuato sulla pelle, poi respinto nella veste di inopportuno testimone del lager nella stagione della rinascita, più tardi osteggiato nella legittima aspirazione a uscire dal confine concentrazionario per essere riconosciuto scrittore tout court. Davvero per Levi fu così semplice eclissarsi dietro il signor Malabaila, un nome che campeggiava sull'insegna di un elettrauto, in corso Giulio Cesare a Torino?
Per ricostruire questa storia bisogna rimettere insieme tutti i pezzi che curiosamente erano rimasti sparpagliati, senza un filo che li cucisse in un disegno dal significato inequivocabile. A cominciare dalla lettera di Cerati che ci racconta una storia diversa da quella narrata dallo stesso Levi, pronto ad assumersi la responsabilità della scelta dello pseudonimo «perché sarebbe potuto sembrare un tradimento o una diserzione» verso chi aveva indossato la divisa a righe. A chiedergli di inventarsi un alter ego fu invece la casa editrice, in una lettera di sapore gesuitico ma non priva di immediatezza. «Non le nascondo le mie perplessità circa la legittimazione di paternità», gli scrive Cerati. «Se io fossi Primo Levi lo firmerei con uno pseudonimo», in fondo sarebbe una cosa simpatica e utile, «simpatica perché sottintenderebbe nell'autore un vezzo, un estro, una ritrosia, un gentile pudore». E utile perché «è ben più facile fare leva e presa sul lettore della Tregua con uno pseudonimo-fantascienza che viceversa. Del resto non sarebbe possibile vendere un Levi-fantascienza ammiccando ad un Levi-Tregua. Lei ben lo capisce». In altre parole, se Levi non dovesse tenere conto del suggerimento di marketing, le vendite potrebbero fortemente risentirne. «È solo un consiglio personale», mente Cerati, il quale poi invia la stessa lettera al caporedattore Daniele Ponchiroli con l'aggiunta in inchiostro rosso: «Con il placet di Bollati ho mandato questa lettera a Levi. Vorrei tanto che sortisse l'effetto da tutti desiderato» (la lettera, inclusiva del post scriptum, viene pubblicata per la prima volta integralmente).

Poteva trattarsi di un'alzata di ingegno di Cerati? No di certo.
Tre settimane trascorsero dall'arrivo di quella missiva in casa Levi, al numero 75 di corso Re Umberto, e la risposta data dallo scrittore al civico 1 di via Biancamaro. Ventuno giorni e milleottocento passi che l'autore del libro indaga come successive tappe di una scelta tormentata, seguendo le tracce lasciate da Levi nelle conversazioni con Carlo Fruttero, negli scambi epistolari con Luciana Nissim, nei ricordi degli habitué del mondo culturale torinese. Quella era la prima estate in cui l'autore della Tregua poteva liberarsi dalla camicia di forza del Testimone, da un lutto che non sentiva più. La sua aspirazione era sempre stata di scrivere racconti di finzione, poi la vita aveva preso un'altra direzione - e che direzione! - e ora a 47 anni aveva compiuto il passo decisivo, consegnando allo Struzzo i suoi divertimenti fantascientifici, che poi non erano così distanti dai mostri partoriti dalla Storia. Finalmente avrebbe potuto ottenere il riconoscimento desiderato e imboccare «la sua via di fuga» esistenziale: qualcosa di più di una semplice ambizione culturale. «Se non avessimo successo», confessa alla sua amica Nissim, «per me sarà un guaio e la fine della parantesi letteraria». E invece dal suo editore arriva la richiesta di nascondersi, un'altra volta. In fondo, annota Zanda, c'è una sotterranea analogia con Romain Gary: entrambi costretti a cambiare identità per poter rimanere sé stessi. Passano tre settimane prima che Levi si decida a cedere il passo al signor Damiano Malabaila, perché alla fine era stata questa la lezione appresa al campo: «il primo ufficio dell'uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga».
Centrale in questa ricostruzione appare la testimonianza di Ernesto Ferrero, all'epoca capo dell'ufficio stampa dello Struzzo. È l'unico che non abbia esitato ad ammettere un duplice sbaglio: un errore culturale, attribuito al vizio del «politicamente corretto», e un errore umano che ferì profondamente Levi, intimamente persuaso che «l'umanità sia umanità, sia quando ride sia quando piange». Dice Ferrero: «Siamo stati noi enaudiani a chiedergli questa precauzione superflua. In realtà non avevamo capito allora quello che è diventato chiaro in seguito: che non ci sono due Levi, il memorialista e il libero narratore, ma uno soltanto in cui tutto si tiene. Difatti i "vizi di forma" dei racconti fantascientifici sono in realtà "vizi di sostanza"; le deformità del lager non si esauriscono con la liberazione, cambiano pelle, ce li ritroviamo nella vita di tutti i giorni, perché sono dentro di noi, soggetti fragili, facilmente manipolabili dai regimi autoritari, perfino dai più blandi».
Storie naturali, uscito con lo pseudonimo di Malabaila, non ebbe successo. La strategia messa a punto dalla casa editrice si sarebbe rivelata fallimentare, fino a quando il libro venne ripubblicato nel 1979 con il nome di Levi. Ma l'intento che anima la ricostruzione di questo capitolo finora oscurato non è polemico né contro la Einaudi né contro i biografi distratti, ma puramente risarcitorio: restituire la sua vera voce a un «imperdonabile» - secondo la categoria di Cristina Campo - ossia a uno di quei «cercatori di perfezione stilistica e di pensiero» per i quali la vita è un affare terribilmente complicato. Talvolta troppo complicato da poterla vivere fino in fondo.

- Simonetta Fiori - Pubblicato su Repubblica il 26/6/2019 -

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